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Roma città-azienda. Cinacittà di Tommaso Pincio.

Con una Intervista a Tommaso Pincio (Roma-Pescara, aprile 2009)
Srecko Jurisic
p. 199-220

Testo integrale

Io sono l'Impero alla fine della decadenza, / che guarda passare i grandi Barbari bianchi / componendo acrostici indolenti in aureo stile / in cui danza il languore del sole./ L'anima solitaria soffre di un denso tedio./ Laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente./ Oh, non potervi, così debole nei miei lenti desideri, / oh, non volervi fiorire un po’ quest’esistenza!

Paul Verlaine

Anche il denaro è volatile. Volatile alla maniera delle parole, tant’è che si dice anche money talks. E c’è ancora un altro elemento che accomuna il denaro alle parole. Similmente alla voce, il denaro emana da un corpo. Non si tratta di un corpo in carne e ossa, ovvio, bensì di un qualcosa al contempo impalpabile e concreto. Il corpo del denaro è il suo valore.

  • 1 Pincio, Tommaso, Money talks, in Gaddis, William, JR, Padova, Alet, 2009. Ringrazio l’autore per av (...)

Tommaso Pincio1

1.

  • 2 Farkas, Alessandra, Il lamento di Bloom: è un Nobel per idioti, in Corriere della Sera, 5 marzo 200 (...)
  • 3 Pincio, Tommaso, Cinacittà, Torino, Einaudi, 2008. D’ora in poi CC seguito dal numero di pagina in (...)

1Non molto tempo fa sul Corriere della Sera è apparsa una lunga intervista a Harold Bloom in cui il critico statunitense, oltre a togliersi qualche sassolino dalla scarpa, dichiara che “la letteratura è un'epifania individuale e non deve avere alcuna valenza di riscatto socio-politico”2. Se si prende in esame la letteratura italiana dell’ultimo decennio (ma non solo quella) appare subito chiaro che questo “approccio estetico alla letteratura” si dà come poco e parzialmente adatto oltreché in lieve contraddizione con la teoria dell’anxiety of influence, dello stesso Bloom. Il romanzo di Pincio3 di cui si dirà nelle pagine seguenti dimostra che nemmeno la scelta del modus pseudofantascientifico è la garanzia dell’affrancamento totale dal reale, anzi. Quella di Pincio è una “fantascienza lieve”, simile, per certi versi, a quella dei primi romanzi di Avoledo (fino allo Stato dell’unione, incluso). Il suo futuro, in realtà, non è futuro ma piuttosto una propaggine del presente, una sua distorsione che mostra le conseguenze della venerazione del Dio denaro. Lo stesso autore precisa a proposito del genere dell’opera:

  • 4 Polese, Ranieri, Pincio, un’Italia senza domani, in Corriere della sera, 21 novembre 2008. Sulla ge (...)

Ma questo non è un romanzo di fantascienza […]. Io non voglio parlare del futuro, non credo nemmeno che ci aspetti un futuro così. Parlo di oggi, un po' come faceva Orwell. La città di 1984 altro non era che la Londra uscita a pezzi dalla guerra, e la data del titolo non era altro che il 1948 con le cifre invertite. Qui, io racconto le paure dell'uomo comune, che proietta le sue insicurezze sugli stranieri, aspetta con angoscia di essere invaso, coltiva la sua aggressività e finisce per credere alla sua paranoia. Certo, l'Italia è un paese invecchiato, dove non si fanno più figli, ma in cui gli immigrati hanno famiglie sempre più numerose e accettano ogni tipo di lavoro. Loro fanno sacrifici per i figli, che sono il futuro. Un po' come succedeva agli italiani del dopoguerra. Ma poi, arrivato il benessere, finiti gli anni di Sordi e della commedia, finita la dolce vita, è anche finita la ricerca del futuro. Questa Italia non ha un grande futuro alle spalle, ha solo un passato davanti4.

  • 5 Basti l’esempio delle ripetute menzioni di Porta a porta (con tanto di psicologi dai maglioni color (...)
  • 6 Nonostante il personaggio principale presenti svariate analogie con la parabola esistenziale di Pin (...)

2Per ribadire il legame con l’Italia attuale l’autore puntella il romanzo con riferimenti all’ attualità5. Il leit motiv del romanzo sembra essere l’economia che lega insieme le altre coordinate dell’italianità moderna e di quella futuribile come ad esempio il rapporto con il glorioso passato o la perdita di valori nel «paese che muore Italia» (la felice formula è dell’incipit di Dies irae di Genna). La sublimazione del motivo economico-monetario del romanzo, nella sua facies fortemente distopica, la si ha nel protagonista di Cinacittà6 la cui parabola sembra essere scandita dall’inesorabile e sempre più rapido assottigliarsi del suo contro in banca (forte di una liquidazione percepita tempo addietro). Il filo rosso economico accompagna il percorso in negativo del protagonista, “tossico dell’indebitamento” (CC, 262) e culminerà con l’accusa di omicidio dopo esser passato per le truffe (assegni a vuoto ecc.). Persino il suo tentativo di risalire la china passa per l’impiego in un’agenzia per la riscossione dei crediti (CC, 286). La tragedia finale, l’omicidio della prostituta cinese, scaturisce da un furto e dal parapiglia che ne consegue.

  • 7 Sulla scelta della prima persona l’Autore dice così nella citata intervista alla Lipperini: “Per fa (...)
  • 8 Tra i sintomi psicosomatici che hanno entrambi i protagonisti basti l’analogia tra la febbre (morbo (...)
  • 9 Senczuk, Liliana, cit.
  • 10 Sia Kafka che Dostoievski sono chiaramente tra i modelli di Pincio il quale oltre ad aver dichiarat (...)

3 Al di là delle osservazioni interessanti circa il rapporto con la fantascienza, se ne potrebbero fare di altrettanto interessanti sul rapporto che Cinacittà intrattiene con il genere giallo. Oltre forse alla presenza costante della vile pecunia come una sorta di movente, del giallo vero e proprio non si può parlare in quanto la canonica detection, affidata al commissario/ispettore di turno, latita (il morituro magistrato italico è la parodia degli uomini di legge di Kafka). Che sia stato commesso un delitto il lettore lo sa sin dal principio e il libro di Pincio, sin dal sottotitolo (Memorie del mio delitto efferato), si dà come un giallo metafisico, monco. È un memoriale che ripercorre l’intera vicenda a posteriori cercando di capirla dal parziale punto di vista della prima persona singolare7 (“Non era andata bene per un cazzo. Ciò che mi stava più a cuore non l’avevo ottenuto. Volevo capire e non ci ero riuscito”, CC, 319). L’unica componente concreta dell’indagine canonica sono gli interrogatori, ma essi qui non hanno nulla di “giallo”: sono lenti e a tinte kafkiane. Il modello è chiaramente quello dostoievskiano che ha avuto relativamente pochi emuli di rilievo in Italia (se si eccettuano L’Innocente e Giovanni Episcopo, due tentativi dannunziani di sondare la mente criminale, dal ritardo quasi trentennale rispetto all’originale e il Tempo di uccidere flaianeo). L’intertestualità del “romanzo criminale” di Pincio con il romanzo di Dostojevski è davvero fitta. Alla San Pietroburgo estiva e afosa fa da pendant la Roma soffocante del “terzo anno senza inverno”. L'epilogo dostojevskiano si svolge nella prigione-fortezza di una località non espressamente nominata, sulle rive del fiume Irtyš, nella Siberia occidentale mentre il protagonista dell’opera di Pincio sconta la sua condanna a Regina Coeli da dove scrive il memoriale della sua vicenda. In Pincio abbiamo un omicidio come conseguenza di un furto (anche se non solo di questo) e in Dostojevski abbiamo, si sa, un duplice omicidio a scopo di rapina: quello premeditato dell'avida vecchia usuraia e quello, imprevisto, della sua mite sorella, per sua sfortuna trovatasi sulla scena del delitto appena compiuto. In Pincio dell’omicidio è accusato l’inetto protagonista, il fallito della situazione, mentre nel romanzo russo l'autore delle uccisioni è Raskolnikov, un indigente studente pietroburghese. In entrambi i romanzi viene narrato sì l’iter che porta al delitto, ma interessano soprattutto gli effetti emotivi, mentali e fisici che ne seguono8 (non a caso la traduzione corretta del titolo del romanzo di Dostojevski sarebbe Delitto e pena). Yin, la prostituta cinese di cui l’antieroe di Pincio s’innamora, presenta qualche punto di contatto con Sonja del libro di Dostojevski, una povera giovane e un'anima pura e pervasa di una fede sincera e profonda, costretta però a prostituirsi per mantenere la madre tisica e i fratelli. Questo incontro sarà determinante per indurre Raskolnikov a costituirsi e ad accettare la pena. Yin, a detta dello stesso Pincio, è, invece, l’unico personaggio che in qualche modo si riscatta (“Alla fine, però, l’unico personaggio del romanzo che in qualche modo si riscatta è proprio la ragazza cinese brutalmente assassinata”9). Va anche evidenziato che Delitto e castigo ha avuto un’importante influenza su Kafka, un altro autore a cui ci sono dei riferimenti nel romanzo10. Segnaliamo anche che il sottotitolo del romanzo di Pincio, Memorie del mio delitto efferato, richiama a mente le Memorie del sottosuolo, ancora di Dostoievski. Che non si tratta di un riferimento puramente casuale lo dimostrano anche altri punti di contatto tra le due opere che esulano dal tema di questo lavoro (nella seconda parte delle Memorie, narrata in prima persona, vi sono delle scene postribolari in cui il protagonista usa violenza con una prostituta).

2.

4Il rapporto con la storia d’Italia in Pincio sembra risolversi attraverso la riproposizione (riscrittura?) di tre epoche storiche, tutte e tre segnate dal crollo del sistema, malamente celato dall’apparente benessere economico. Si va così dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente e si arriva alla recente storia d’Italia (Tangentopoli e l’introduzione dell’euro) passando per gli anni della “Dolce vita”.

  • 11 Anche qui si è molto lontani dall’immagine dello statuario guerriero latino, il protagonista si def (...)

5Nella letteratura italiana dell’Otto-Novecento il rapporto col passato si è spesso risolto con lo sfruttamento del potere mitopoietico del tempo che fu (viene in mente la risemantizzazione dei miti eroici veneziano e romano da parte di D’Annunzio in tempi “non-eroici”). Pincio, invece, opera una demitizzazione di Roma sin dall’interrogativo del titolo del primo capitolo (Ma i romani esistono davvero?). Il protagonista, il Zeno Cosini (post)moderno, definito “l’ultimo dei veri romani”, alla stregua di Mussolini (CC, 6-7)11 ne è lo specchio:

Il protagonista del mio romanzo li [i cinesi] considera i nuovi barbari e quindi i principali responsabili delle sue personali disgrazie. Cinacittà racconta la storia di un uomo che pur non di ammettere i suoi limiti traccia un improbabile parallelo tra il suo fallimento e quello della nuova caduta di Roma, il che lo rende un perfetto esemplare di italiano. In tutto ciò c’è ovviamente una forte valenza simbolica, giacché da secoli la cultura occidentale ha visto nel crollo della civiltà romana una metafora del suo tramonto. Non meno significativo è il fatto che molti storici ritengano che gli italiani in quanto popolo nascano proprio con la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augusto da parte Odoacre, vale a dire dal miscuglio di romani e barbari12.

  • 13 Cfr. Gibbon, Edward, Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, Torino, Einaudi, 1987. Su (...)
  • 14 “La lupa in questione era in effetti la moglie baldracca di un pastore cencioso. La chiamavano ‘lup (...)

6È la mise en abyme dell’antistoria d’Italia. Invece delle glorie dell’età augustea viene qui rappresentata una nuova caduta dell’Impero sotto le nuove invasioni barbariche (“barbari del terzo millennio, i cinesi”, CC, 80). Edward Gibbon, il “Voltaire inglese”, che con Pirenne resta ancora oggi uno dei maggiori teorici della caduta di Roma scrisse la monumentale Storia del declino e caduta dell'Impero Romano (1776-90 ca.)13 in cui sosteneva che l'Impero romano cadde sì sotto le invasioni barbariche ma anche a causa della perdita di senso civico da parte dei suoi sudditi, divenuti deboli al punto da cedere il compito di difendere i confini dell'impero a barbari mercenari che divennero così numerosi e integrati nel tessuto della società da esser capaci di distruggere l'impero dall’interno. Egli pensava che i romani fossero divenuti effeminati, incapaci di una vita virile, da veri soldati. Inoltre, secondo Gibbon, il cristianesimo creando la certezza che una migliore vita sarebbe esistita dopo la morte fece sì che i romani fossero indifferenti verso la vita terrena, indebolì il loro desiderio di sacrificarsi per l'Impero. Credeva anche che il pacifismo, così radicato nella nuova religione, avesse contribuito a smorzare il tradizionale spirito marziale romano. A questi motivi si aggiungeva anche un’errata politica economica che spopolò le campagne e provocò la nascita dell'economia chiusa del latifondo, con la mancanza di vitali scambi commerciali tra città e campagna, con carestie, aumento spropositato dei prezzi, inflazione galoppante ecc. Pincio non solo ripropone la parte meno gloriosa della parabola romana ma mette in discussione anche il mito fondante dell’Urbe, la lupa, dandone una versione un po’ “verghiana”14.

  • 15 “Vi domanderete perché mai uno scrittore americano viva a Roma. Prima di tutto perché mi piace i ro (...)
  • 16 “Vivi all’Excelsior adesso e fai pure il giornalista, proprio come il Marcello della Dolce vita, da (...)

7Dalla demitizzazione delle glorie antiche si passa alla decostruzione di un’altra aurea aetas economica italica. Nel romanzo di Pincio viene evocato il periodo della “Dolce vita” di via Veneto, la Roma di Fellini e di Flaiano, della Ekberg e di Mastroianni e la Roma del boom economico, del periodo in cui, difatti, nasce il consumismo in Italia. L’epoca in questione viene chiamata in causa sin dalla prima epigrafe, fondamentale, in cui Pincio velatamente spiega il setting romano rispetto ai suoi romanzi “americani” precedenti15. Il personaggio principale di Pincio si presenta, falsamente, come giornalista e Wang, praticamente l’unico cinese parlante del romanzo, lo soprannomina proprio Marcello, che è il nome di Mastroianni nella Dolce vita di Fellini. I punti di contatto con il capolavoro felliniano sono numerosi, a partire dal gioco di parole del titolo (Cinacittà-Cinecittà: il titolo allude subito a due chiavi di lettura del libro con il ricordo dell’età dell’oro del cinema italiano e con la traduzione letterale di Chinatown)16. Qui basti sapere che il protagonista de romanzo di Pincio conosce la donna che “ucciderà” in un night-club romano, la Città proibita e sogna di vederla nella nota scena della Fontana di Trevi. Mastroianni, Marcello nel film, sempre in un night-club, incontra Maddalena, una giovane ereditiera sempre in cerca di nuove sensazioni con cui finisce col fare l'amore nel letto di una prostituta. Tornato a casa all'alba, il Marcello felliniano scopre che la sua amante, Emma, ha tentato il suicidio per gelosia. “Marcello” immagina persino la famosa scena della fontana reinterpretata dalla sua concubina cinese.

  • 17 Il protagonista aspira a diventare pittore ma i suoi sogni di gloria si infrangono contro le leggi (...)

8 Il terzo momento storico-economico chiamato in causa da Pincio è quello di “tangentopoli”. Il protagonista rievoca alcuni momenti della sua giovinezza tra cui, in maniera vivida, il lancio delle monetine contro Craxi (in seguito paragonato a Mao) davanti all’hotel Raphael (CC, 151-154), cui partecipa “come molti altri italiani che poco o nulla avevano combinato nella vita”, colpendo invece di Craxi “sulla pelata”, Luca Josi, pupillo di Craxi, detto l’Hammamet Express. L’evento rappresenta probabilmente l’acme del percorso del mancato inserimento del protagonista nei “giri” d’arte che contano a Roma17.

3.

  • 18 La rappresentazione, volutamente stereotipata e a tinte razziste dei cinesi è sicuramente uno dei p (...)
  • 19 La “questione della lingua” globalizzata di Pincio meriterebbe un’analisi approfondita ma ci limiti (...)

9Il romanzo, poi, rilegge la situazione italiana/europea/mondiale attuale. Qui la proiezione economico-aziendale di Pincio si fa più complessa. Lo scrittore romano mette in scena una Capitale vittima dell’“anno senza inverno”, dell’“eterna canicola” (CC, 7), riarsa dal riscaldamento globale, conseguenza dell’economia globale ipetrofica. Il Tevere è una discarica (“quell’arso fossato adibito a discarica”, CC, 128), il Colosseo è pieno di extracomunitari malati di “morbo romano” (CC, 65) e via Veneto, vistosamente decaduta e attraversata da risciò, è adesso una delle arterie principali dell’enorme Chinatown - Cinacittà. I romani sono emigrati da quel “luogo di morte e dell’assurdo” (CC, 45) verso il fresco e il prospero Nord (si parla di “grande esodo”, CC, p. 99) e sono stati soppiantati dai cinesi18, barbari, tutti tranne uno, il torbido Wang. Quest’ultimo è la mente dietro a quello che il protagonista chiama “il disegno di Wang” (CC, 234) e che gli sarà fatale. Wang è sostanzialmente un plagiatore, falsamente acuto e altrettanto falsamente saggio: gli aneddoti che propina a “Marcello” sono (i cinesi, si sa, non rispettano le leggi sulla proprietà intellettuale) prese di peso dalla biografia di Mao (CC, 334). “Marcello”, dal canto suo, è un uomo dalla scarsa e televisiva cultura, o al massimo targata Wikipedia (CC, 136), un homo videns, come egli stesso ammette, nonostante una lingua “forbita” di cui si vanta (CC, 42)19:

  • 20 La menzione della romanità deteriore di Sordi viene usata da Pincio per operare il rovesciamento pi (...)

Il bello è che prima di incontrare Wang il poco che sapevo su Roma lo avevo appreso dai film. Che Nerone diede Roma alle fiamme per costruirsi una villa l’ho visto un Quo Vadis?, giusto per fare un esempio. Spartacus, Ben Hur, i kolossal: ecco quali sono stati i miei maestri. E poi Alberto Sordi, ovvio. Ma che vuoi imparare da Sordi? La meschinità che è in te. L’Italietta in bianco e nero […]. Il tratto distintivo dell’autentica romanità è proprio la sublime ignoranza. (CC, 12)20

  • 21 Il Ministro dell’Economia Tremonti identifica la Cina (e l’euro) tra i principali responsabili dell (...)
  • 22 “Nessuno veniva più a Roma, a parte qualche commerciante del Nord che ordinava ai cinesi vagonate d (...)
  • 23 “L’altra caratteristica saliente di Roma è che è un troiaio” (CC, 27).
  • 24 È sintomatico a questo proposito il dialogo tra il protagonista e il migliore amico, Giulio: “La pa (...)

10Tra il “pericolo giallo” di cui aveva già parlato Mussolini (riprendendo una dicitura già formulata dal kaiser Guglielmo II a fine ’800) e la posizione del governo odierno non corrono molte differenze21, e Pincio fonde l’immaginario (e il reale) collettivo ancorato in quello letterario. Nella capitale raffigurata da Pincio i cinesi hanno impiantato la loro singolare e spregiudicata economia che fagocita ogni altro tentativo d’impresa. Roma – Cinacittà - si presenta come un sistema aziendale conchiuso e autonomo rispetto al resto dell’Italia con una propria cultura aziendale e con delle normative interne, quasi criminose. I cinesi hanno “rilevato”, “acquistato”, Roma perché portatori di un modello economico che, per quanto primitivo e scorretto, si rivela vincente. Specie se s’innesta su un humus di decadenza di una Capitale svuotata e stanca di se stessa. Persino gli italiani approfittano della bizzarra enclave romana: i ricchi commercianti dell’ancora fresco Nord22 vengono a fare affari d’oro acquistando merci cinesi a prezzi ridicoli per rivenderle al Nord a prezzi maggiorati fermandosi in contempo nella Città proibita, lo stesso go-go bar frequentato dal protagonista (naturalmente, nel romanzo anche l’amore, come l’arte, è merce, il prodotto erotico23). Alle difficili condizioni economiche in cui versa Roma (per chi è esterno al libertismo estremo che vi regna) si suppone corrispondano le difficili condizioni al livello mondiale. Alla moneta unica europea, l’euro, è subentrato il soldo globale, il globo, la cui introduzione - truffa su scala planetaria - ha avuto un effetto deleterio sul risparmio incenerendo il valore dei gruzzoli dei piccoli risparmiatori24. Il globo, tra l’altro, ha sulle banconote i volti dei personaggi dell’attualità economica come ad esempio il faccione di Alan Greenspan, il potente direttore della Federal Reserve. Un altro volto da banconota è l’insospettabile Sir Isaac Newton alla cui figura viene fatto risalire il modo moderno di fare alta finanza (CC, 198-200). Pare che con una pensata quasi da fisico, tanto complicata e al contempo tanto semplice, Newton abbia dato inizio all’attuale complotto perpetrato dagli istituti di credito a danni dei risparmiatori su scala mondiale, incentrato sulla finanza virtuale che prescinde dalla carta moneta reale, dal denaro sonante e si basa sull’incessante e incomprensibile moltiplicarsi delle plusvalenze generando guadagni esorbitanti fin quando non crolla l’intero sistema, cosa accaduta qualche mese addietro con i fallimenti a catena delle banche. Sembra quasi un’ironia della sorte che la finanza moderna debba qualcosa a chi enunciò la legge della gravità, una legge che viene da una mela caduta in testa a Newton, e in sostanza dice che si può salire fino ad alture incredibili ma la caduta verso il basso è inevitabile.

  • 25 Weil, Eric, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani, Milano, Guerini, 1988, p. 258. Su Marx, cfr (...)
  • 26 “Qui a Roma ho sperperato la mia esistenza e qui sono rimasto dopo l’inizio di quell’enorme e famos (...)
  • 27 Marx, Karl, Engels, Friedrich, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 8.
  • 28 Ibid., pp. 8-9.
  • 29 Gramsci, Antonio, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Einaudi, Torino, 1953, p. 27.
  • 30 L’antieroe pinciano, con il suo modus vivendi, fa una critica all’economia politica, “il diabolico (...)
  • 31 Marx, Karl, Il Capitale, Torino, UTET, 1974, p. 691.

11 Il fil rouge economico-aziendale del romanzo viene portato avanti anche attraverso i molti riferimenti alla biobibliografia di Marx, la lettura della cui biografia il protagonista trascina stancamente lungo tutto il romanzo: “Siccome avevo perso il lavoro, mi ero dedicato alla lettura della biografia di Karl Marx e mi ripromettevo di seguire il suo esempio. Marx non ha mai lavorato. Cioè, ha scritto un sacco di roba sui lavoratori, ma lui di persona non ha fatto un cavolo tutta la vita” (CC, 102). La “fede marxista” (CC, 281) di Marcello consiste dunque nel “dolce far niente” (CC, 102), ma egli dovrà, come nelle teorie del pensatore tedesco, sulla propria pelle apprendere che “non è possibile elaborare un’immagine precisa di ciò che si vuole realizzare perché solo il senso dell’opposizione all’esistente è determinato, non la nuova forma che sarà il risultato dell’azione”25. La filigrana intertestuale con Marx e i punti di contatto con le sue teorie, al di là di qualche riferimento/citazione esplicito, è in realtà più complessa. Così, ancora una volta molto marxisticamente, lo sperpero del danaro equivale allo sperpero dell’esistenza26, la sua colpa maggiore, quella che lo porta a Regina Coeli. Con l’assottigliarsi del suo conto in banca sembra finire anche la sua esistenza da uomo libero. Si potrebbe tracciare un parallelo con Marx che scrive che “producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale”27 e anche che “questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi esso è già un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono”28. La concezione dell’autocreazione dell’uomo mediante il suo lavoro costituisce, tra l’altro, la più recisa negazione del teocentrismo e di ogni forma di eteronomia. Come rilevato da Gramsci, solo alla luce di questa concezione noi siamo veramente i “fabbri di noi stessi”, demiurghi della nostra vita, del nostro destino, e possiamo affermare che “l’uomo è un processo, e precisamente è il processo dei suoi atti”29. Lo stile di vita del protagonista, nonostante egli non si ispiri al pensiero ma all’esistenza di Marx30, ha in sé questo laboro ergo sum. Che sia così lo dimostra anche il fatto che una volta impiegato da Wang, Marcello fallisce miseramente (egli dunque non è). La risposta è ancora una volta in Marx la cui critica nasce poprio da questo punto. “Il lavoro”, scrive Marx in un noto passaggio del primo libro del Capitale, “è la sostanza e la misura immanente dei valori, ma esso stesso non ha valore”31. Il lavoro come soggetto, come attività umana sensibile, è la fonte creatrice di ogni valore, ma, in quanto sostanza o causa effettuale del valore, non ha esso stesso valore. Il lavoro è l’uomo stesso, il suo modo specifico di essere o farsi uomo, e non può quindi avere un prezzo o valore di scambio, ma, semmai, un valore intrinseco, ontologico, una dignità infinita. Al termine del romanzo, in seguito a un processo in odor di Kafka, in carcere e sconfitto dalla giustizia italo-cinese, Marcello si mette a leggere un’altra biografia, quella di Mao (Vita provata del presidente Mao), forse il maggior seguace, ma anche il peggior lettore di Marx, accettando così defintivamente la sua condizione (CC, 332-334). Due biografie importanti per stenderne una terza, del tutto anonima.

4.

  • 32 La suite dell’Excelsior in cui abita “Marcello” sarebbe proprio quella dove Kurt Cobain avrebbe ten (...)
  • 33 Non si tratta solo ed esclusivamente di riferimenti letterari (Primo Levi, CC, 94; Orazio, CC, 147) (...)

12In conclusione, qualche osservazione su alcuni aspetti del romanzo non strettamente legati al tema di questo lavoro. Vanno spese delle parole sul folto citazionismo, i rimandi e i riferimenti colti presenti nel tessuto di Cinacittà. Oltre agli autori e le opere già chiamati in causa nelle pagine precedenti, oltre a quelli involontariamene indotti (la menzione di via Merulana – CC, 240 – richiama l’omicidio insoluto di Gadda) e oltre ai riferimenti alle proprie opere32, ce ne sono molti altri33. Nel capitolo introduttivo ci sembra che l’autore faccia riferimento alla Arendt (CC, 13) mentre il motto dello sperperamento esistenziale del protagonista è una frase di Hemingway che ricorre: “Prima poco a poco, poi all’improvviso” (CC, 32). Dell’intera trama di Fiesta Pincio fa una mise en abyme alle pp. 126-128 del romanzo intrecciandola con le riflessioni del suo protagonista.

  • 34 Giglioli, Daniele, Un Pincio struggente, in Il manifesto, 24 settembre 2008.

13 Da quanto affermato nelle pagine precedenti, appare chiaro che si è davanti a un romanzo la cui densità è difficile sondare in poche pagine. Questo noir “slabbrato” è una narrazione urbana ottimamente orchestrata e prova ancora una volta che Pincio è un autore che rischia e cambia molto e che con molto coraggio ha affrontato la rappresentazione letteraria delle prospettive economiche dell’Italia. E tutto questo in un momento in cui sembra essersi inceppato il filone dei romanzi incentrati sull’economia e sul lavoro (nel senso classico del termine, i reportages e gli “oggetti narrativi non identificati” non mancano). Oggi gli intellettuali si trovano smarriti sul valore letterario da assegnare all’economia nelle sue varie declinazioni. Essa è oggi proteiforme: cambia forma e sembianze a proprio piacimento, non secondo i mutamenti della realtà, ma generando essa stessa quei mutamenti. Per questo l’aspetto economico-aziendale è difficilmente inafferrabile dal punto di vista letterario e genera sfide sin dalla sua stessa identificazione. Il problema maggiore sta nel cogliere l’economia nei suoi cambiamenti che producono forti mutamenti anche nelle identità. Il rapporto tra l’individuo e l’economia oggi si è modificato ed è molto diverso da ciò che era nella società “classicamente” industriale. Nella società dell’organizzazione scientifica e razionale dell’economia l’identità era più facilmente riconoscibile ed era il risultato del modello di produzione e di lavoro basato sull’ottimizzazione delle risorse e sull’economia di scala, all’insegna della continuità. Oggi siamo nella piena discontinuità, il lavoro è in frammenti e anche le stesse identità al lavoro sono preda dello spaesamento e dell’incertezza. Non si tratta di richiamare con nostalgia una società che non c’è più, ma di riappropriarsi dei significati dell’economia e del lavoro, alla stregua di Marx, per riscoprire l’identità della persona e il senso del lavoro stesso. Il “libro struggente”34 della fornax romana dal tramonto mandarino di Pincio dimostra che l’economia da sola non riesce, se mai è riuscita, a offrire una risposta soddisfacente al bisogno di identità emergente.

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Allegato

Intervista a Tommaso Pincio (Roma – Pescara, aprile 2009)

1. Perché un romanzo così fortemente legato alle tematiche economiche in tempi in cui una buona fetta dell’editoria italiana sembra proporre libri “scacciacrisi”?

L’esigenza di compiacere il sistema editoriale non è esattamente la mia priorità. Scrivo senza preoccuparmi troppo di incontrare i gusti del grande pubblico. Le disfunzioni della cosiddetta economia di mercato sono una questione nodale del nostro tempo e perciò ne parlo. Tra l’altro è un tema che mi ha sempre interessato da vicino. Cinacittà è uscito nell’autunno del 2009, dunque proprio nel momento in cui è scoppiata la crisi, i telegiornali mandavano in continuazione le immagini dei funzionari della Lehman Borthers che uscivano dagli uffici con le scatole di cartone. Tuttavia non è stato scritto in un giorno. La sua stesura ha richiesto un tempo, ed era comunque da molto tempo che ragionavo intorno a una sorta di apocalisse economica ambientata a Roma, la città dove sono nato e vivo. Alcune situazioni descritte nel libro, col senno di poi, possono apparire profetiche considerando che le ho immaginate tre, quattro anni prima. Ma personalmente credo poco alla preveggenza degli scrittori: la verità è che certe crepe erano visibilissime da tempo.


2. Ci potrebbe dire qualcosa in merito al ruolo dell’aspetto economico nel romanzo (lo strapotere della Cina, il sistema monetario basato sul globo, il lancio di monetine davanti al Raphael, riferimenti alla realtà economica italiana ecc.)?

Il lancio di monetine alla volta di Craxi ha segnato un punto di svolta nella storia italiana, paragonabile quasi a quello dello scempio dei cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci a Piazzale Loreto. Non si è trattato soltanto del simbolico linciaggio di un leader politico ormai inviso all’opinione pubblica, ma dell’atto finale di un’intera epoca. L’Italia non si è mai davvero ripresa da quel trauma. Poteva essere uno shock salutare, è stato invece l’inizio di un’involuzione senza sbocchi, la fine della politica nel senso nobile del termine. Se non avessi timore di apparire troppo apocalittico direi che ha segnato il momento in cui si è passato dallo Stato di diritto democratico a quello videocratico che ha trovato in Silvio Berlusconi il suo «Papi», per cui mi limito a constatare che il paese si è notevolmente imbarbarito. C’è poi un altro aspetto: Tangentopoli è figlia del crollo del muro e dei nuovi equilibri che ne sono derivati. La fine dei blocchi contrapposti ha aperto le porte alla globalizzazione, nuovi e immensi soggetti economici e produttivi come Cina e India si sono affacciati sul mercato cambiando per sempre le regole del gioco. Nel romanzo descrivo un’Italia alla deriva e incapace di misurarsi con la nuova realtà, un paese diventato ormai periferia in un mondo che guarda sempre più verso Oriente. Propongo questo scenario usando alcuni stilemi tipici della letteratura d’anticipazione, ma non credo affatto di descrivere il futuro. È l’Italia in cui già viviamo, rappresentata attraverso lo specchio deformante dei suoi cittadini impauriti.

3. Il pluricandidato al Nobel Mario Vargas Llosa ha recentemente dichiarato che la crisi economica mondiale stimolerà la letteratura. Lei è d’accordo?

Assolutamente. Nei tempi difficili, assetti e valori di una società vengono fatalmente messi in discussione. Ci si domanda se non ci sia qualcosa di sbagliato nel modo in cui l’umanità ha organizzato la propria esistenza. Inoltre, soffrendo di più, le cose vengono percepite con maggiore intensità. Si ha più bisogno di capire, di raccontare. Forse si venderanno meno libri perché le persone avranno meno denaro, ma se ne scriveranno di più, di nuovi e fors’anche di migliori. Del resto, è sempre stato così. L’apice di una delle ultime grandi stagioni letterarie, quella del postmoderno americano, tanto per fare un esempio, ha coinciso con la crisi petrolifera degli anni Settanta.

4. L’arte nel suo romanzo sembra essere ridotta a merce (il prodotto artistico). Mi riferisco alla galleria d’arte in cui il protagonista lavora e l’eternamente incompiuto fumetto che per lui rappresenta una “svolta” per uscire dal baratro economico verso cui sembra andare. La Sua opinione sull’argomento?

Da ragazzo sognavo di fare il pittore, così mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti. Terminati gli studi ho scoperto a malincuore di non disporre del talento necessario. Ho appeso i pennelli al chiodo per iniziare a lavorare in un’importante galleria d’arte, proprio come il protagonista del mio romanzo. Conosco abbastanza bene quel mondo da poter affermare in tutta tranquillità che l’aspetto della mercificazione condiziona profondamente il lavoro degli artisti. Gran parte delle opere che vediamo in musei, biennali, fiere e grandi collezioni sono concepite appositamente per quel circuito. Il denaro che muove il sistema dell’arte determina fatalmente le forme delle opere. Negarlo sarebbe falso e ipocrita. È vero che la commercializzazione dell’arte è un po’ come la prostituzione, nel senso che esiste da sempre. Tuttavia a partire dagli anni ’60 si è entrati in una fase nuova, una fase in cui l’arte è diventata un sistema economico in sé e per sé. Non a caso proprio in quel periodo emersero movimenti che sono un’emanazione diretta della civiltà dei consumi e del denaro. Penso alla Pop Art, al minimalismo, all’arte concettuale.

5. È impossibile non notare la “romanità” intessuta nel romanzo che si manifesta attraverso quella che è quasi una nuova caduta di Roma. Mi potrebbe spiegare il ruolo del (anti)mito di Roma nel romanzo?

Da sempre la caduta di Roma è fonte di suggestioni. Al cospetto dei suoi imponenti ruderi, si stenta a credere che il suo dominio sul mondo sia finito per mano dei barbari. È un mistero irrisolto che irretisce gli storici dai tempi di Gibbon. Alcuni ritengono che il popolo italiano sia nato proprio nel 476 con la deposizione di Romolo Augusto e dunque dall’unione di barbari e romani, consumatasi nell’alcova della Chiesa. Non so quanto corretta possa essere una simile, di certo dice lunga sul carattere del nostro popolo. Soprattutto sui suoi lati più contraddittori e meno edificanti. Considerata in prospettiva più ampia la caduta di Roma incarna invece lo spettro dell’apocalisse ovvero il tramonto dell’Occidente, la fine del suo predominio culturale ed economico. Tant’è che gli analisti sono soliti paragonare l’attuale situazione degli Stati Uniti alla fase terminale dell’impero romano. In Cinacittà ho cercato di dare conto di entrambi gli aspetti: una Roma al collasso che fosse lo specchio di un malessere tipicamente italiano e al contempo una metafora della condizione dell’Occidente in generale. Per questa ragione, lo scenario apocalittico del romanzo fa da sfondo alla caduta di un individuo qualunque, un mediocre, una persona da quattro soldi che discende in linea diretta dal borghese piccolo piccolo della commedia all’italiana.

6. La “romanità” scritta, viene in mente Gadda del Pasticcaccio o Pasolini, solitamente passa per una lingua “urbanamente succulenta”, o almeno ricca di innesti dialettali romani. Lei invece sceglie una lingua quasi asettica, di una linearità quasi scientifica. Perché questa scelta?

Nel De vulgari eloquentia Dante sostiene che il romanesco non è una lingua bensì un turpiloquio. Tale convinzione persiste tuttora, si dice spesso infatti che il modo di esprimersi dei romani sia una cadenza anziché un vero e proprio dialetto. Probabilmente gli accenti gravi e un’innegabile inclinazione alle espressioni rozze e brutali, caratteristici del dialetto romano, finiscono per offuscare certe specificità linguistiche, che pure esistono. Il problema è diventato ancor più rilevante da quando la televisione ha inquinato la lingua parlata. Nel romanzo ho cercato di ricreare questo ibrido, inventando una sorta di lingua sintetica a metà strada tra il reale e la virtualità mediatica. Ho lavorato tanto sulla sintassi quanto sulla scelta lessicale. Tanto per fare un banalissimo esempio, l’espressione giornalistica “delitto efferato”, che ricorre con insistenza a partire dal sottotitolo, è ormai di dominio comune grazie ai mezzi d’informazione tuttavia nessuno si sognerebbe di usarla nel corso di una normale conversazione. Il mio protagonista, però, racconta in prima persona la sua storia consapevole di rendere una confessione al pubblico indistinto dei lettori. Si esprime quindi imitando la lingua artefatta e spettacolare dei media e usa perciò espressioni innaturali e ricercate. Più semplicemente, cerca di darsi un tono, anche se non sempre gli riesce. A tratti, soprattutto quando deve sbrogliare i nodi più critici, si lascia andare a espressioni più dialettali, per non dire volgari.

7. C’è un legame tra la lingua del romanzo e l’aspetto economico?

La parola è un tramite, un mezzo di scambio, proprio come lo è in denaro, per cui un legame evidentemente esiste. Il mio protagonista loda spesso il proprio modo di esprimersi. È convinto che il suo italiano sia forbito ed è probabile che egli veda nella ricchezza di linguaggio un surrogato del benessere economico cui tanto anela.

8. Al di là delle citazioni dichiarate, quelle delle epigrafi, c’è qualche autore in un certo qual modo “omaggiato” nel romanzo (ad es. la giustizia “cinese” sembra piuttosto kafkiana)?

È molto interessante che abbia colto un accento kafkiano perché l’incipit della prima stesura era un chiaro omaggio al Processo. Se non ricordo male, recitava più o meno così: “Qualcuno doveva avere in mente di incastrare Tommaso Pincio poiché, sebbene non avesse mai fatto male a una mosca in vita sua, una sera si ritrovò con un cadavere nel letto”. Ma se proprio devo pensare a un canone, direi che Cinacittà è un romanzo alla è Simenon. La parabola dell’uomo perbene di mezza età che, d’un tratto e quasi senza avvedersene, imbocca la strada di una rovinosa discesa agli inferi della malavita è infatti un tema tipicamente simenoniano. C’è inoltre qualcosa di 1984 di Orwell, un testo per me fondamentale, e di Graham Greene, e qui penso a The quiet American.

9. Il caldo del romanzo è simbolico (“infernale”) oppure si tratta semplicemente di un’amplificazione letteraria del riscaldamento globale?

La canicola rimanda a una dimensione infernale, come lei stesso ha rivelato. È inoltre la misura della temperatura emotiva del protagonista, preda di un delirio rabbioso e febbricitante. Mi sono servito del riscaldamento globale in chiave puramente accidentale, avendo in mente la San Pietroburgo oppressa dal caldo di Dostoevskij all’inizio di Delitto e Castigo. Anche lì una inusuale calura si accompagna a un’ossessione rabbiosa per il denaro preludendo a una morte violenta.

10. Harold Bloom ha recentemente dichiarato in un’intervista che “la letteratura è un’epifania individuale e non deve avere alcuna valenza di riscatto socio-politico”. È possibile, secondo Lei, per uno scrittore moderno prescindere da argomenti economici (intesi anche come ricchezza e povertà, crimini mossi da interessi economici, mercificazione dell’arte ecc.) dando alla luce un’opera intima e originale?

Qualcuno, non ricordo chi, ha detto: si nasce e si muore soli, però in mezzo c’è un bel po’ di traffico. Con la letteratura è lo stesso, si scrive e si legge in solitudine, ma tra questi due momenti di individuale epifania, per usare la definizione di Bloom, c’è l’umanità con le sue vicende e le sue parole. Uno scrittore non nasce dal niente, attinge a una tradizione culturale, si esprime in una lingua che è in continua e complessa evoluzione. Nessuno scrittore, per quanto isolato nel proprio eremo, è un’isola. Il solo fatto di scrivere perché qualcun altro legga fa della letteratura un atto politico, e questo a prescindere dal modo in cui si decida di guardare alla realtà.

11. Sempre in legame con quanto dichiarato da Bloom, cosa ne pensa della New Italian Epic a) come “filone” letterario b) come dibattito letterario c) in relazione al suo romanzo?

Capisco le ragioni che hanno indotto Wu Ming 1 a scrivere quel memorandum di cui si è tanto dibattuto e ne condivido parecchi assunti. Il suo limite è quello di non essersi misurato con una questione per me centrale e imprescindibile: in Italia, la finzione in senso romanzesco è sempre stata minoritaria rispetto alla narrativa di stampo realista. È un fatto che non può essere ignorato né sottaciuto in quanto ha origini profonde che riguardano la morale di stampo cattolico imperante nel nostro paese. La scelta di coniare neologismi eccentrici come “new italian epic” o “oggetti narrativi non identificati” mi sembra figlia degli antichi pregiudizi nei confronti della narrativa di finzione e pertanto li legittima, seppure involontariamente. Per quanto mi riguarda, scrivo romanzi, semplici romanzi, e insisto sulla parola romanzo perché ha una lunga storia alle spalle, perché incarna una tradizione ben precisa, quella che vede nella finzione narrativa uno strumento di critica, in senso laico, della società.

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Note

1 Pincio, Tommaso, Money talks, in Gaddis, William, JR, Padova, Alet, 2009. Ringrazio l’autore per avermi concesso in visione il manoscritto della sua prefazione al romanzo di Gaddis e per avermi concesso l’intervista in Appendice a questo lavoro.

2 Farkas, Alessandra, Il lamento di Bloom: è un Nobel per idioti, in Corriere della Sera, 5 marzo 2009.

3 Pincio, Tommaso, Cinacittà, Torino, Einaudi, 2008. D’ora in poi CC seguito dal numero di pagina in coda alla citazione.

4 Polese, Ranieri, Pincio, un’Italia senza domani, in Corriere della sera, 21 novembre 2008. Sulla genesi del romanzo si veda il testo di Pincio Com’è nato Cinacittà su http://www.tommasopincio.com/lanterna2.html. Sulla fantascienza di Pincio, Adriano Barone si esprime così: “Come racconta il delirio, Pincio? Utilizzando in maniera “morbida” e quindi irriconoscibile, e quindi geniale, strumenti della letteratura di genere. Ovvero? Lo scenario del romanzo è fantascientifico. Ma non in maniera stereotipata, e nemmeno secondo […] criteri della Mundane Science Fiction (un movimento sorto negli ultimi anni, secondo cui la fantascienza dovrebbe occuparsi solo di scenari possibili, senza fare riferimento agli stereotipi che nei decenni si sono consolidati nel genere, dagli alieni ai viaggi del tempo […]). Dicevamo, un’ipotesi fantascientifica. Totalmente realistica: un innalzamento globale della temperatura, un flusso migratorio, una nuova moneta, stavolta globale. Tre elementi, ed ecco: siamo altrove. Ma ovviamente siamo qui ed ora. La Roma popolata da cinesi, talmente calda che la gente esce di notte, gli effetti del ‘globo’, la nuova moneta mondiale che, alla pari dell’euro, crea un impoverimento generale” (http://adriano-barone.blogspot.com/2008/12/cinacitt.html, consultato il 9 giugno 2009). Gianfranco Franchi, su http://www.lankelot.eu/index.php/2009/05/29/pincio-tommaso-cinacitta/ (consultato il 10 giugno 2009), lo definisce “romanzo fantasatirico”. Circa il rapporto realismo/fantascienza Pincio nel romanzo scrive che “la realtà non è che una deformazione mentale, una specie di malinteso collettivo” (CC, 335) e intervistato dalla Lipperini dichiara: “È un dibattito che non mi appassiona. Mi fa venire in mente quello su astrazione e figurazione che tormentò la pittura italiana nel secondo dopoguerra. L’idea che la strada maestra sia quella del realismo è un’aberrazione tutta italiana. Di recente, in una mia riflessione sul New Italian Epic di Wu Ming 1, ricordavo le parole pronunciate dal cardinal Ippolito d’Este quando Ariosto gli consegnò la versione finale dell’Orlando Furioso: ‘Messer Lodovico, dove mai avete pigliato tante castronerie?’. La diffidenza verso la scrittura tendente al fantastico ce la portiamo appresso da secoli ed è, a mio personalissimo e discutibilissimo avviso, un regalo della santa romana chiesa e procede di pari passo con il nostro essere un paese per natura conservatore. Come ho detto, però, stiamo conoscendo una fase nuova dove tanto il realismo che il suo contrario posso convivere. Edmondo Berselli, recensendo Cinacittà, notava giustamente che per cogliere i tratti del presente esistono anche possibilità alternative a quella di Gomorra, prendere di petto cose reali. Una possibilità non esclude l’altra. Questa dicotomia è ormai superata dai tempi. Trovo molto più attuale e pertinente la distinzione proposta da Gilda Policastro su Nazione Indiana ‘tra autori che si accomodano sotto l’egida della neoavanguardia e autori che, sdegnati, la rifiutano’” (Lipperini, Loredana, Due o tre cose sul raccontare, in http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2009/02/04/due-o-tre-cose-sul-rac, consultato il 1° giugno 2009). Il protagonista del romanzo dichiara di amare la fantascienza proprio per i suoi scenari apocalittici (“Adoravo i film di fantascienza apocalittica, da piccolo” (CC, 85). È evidente che questo discorso vira verso dibattito sul realismo attualmente portato avanti sulle riviste (Allegoria, n. 57, 2008 contiene uno speciale sul “ritorno alla realtà”) e in rete (www.nazioneindiana.com) da critici come Donnarumma, Policastro, Cortellessa et al. ma è impossibile affrontare l’argomento in questa sede. Sul realismo e Cinacittà si veda il giudizio tutto sommato poco condivisibile espresso in Cortellessa, Andrea, Sapessi com'è strano fare il cinese a Roma, in TTL, La Stampa, 4 ottobre 2008.

5 Basti l’esempio delle ripetute menzioni di Porta a porta (con tanto di psicologi dai maglioni color pastello), del delitto di Garlasco e del circo mediatico l’accompagna (CC, 69-73).

6 Nonostante il personaggio principale presenti svariate analogie con la parabola esistenziale di Pincio, lo scrittore è chiaro a proposito: “Quanto c’è di autobiografico nel romanzo? Tutto e niente. Nonostante l’abbia modellato su di me, il protagonista resta sotto ogni aspetto un personaggio da romanzo, un’invenzione letteraria. Non avevo alcuna intenzione di raccontare me stesso. I riferimenti autobiografici sono uno specchietto per le allodole. Il mio alter ego e io siamo molto diversi” e, ancora: “perché ha scelto di non rivelare al lettore il vero nome del protagonista?A un certo punto del romanzo si dice che il protagonista si chiama come Villa Borghese. Il che è come sottendere Pincio. Perché sono stato tanto elusivo? Volevo lasciare il lettore nel dubbio. Non volevo che il romanzo fosse scambiato per la solita operazione di autofiction. Come ho detto, non ero per nulla interessato a parlare di me. Mi interessava invece che questo alter ego fosse percepito come una sorta di fantasma, un demone interiore che albergasse tanto nell’animo dell’autore che in quello di chi legge. La sottrazione del nome è intesa a questo scopo: essere tutti e nessuno” (Senzuk, Liliana, “Cinacittà”: tuffo in un futuro già perduto, in http://www.retididedalus.it/Archivi/2009/marzo/INTERVISTE/pincio.htm, consultato il 3 aprile 2009).

7 Sulla scelta della prima persona l’Autore dice così nella citata intervista alla Lipperini: “Per farlo, esordisci nella prima persona, per esempio: una scelta opposta a quella degli altri romanzi. Perché? E perché parli di ‘calore truffaldino’ dell’io? Non mi fido dell’io narrante. La prima persona consente di stabilire un’intimità immediata con il lettore, ma è una scorciatoia gravida di rischi. Per esempio, si può essere indotti a giustificare qualche buco nel tessuto connettivo della trama con la parzialità del punto di vista individuale. Oppure si può cedere alla tentazione di spacciare scampoli di autobiografia per verità. Ovviamente, mi riferisco alla narrativa in senso stretto, quella della finzione romanzesca. Altrove, nei territori del reportage e della memorialistica, la prima persona ha piena cittadinanza. Per venire al caso specifico, ho cominciato a scrivere Cinacittà come avevo sempre fatto in precedenza, affidandomi alla terza persona. Giunto a metà dell’opera mi sono dovuto arrendere. Così proprio non andava. Ho buttato nel cestino cento e passa pagine e sono ripartito da zero. Non era semplicemente una questione d’orecchio e stile. Volevo scrivere un romanzo molto italiano e molto romano. Il che è come dire: moralmente cattolico. Il protagonista non narra per espiare la propria parte di colpa per l’omicidio del quale viene accusato. Sostiene di volerlo fare, ma in realtà non è così. Quel che davvero vuole è assolversi. È talmente convito del valore della sua confessione che la rifiuta in continuazione, tanto all’avvocato che lo difende tanto agli inquirenti che lo accusano. La concede soltanto al dio-lettore, nobilitando di fatto una storia per nulla edificante. Va da sé che quando si concede lo fa in maniera parziale. Sulle sue vere colpe, infatti, tace bellamente” (Lipperini, Loredana, cit.). Un’assonanza, forse involontaria, tra il Delitto e il castigo (terza persona singolare) e Cinacittà (prima persona singolare) potrebbe essere individuata anche nel fatto che nel 1971, una scena non pubblicata scritta in prima persona dal punto di vista di Raskol'nikov fu rilasciata con il manoscritto annotato di Dostojevski della serie russa Monumenti letterari. Una traduzione di quella scena è oggi disponibile nella maggior parte delle edizioni moderne dell’opera.

8 Tra i sintomi psicosomatici che hanno entrambi i protagonisti basti l’analogia tra la febbre (morbo) romano del protagonista di Pincio (CC, 205) e la “febbre cerebrale” di Raskolnikov.

9 Senczuk, Liliana, cit.

10 Sia Kafka che Dostoievski sono chiaramente tra i modelli di Pincio il quale oltre ad aver dichiarato in interviste che il personaggio è “un tipico discendente di Raskol’nikov, un personaggio dominato dall’accidia e perciò condannato a un tragico destino” (ibid.), menziona a più riprese in Cinacittà (CC, 15, 66) i due scrittori (o le loro opere).

11 Anche qui si è molto lontani dall’immagine dello statuario guerriero latino, il protagonista si definisce, tra le altre cose, un “bacchino malato” (CC, 6).

12 Sono le parole dello stesso Pincio in un’intervista contenuta in http://www.recensionelibro.it/Intervista-Tommaso-Pincio.html (consultato il 4 giugno 2009).

13 Cfr. Gibbon, Edward, Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, Torino, Einaudi, 1987. Su Gibbon cfr. Craddock, Patricia B., Edward Gibbon, Luminous Historian (1772–1794), Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1989. Gibbon viene menzionato nel romanzo (CC, 160).

14 “La lupa in questione era in effetti la moglie baldracca di un pastore cencioso. La chiamavano ‘lupa’ per via del carattere selvatico e perché aveva l’abitudine di appartarsi nei boschi con tutti i giovinastri che le capitavano a tiro” (CC, 27).

15 “Vi domanderete perché mai uno scrittore americano viva a Roma. Prima di tutto perché mi piace i romani che ci frega niente se sei vivo o morto: sono neutrali, come i gatti. Roma è la città delle illusioni, non a caso qui c’è la Chiesa, il governo, il cinema, tutte cose che producono illusione, come fa tu come fa io. Sempre più il mondo si avvicina alla fine perché troppo popolato con macchine, veleni. E quale posto migliore di questa città, morta tante volte e tante volte rinata, quale posto più tranquillo per aspettare la fine da inquinamento, sovrappopolazione? È il posto ideale per vedere se il mondo finisce o no. (Dichiarazione di uno scrittore americano intervistato da Federico Fellini in una delle scene finali del film Roma)” (CC, 3).

16 “Vivi all’Excelsior adesso e fai pure il giornalista, proprio come il Marcello della Dolce vita, da oggi in avanti, per me sarai Marcello” (CC, 193). Pincio fa menzione di quel periodo anche a pp. 46 e 202 mentre a pp. 227-229 il personaggio muove delle critiche al film la cui vicenda gli ricorda la propria: “Quando vidi La dolce vita per la prima volta mi compiacqui di non essermi sbagliato. Si trattava di un pasticcio […]. Alla seconda visione, però, cambiai idea. Il fatto è che mi identificavo. A forza di sentirmi chiamare Marcello da Wang, il nome mi era penetrato fin nelle ossa […]. Questo Marcello della Dolce vita lo si potrebbe definire un fallito, un giornalista da strapazzo che combina assai poco se non fare il nottambulo, quello che alla mia maniera si direbbe uno sperperatore di esistenza. Era perciò pressoché impossibile che non mi identificassi. L’intero film è un inno allo sperpero, infatti”.

17 Il protagonista aspira a diventare pittore ma i suoi sogni di gloria si infrangono contro le leggi del mercato d’arte che lo relega in una galleria come venditore. È emblematica a proposito la sua conversazione con il proprietario della galleria (CC, 114-116). L’arte è merce (CC, 121-122). In quest’ottica va vista anche la decisione di “Marcello” di rimettere mano alla sua storia a fumetti per venderla a un editore del Nord (CC, 103).

18 La rappresentazione, volutamente stereotipata e a tinte razziste dei cinesi è sicuramente uno dei punti forti del romanzo. Basti solo un paio di esempi: “Bisogna che dica qualcosa sui barbari del terzo millennio, i cinesi. Non so quali posti abbia visitato Marco Polo, ma la mia esperienza è affatto diversa dalla sua. L’amico Giulio mi aveva avvertito di non mischiarmi con loro. ‘Non te ne verrà niente di buono’, mi ammoniva. Non ho voluto ascoltarlo e il risultato è finito su tutti i giornali” (CC, 81); “Non voglio generalizzare. Non dubito che tra miliardi di cinesi sparsi per il mondo possa essercene qualcuno d’animo quasi nobile e generoso. Io non ne ho mai incontrati però. La mia personale esperienza è che sono tutti indistintamente gretti e meschini. Del resto lo dice anche uno dei loro provverbi: se non puoi essere saggio, sii bestia” (CC, 92); “Ovunque nel pianeta, le Chinatown sono gironi infernali dove i cinesi si divertono a scannarsi tra loro arricchendosi alle spalle di noi occidentali. La romana Cinacittà è il non plus ultra, la bocca di Lucifero” (ibid.). Pincio sui cinesi dice: “Quanto ai cinesi, ne ho dato un’immagine volutamente stereotipata. Mi sono attenuto ai luoghi comuni, alle leggende urbane che girano sul loro conto. Li ho descritti come gente sporca, volgare, cinica e intrigante” (Senzcuk, Liliana, cit.).

19 La “questione della lingua” globalizzata di Pincio meriterebbe un’analisi approfondita ma ci limitiamo a rimandare a quanto dice l’Autore nell’intervista in Appendice a questo lavoro e a Antonelli, Giuseppe, La vita parlata nella lingua di uno scrittore, in Il manifesto, 24 settembre 2008.

20 La menzione della romanità deteriore di Sordi viene usata da Pincio per operare il rovesciamento più violento di tutti. Dal sordiano emblematico motto “Perché io so’ io, e voi nun siete un cazzo” (CC, 129) si passa alla seguente battuta di Wang che ne è una violenta parafrasi: “- Tu non sei me, - disse.- Tu non sei come noi. Tu in questa città non conti un cazzo. Sei uno straniero, e se vuoi restare a Roma devi mantenere il contegno che si conviene a un ospite [...] Qui non sei più a casa tua” (CC, 306).

21 Il Ministro dell’Economia Tremonti identifica la Cina (e l’euro) tra i principali responsabili dell’andamento critico dell’economia italiana. In particolare, l’impatto della concorrenza asimmetrica cinese (basso costo del lavoro, dumping sociale e ambientale, finanziamenti a settori produttivi quasi a fondo perduto, contraffazione, sottovalutazione artificiosa dello yuan nei confronti dell’euro) sarebbe la causa del peggioramento delle esportazioni italiane (Cfr. Tremonti, Giulio, Rischi fatali, L'Europa vecchia, la Cina, il mercatismo suicida: come reagire, Milano, Mondadori, 2005). Inoltre, secondo un recente sondaggio il 21% dei lavoratori dipendenti considera la concorrenza della Cina la principale causa dei problemi dell’economia italiana (cfr. la tabella pubblicata sul Sole 24 ore del 2 febbraio 2006). Sempre più ampia la bibliografia sul “miracolo” economico cinese. Basti pertanto il riferimento a Lemoine, Françoise, L'economia cinese, Il Mulino, Bologna, 2005; Domenach, Jean-Luc, Dove va la Cina?, Roma, Carocci, 2003; Weber, Maria, Il miracolo cinese, il Mulino, Bologna, 2003; Alford, William P., Bertuccioli, Giuliano, Masini, Federico, Italia e Cina, Roma-Bari, Laterza,1996; To Steal a Book is an Elegant Offense: Intellectual Property Law in Chinese Civilization, Stanford, Stanford UP, 1995.

22 “Nessuno veniva più a Roma, a parte qualche commerciante del Nord che ordinava ai cinesi vagonate di vestiti a basso costo. Erano proprio costoro i frequentatori della Città Proibita” (CC, 133).

23 “L’altra caratteristica saliente di Roma è che è un troiaio” (CC, 27).

24 È sintomatico a questo proposito il dialogo tra il protagonista e il migliore amico, Giulio: “La pacchia non durerà in eterno nemmeno qui. Te ne accorgerai quando sarà entrato in vigore il globo. – È solo un cambio di moneta. Dicono che non intaccherà il potere d’acquisto. – Il passato non ti insegna proprio niente, eh? Non ricordi quello che è successo dopo che hanno introdotto l’euro? E dire che ti lamentavi pure tu di come tutto costasse praticamente il doppio. – Non potevo negarlo, tuttavia eludevo il pensiero. Roma aveva un’economia da pese sottosviluppato […]. Che l’introduzione del globo nascondesse qualche fregatura lo pensavo anch’io. Non ero mica così scemo” (CC, 133). Si veda a proposito anche CC, 208-209.

25 Weil, Eric, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani, Milano, Guerini, 1988, p. 258. Su Marx, cfr. Balibar, Etienne, La filosofia di Marx, ManifestoLibri, Roma, 1994.

26 “Qui a Roma ho sperperato la mia esistenza e qui sono rimasto dopo l’inizio di quell’enorme e famosa estate che non è mai finita” (CC, 6) o anche “Lo sperperamento dell’esistenza procedeva placido come le acque del biondo Tevere quando l’acqua vi scorreva ancora” (CC, 208).

27 Marx, Karl, Engels, Friedrich, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 8.

28 Ibid., pp. 8-9.

29 Gramsci, Antonio, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Einaudi, Torino, 1953, p. 27.

30 L’antieroe pinciano, con il suo modus vivendi, fa una critica all’economia politica, “il diabolico marchingegno globale” (CC, 47). Il suo agire potrebbe rappresentare di per sé un’etica (come qualcuno ha sostenuto anche per Marx, cfr. Dussel, Enrique, Un Marx sconosciuto, ManifestoLibri, Roma, 1999, pp. 41 e ss).

31 Marx, Karl, Il Capitale, Torino, UTET, 1974, p. 691.

32 La suite dell’Excelsior in cui abita “Marcello” sarebbe proprio quella dove Kurt Cobain avrebbe tentato il suicidio negli anni Novanta (CC, 38-39 e 149; cfr. Pincio, Tommaso, Un amore dell’altro mondo, Torino, Einaudi, 2002).

33 Non si tratta solo ed esclusivamente di riferimenti letterari (Primo Levi, CC, 94; Orazio, CC, 147) o cinematografici (oltre ai titoli citati viene menzionato Io sono leggenda liberamente tratto dal libro di Matheson). C’è nel libro anche una sorta di sottotesto pittorico composto da nomi come De Chirico, Mantegna, Van Gogh, Degas, Monet e Toulouse –Lautrec. A questi ultimi tre, amanti delle demi-mondaines, il protagonista, invaghitosi della prostituta cinese, si sente in qualche modo accomunato. Quanto allo sforzo “filologico” dietro le quinte del libro: “La scena di questo romanzo a molti ricorda Blade Runner. ‘Sì, e lo hanno anche scritto. Del resto, il mio primo romanzo, M, era una rielaborazione del film di Ridley Scott, trasportato da Los Angeles nella Berlino dell'epoca di Weimar. Se qui però c'è questa atmosfera, la ragione è un'altra. E riguarda direttamente Roma. Roma ha Blade Runner nel suo Dna, è sempre stata la metropoli della grande mescolanza di popoli e di lingue, anche prima dell'arrivo dei barbari. Questo, Fellini l'aveva capito e l'aveva filmato nel Satyricon. Che senz'altro Ridley Scott aveva visto. Ma c'è dell' altro’. Cioè? ‘Qui faccio un po' di filologia. Voglio ricordare un precedente molto importante, ed è il fumetto Ranxerox di Tamburini e Liberatore, pubblicato su Frigidaire. Era ambientato in una Roma post-catastrofe, in mezzo a un miscuglio violento di razze. Si sa che quella rivista arrivava anche in California, probabilmente la scenografia apocalittica del fumetto ha influenzato scenografi e costumisti del film. Così come è evidente che Ranxerox - una sorta di mostro creato dall'assemblaggio di pezzi di una fotocopiatrice - ha ispirato il Terminator di Schwarzenegger [...] ‘La trama, il plot l'ho scritta pensando a qualcosa di più tradizionale. A Simenon, a romanzi come Lettera al mio giudice. O ai personaggi di Graham Greene, tipo il medico del Console onorario. Uomini anonimi, indolenti che per una svolta imprevista finiscono coinvolti in un gioco fatale’” (Polese, Ranieri, cit.). Per alcune “saldature” tra Pincio e Pynchon si veda Policastro, Gilda, s.t., in Queer (supplemento di Liberazione), 26 ottobre 2008 e ead., “Cinacittà di Tommaso Pincio” in http://dedalus.pordenonelegge.it/index.php?session=0SESSM&syslng=ita&sysmen=1 (consultato il 9 giugno 2009).

34 Giglioli, Daniele, Un Pincio struggente, in Il manifesto, 24 settembre 2008.

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Srecko Jurisic, «Roma città-azienda. Cinacittà di Tommaso Pincio.»Narrativa, 31/32 | 2010, 199-220.

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Srecko Jurisic, «Roma città-azienda. Cinacittà di Tommaso Pincio.»Narrativa [Online], 31/32 | 2010, online dal 01 juin 2022, consultato il 05 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/narrativa/1597; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/narrativa.1597

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