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Dalla fabbrica al call center: la smaterializzazione della metropoli contemporanea

Laura Rorato e Claudio Brancaleoni
p. 89-100

Testo integrale

  • 1 Ilardi, Massimo, In nome della Strada. Libertà e violenza, Roma, Meltemi, 2002, pp. 39-40 (d’ora in (...)

1Partendo da alcuni concetti relativi alla natura del mercato esposti dal sociologo Massimo Ilardi, il presente articolo si propone di mostrare da un lato come sia cambiato il mondo del lavoro negli ultimi cinquant’anni e dall’altro quali problematiche si pongono a chi desidera rappresentare questa nuova realtà sociale e lavorativa incentrata sulla nozione di precarietà. Secondo Ilardi, il precariato e un’organizzazione del lavoro che richiede la totale disponibilità dell’individuo, senza però offrire in cambio alcuna garanzia di sicurezza, sono il frutto di un processo di smaterializzazione della realtà caratteristico della metropoli contemporanea e visibile nella crisi dell’idea moderna di stato. Tale processo, sostiene il critico, risale agli anni Settanta quando si assiste a “una spinta generalizzata e incontenibile verso forme di libertà materiale1 che abbattono paradigmi universali di valori e modelli sociali basati sulla solidarietà e sull’uguaglianza e promuovono, invece, una ricerca esasperata “del proprio interesse, di opportunità di redditi fuori dal lavoro salariato, di consumi, di fuga da impedimenti e responsabilità etiche” (INDS 39-40). Due conseguenze dirette di questo fenomeno ci interessano particolarmente:

21) Il mercato – in cui vige una socialità astorica e regolata da valori egoistici in virtù dei quali i desideri dei singoli sono presentati come assoluti e inderogabili – si sostituisce alla politica e diventa il luogo deputato alla formazione sociale dell'individuo (INDS 40);

  • 2 Debord, Guy , La società dello spettacolo, Bolsena, Massari Editore, 2002, p. 46.

32) al predominio del mercato sulla politica si unisce l'egemonia dell'immagine sulla realtà: “l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come semplice apparenza”2 ha portato quindi a una smaterializzazione della realtà stessa.

4Tra il soggetto e il mondo si frappone una sorta di “schermo avvolgente” che impedisce qualsiasi esperienza diretta, critica e soggettiva. La conseguenza è la formazione di un essere umano incapace di esprimere un giudizio netto sul sistema politico, sociale ed economico che lo circonda:

  • 3 Ilardi, Massimo, Il tramonto dei non luoghi, Roma, Meltemi, 2007, p. 23 (d’ora in poi TNL seguito d (...)

Non esiste più una realtà, nel senso che non è più vissuta in maniera diretta ma viene sperimentata solo come rappresentazione che supera in efficacia la realtà stessa perché il riconoscersi tutti nella medesima immagine stabilisce un legame, salda la comunità “credente”, la tiene insieme e soprattutto trasforma l’individuo in società. Diventa massa e non più individuo3.

  • 4 Balestrini Nanni, “Piccolo appello ai nostri beneamati lettori”, in Id., La grande rivolta, Bompian (...)
  • 5 A questo punto è interessante aprire una piccola parentesi e notare che il giornale inglese The Gua (...)
  • 6 Celestini, Ascanio, I precari non esistono, Roma, Fandango Libri: 2008, p. 49 (d’ora in poi IPN seg (...)

5Attraverso la colonizzazione dell’immaginario – realizzata mediante il controllo del sistema delle comunicazioni di massa da parte di “quei nugoli di intellettuali collaborazionisti / ben lottizzati e benissimo pagati” per “rifilarci le meraviglie dell’effimero e del postmoderno / una letteraturina da telefonini bianchi / le voci bianche del pensiero flebile / e la storia che pluf finisce proprio adesso”4 – si è quindi potuti arrivare a presentare il consumismo come una nuova religione capace di fornire all'uomo, almeno a un livello superficiale, quel senso di coesione e di appartenenza che né la società né la politica erano più in grado di offrirgli. Basti pensare a quanto dice Celestini sulle “disumane periferie metropolitane” in cui, ad esempio, le offerte di panini con hamburger a 50 centesimi o di blu-jeans a 10 euro sono presentate ai cittadini come delle opportunità per entrare a far parte del modello sociale dominante basato sul consumo, e non, viceversa, come forme di asservimento a modelli di consumo imposti dall'alto. La possibilità di acquistare merce scadente a basso costo5 è uno tra gli strumenti utilizzati per mascherare una disuguaglianza sociale ed economica onde evitare qualsiasi forma di ribellione da parte di coloro i quali si trovano nell'impossibilità di accedere a cibi o vestiti migliori6.

  • 7 Celestini, Ascanio, Fabbrica, Roma, Donzelli, 2003 (d’ora in poi FA seguito dal numero di pagina).
  • 8 Raimo, Christian (a cura di), Il corpo e il sangue d’Italia, Roma, minimum fax, 2007 (d’ora in poi (...)

6Ma torniamo al mondo del lavoro. Per rispondere alla domanda iniziale su come sia cambiato il mondo del lavoro dagli anni ’50 ad oggi, il presente intervento si concentrerà soprattutto su due opere di Ascanio Celestini, Fabbrica (2003)7 e I precari non esistono (2008), e su uno dei racconti della raccolta Il corpo e il sangue d’Italia (2007), “Il mare che non c’è” di Ornella Bellucci8. I tre testi in questione mettono chiaramente in luce come il ruolo una volta rivestito dalla fabbrica, che nell’immediato dopoguerra rappresentava il mondo del lavoro per antonomasia, spetti ora al call center. La crisi della fabbrica è in parte dovuta al fatto che, oggi, tutto – incluso la formazione della soggettività – si basa sul consumo e non più sulla produzione e fa parte di quel processo di smaterializzazione della realtà di cui abbiamo detto. Mentre la fabbrica era un luogo fisico concreto che spesso dava un senso (nel bene o nel male) a una città e ai suoi abitanti, il call center è un palazzone anonimo, indistinguibile dagli altri edifici della periferia: “Centro commerciale Cinecittà Due e il palazzo del call centre Atesia stanno uno davanti all’altro. Sono divisi da un piazzale sopraelevato” (IPN 11). Il call center è invisibile non solo dal punto di vista esteriore/architettonico ma anche da quello organizzativo strutturale:

L’invisibilità dell’azienda è motivata dal fatto che essa lavora sempre per conto d’altri. Non vedremo mai una pubblicità di Atesia accanto a Barilla, Tim or ai reggipetto push-up perché Atesia lavora per questi clienti fornendo un servizio chiamato outsourcing. Ovvero gli operatori chiamano o rispondono alle chiamate a nome del committente che paga l’azienda e non a nome dell’azienda che paga loro (IPN 14).

7Ed è proprio in questa invisibilità che risiede la forza (nel senso di potere) dei call center. Se gli operatori servono come “muro di gomma contro il quale far sbattere i clienti” (IPN 15), per gli operatori stessi è altrettanto difficile comprendere la struttura dell’ambiente in cui lavorano e nel caso volessero rivolgersi a un loro superiore si troverebbero in una situazione simile a quella di quei clienti con cui trattano quotidianamente:

Come il cliente che chiama il numero verde delle patatine non riuscirà mai a parlare con il padrone dell’azienda che le frigge, così anche l’operatore del call centre non può avere contatti con il suo datore di lavoro [...] I dirigenti veri non si vedono mai tra le postazioni. Non sono come i padroni al tempo della rivoluzione industriale che passavano tra le macchine. Anche questi nuovi capitani d’industria sono invisibili come la loro azienda. (IPN 19)

  • 9 Volponi, Paolo, Memoriale [1962], Einaudi, Torino, 1991, pp. 11-12.

8Se il call center rappresenta l’apoteosi del processo di mercificazione e di smaterializzazione della realtà, è la storia della fabbrica a rivelare come ciò sia andato gradualmente verificandosi. In origine, e fino agli anni ’50 o ’60 del Novecento, la fabbrica era un luogo con una propria, e ben determinata, fisicità, basti pensare ad esempio alla descrizione che di essa fa Albino Saluggia, il protagonista del romanzo Memoriale di Volponi (“la fabbrica grandissima e bassa, ronzava indifferente, ferma come il lago di Candia in certe sere in cui è il solo, in mezzo a tutto il paesaggio, ad avere luce. [...] La fabbrica era così grande e pulita, così misteriosa che uno non poteva nemmeno pensare se era bella o brutta”9) oppure alla funzione della sirena che non solo scandiva la vita degli operai, ma anche quella di chi stava a casa o dei bambini che dovevano andare a scuola (FA 49). Viceversa, la fabbrica odierna è in un certo senso più simile a un call center che a quella specie di “istituzione” che avevano conosciuto il nonno e il padre di Fausto (uno dei protagonisti di Fabbrica) o il signor Musetti padre in “Il mare che non c’è”. Sebbene Alfonso Musetti lavori nella stessa ditta in cui aveva lavorato suo padre, l’Ilva (ex Italsider) di Taranto, dice chiaramente: “la fabbrica che [...] avevo di fronte a me non era quella in cui aveva lavorato mio padre [...] del luogo fisico in cui mio padre allora lavorava non ho alcuna immagine” (CSI 300-01). Anche il capoturno Fausto di Fabbrica illustra l'evoluzione di questa istituzione. Egli individua tre età della fabbrica: quella di suo nonno, ovvero “l’era dei giganti” cioè fatta di uomini duri pronti a qualsiasi fatica e sacrificio pur di far bene il proprio lavoro; quella di suo padre o della “aristocrazia operaia”, fatta di uomini “che l’acciaio non ce l’avevano mica più nelle braccia ma nel cervello [...] che ai tempi del fascismo, pure se erano comunisti e anarchici, il padrone non li licenziava perché si erano resi indispensabili alla produzione” (FA 94); e in fine l’epoca contemporanea o “l’età degli storpi”, non perché restino in fabbrica, come sostiene Fausto, solo quelli che hanno avuto una disgrazia, ma perché la filosofia del profitto ha fatto sì che la rapidità di produzione sia più importante della sicurezza degli operai, con un conseguente aumento degli infortuni sul lavoro o di malattie causate dall’inquinamento industriale. I dati epidemiologici dell’ASL riportati da Bellucci in “Il mare che non c’è” parlano chiaro: “A Taranto [...] dal 1971 al 1998 le morti per cancro sono raddoppiate (da 124 a 244). Negli ultimi venticinque anni almeno 6000 decessi sono stati provocati da malattie dell’apparato respiratorio. Queste patologie, nel 40% dei casi sono attribuibili all’inquinamento industriale” (CSI 314). E ancora il signor Musetti padre, ricordando il treno nastri su cui aveva passato una vita, prima di essere licenziato al compimento dei 50 anni, dice:

Ultimamente ho anche saputo che un amico è caduto nella via rulli: sembra strano che uno che uno che ha sempre fatto quel lavoro cada così, anche perché sul treno si può operare solo se è fermo. Quanto agli infortuni, ce n’erano anche allora, ma non mortali. Nell’indotto sì, ma non all’Italsider. (CSI 295)

9Raccontare il lavoro in fabbrica significa raccontare, come fanno i protagonisti di Celestini, i segni che il lavoro ha lasciato sul proprio corpo perché un operaio “il suo lavoro l’ha sempre fatto senza parlarne tanto” e quindi quando comincia a parlare “più che raccontarti il suo lavoro quell’operaio comincia a compiere i movimenti che la memoria del suo corpo conosce e riconosce” (FA IX). Particolarmente interessante è anche il caso di Marisa, ex operaia ormai novantenne, ma ancora orgogliosa di esibire le deformazioni fisiche causate dal lavoro in fabbrica. Marisa sembra quasi stupita che le ossa delle sue mani non si siano pienamente adattate, in 37 anni di servizio, al ritmo sempre più incalzante del cottimo che l’aveva costretta a passare dal montare 120 molle all’ora alle 500, e abbiano finito per deformarsi nonostante si sia sempre presa molta cura di esse (FA 94-95). Ma se quella descritta da Marisa è la realtà della fabbrica, in cosa si differenzia quella dei call center? Non in molto per la verità. Anche in questo caso il lavoro continua a mietere vittime:

Andrea se n’è andato perché lo stress era troppo forte. Invalido civile al 76 per cento lavorava con un by-pass aortico, non riusciva a respirare. Cecilia, sarta e laureata in storia dell’arte ha contato fino a cinquemila cliccate sul mouse al giorno. Un sovraccarico biomeccanico che le ha portato un problema al pollice, poi all’indice. Poi ha girato il mouse, ha lavorato un altro po’ di tempo e le si è gonfiata la mano. Morbo di De Qurvain associato al tunnel carpale, una specie di tendinite. Ha provato a usare la sinistra, ma il mouse è legato alla scrivania e la catena è troppo corta [...] Così neanche a Cecilia hanno rinnovato il contratto (IPN 39-40)

  • 10 Basaglia, Franco, L’istituzione negata [1968], Milano, Baldini e Castoldi, 1998.

10Nei call center sembrano vigere condizioni di schiavismo simili a quelle degli albori dell’era industriale, tanto che Celestini, per riferirsi sia al call center che alla fabbrica, usa il concetto di istituzione limite, sviluppata da Basaglia in uno studio sui manicomi pubblicato nel 1968 (L’istituzione negata)10. Secondo lo psichiatra veneziano sono istituzioni limite tutte quelle istituzioni (come famiglia, ospedale, prigione, fabbrica, università, ecc.) fondate sulla netta distinzione dei ruoli e accomunate dall’uso di violenza “da chi ha il coltello dalla parte del manico, su chi è irrimediabilmente succube” (cfr. IPN 18 e 47; FA XI e 62). A proposito di violenza, è interessante soffermarsi brevemente sulla figura degli Ats, gli assistenti di sala: una sorta di supervisori che controllano il lavoro e forniscono supporto tecnico agli operatori, ma che spesso, racconta Celestini, vengono chiamati dagli operatori dei call center “Kapò”, proprio per istituire una sorta di parallelismo esasperato con le condizioni lavorative a cui erano sottoposti i deportati nei Lager nazisti (IPN 17):

Girano, controllano, minacciano e tutto questo col sorriso sulle labbra vestiti con i loro completi grigi o inguainate nelle vertiginose minigonne, per rendere l’amaro calice meno indigesto. Quasi nessuno di loro ha un contratto a tempo indeterminato [...] eppure appena un operatore diventa Ats la prima cosa che fa è comprarsi il vestito nuovo [...] perché l’azienda li ha investiti di un’autorità, gli ha consegnato un ruolo. (IPN 18-19)

11Ilardi, significativamente, sottolinea che oggi l’organizzazione del lavoro “non solo esprime rapporti servili, feudali, estremamente gerarchicizzati” ma pretende anche “dagli addetti ai servizi disponibilità per 16 ore su 24 e sette giorni su sette, senza pensione e assistenza sanitaria, sfatando il mito dell’autoregolamentazione dei tempi del lavoro e della mansione ricca di contenuti” (INDS 41). Secondo Ilardi, il trucco che ha permesso a un simile sistema di funzionare senza intoppi particolari è stato quello di far sì che i lavoratori sapessero poco o nulla della vita pubblicitaria dei prodotti e i consumatori non venissero a conoscenza del processo produttivo degli articoli che acquistavano (INDS 114). In tal modo le multinazionali non sono mai state soggette “agli stessi controlli di qualità e trasparenza che chiediamo per istituzioni pubbliche” (INDS 115) e il loro potere è cresciuto a dismisura.

12Nel caso della vecchia fabbrica invece, oltre alla mera necessità, erano il senso di continuità e la possibilità di identificarsi con un luogo o, in alcuni casi, l’orgoglio di far bene il proprio lavoro a far accettare agli operai condizioni di lavoro altrettanto opprimenti di quelle degli operatori dei call center o dei loro colleghi cinesi. Pur nella sua monotonia alienante, il lavoro dava un senso alla vita dell’operaio, un ritmo senza il quale si sarebbe sentito perso, e lo rendeva simile a quelle scimmie dello zoo che, anche quando le porte della gabbia sono aperte, restano dentro a mangiare la propria banana invece di scappare (FA 75). Dice il signor Musetti a proposito del suo ultimo giorno in acciaieria: “ho preso le mie cose e me ne sono andato. Erano indumenti di lavoro. Dopo è subentrata la tristezza, perché avrei perso l’andamento, il ritmo” (CSI 296). Musetti figlio ricorda che suo padre era un responsabile della manutenzione e aveva sotto di sé degli operai. Suo padre però non era un capo, faceva solo il capo e “gli operai che coordinava erano quelli con cui sugli impianti si sporcava le mani, erano gli amici con cui, se il tempo era buono, andava a pesca” (CSI 300). Tutto quello gli era stato possibile perché l’acciaieria di un tempo era completamente diversa da quella in cui lavorava il figlio: “l’Ilva di Riva mio padre non l’ha mai conosciuta né ha conosciuto gli operai dell’Ilva. Lì certo non avrebbe potuto ricoprire la mansione che ricopriva come la ricopriva, cioè con lealtà nei confronti degli altri lavoratori” (CSI 300-01).

13Quello che manca oggi è la solidarietà perché, come si è visto, viviamo in un mondo in cui al cittadino si è sostituito il consumatore che per sua natura è sempre egoista e focalizzato su se stesso in quanto la spinta al consumo “ha radici antropologiche nella competizione, nella violenza, nella distruzione incessante di ordini sociali, legami, gerarchie, valori che si vogliono consolidare attraverso la tradizione, la memoria collettiva, la storia” (INDS 45; TNL 88). Il declino del cittadino a favore dell’individuo metropolitano “isolato, massificato, particolarizzato, conflittuale e intollerante di ogni dipendenza” (TNL 88) ha portato anche al declino della politica. Secondo gli autori qui persi in esame, tale crisi si riflette chiaramente nell’immagine del sindacato che viene ormai visto come un’istituzione obsoleta e quasi inutile. Mentre Musetti padre in “Il mare che non c’è” insiste sull’equivalenza lavoratori = sindacato, il figlio non può condividere una simile opinione (CSI 296). Per i giovani lavoratori il sindacato è un luogo di potere che ha ben poco a che fare con la loro realtà lavorativa perché, come fa notare Massimo in I precari nono esistono, dirigenti e politici “sono completamente separati dalla realtà. Al massimo quelli di sinistra riescono a interpretarla ma non la vivono e non la conoscono” (IPN 52). Quando i lavoratori si organizzano e creano delle forme di protesta, la loro scelta non è più una scelta fondata su qualche ideologia, ma è dettata dalla necessità e dalla presa di coscienza che nessun altro, oltre loro stessi, può realmente migliorare le condizioni di lavoro (IPN 62). Le parole di Massimo sembrano confermare la teoria di Ilardi sulla mutata natura delle lotte sociali ormai incentrate solo su una microconflittualità “legata al raggiungimento di obbiettivi concreti e minimi” e aventi un “carattere meramente rivendicativo” (INDS 53). Celestini sottolinea che i ragazzi del collettivo Atesia lottano non per conquistare nuovi diritti, come facevano i lavoratori del passato, ma per far rispettare le leggi vigenti (IPN 48). Azioni di più ampio respiro sarebbero impensabili anche perché in posti come un call center il personale muta in continuazione (viene licenziato o si dimette volontariamente perché gli è impossibile sopravvivere nelle condizioni impostegli dall’azienda) e questa discontinuità dà ancora più potere al datore di lavoro:

Arriva l’estate del 2007 e del Collettivo non rimane quasi più nessuno nel call centre. Poi quasi tutti vengono raggiunti da avvisi di garanzia per manifestazione non autorizzata, un presunto picchetto e per aver pronunciato slogan contro la stessa società e contro il lavoro precario (IPN 46).

14Secondo Ilardi, il rischio di questo tipo di conflitto è che resti un’opposizione interna al sistema, una specie di regolamento di conti o una lotta anarchica simile a quelle di cui parlava Foucault già nel 1983 (TNL 87). In realtà, però, Ilardi sostiene anche l’assoluta importanza di questi “movimenti autonomi, radicati sul territorio con obbiettivi precisi” (INDS 121) perché per sconfiggere il globale bisogna ritornare al locale e solo grazie a questi movimenti si può sperare di “tradurre direttamente in azione il rapporto conflittuale tra locale e globale” (INDS 121). Anche i ragazzi del Collettivo Atesia credono nell’importanza del fare, soprattutto Peppe che prende come modello Fortini quando a proposito delle quattro fasi del metodo dice “che si deve partire dal sapere, passare per il far sapere, saper fare e arrivare al fare” (IPN 40), nonostante questa sia la fase più dolorosa e complicata. Diretta conseguenza di ciò, sostiene Ilardi, è una ridefinizione della nozione di luogo che

non indica più unidentità ma la trasformazione sociale, la rivolta, il conflitto e la sua intensità. ‘Luogo’ può essere un ponte o un’autostrada, un teatro o una discarica, uno shopping mall o una torre della radio, poco importa la sua tipologia o la sua forma; importa invece l’intensità politica che sprigiona nel momento in cui si pone come fattore di critica dell’ordine consolidato del mercato e delle sue istituzioni (INDS 121).

15Ancora una volta gli autori qui esaminati sembrano concordare sulla centralità del luogo e della sua forza politica. Risulta particolarmente interessante a tale proposito il provocatorio incipit di I precari non esistono:

Il lavoro precario non esiste. La flessibilità non esiste, ma nemmeno il lavoro per sempre, il posto fisso. Nono esiste il mercato del lavoro. Anzi potremmo dire che non esistono né il mercato, la globalizzazione, il trend. Ci sono gli esseri umani con nome e cognome. Ci sono i luoghi in cui abitano, in cui vanno a lavorare e quelli che attraversano per arrivarci (IPN 43)

16Questa insistenza sul luogo è legata alla riscoperta del locale, nel senso di parziale o di parte, cioè di qualcosa che sottolinei il coinvolgimento dell’individuo nella realtà che lo circonda.

17Per concludere, è necessario prendere in esame l’altra questione a cui si era accennato in apertura, ovvero quella delle problematiche che si pongono a chi desidera rappresentare questa nuova realtà sociale e lavorativa tutta incentrata sulla precarietà. In un mondo dominato dalle immagini si produce un eccesso di estetica che porta ad attribuire alla realtà uno statuto identico a quello dell’opera d’arte o, meglio, all’incapacità di distinguere tra arte e vita. In un saggio intitolato “Il responsabile dello stile” (anch’esso pubblicato nel volume Il corpo e il sangue d’Italia), Antonio Pascale fa notare come vita narrativa e realtà contingente finiscano per sovrapporsi, senza però che le due dimensioni entrino mai in conflitto, producendo una perpetua teatralizzazione del sé (CSI 90). Questo, a sua volta, ha come effetto l’estetizzazione del dolore e la riduzione dell’esperienza a qualcosa di privo di consistenza materiale (cfr. TNL 33). Pascale sostiene che questa forma di teatralizzazione del sé impone l’uso costante del primo piano che annulla lo sfondo di riferimento e mette tutto in bella luce rimuovendo le ombre. Ed è proprio contro questa tendenza che Christian Bosi, in I precari non esistono, si ribella quando dichiara:

Il pacchetto Welfare produrrà sicuramente un più alto numero di morti sul lavoro. E queste cose non vengono mai svelate, si punta sempre a banalizzare e a raccontare sempre la storia di vita in modo triste ma totalmente vuoto come fa la maggioranza dei programmi che vediamo in televisione (IPN 64)

  • 11 Pascale porta ad esempio una scena di Gomorra di Roberto Saviano; durante il funerale di Annalisa, (...)
  • 12 Moccia, Federico, Tre metri sopra il cielo [1992], Milano, Feltrinelli 2006.

18Lo stesso problema teorico è affrontato anche da Celestini. Da un lato egli sottolinea la necessità di scegliere un caso esemplare per dar visibilità a una categoria come quella dei precari altrimenti destinata a restare nell’ombra perché troppo eterogenea per essere trattata in modo esaustivo non solo nel ristretto ambito di uno spettacolo teatrale ma addirittura nelle pagine di un quotidiano (IPN 57); dall’altro invece è consapevole che con la scelta del caso limite si corre il rischio di estetizzare le emozioni o di cedere alla tentazione della carrellata che, come viene chiaramente messo in luce nel volume Il corpo e il sangue d’Italia, finirebbe per eliminare l’efficacia della narrazione precedente (CSI 83 e 91).11 Pascale mette a fuoco il nocciolo della questione quando sostiene che per essere narratori oggi bisogna astenersi da due tentazioni: in primo luogo dalla “volgarità dell’apocalisse” o, in altre parole, da quello che Ilardi chiama l’atteggiamento dell’intellettuale organico che, non più radicato in una parte sociale, trova rifugio in un distacco assoluto da un mondo che rifiuta di riconoscere perché dominato dall’incultura e dalla violenza non mediata dalla lotta di classe (TNL 79); in secondo luogo dalla seduzione del romanticismo, cioè proprio da quella tendenza che spinge a mettere arte e vita sullo stesso piano in modo da evitare qualsiasi conflitto. Il caso dei ragazzi che vanno a mettere i lucchetti attorno ai lampioni di Ponte Milvio, prendendo a modello i personaggi di Step e Babi nel romanzo di Federico Moccia Tre metri sopra il cielo12, è emblematico di tale fenomeno: essi non si identificano con Step e Babi, essi sono Step e Babi (CSI 89-90).

  • 13 Paradiso, Gustavo, “Scarcerare l’immaginazione per capire il mondo in cui viviamo”, in Id. Zibaldon (...)
  • 14 Celati, Gianni, Avventure in Africa, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 179.
  • 15 Ibid.

19I generi che meglio si adattano a esprimere la nuova realtà evitando i rischi sopra esposti sono perciò quelli misti, a metà tra reportage e narrativa. Come sottolinea il curatore della raccolta Il corpo e il sangue d’Italia, l’indagine o l’inchiesta di per sé non porta più a una conoscenza reale o a una provocazione etica in quanto si è trasformata in una specie di “turismo della realtà” (CSI 7). Il genere misto invece nasce proprio dalla necessità di creare un “nuovo alfabeto visivo e narrativo che ci permetta di distinguere seriamente la democrazia dal populismo, la partecipazione dall’esibizione” (CSI 94) e sottolinea l’importanza dell’essere di parte, cioè di riscoprire il valore del locale di cui si è parlato prima. In breve, per riappropriarsi della realtà, infrangendo quel filtro di immagini che ne impediscono la reale comprensione, bisogna passare attraverso la finzione o, per usare le parole di Gustavo Paradiso, “scarcerare l’immaginazione per capire il mondo in cui viviamo”13. Come diceva già Celati in Avventure in Africa nel 1998, i generi quali il documentario o il reportage non fanno altro che rafforzare quello “schermo di vetro che abbiamo in dotazione per vivere da queste parti”14 perché nel mondo occidentale è come se vivessimo in un perenne documentario “del nuovo totale, senza più niente di precario, di povero, di decaduto, rimediato, tarlato dal vento, scartato dal destino”15. Per rendere visibile una categoria come quella dei precari o una realtà come quella delle morti bianche bisogna riavvicinare due concetti spesso ritenuti incompatibili, cioè quello di politica e di poetica:

Dove il termine politica è da intendersi non nel senso classico delle dottrine politiche, bensì nel senso di luogo comune in cui parlare di cose che ci feriscono e che sono i muri dove sbattiamo la testa. Poetica, quindi, per parlare di ciò di cui è impossibile parlare, perché la comunicazione produce questa impossibilità, questo muro, e solo buttandosi a testa bassa contro il muro alla fine può venirne fuori qualcosa16.

  • 17 Murgia, Michela, Il mondo deve sapere, Milano, ISBN Edizioni, 2006.
  • 18 Celestini, Ascanio, Parole sante, Roma, Fandango, 2007.

20I testi qui presi in esame e la maggior parte dei testi dedicati alle problematiche del lavoro editi negli ultimi anni rappresentano un esempio di tale necessità. Significativamente, alcuni di questi, come ad esempio Il mondo deve sapere di Michela Murgia17, sono usciti prima in rete a conferma dell’urgenza del problema. Se siano più o meno riusciti da un punto di vista letterario è di scarsa importanza in questo contesto. Quel che conta è che rappresentano una tendenza verso nuove forme di impegno, non più basate sull’ideologia ma sul potere della parola. In un simile contesto, naturalmente, emerge anche l’importanza del teatro, soprattutto di un teatro come quello di Celestini e di altri autori quali Paolini o Baliani, fondato sulla narrazione orale che, come la proverbiale goccia di Parole sante18 la quale a forza di cadere provoca un diluvio, può trasformarsi in messaggio politico e quindi in un invito all'azione.

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Note

1 Ilardi, Massimo, In nome della Strada. Libertà e violenza, Roma, Meltemi, 2002, pp. 39-40 (d’ora in poi INDS seguito dal numero di pagina).

2 Debord, Guy , La società dello spettacolo, Bolsena, Massari Editore, 2002, p. 46.

3 Ilardi, Massimo, Il tramonto dei non luoghi, Roma, Meltemi, 2007, p. 23 (d’ora in poi TNL seguito dal numero di pagina).

4 Balestrini Nanni, “Piccolo appello ai nostri beneamati lettori”, in Id., La grande rivolta, Bompiani, Milano 1999, pp. V-VII.

5 A questo punto è interessante aprire una piccola parentesi e notare che il giornale inglese The Guardian, in un articolo sull’epidemia di influenza suina, intitolato “La vendetta dei maiali”, criticava proprio la mentalità della maggior parte dei consumatori i quali, per decenni, hanno ingoiato braciole e salsicce a “basso costo” accettando, magari, anche le numerose offerte di prestiti super agevolati per aumentare il proprio potere d’acquisto senza porsi nessuna domanda su come ciò potesse verificarsi e sulle possibili conseguenze di un simile sistema (Lawrence, Felicity, “The Pigs’ Revenge”, The Guardian, 2 May 2009).

6 Celestini, Ascanio, I precari non esistono, Roma, Fandango Libri: 2008, p. 49 (d’ora in poi IPN seguito dal numero di pagina).

7 Celestini, Ascanio, Fabbrica, Roma, Donzelli, 2003 (d’ora in poi FA seguito dal numero di pagina).

8 Raimo, Christian (a cura di), Il corpo e il sangue d’Italia, Roma, minimum fax, 2007 (d’ora in poi CSI seguito dal numero di pagina).

9 Volponi, Paolo, Memoriale [1962], Einaudi, Torino, 1991, pp. 11-12.

10 Basaglia, Franco, L’istituzione negata [1968], Milano, Baldini e Castoldi, 1998.

11 Pascale porta ad esempio una scena di Gomorra di Roberto Saviano; durante il funerale di Annalisa, il cellulare della ragazza viene fatto macabramente squillare da un amica. Secondo Pascale, sebbene uno scrittore debba sentirsi libero di sacrificare una certa dose di verità per una maggiore riuscita narrativa, in questo caso il dettaglio era inutile ed eccessivamente sentimentale. Inoltre il cellulare di Annalisa non avrebbe potuto emettere alcun suono perché era spento (CSI 82-83).

12 Moccia, Federico, Tre metri sopra il cielo [1992], Milano, Feltrinelli 2006.

13 Paradiso, Gustavo, “Scarcerare l’immaginazione per capire il mondo in cui viviamo”, in Id. Zibaldoni e altre meraviglie, http://www.zibaldoni.it/wsc/default.asp?PagePart=page&StrIdPaginatorMenu=39&StrIdPaginator Sezioni=222&StrIdPaginatorNomeSezione=GUSTAVO+PARADISO%2F+Scarcerare (consultato il 5 giugno 2009).

14 Celati, Gianni, Avventure in Africa, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 179.

15 Ibid.

16 Cfr. la rubrica “Politica Poetica” della rivista online Zibaldoni (http://www.zibaldoni.it/wsc/default.asp?PagePart=menusection&StrIdPaginatorMenu=31, consultato 5 maggio 2009)

17 Murgia, Michela, Il mondo deve sapere, Milano, ISBN Edizioni, 2006.

18 Celestini, Ascanio, Parole sante, Roma, Fandango, 2007.

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Laura Rorato e Claudio Brancaleoni, «Dalla fabbrica al call center: la smaterializzazione della metropoli contemporanea»Narrativa, 31/32 | 2010, 89-100.

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Laura Rorato e Claudio Brancaleoni, «Dalla fabbrica al call center: la smaterializzazione della metropoli contemporanea»Narrativa [Online], 31/32 | 2010, online dal 01 juin 2022, consultato il 05 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/narrativa/1549; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/narrativa.1549

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