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la società italiana/Sistemi formativi ed effetti reali della formazione

La scuola «reale»: questioni critiche e condizioni per cambiare

Paolo Trivellato
p. 5-25

Abstract

The main points set out by the author in this article are the following: Ideology- driven decisions are common in education and usually they do not deliver the good. Credentialism is still the creed of families and students, but it has no real meaning in a system where there are no entry exams and the exit exams do not carry a real selection. A provocative suggestion is made: to introduce entry filters and to abolish final exams. The extensive use of data (still lacking in Italian educational environment) is recommeded in order to monitor the actual performing of Italian schools, while the role of teachers is stressed. A different attitude towards teachers is necessary, i.e. to acknowledge the differential in skills, involvment and ability: their salaries are to be consequently differentiated.

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Testo integrale

1. Quando si parla di scuola meglio lasciar da parte l’ideologia

1In queste note presento alcune riflessioni su quali condizioni dovrebbero verificarsi se si vuole che la scuola cambi. Cercherò di non allungare la lista di lamentele, denunce, allarmi, disfunzioni. Già se ne sentono tutti i giorni, e spesso sono espresse da chi pensa che tutti i problemi sociali siano risolvibili e che buona parte di questi problemi abbia radici nella scuola. Sfortunatamente non tutti i problemi sociali sono risolvibili: di essi pochi nascono nella scuola e possono essere risolti da questa. In una prima parte dell’articolo esamino alcune questioni controverse, in particolare il valore legale dei titoli di studio e le relative conseguenze. Nella seconda parte provo a individuare i punti e le leve per mettere nella giusta prospettiva temi consueti, temi emergenti e un possibile cambiamento, ponendo l’accento sul personale insegnante.

2Malgrado i discorsi, i convegni, i corsi di aggiornamento, gli organi collegiali e ultimamente i progetti di qualità totale, la scuola tende a riprodursi uguale a se stessa, con i suoi punti di forza e i suoi lati deboli. Sono in disaccordo con chi associa a questa mancanza di cambiamento un giudizio negativo sull’efficacia della scuola italiana (mi riferisco qui alla scuola dell’obbligo e alla scuola secondaria superiore, l’università è esclusa), con chi dà un giudizio negativo generalizzato e non fondato su dati empirici: per esempio un test di rendimento oggettivo in matematica somministrato di recente mostra che l’apprendimento nella nostra scuola media dell’obbligo è ai livelli delle scuole di altri paesi (Tavola i). Forse la situazione non è altrettanto buona nella scuola secondaria superiore, ma per pronunciarci dobbiamo disporre dei risultati di analoghi test. È comunque il caso di ricordare a chi sottolinea la mancanza di una riforma in Italia che le esperienze di scuola secondaria unica non sempre hanno portato ciò che i riformatori si attendevano, ovvero maggiori opportunità educative e innalzamento dei livelli di conoscenza: il caso dell’Inghilterra è un esempio. Insomma nuovo non vuol dire necessariamente migliore.

Tavola 1 - Comparazione del rendimento in matematica di alunni tredicenni in alcuni paesi OCSE (1991).

MEDIA

CH

F

I

CDN

GB

IRL

USA

P

SVIZZERA

70,8

+

+

+

+

+

+

+

+

FRANCIA

64,2

-

°

°

°

°

+

+

ITALIA (Emilia-Romagna)

64,1

-

°

°

°

°

+

+

CANADA

62,1

-

°

°

°

°

+

+

GRAN BRETAGNA

60,6

-

°

°

°

°

°

+

IRLANDA

60,5

-

°

°

°

°

+

+

USA

55,3

-

-

-

-

°

-

+

PORTOGALLO

48,3

-

-

-

-

-

-

-

- media inferiore rispetto al paese in colonna

° nessuna differenza significativa rispetto al paese in colonna
✚ media superiore rispetto al paese in colonna

Fonte: CERI, Education at a Glance: OECD Indicators, 1993.

3È possibile che abbia ragione chi sostiene che l’efficienza con cui viene fornito il servizio scolastico possa essere migliorata: il numero medio di studenti per docente - più basso in Italia rispetto agli altri paesi - sembra avallare questa interpretazione. Alla fine degli anni ’8o avevamo nella scuola secondaria superiore 9,7 alunni per insegnante rispetto agli 11,6 della Francia, 16 del Regno Unito, 17,2 del Giappone (C.E.R.L, 1992). E anche probabile che tale tendenza venga accentuata dal calo demografico attualmente in corso. Sul versante della spesa in Italia i livelli di spesa sono abbastanza elevati per quanto riguarda la scuola media inferiore, superiori a quelli degli altri paesi europei; per ogni allievo di scuola secondaria superiore la spesa è invece allineata con quella di altri paesi (Tavola 2). Si segnala che i valori - espressi in dollari USA e armonizzati per tenere nel debito conto i poteri d’acquisto delle monete nazionali - servono per confronti internazionali più che per stimare la spesa effettiva.

4Oltre che mettere in guardia contro gli atteggiamenti ipercritici nei confronti della situazione attuale, voglio richiamare l’attenzione su quelli che chiamerei i rischi di distorsione ideologica. Per dare una visione d’insieme della scuola italiana che cerchi di fare giustizia di luci e ombre, che metta in rilievo i problemi ma non faccia di ogni erba un fascio, generalizzando magagne pur esistenti o ripetendo luoghi comuni, occorre liberarsi di ipoteche ideologiche: nella scuola infatti, nel suo funzionamento e nei suoi risultati non ci sono linee di demarcazione nette, non c’è il bianco e il nero, è quasi sempre impossibile una verifica empirica incontrovertibile.

Tavola 2 - Spesa per studente - Valori dollari USA corretti tenendo conto delle parità di poteri d'acquisto (spesa pubblica, 1988).

Scuola elementare

Scuola media inferiore

Scuola secondaria superiore

Università

Stai Uniti

2778

3566

4370

6386

Giappone

630

2550

2325

2504

Francia

1569

1885

3073

3780

Germania

941

2101

2659

5085

Regno Unito

1659

2105

2763

7960

Svezia

2240

4423

5146

6334

Italia

1588

2457

2887

4250

Spagna

914

1158

1586

1934

Media OECD

1677

2711

3150

5534

Nota: si presentano i dati al 1988 perché non sono disponibili per l’Italia i dati al 1991. Questi
ultimi sono presentati per gli altri paesi in CERI, Education at a Glance: OECD Indicators,
OECD 1993, pag. 92.

Fonte: CERI, Education at a Glance: OECD Indicators, OECD 1992, pag. 57.

5I dati - quasi mai soddisfacenti e affidabili - dànno ragione ad A, ma per certi aspetti anche a B (dove A e B possono essere due insegnanti, due schiera- menti di insegnanti in un consiglio di istituto, due schieramenti in una commissione parlamentare, due linee pedagogiche in conflitto o due politiche di riforma educativa a livello nazionale). Così è improbabile che uno dei due interlocutori si convinca sulla base di prove empiriche, ed è probabile che rimanga della sua idea per ragioni ideologiche, perché nel momento di scegliere si rifà a quell’insieme di principi, valori, idee «che si tengono» tra di loro, che rispondono alla nostra esigenza di ricerca di senso e che chiamiamo ideologia. Se è vero che l’ideologia ci aiuta a prendere posizione, a tagliar netto di fronte a una situazione aggrovigliata, non è detto che sia utile per andare al nocciolo dei problemi e per risolverli, specialmente quelli scolastici.

6Pensiamo per esempio ad alcune contraddizioni nel campo della scuola che derivano da intrecci di pensiero e di scelte politiche influenzate dall’ideologia: forme di egualitarismo formale convivono con situazioni di disuguaglianza sostanziale; l’uguaglianza di opportunità viene richiesta a gran voce, ma il disegno individuale è poi quello di differenziarsi e di creare disuguaglianza; si continua a fornire servizi per il diritto allo studio come mense e trasporto alunni anche se ormai tutti sanno che non influiscono sull’apprendimento; la formazione professionale è considerata cosa di serie C o D perché l’ideale dell’intellettuale-insegnante italiano è appunto l’intellettuale. Insomma non ho niente contro l’ideologia, ma sostengo che quando si analizza il sistema scolastico bisogna fare di tutto per affrancarsene; a conclusione dell’analisi ciascuno potrà farsi guidare dall’ideologia per prendere le proprie decisioni, non prima. Se il sistema scolastico appare ormai ingessato e non potrà cambiare radicalmente nel breve-medio periodo, nel lungo periodo qualche cambiamento potrà essere realizzato se si avrà il coraggio di guardare alcuni temi con occhi nuovi, disincantati.

2. Credenzialismo e valore legale dei titoli non hanno più senso

7Credenzialismo significa valutare i titoli di studio al valore facciale, ovvero dare per scontato che la persona si sia impadronita di tutto quello che viene offerto da un certo curriculum di studi. Questo atteggiamento è incoraggiato dai programmi nazionali ministeriali, uguali per tutti. Nel mercato del lavoro il credenzialismo si concretizza nell’inquadramento delle persone assunte a livelli definiti dal loro grado di scolarizzazione, misurato dal titolo di studio. Quando si parla di valore legale di un titolo di studio, significa che ad un certo titolo viene associato il diritto ad occupare una posizione di livello adeguato. Il tutto aveva un senso quando i numeri erano bassi, quando si trattava di regolare l’accesso alle professioni liberali e a poche posizioni di alto livello nella pubblica amministrazione. Ma adesso che il sistema sforna decine di migliaia di diplomati e di laureati il valore legale del titolo di studio non ha più senso. Tra l’altro il valore legale, anzi il divario tra questo e le conoscenze effettivamente acquisite costituisce un problema tanto maggiore quanto più numerose sono le persone che scelgono di continuare a studiare e che poi conseguono il titolo.

8L’indifendibilità del valore legale del titolo di studio è chiara se si pensa a come persone diverse riescono ad impadronirsi in diversa misura dei contenuti dell’insegnamento, anche quando ricevono la formale promozione, pur con un voto differenziato; se lo si mantiene è perché si sa che alimenta attese di miglioramento di status indipendentemente dalla professionalità effettivamente acquisita. Sembra che vi sia il timore di scomodare una sorta di particolarismo opportunista che si cela in particolare tra quei ceti che, perdenti sul piano meritocratico, si affidano alla certificazione scolastica e alla «chiusura fondata sui titoli di studio» per collocare la loro discendenza (Parkin, 1985). Ironia della sorte, questi gruppi sociali sono spesso i più attivi nello strombazzare il loro sostegno a procedure selettive che - se effettivamente realizzate - li metterebbero in difficoltà.

9Com’è ovvio il valore legale del titolo non è il risultato di una congiura orchestrata dai ceti medi; le basi per questa «malattia del diploma» sono infatti nell’impostazione funzionalista con cui tutti siamo stati socializzati a interpretare la scuola e che si continua ad usare, più o meno consapevole- mente. E sconcertante osservare come tutt’oggi questa impostazione funzionalista rimanga ben salda nelle menti di persone, anche pensanti. Alla visione secondo cui la scuola trasforma comunque capacità in competenze si aggiunge il credo secondo cui nel campo dell’istruzione di più è meglio; affermazione in sé non falsa, ma che per dimostrarsi vera ha bisogno di numerose altre condizioni di contorno. In generale accade che più si va a scuola più si impara: ciò vale almeno per la maggioranza degli allievi; ciò che è dubbio è se oggi, andando a scuola più a lungo, si impari più di un tempo e soprattutto se l’apprendimento sia legato ai tempi di permanenza nel sistema scolastico (Girod, 1982 e 1990).

10Con buona pace di quelli che credono nella raccomandazione o nella affiliazione partitica, c’è motivo di credere che, anche in relazione all’aumento dei diplomati e dei laureati, sarà sempre più probabile che diplomati e laureati si trovino a dei punti di svolta in cui sono soggetti a selezione meritocratica. Ne segue che più si è allenati ad essere valutati meglio è. La scuola esercita il suo potere di valutazione e di certificazione da tempo e fondandosi su procedure - vecchie se si vuole - ma collaudate; è pertanto improbabile e dunque raro, anche se non impossibile, che sbagli. Invece per gli studenti e per loro famiglie gli insegnanti spesso non sono equi nelle loro valutazioni; chiedete a un maturato con che voto si è diplomato: insieme con il voto uno su due vi dirà che quel voto non fa giustizia della sua preparazione, che la commissione non è stata equa, ecc. ecc. L’aspetto contraddittorio di tutto ciò è che da un lato non si riconosce la capacità di valutare, ma dall’altro viene accettata la capacità di certificare.

11Credenzialismo, valore legale del titolo e attese di ascesa sociale in seguito a istruzione dovrebbero insomma essere abbandonate dopo che dati di ricerca hanno mostrato che tutte le classi sociali sono riuscite ad assicurarsi un vantaggio in più acquisendo maggiore istruzione, spostando in alto la scala delle differenze e della disuguaglianza, mantenendo la struttura di quest’ultima pressoché inalterata (Schizzerotto, 1992). Come ha dimostrato Bourdieu (1984), l’istruzione è solo una delle leve per la differenziazione sociale e forse neanche la più importante. Boudon (1985) si è poi incaricato di mostrare come scelte individualmente razionali portino in realtà a risultati inattesi e come dunque l’interpretazione funzionalista della scolarizzazione sia ormai un’arma spuntata.

3. Il mito della dispersione zero

12Secondo molti - operatori scolastici e non - nella scuola secondaria superiore italiana debbono entrare tutti e quasi tutti debbono ottenere il diploma. L’idea in sé appare condivisibile: che sia opportuno andare a scuola e che se si inizia qualcosa sia opportuno finirla sembra difficilmente controvertibile. Ma quello che si dimentica è quanto e come oggi il contesto sia mutato in rapporto a 20-30 anni fa. Il contesto è cambiato, mentre la scuola secondaria superiore è rimasta pressoché immutata. Oggi entrano nella secondaria due studenti su tre, senza filtro/orientamento; talvolta essi scelgono la scuola nonostante una attività di orientamento svolta dagli insegnanti, ovvero talvolta scelgono una scuola diversa da quella che era stata loro consigliata. All’inizio degli anni ’60 entrava nella scuola secondaria superiore il 30% dei 14enni e i diplomati del 1961 erano pari al 17% dei 19enni. (Tavola 3). In entrambi i casi si trattava di una minoranza che aveva un retroterra molto diverso da quello di cui dispongono ora i licenziati dalla scuola dell’obbligo. Trent’anni dopo entra a primo anno di scuola secondaria il 95% dei 14enni e i diplomati sono il 60% dei 19enni. Non si vede quale accorgimento di ordine pedagogico o organizzativo avrebbe potuto assicurare una stabilità dei rendimenti scolastici ovvero la regolarità del curriculum per iscritti cosi numerosi e cosi differenziati. Non sembra dunque difficile farsi una ragione della dispersione cosi elevata. Ciò non vuol dire che vada accettata, anzi è opportuno cercare di ridurla, ma tenendo presente alcune considerazioni.

Tavola 3 – Trent’anni di scolarizzazione secondaria superiore in Italia. - Iscritti e diplomati in migliaia, tassi in valore percentuale.

1961

1971

1981

1990

Iscritti 1° anno

267

513

691

747

Tasso di accesso

30

65

74

95

Iscritti in totale

821

1732

2444

2861

Tasso in totale

21

44

52

67

Diplomati

129

331

482

549

% su leva di 19enni

17

44

54

60

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat; per le leve di riferimento: Istat, Sommario storico di statistiche sulla popolazione 1951-1987, 1990; Istat, popolazione e movimento anagrafico, annuario n. 3, 1992. Per gli iscritti e diplomati: Istat, Annuario statistico dell’istruzione, 1965, 1973, 1984; Istat, Statistiche dell’istruzione, n. 3, 1992.

13La prima considerazione da tenere presente è che la dispersione ha inizio già nella scuola dell’obbligo: dati di ricerca hanno mostrato che i ritardi accumulati nella scuola elementare e nella media inferiore fanno sì che tra gli iscritti a primo anno di scuola secondaria uno studente su quattro è in ritardo (N = 10.308, Osservatorio permanente sulla pubblica istruzione della Provincia di Varese, 1994), con differenze sensibili tra tipi di scuola: uno su dieci nei licei classici e scientifici, uno su due negli istituti professionali. Il fenomeno della dispersione si manifesta dunque in misura rilevante al primo anno di scuola secondaria, ma nasce prima. L’eventuale abbandono o ulteriore ritardo fatto registrare da alunni già in ritardo è un fatto annunciato e come tale in parte riducibile con opportuni interventi di orientamento e sostegno, ma in parte legato alle caratteristiche degli studenti.

14Un’altra considerazione tutto sommato scontata ma spesso ignorata è che gli studenti non sono tutti uguali: offrire uguali opportunità significa offrire il massimo delle opportunità, tenendo conto delle preferenze e delle inclinazioni individuali. Sotto questo aspetto bisogna incominciare a discutere la visione egualitaristica semplificata che ha prevalso fino ad oggi, rivalutare la differenza senza consentire la marginalizzazione, rivalutare i diversi filoni della formazione professionale, sia dal punto di vista dei contenuti (ora somigliano molto agli altri tipi di scuola) sia da quello dell’immagine: oggi la formazione professionale è messa sotto una luce negativa.

15Da ultimo è opportuno ricordare che, contrariamente all’opinione comune, non tutti i problemi sociali possono essere affrontati e risolti con successo; ciò è vero in modo particolare per la scuola se non si vuole o non si può mettere un filtro all’ingresso. Questa impossibilità di risolvere certe situazioni sono ben note a quegli insegnanti di scuola media dell’obbligo che hanno avuto a che fare con alunni al di fuori di ogni controllo, tenendoli in classe fino al conseguimento della licenza. Pensiamo a cosa succederà quando, al momento dell’innalzamento dell’obbligo a 16 anni, gli allievi riottosi - che oggi si fermano a terza media senza proseguire verso le scuole secondarie - andranno a deliziare scolaresche e insegnanti degli istituti tecnici e professionali. È chiaro che occorre offrire loro qualcosa di diverso da quello che viene offerto oggi quanto a contenuti di studio, tempi di percorrenza, supporti didattici. In ogni caso sarà opportuno offrire la possibilità di passare più agevolmente tra un filone e l’altro della scuola secondaria superiore di quanto non accada attualmente.

16Guardare alla scuola e al fenomeno della dispersione con occhi nuovi significa abbandonare ogni velleità di ottenere risultati generalizzati per quanto riguarda la regolarità del curriculum tramite interventi generalizzati, anche se ciò implica abbandonare disegni egualitaristici a cui eravamo affezionati. Anche nei paesi che hanno realizzato la scolarizzazione secondaria pressoché universale sono infatti sopravvissute forme di differenziazione più o meno istituzionalizzate; ciò si è registrato in paesi dove la comprehensive school sembra aver avuto successo, nonostante l’introduzione della medesima. Anche dove non esistono le bocciature e il curriculum è apparentemente lineare e completato regolarmente - come in Giappone - le persone raggiungono alla fine un grado di preparazione diverso.

17Se si tiene conto di tutti questi elementi vengono molti dubbi sull’opportunità di introdurre ora, con trent’anni di ritardo rispetto agli altri paesi europei, una riforma per la secondaria superiore sul modello comprehensive. Non si risolverebbero infatti i problemi derivanti dall’eterogeneità e dalla numerosità degli allievi da servire. Semmai si potrebbero utilizzare gli insegnanti in soprannumero per migliorare il rendimento scolastico dei meno abili, riducendo bocciature e di conseguenza le ripetenze.

18Il fenomeno delle ripetenze merita una attenzione maggiore di quanta gliene sia stata riservata finora. Bocciare e far ripetere è una necessità in regime di valore legale del titolo di studio. In quella logica infatti si deve «tenere fermo per un giro» un allievo che non si sia impadronito delle conoscenze sufficienti per passare all’anno successivo, proprio per permettergli di acquisire quei contenuti e quei metodi che occorre accumulare in relazione al valore legale. Ma oggi sappiamo che in un certo numero di casi, in relazione all’alta numerosità e all’eterogeneità della popolazione studentesca, quella determinata quantità e qualità di conoscenze non viene acquisita. In altre parole c’è un’altissima varianza tra coloro che escono dalla scuola, sia dell’obbligo, sia secondaria superiore.

19Viene allora da chiedersi: ha senso rallentare il percorso di quote cospicue di studenti bocciandoli e facendoli ripetere se poi si arriva comunque a risultati così differenziati? Credo di no, se si pensa ai costi implicati da tale processo: costi individuali, di tipo umano e psicologico, costi collettivi legati all’ingolfamento delle scuole e delle classi. I risultati di una indagine longitudinale svolta negli ultimi cinque anni in provincia di Varese, ma generalizzabile al resto del paese, mostrano una tendenza che sembra difficile accettare nelle sue dimensioni e nelle sue conseguenze. Una leva di oltre 10.000 studenti iscritti a prima classe nella scuola secondaria superiore nel 1988-89 è stata seguita per cinque anni, rilevando anno dopo anno quegli studenti che continuavano regolarmente il loro percorso scolastico. Ciò ha consentito di registrare per differenza (e al lordo di eventuali migrazioni o trasferimenti) un proxi del tasso di disagio scolastico (tasso di ripetenza + tasso di abbandono). Il tasso di disagio è pari al 28% dopo il primo anno, e pari a un ulteriore 12% dopo il secondo anno. In pratica all’inizio del terzo anno quaranta studenti avevano perso contatto con la scuola che avevano iniziato. Le differenze secondo il tipo di scuola, il genere, il pendolarismo (Tavola 4) sono in certi casi tutt’ altro che scontate e mostrano in modo molto netto la divaricazione dei percorsi di scuola secondaria superiore.

20I ripetenti dunque ingolfano il sistema scolastico, fanno aumentare artificiosamente il numero di iscritti, rendono pressoché impossibile calcolare in modo corretto tassi di scolarizzazione, fanno aumentare il numero delle classi e il numero di insegnanti. Di fronte a questi svantaggi e tenuto conto che vi sono seri dubbi che l’esperienza di ripetere uno o più anni abbia una effettiva utilità sembra inevitabile chiedersi se non sia il caso di abolire le ripetenze. A livello di scuola secondaria superiore gli allievi sarebbero esposti al messaggio educativo, ma verrebbero lasciati più liberi di regolare il loro rendimento; programmi ministeriali definiti ma flessibili, niente esami finali, tipo licenza media o maturità, interventi di supporto nei primi anni come quelli avviati di recente, e chi vuole imparare impara. Questo modello implica però che ci siano invece prove selettive o esami di entrata al ciclo successivo, sia che si tratti di scuola secondaria superiore o di università. Ad alcuni questa potrà sembrare una soluzione drastica, ma si pensi ai vantaggi:

Tavola 4 - Tasso di disagio scolastico (tasso di abbandono + tasso di ripetenza) per anno di corso. Scuole secondarie superiori della provincia di Varese. Leva del 1988-89, N = 10.614, valori percentuali.

89-90

2°a.

90-91

3°a.

91-92

4°a.

92-93

5°.

N*

Media generale

28%

40%

48%

50%

Tipo di scuola

Licei class. e scient.

2214

18

17

37

38

Istituti tecnici

5047

30

42

53

56

Licei linguistici

356

18

30

36

38

Licei artistici

574

36

46

51

***

Istituti magistrali

510

25

37

50

***

Istituti professionali

1913

35

51

**

**

Sesso

Uomini

4168

32

45

57

59

Donne

3449

24

35

39

39

Scuole statali e non

Scuole non statali

864

17

28

37

37

Scuole statali

6753

29

42

50

52

Inizio scuole superiori in ritardo

14 anni al 1° anno

6143

25

35

42

44

15 anni o più al 1° anno

1474

38

56

71

75

Pendolari

No (stesso distretto scuola)

5736

27

39

47

49

Si (altro distretto)

1883

31

42

50

52

Note: * Numerosità minime su cui sono calcolate le percentuali.
** Gli allievi degli istituti professionali triennali ottengono il diploma di qualifica nel 1990-91
*** allievi degli istituti magistrali e dei licei artistici di durata quadriennale ottengono il diploma nel 1991-92

Fonte: Elaborazione su dati Osservatorio Permanente sull’istruzione della Provincia di Varese, 1994.

  • non si corre rischio di certificare una preparazione che non c’è;

  • studenti diversi possono scegliere un passo e un grado di preparazione che ritengono adatto alle loro mete e al loro curriculum, ben sapendo che la loro preparazione verrà testata al momento di passare al ciclo successivo;

  • si evita di trovare agli inizi di un ciclo di istruzione persone che non hanno le conoscenze sufficienti per recepire i contenuti delle lezioni e dunque creano problemi nella didattica;

  • si stimolano gli studenti a fare i conti con quello che sanno fare, con quello che verrà loro richiesto di saper fare, con quanto vogliono fare piuttosto che con un modello standard di formazione e di conoscenza;

  • si annullano o si riducono sensibilmente i fenomeni degli abbandoni e delle ripetenze, dato che vi è motivo di credere che le prove di verifica all’entrata scoraggino i non adatti dal tentare e poi abbandonare.

21Un diverso assetto della scuola italiana rispetto a quello oggi diffuso per quanto riguarda valore legale dei titoli di studio e fenomeno della dispersione scolastica avrebbe diverse ricadute di segno positivo. Studenti e famiglie avrebbero, a livello di scuola secondaria superiore, maggiori opzioni e potrebbero decidere meglio; enti e imprese potrebbero meglio stimare chi può dare loro ciò di cui hanno bisogno e assumere di conseguenza; Fin- gorgo delle scuole causato dalle ripetenze verrebbe via via eliminato; più persone starebbero a scuola più a lungo (pur con i dubbi già richiamati a proposito della scuola lunga); verrebbero liberate risorse per qualificare la scuola: mentre adesso si spende molto per pagare insegnanti a cui si chiede di portare tutti gli studenti ad uno stesso livello, in futuro si potrebbe investire in strumentazione e tecnologia per differenziare l’offerta di formazione.

22Ripeto: le riflessioni e le proposte avanzate nelle sezioni precedenti potranno sembrare al lettore più o meno centrate e realizzabili. Ma appariranno più sostenibili se si tiene conto del panorama che emerge dai dati che seguono.

4. Necessità e limiti della verifica sui dati

23Un modo diverso di guardare alla realtà della scuola ha bisogno di un nuovo e più solido rapporto con i dati. Ciò significa da un lato fondare l’analisi più su elementi empiricamente verificati di quanto non sia stato fatto finora; dall’altro lato significa osservare e descrivere la realtà così come essa è, non come si vorrebbe che fosse. Sfortunatamente non è facile disporre di statistiche tempestive e affidabili, sia a livello nazionale che internazionale. L’Istituto Nazionale di Statistica infatti - nonostante gli sforzi fatti di recente dividendo in diverse pubblicazioni i dati per i diversi ordini di scuola - non riesce a dare un quadro accettabile in tempi accettabili intorno a iscritti, diplomati, insegnanti. La situazione a livello internazionale non è migliore: dopo aver impostato un ambizioso impianto comparativo di indicatori (C.E.R.I., 1992) che aggiornavano la situazione al 1988, l’OCSE nella seconda edizione di questa pubblicazione (C.E.R.L, 1993) riporta sì i dati aggiornati al 1991, ma in formati non comparabili con quelli presentati nell’edizione precedente. In questa seconda edizione inoltre mancano numerosi dati relativi all’Italia.

24Nonostante questi limiti, disponiamo di materiale in quantità sufficiente per dire a che punto stiamo con il grado di scolarizzazione: siamo indietro, quasi in coda. Un dato che colpisce (e continuerà a colpirci per molti anni ancora) è la bassa scolarizzazione della popolazione italiana rispetto a quella degli altri paesi, così come appare sulla Tavola 5. Nel 1991 tra la popolazione di 25-64 anni il 22% aveva raggiunto il diploma di scuola secondaria superiore, rispetto a un 35% di Francia, il 45-49% di Regno Unito, Svezia, USA, 60% di Germania. Specularmente, il 72% ha un titolo di scuola dell’obbligo, ma di questi intorno al 40% si ferma alla licenza elementare. Immaginate di avere un’attività produttiva o commerciale: che qualificazione è probabile abbiano gli operai che vi accingete ad assumere? Anche se vi rivolgete ai giovani la percentuale di diplomati di scuola secondaria superiore rimane bassa in assoluto (43% tra i 25-34enni e 34% tra i 33~44enni) e impari rispetto a quanto avviene in altri paesi (Tavola 6). Un basso livello di scolarità si ripercuote a tutti i livelli della società: oltre al versante produttivo c’è quello culturale tout court: quale può essere il supporto di genitori con poca o nulla scolarità nei confronti di figli che affrontano per la prima volta 13 o più anni di scuola?

Tavola 5 - Grado di istruzione della popolazione di 25-64 anni (popolazione in complesso, valori percentuali, 1991).

Scuola materna, elementare e secondaria inferiore

Scuola secondaria superiore

Istruzione superiore universitaria e non universitaria

Totale

Stati Uniti

17

47

36

100

Francia

49

35

15

100

Germania

18

60

22

100

Regno Unito

35

49

16

100

Svezia

33

44

23

100

Italia

72

22

6

100

Spagna

78

12

10

100

Media

45

36

19

100

Fonte: CERI, Education at a Glance: OECD Indicators, OECD 1993, pag. 26.

25A proposito di scuola lunga siamo quelli che ce l’hanno più lunga: solo l’Austria ha come noi una scuola secondaria superiore che dura cinque anni. Così i diplomati escono a 19 anni, mentre in tutti gli altri paesi (Svizzera esclusa) escono a 17 o 18 anni, iniziando l’università o una carriera lavorativa prima degli italiani. Ma ritorniamo alla bassa scolarizzazione: per colmare questo gap occorrerebbe andare in fretta, accelerare al massimo. Invece la nostra macchina della scuola secondaria va piano: il tasso di scolarizzazione è intorno al 60%, superiore solo a Turchia e Portogallo. Gli altri paesi invece viaggiano con tassi di scolarizzazione intorno al 90%: vuol dire che quasi tutti gli adolescenti vanno a scuola. Si dirà: in Italia c’è la formazione professionale. Vero, ma parte di questi corsi è già compresa nei calcoli OECD e parte è così breve ed estemporanea (in passato - si è scoperto - molti corsi esistevano solo sulla carta) da escludere che possa essere annoverata tra la formazione secondaria superiore. Invece nel nostro paese ci sono i ripetenti che vanno a gonfiare il numeratore del rapporto. Non essendo disponibile il dato sugli iscritti per classe di età, il nostro tasso infatti è calcolato con a numeratore gli iscritti in complesso, tra i quali vi è una quota imprecisata (stimabile tra il io e il 20%) di ripetenti. In sostanza il tasso di scolarizzazione su cui ragioniamo, e su cui dovremo ragionare fino a che non disporremo i dati sugli iscritti per classe di età, è sovrastimato.

26Con queste premesse non stupisce che la produzione della scuola, ovvero il numero di diplomati sia ridotto quantitativamente e non valutabile qualitativamente: sforniamo la quota più bassa (dopo la Turchia) di diplomati rispetto alla classe di età corrispondente; di nuovo questa percentuale è gonfiata dal fatto che alcuni maturi hanno più di 19 anni.

27In conclusione siamo sotto-scolarizzati e non stiamo per nulla ricuperando terreno, anzi.

Tavola 6 - Persone che dispongono almeno di un titolo di scuola secondaria superiore (popolazione in complesso, valori percentuali, 1991).

Gruppi di età

25-34

35-44

45-54

55-64

Stati Uniti

86

88

81

72

Francia

66

56

45

27

Germania

88

86

79

67

Regno Unito

79

69

58

48

Svezia

85

73

61

45

Italia

43

34

20

12

Spagna

40

23

12

8

Media

66

59

49

38

Fonte: CERI, Education at a Glance: OECD Indicators, OECD 1993, pag. 28.

Tavola 7 - Tasso di completamento della scuola secondaria superiore (scuola pubblica e privata, valori percentuali, 1988).

Diplomati

Uomini

Donne

Totale

Stati Uniti

69

78

74

Giappone

86

93

90

Francia

81

88

85

Regno Unito

64

67

65

Svezia

80

82

81

Italia

41

46

43

Spagna

53

60

56

Fonte: CERI, Education at a Glance: OECD Indicators, OECD 1993, pag. 97.

28Se continua cosi le distanze aumentano. Pur con tutti i dubbi sollevati nelle sezioni precedenti sulla differenza tra stare a scuola e apprendere, tra disporre di un diploma e avere davvero una professionalità sembra urgente mandare più persone a scuola e tenercele più a lungo. Le soluzioni suggerite nella sezione 2 appaiono allora strade pressoché obbligate.

5. L'istruzione come processo organizzativo: il modello di organizzazione amministrativo, degli insegnanti, del personale non docente

29Sulla scuola come organizzazione si sa poco e si indaga poco. In base a quale principio sono regolate le scuole? Scambio o comando? Mercato o gerarchia? Probabilmente un poco di entrambi. In qualche caso si sa che il capo di istituto controlla saldamente la sua unità scolastica, magari con appropriate linee di delega; non si conosce invece se ci sia un modo di governo delle scuole più diffuso di altri. Sul piano amministrativo la forte centralizzazione da un lato (la singola scuola decide su quasi nulla) e l’incrocio/sovrapposizione di competenze tra diversi enti locali rallentano il processo decisionale. Così anche là dove ci fossero risorse con un’impronta manageriale (ma il canale di reclutamento dei presidi rende assai rara questa eventualità) non è semplice tradurre in azioni concrete le decisioni.

30Dal punto di vista degli insegnanti e del progetto didattico il problema è forse ancora più arduo perché in questo caso una linea gerarchica non può funzionare per definizione e dunque modus operandi didattico e modus vivendi relazionale all’interno di ogni unità scolastica sono costruiti volta per volta. In taluni casi vi è una certa frammentazione tra gli insegnanti, vi è poco senso di appartenenza alla scuola e i rapporti sono perlopiù formali. In altri casi invece un elemento di coaugulo (un/una preside con carisma o capace di esercitare un’attrazione intellettuale, un gruppo di insegnanti coesi sul piano disciplinare o culturale) fa sì che nella scuola gli insegnanti si sentano meno frammentati e prenda corpo un progetto di istituto dove si mettono a punto gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli.

31Un approfondimento dell’analisi organizzativa nella scuola merita molto più spazio e attenzione rispetto a quanto sia possibile dedicargli qui; tuttavia voglio ricordare in modo schematico con alcuni esempi una linea organizzativa lungo la quale sembra opportuno muoversi. Semplificando molto, ecco alcuni punti sui quali le scuole che funzionano si differenziano da quelle che non funzionano.

Scuole che funzionano

Scuole che funzionano

Ogni insegnante fa per sè

Ci sono progetti di istituto

Gli insegnanti sono insoddisfatti, covano risentimenti e frustrazioni

Gli insegnanti si sentono sufficientemente realizzati e motivati

Gli insegnanti non sembrano credere in quello che propongono (contenuti delle materie o stili di vita)

I bidelli e il personale ausiliario hanno un atteggiamento di rispetto e di guida verso gli studenti

I bidelli e il personale ausiliario hanno un atteggiamento ora inurbano ora collusivo verso gli studenti

I bidelli e il personale ausiliario hanno un atteggiamento di rispetto e di guida verso gli studenti

Atti di danneggiamento passano sotto silenzio

Atti di danneggiamento vengono rilevati, si cerca di individuarne il colpevole

Ci si trincera dietro le norme per non realizzare cambiamenti possibili

Si sfrutta ogni margine di autonomia per innovare

Si ignora cosa accade nel mondo della popolazione e il linguaggio aziendale viene esorcizzato

Il riferimento a ciò che succede fuori dalla scuola è frequente anche se critico; l’esterno è una realtà con cui si sa che ci si dovrà confrontare

32Propongo insomma di guardare alla scuola come a un processo che - pur secondo logiche diverse da quelle aziendali - va definito e ridefinito nei suoi obiettivi e nelle sue modalità, va organizzato e controllato, tenendo conto delle esigenze degli studenti e delle famiglie considerandoli più simili a dei clienti/consumatori piuttosto che degli utenti. Se li si considera dei consumatori, se si prende un pizzico di prospettiva di marketing educativo, non si correrà tanto il rischio di alimentare l’opportunismo di alcuni studenti - come qualcuno potrebbe temere - ma ci si domanderà finalmente che cosa ha davvero senso offrire alla popolazione scolastica. Una popolazione ampia e diversificata, altri direbbe segmentata, con dotazioni e attese diverse: lungi dal consentire ai giovani di fare come vogliono, le scuole e gli insegnanti aiuteranno, come alcuni stanno già facendo, studenti e famiglie a capire quali sono i limiti e le possibilità dell’istruzione. Per fare ciò gli insegnanti debbono essere oltre che preparati e professionali anche convincenti e intellettualmente attraenti. Qui si apre un argomento importante: gli insegnanti sono all’altezza del loro compito? Sono bravi, pazienti, solidi e convincenti?

6. Gli insegnanti

33Il caso degli insegnanti merita attenzione per diverse ragioni. Intanto perché circolano molti luoghi comuni su di loro nell’opinione pubblica, e questi luoghi comuni - che come al solito hanno fondamenti di verità - non sono proprio lusinghieri. Poi perché se ne sa ancora poco, rispetto all’importanza numerica, strategica e finanziaria della categoria: i sociologi non sanno se considerarli una professione, il Ministero non sa probabilmente con precisione quanti siano e dove siano (ecco un esempio di affermazione ideologica, non provata, ma la carenza di dati recenti lascia intendere che le cose stiano così). La stragrande maggioranza della spesa per l’istruzione è dedicata ai loro stipendi e a quelli degli altri dipendenti e ciò impedisce da noi più che altrove quel grado di flessibilità necessario per intervenire sulle politiche della scuola. La loro alta numerosità (si dice che siano più di un milione) impedisce che ottengano aumenti di stipendio cospicui, così sembra aumentare il senso di marginalità e di insoddisfazione.

34Per colmare il vuoto di conoscenze sugli insegnanti è stata fatta una ricerca da parte dello IARD di Milano (Cavalli, a cura di, 1992). Si tratta di una indagine tramite intervista su questionario strutturato su un campione rappresentativo di 5.000 insegnanti italiani: 1.000 insegnanti elementari, 1.500 delle scuole medie inferiori, 2.500 delle scuole secondarie superiori. Le informazioni raccolte sono moltissime, tali da consentire un quadro completo che spazia dall’origine sociale alle attività didattiche e di formazione in servizio, dalla partecipazione sindacale agli orientamenti politici in senso stretto. Né mancano importanti indicazioni sui principali riferimenti di valore. In pratica nelle diverse parti della ricerca - i cui dati sono disponibili per eventuali ulteriori elaborazioni - si può cogliere, in modo più o meno esplicito, la complessità e l’articolazione di questa categoria o semiprofessione.

35Aldilà dell’abbondanza di dati e aspetti esaminati c’è un punto centrale che riassume quello che potremmo chiamare il valore aggiunto informativo di questa ricerca: è emersa con tutta chiarezza la segmentazione degli insegnanti, la loro differenziazione interna, per spaccati di varia natura. Qui ne ricordo tre per tutti: gli insegnanti si differenziano quanto a motivazione in base alla quale hanno scelto di insegnare, quanto a soddisfazione tratta dalla loro attività di insegnamento, quanto a ore dedicate settimanalmente alla scuola comprendenti l’orario di cattedra più altre attività (Trivellato, 1992). Da questa segmentazione discendono per noi due conseguenze: innanzitutto non ha alcun senso parlare degli insegnanti in modo indifferenziato: i comportamenti e gli atteggiamenti sono così diversi che se si mettono tutti insieme si fa un’operazione di semplificazione che porta solo confusione. Questo vale per i diversi punti di vista: sociologico, politico, pedagogico-didattico, sindacale.

36La seconda conseguenza, che è più rilevante dal nostro punto di vista, è che i dati dimostrano come non sia accettabile riservare lo stesso trattamento stipendiale e di stato giuridico a persone che forniscono prestazioni così differenziate sul piano quantitativo (ore dedicate) e qualitativo (impegno, identificazione con la scuola, disponibilità ad aggiornarsi). La situazione attuale non può che portare a un forte grado di demotivazione la stragrande maggioranza degli insegnanti: bisogna infatti avere una fede incrollabile nell’utilità del proprio ruolo per rimanere identificati con un progetto didattico ed educativo lungo qualche decennio, pur vedendo una così alta differenziazione di prestazioni senza che l’insufficienza venga sanzionata e senza che l’eccellenza venga riconosciuta e premiata. Gli insegnanti vengono trattati invece sempre come un gruppo omogeneo e ciò fa a pugni con i tempi lunghi del processo educativo, con l’evoluzione dei programmi, con i cambiamenti nella popolazione scolastica e nelle leve stesse di chi si dedica all’insegnamento.

37Accanto alle differenze tra sottogruppi di insegnanti - che sono la parte preponderante dei risultati della ricerca - vi sono anche elementi comuni. Tra questi quello che a noi interessa maggiormente è la comune mancanza di esperienze fuori dalla scuola: quattro su cinque hanno avuto l’insegnamento come unica esperienza lavorativa; ciò significa che, salvo vicende personali, i docenti non sanno come è organizzato e come funziona un ufficio, un reparto di produzione, un laboratorio artigiano. Nonostante tutto la grande maggioranza degli intervistati, ancora quattro su cinque, rifarebbe la scelta di insegnare. Questo dato ha un segno ambiguo: rifarebbe la scelta per i vantaggi pratici-strumentali o per la maggiore gratificazione comparata, anche sul piano intellettuale rispetto ad altri lavori, che peraltro non si conoscono direttamente?

38Si possono poi fare alcune considerazioni sugli insegnanti che non sono fondate su dati di ricerca e che pertanto presento in modo provvisorio. Lo faccio perché queste caratteristiche influenzano il modo di fare scuola e dunque è probabile che si riversino sugli studenti. La prima caratteristica è che per loro estrazione gli insegnanti sono tentati di ricercare, scoprire, sviluppare gli allievi più bravi, quelli che possono dare maggiori soddisfazioni. Nelle forme più elitiste e aristocratiche questo atteggiamento potrebbe essere stilizzato come la ricerca del genio piuttosto che l’omologazione quanto più in alto possibile di larghi strati di popolazione scolastica. Non abbiamo dati comparativi, ma questo ultimo atteggiamento sembra essere abbastanza diffuso in Giappone e in Germania: si punta a portare quanti più studenti possibile a livelli medio-alti così che non solo la preparazione media è alta, ma anche gli studenti collocati nei due quartili inferiori della distribuzione di bravura sono abbastanza preparati. Un altro elemento riguarda la valutazione che gli insegnanti danno della formazione professionale. La loro visione scuola-centrica infatti fa sì che guardino dall’alto in basso questi canali formativi, contribuendo a dipingerli - anche agli occhi degli allievi - come qualcosa di serie C o D, da evitare. E ciò anche se gli stessi insegnanti affermano di non aver nulla, in teoria, contro il lavoro manuale.

39Ancora generalizzando molto, con tutti i rischi del caso, possiamo forse dire che tra gli insegnanti non è molto diffuso un orientamento alla verifica quantitativa dei risultati del loro lavoro. In effetti non è facile nella scuola capire se si funziona meglio per esempio rispetto a dieci anni fa, non è facile tenere sotto controllo processi di apprendimento. Di nuovo l’opzione qualitativa nella professione e l’opzione ideologica nelle scelte organizzative o didattiche prendono il sopravvento rispetto alla misurazione quantitativa e alla discussione fondata sui dati. Questo scarso interesse o vera e propria resistenza alla dimensione quantitativa è probabilmente all’origine della insufficiente offerta di dati empirici tempestivi ed affidabili di cui si è parlato sopra, al punto 4.

40Questo quadro non sarebbe completo se non si ricordasse che gli insegnanti si sentono isolati, sentono che l’opinione pubblica li vede sotto una cattiva luce (Martinelli, 1992). Non sono riconosciuti come un attore influente, in grado di dire la propria posizione nelle scelte importanti della società. I genitori e le famiglie degli alunni in generale sono critici nei confronti degli insegnanti; il sindacato ha manifestato un moto pendolare oscillando tra rigore e severità da una parte e corporativismo dall’altra: è pertanto improbabile che aiuti gli insegnanti a trovare identità, appartenenza professionale e status come sembrava accadere negli anni ’70. A questo punto gli unici attori che sembrano disposti a sostenere gli insegnanti e la loro fatica sono le associazioni degli industriali, come dimostrano le numerose anche se limitate iniziative che hanno preso forma in diverse regioni d’Italia, d’intesa con i Provveditorati agli Studi e, talvolta, le Camere di Commercio.

41Una conferma di questo isolamento si è avuta osservando come i risultati della ricerca IARD, nient’affatto scontati, sono stati accolti sia dall’opinione pubblica che dagli addetti alla scuola. Non il mondo della politica, non quello dell’imprenditoria, non il sindacato hanno reagito in qualche modo. Anzi, il sindacato italiano ha dimostrato la sua sensibilità per la categoria facendo sapere tramite uno dei suoi massimi dirigenti - quando l’indagine era ancora in fase di progettazione - di non essere interessato a partecipare al disegno della ricerca, né di essere disposto a finanziarla in benché minima parte. Forse il sindacato aveva già deciso di lasciar perdere con la scuola o forse pensava di saperne già abbastanza. Potrebbe sembrare un paradosso, ma in quella occasione il sindacato ha seguito la stessa logica ministeriale che diceva di voler combattere: ha infatti preferito continuare a dedicare le sue risorse al mantenimento del suo apparato burocratico piuttosto che investire una quota minima (con un millesimo degli introiti delle tre confederazioni avrebbe potuto finanziare non una ma due ricerche come quella che è stata svolta). Questo aneddoto mostra quanto il sindacato, egualitarista fino all’estremo e ipotecato dalla centralità metalmeccanica (Accornero 1992), fosse fino a pochi anni fa e forse sia tuttora di stampo operaista e dunque incapace di esercitare un ruolo propulsivo su un ceto così strategicamente centrale come quello degli insegnanti.

42Questa scarsissima attenzione rivolta ai risultati della ricerca sugli insegnanti conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, come all’opinione pubblica, ai giornalisti, alla società nel suo complesso in buona sostanza la scuola non interessi. Un altro esempio riguarda il programma «aiutare Sisifo»: sponsorizzato da II Mulino e dagli Industriali di Bologna, era un programma per riportare all’ordine del giorno l’importanza della scuola e in particolare di alcune issues critiche come la valutazione. Eccellente, ben impostato, con gli sponsor giusti, ciononostante rimasto lettera morta. Infine l’esperienza più recente, riferita all’università: Raffaele Simone (1993) ha dipinto con incisività, ma anche con autoironia, il funzionamento a volte kafkiano di gran parte dell’università italiana. Risultati: nessuno. Tutti hanno incassato senza fare una piega, dentro e fuori l’università, anche gli studenti ai quali era stata fornita - gratis - una documentazione su cui organizzare almeno tre anni di partecipazione costruttiva a un cambiamento nel quale evidentemente non credono o della cui possibilità non si sono accorti.

7. Il cambiamento nella scuola: tempi, modi, priorità

43Ho detto sopra che si potrà cambiare a patto di guardare alla scuola, al suo funzionamento, al suo personale con occhi diversi, smontando interpretazioni influenzate dall’ideologia e richiamandosi a principi lineari e condivisi. Qui vorrei concludere ricordando che nessun cambiamento organizzati vo, strutturale o di contenuto potrà avvenire «per decreto», ovvero nessun decreto legge, nessuna legge di riforma potrà modificare di per sé comportamenti consolidati, cristallizzati, che la maggioranza degli attori ha fatto propri, non importa se con maggiore o minore convinzione. Nel campo dell’istruzione lo aveva scoperto Durkheim quasi un secolo fa (Durkheim, 1969). La legge segue, rispecchia un assetto sociale, gli dà forma, in un certo senso lo codifica: illuminanti a questo proposito sono gli esempi di questo principio riportati da Putnam nella sua ricerca sulla tradizione civica nelle regioni italiane. Prima nascono e si affermano i comportamenti civili, quelli che insieme all’interesse individuale fanno l’interesse della collettività, la fanno crescere e prosperare, poi la legge prende atto e regola.

44Così nel nostro caso: nessun discorso, nessuna legge può dare maggior dignità alla scuola, ai suoi insegnanti se questa maggior dignità non viene prima «sentita» e «conferita sul campo» da parte di una parte consistente dell’opinione pubblica. Sotto questo aspetto sconcerta non poco osservare come decisori pubblici e sindacalisti invochino interventi legislativi per risolvere quelli che loro pensano siano i mali della scuola. Questa ingenuità la dice lunga su quale concezione abbiano della società, del sostrato delle politiche sociali, su come ignorino l’importanza della fase di realizzazione delle politiche, comprese quelle educative. Del resto veniamo da anni in cui si è teorizzato e praticato il mito della riforma della riforma: appena formulata una legge, qualcuno si preoccupava di sottolineare la necessità di cambiarla, prima che avesse prodotto effetti. Nella nostra concezione storico-legalistica delle istituzioni A concetto e la prassi di implementation non sembra avere cittadinanza.

45Ogni indicazione di priorità è soggettiva e arbitraria. Tuttavia mi sembra troppo comodo chiudere queste note senza avventurarmi nell’indicazione di alcune priorità, che elenco qui di seguito, da quella più alta a quella più bassa. La lista non può naturalmente essere esaustiva, ma vuole essere una occasione per discutere.

46Priorità A: trattare diversamente insegnanti diversamente motivati e incoraggiarli a rendere la scuola attraente e stimolante. Si tratta di offrire il tempo definito a chi intende avere un coinvolgimento limitato mentre occorre sostenere chi è disposto a dare più tempo e più risorse, per esempio con stipendi più alti, maggior status, eventuali benefit come l’anno sabbatico.

47Priorità B: abolire il valore legale dei titoli, eliminare gli esami di fine ciclo (III media, qualifica e maturità) introducendo prove di ammissione all’entrata del ciclo successivo. A quel punto non sarà più necessario far ripetere: ciascun studente padroneggia un certo corpus di conoscenze e di abilità, che mette in campo insieme con le altre sue doti. Chi non raggiunge i traguardi previsti esce dalla scuola, anche se non dispone delle conoscenze o delle abilità previste. Oggi la stessa persona esce con le stesse lacune, ma dopo aver sostenuto esami che dovrebbero aver accertato la sua preparazione ma che si riducono in molti casi a una esercitazione per i più bravi e a una formalità per i meno bravi, ma sono un costo per tutti.

48Priorità C: facilitare il passaggio da un filone all’altro nei primi anni della secondaria per chi ha iniziato un tipo di scuola dove non ha successo e vuol cambiare tipo di scuola; in tal modo si riducono le ripetenze, che sono comunque da abolire perché non servono se non a gonfiare artificiosamente il numero degli iscritti e di riflesso il numero degli insegnanti. I vuoti di rendimento che adesso sono colpiti con la bocciatura e la ripetenza vanno comunque presi in considerazione tramite interventi supplementari effettuati dagli insegnanti in soprannumero.

49Priorità D: rivalutare i filoni di formazione professionale: con i tassi di scolarizzazione fin qui raggiunti (cfr. Tavola 3) e con la prospettiva che crescano ancora è impensabile che tutti quelli che vanno avanti a studiare dopo l’obbligo coltivino aspirazioni da colletto bianco e/o raggiungano una occupazione da colletto bianco. Occorre non avere atteggiamenti di superiorità rispetto al lavoro manuale e incoraggiare un atteggiamento competitivo, basato sulle effettive competenze e abilità piuttosto che sul valore legale del titolo, dietro il quale sovente non c’è sufficiente sostanza. Nella prospettiva di una graduale abolizione del valore legale del titolo di studio occorre cercare di introdurre e sostenere standard elevati da parte di tutti: questo vale per tutti i tipi di scuola: è infatti importante sia nelle scuole professionali per l’implicazione diretta che una sensibilità per il miglioramento continuo potrà avere una volta inseriti nel lavoro; sia per chi va avanti a studiare come disciplinamento intellettuale e - in seguito - lavorativo.

50Le priorità qui indicate non sono certo realizzabili facilmente: è un lavoro di lunga lena, che prevede sì dei punti di svolta (p.es. l’eliminazione del valore legale) ma che nel suo insieme costituisce piuttosto un processo e che come tale non si realizza una volta per tutte, ma ha bisogno di essere implementato con pazienza e tenacia.

51A questo punto dovrebbe essere chiaro a tutti che l’approccio funzionalista, quello secondo cui si studia per trasformare capacità in competenze e per acquisire maggiori qualificazioni da spendere sul mercato, serve ormai poco per interpretare il ruolo dell’istruzione e la condizione degli studenti/diplomati. Allo stesso modo dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti che la scuola interessa - in realtà - a pochi. In teoria interessa a tutti: la retorica dell’istruzione e della formazione sono lì a ricordarcelo nei discorsi di assessori, ministri, rappresentanti degli imprenditori, giornalisti e altri. Ma in realtà il mondo della scuola ha una priorità molto bassa nella graduatoria delle politiche sia nazionali sia locali. Nonostante l’impegno di alcuni genitori durante il periodo in cui i loro figli sono a scuola e nonostante la professionalità di una parte cospicua dei docenti, la scuola non è un tema cui l’opinione pubblica tenga, si appassioni, per cui si preoccupi. Piuttosto che scandalizzarci se alla scuola non viene assegnata una priorità alta e rivendicarla a gran voce credo sia meglio cercare di realizzare il cambiamento desiderato - complice il calo demografico - nella vita della scuola di tutti i giorni, in modo incrementale ma concreto, lasciando sfumare le predilette, egualitaristiche opzioni di stampo ideologico e lavorando piuttosto affinché - almeno per quanto riguarda la scuola - i criteri tramite i quali la disuguaglianza prende forma siano difendibili, moderni, condivisi.

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Bibliografia

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Trivellato P., Carriera scolastica e lavorativa, in Insegnare oggi, a cura di A. Cavalli, Il Mulino, 1992.

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Paolo Trivellato, «La scuola «reale»: questioni critiche e condizioni per cambiare»Quaderni di Sociologia, 6 | 1993, 5-25.

Notizia bibliografica digitale

Paolo Trivellato, «La scuola «reale»: questioni critiche e condizioni per cambiare»Quaderni di Sociologia [Online], 6 | 1993, online dal 30 novembre 2015, consultato il 14 mai 2025. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/qds/5687; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/qds.5687

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Autore

Paolo Trivellato

Dipartimento di Sociologia - Università di Milano

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