Il turismo bellico. Sulle categorie del riso nell’immaginario postcoloniale italiano
Testo integrale
…e il mondo colonial
si crede intellettual
come un teatro in silenzio
e il mondo colonial
si crede spiritual.
Paolo Conte, India
1Iniziamo con una citazione dall’Ottava vibrazione di Carlo Lucarelli, romanzo incentrato sulla disfatta di Adua:
- 1 Lucarelli, Carlo, L’ottava vibrazione, Torino, Einaudi, 2008, p. 433.
“È la più grande sconfitta mai subita da un esercito coloniale europeo. Seimila morti tra ascari e nazionali, millecinquecento feriti e duemila che sono ancora prigionieri. E tutta l’artiglieria persa. Un corpo di spedizione di diciassettemila uomini distrutto. Ci sta ridendo dietro tutto il mondo.”
“Io non vedo molta gente che ride.”
Il tenente dell’ufficio politico lanciò a Vittorio un’occhiata diffidente, poi guardò il capitano Colaprico, che si strinse nelle spalle.
“Ironia,” disse il capitano.
“Non c’è tempo per l’ironia, e magari, se siamo ridotti in questo modo, è perché siamo stati troppo ironici.”
[…] No, non c’è tempo per l’ironia, pensa il tenente dell’ufficio politico1.
2Le parole che Lucarelli mette in bocca ai suoi personaggi sono probabilmente le più importanti dell’intero romanzo e sottolineano gli errori madornali commessi più o meno da tutti coloro che presero parte alle varie spedizioni italiane nel continente nero (e non solo quello) e l’approccio poco serio alla campagna. Nonostante i roboanti proclami e l’avventato decisionismo imperialista, à la guerre non si parte comme à la guerre ma spesso quasi en touriste. Il romanzo racconta il pressappochismo delle gerarchie nepotiste e l’approssimazione con cui il “materiale umano” porta avanti l’intera operazione coloniale. Lo spirito da scampagnata, da gita fuori porta, permea le spedizioni di conquista con la vile pecunia a fungere come solo ideale da perseguire con l’inevitabile tragico finale.
3Il passo tratto dal libro di Lucarelli indica l’ironia quale chiave inattesa ma imprescindibile nella comprensione delle imprese coloniali italiane. Quella di Lucarelli è un’indicazione utilissima anche quando si tratta di sondare dal punto di vista critico le opere letterarie che hanno raccontato l’epopea italiana oltremare. A dire il vero, poche tra loro hanno scelto la cifra del riso nelle sue varie manifestazioni (nella gamma che va dall’ironia al grottesco) nella resa dell’avventura coloniale italiana, anche se il riso talvolta sembra imporsi da sé. Nemmeno i saggisti di chiara fama riescono a rifuggirne (viene in mente qualche passaggio dello storico inglese Denis Mack Smith e del volume Mussolini’s Roman Empire, 1976, in cui una strisciante ironia sembra serpeggiare). Tanta e tale è la tragicomica pantomima delle guerre d’Africa.
4L’opera di Lucarelli ricorre alle modalità di scrittura legate al riso nella narrazione in maniera non rilevante. Al di là dei lampi di comicità semplice (che, ricorrendo alle categorie pirandelliane, diremmo dell’avvertimento del contrario) legati soprattutto all’impiego del groviglio dialettale italiano da parte dei quadri militari e agli omaggi alla classe intellettuale nell’onomastica del romanzo (i vari Pasolini, Colaprico, Serra, Perissinotto e un indigeno di nome Dante), c’è ben poco in questo senso. Gli unici momenti di una qualche profondità legati al riso (che qui virerebbe verso il sentimento del contrario) sono quelli riferibili alla sottotrama del soldato Sciortino Pasquale, abruzzese di Sant’Elia, un omaggio all’io narrante flaianeo con l’inversione finale. Lucarelli sembra si diverta a rovesciare la storia dello scrittore abruzzese nelle avventure di Sciortino. Se nel romanzo del ’47 il protagonista si smarrisce nel deserto, conosce una donna con cui si congiunge carnalmente e che poi uccide (è il delitto attorno cui ruota l’intero romanzo), nel libro dello scrittore felsineo Sciortino, abruzzese come Flaiano, si smarrisce nel deserto anche lui e conosce una donna etiope con cui inizia una bizzarra convivenza basata sulla condivisione dei bisogni primari dell’uomo. Paradossalmente (e contrariamente a quanto accade nel libro di Flaiano) la storia di Sciortino, finito in guerra in seguito a una serie di sfortunati eventi (nessuno l’aveva avvisato di nascondersi per evitare la leva) è probabilmente l’unica che si conclude con il lieto fine.
- 2 “Camminavo forse da un’ora quando vidi il camaleonte. Brava bestiola. Stava attraversando il sentie (...)
5Lo stesso Flaiano, probabilmente il maggior aforista e scrittore satirico del Novecento italiano, sorprendentemente evita di percorrere le strade che portano al riso e, salvo alcune memorabili battute in apertura di romanzo2, lo scrittore di Pescara mette la propria precisione verbale al servizio della côté esistenzialista del libro arrivando a tratti ad atmosfere simili a quelle di un altro importantissimo romanzo in lieve odor di postcoloniale, almeno nell’escapismo del titolo, Il deserto dei Tartari (1940) buzzattiano, e che a piccole dosi aveva tra le righe la medesima dolorosa ironia nel raccontare la vita andata a male di Giovanni Drogo, inutilmente spesa nell’attesa assurda nella fortezza Bastiani, nel suo tempo non lineare, logaritmico, che fluisce insensibile scandendo la vita del protagonista dapprima ignaro e poi tardivamente consapevole della corrente di vita e di morte che ci avviluppa.
6Altri scrittori, non moltissimi a dire il vero, dal secondo dopoguerra a oggi sceglieranno invece proprio il riso come il modus per raccontare l’avventura coloniale italiana. Due i probabili motivi, banalissimi, di una scelta simile.
- 3 Cfr. Pirandello, Luigi, Umorismo e altri saggi, a cura di P. Gibellini, Firenze, Giunti, 1994, p. 1 (...)
7Pirandello nell’Umorismo (1908) dice più o meno che “l’avversione alla realtà è all’origine di ogni satira”3 ed è indubbiamente questo il motivo principale della scelta del riso come chiave della rappresentazione del colonialismo italiano. Il secondo, non meno accreditato, potrebbe essere quello di non esser riusciti, “freudianamente”, a elaborare il lutto della sconfitta donde la necessità di ricorrere alla maschera del riso nella resa letteraria. In entrambi i casi si necessita del distacco per poter mettere in funzione l’ironia, il comico, il grottesco, la satira ecc. Il distacco negli scrittori presi in esame oltre ad essere meramente cronologico nasce anche dallo scarso patriottismo nei confronti innanzitutto della madrepatria fascista di cui la colonia, fatte le proporzioni del caso, è un franchising.
8Lo scrittore spezzino Gian Carlo Fusco (La Spezia, 1915 – Roma, 1984) mette così insieme un reportage finto nel suo Guerra d’Albania (apparso dapprima nel 1961 ora riapparso per i tipi della Sellerio dove è in corso di ripubblicazione l’intero opus del giornalista). Il titolo è già di per sé satirico e lo scafato articolista Fusco lo sa. L’Albania era già in possesso dell’Italia, una sua colonia, e la campagna narrata era in realtà contro la Grecia e solo dopo la disastrosa sconfitta contro gli ellenici si trasforma nella disperata guerra di posizione sull’accidentato suolo albanese. I cromatismi impiegati da Fusco rendono molto bene l’idea della situazione che si viene subito a creare: il fango marrone fino alle ginocchia e l’esercito greco (uniformi marroni!) che avanza a valanga inducono quasi a pensare ad una metafora scatologica. Il reportage ripercorre le atmosfere da villeggiatura con il soundratck del Trio Lescano e affini alternandole a concisi rendiconti di battaglie, movimenti al fronte e dati tecnici che non lasciano spazio ai dubbi: una spedizione bellica gestita con cotanta stupidità non può portare che ad un finale disastroso:
- 4 Fusco, Gian Carlo, Guerra d’Albania, Palermo, Sellerio, 2006, p. 138.
La guerra d’Albania, ch’era cominciata il 28 ottobre 1940 col delittuoso sacrificio della “Julia”, si chiuse definitivamente, dopo tre anni, con l’assassinio della “Acqui”. Trentacinque mesi di stupidità, d’incompetenza, di ferocia insensata e di sacrifici inutili, fra due parentesi rosse di sangue, nere di morte4.
- 5 Fusco, Gian Carlo, L’Iitalia al dente, Palermo, Sellerio, 2002.
9Fusco aveva affrontato l’argomento delle spedizioni belliche italiane in Albania e in Africa in maniera umoristica anche in L’Italia al dente5 dove in La “Norma” della vigilia, ripropone il quadro macchiettistico della vita nelle retrovie in cui furti e furtarelli di vettovaglie si risolvono in un finale all’italiana (molto democraticamente, con più pasta per tutti, amnistia e l’ordine di varcare il confine); nella medesima silloge, è interessante anche il testo Trenette ai datteri per Ras Tafari in cui un’occasione diplomatica delicatissima tra l’Italia del Duce e l’Etiopia si risolve in un aneddoto sulla pasta. Nello stesso volume e con lo stesso registro viene raccontata persino la vicenda delle truppe inviate segretamente da Mussolini in sostegno a Franco per conquistare la Spagna “rossa”, durante la Guerra civile spagnola (La pasta fritta del colonnello Vagliacoff). Il finale del testo è eloquente e racchiude più o meno i propositi dell’autore: “Ma la pasta fritta di Vagliasindi, per poterla riassaggiare, varrebbe la pena di rifare da capo la guerra di Spagna!” (p. 42). La guerra, insomma, viene raccontata ridendo e con la bocca piena.
- 6 Chiara, Piero, La stanza del vescovo, a cura di Giancarlo Vigorelli, Milano, Mondadori, 1976. D’ora (...)
10Altro romanzo, di poco posteriore ai lavori di Fusco, e che ricorre al riso in relazione alle spedizioni africane è il bestseller di Piero Chiara6, La stanza del vescovo (1976), che ricama sulle avventure coloniali avvalendosene come contrappunto umoristico in una fosca vicenda d’omicidi lacustri. Questo breve romanzo, che mescola abilmente alcuni moduli del giallo a frequenti squarci erotici, comici e di satira sociale, si garantisce da subito l’interesse del grande pubblico, con centinaia di migliaia di copie vendute, traduzioni e ristampe. Tuttavia il testo esibisce, oltre la superficie brillante delle vicende dei protagonisti, alcuni nuclei tematici reconditi.
11A differenza di molte altre opere di Chiara, la geografia dei grandi laghi settentrionali pare andare stretta allo scrittore di Luino che per l’occasione decide di sovrapporle una maschera mediterranea che ottiene sostanzialmente con due procedimenti.
- 7 L’autore dissemina nel testo rimandi “mediterranei” come questo: “Risalendo verso nord, mi trovai d (...)
12Il primo, più evidente, è quello del travestimento tramite cui le isolette Borromee del lago Maggiore e le località del litorale dove si svolge il picaresco cabotaggio delle due barche, Lady e Tinca, finiscono col somigliare molto (voglia di fuga postbellica? Il romanzo si svolge nel ’46) a un arcipelago mediterraneo assolato e sovrastato dal cielo azzurro. Chiara ottiene quest’effetto mediante l’accurata scelta dei vocaboli in certe descrizioni unita alla notevole dose di terminologia marinaresca e a certi altri riferimenti nient’affatto peregrini7 presenti nel romanzo, mentre il secondo è meno ovvio e affonda nel profondo del tessuto narrativo.
- 8 A proposito delle avventure africane di Orimbelli leggiamo: “Il dottor Orimbelli, profittando dell’ (...)
13L’antieroe della Stanza del vescovo, Temistocle Mario Orimbelli è uno dei personaggi più riusciti di Piero Chiara: mellifluo, cialtrone, laido, irresistibile, così affamato di vita da arrivare al delitto. Ugo Tognazzi, nel film, ne darà un’incarnazione superlativa, mettendoci molto delle proprie passioni ero-culinarie e aggiungendo un tocco di malinconia straziante. Il personaggio in questione è fondamentale nell’intento di Chiara di dare al libro un tocco d’esotismo mediterraneo. Orimbelli è un veterano della Guerra d’Africa8 e sin dall’aspetto fisico è evidente l’intento esotico perché l’uomo “pareva un giapponese e comunque un mongolo, dagli occhi a mandorla ma con gli angoli esterni verso il basso” (SV, 4) e persino il narratore, una volta ospite di Orimbelli, sua moglie e della cognata, vedova Berlusconi, a Villa Cleofe viene preso per “qualche suo poco raccomandabile compagno d’Africa o di Napoli” (SV, 7).
14Per Temistocle Mario Orimbelli vale l’adagio cardine dell’onomastica, nomina sunt consequentia rerum. Il nome roboante che Chiara gli assegna ne fa una parodia di un eroe coloniale dal piglio marziale. Se Temistocle e Mario furono due grandi condottieri, uno greco, l’altro romano, il personaggio di Chiara sembra essere piuttosto un conquistatore da diporto: “Aveva tolto dal suo guardaroba camiciole, calzoni corti, scarpe da tennis, un cappello di tela, maglioni, mutandine da bagno un po’ antiquate e una ’sahariana’ bianca. A tracolla aveva il suo ’Zeiss’” (SV, 14). Lo dimostra anche il suo cognome, se opportunamente analizzato. Orimbelli è facilmente divisibile in “Ori” e “imbelli” e da un’operazione simile si ricava la natura truffaldina dell’uomo, partito, come del resto molti degli italiani, in cerca delle facili fortune e bottini nel continente nero. Lo stesso autore pare voler dare indizi in questo senso:
“Temistocle Mario Orimbelli” mi ripetevo, quasi che quelle tre iniziali un po’ cabalistiche potessero servirmi come chiave per entrare nel mistero della sua vita, se nella sua vita c’era un mistero e non soltanto quel po’ di tattica che occorre sempre ai fannulloni per far buona carne in ogni tempo e in ogni circostanza (SV, 50).
15Il losco figuro, poi omicida e suicida, si dà così nel testo:
Seppi che era figlio unico di un oste milanese il quale l’aveva fatto studiare e diventare avvocato, o almeno dottore in legge, a forza di bonificare pranzi ai professori. Ancora studente, il futuro dottore in legge aveva cominciato a spillar soldi al padre, che doveva guadagnarne molti. Appena compiuti i ventuno anni sfrecciava con un’automobile rossa per le vie di Milano. Compariva regolarmente a San Siro al tempo delle corse e frequentava come un abbonato le case d’appuntamento e quelle di tolleranza. Uno scapestrato e crapulone che finì coll’affascinare, appena laureato, la figlia di un ricchissimo setaiolo. La sposò credendo di poterne dilapidare il patrimonio, ma si accorse presto di aver trovato un osso molto duro da spolpare. Deluso, andò volontario alla guerra d’Africa, dalla quale tornò dieci anni dopo raccontando un mucchio di fandonie. In verità dopo l’Africa aveva vissuto a Napoli, dove era stato anche in prigione. Da qualche mese era comparso a Oggebbio, fresco come una rosa, per vivere alle spalle della moglie (SV, 20-21).
- 9 “Con l’aiuto di Domenico che era andato a prendere tenaglia, martello e scalpello, il baule venne a (...)
16Si fondono nella Stanza del vescovo due motivi cardine della narrativa di Chiara, la sua genetica lacustre, quasi da contastorie, e un’altra, mediterranea, che si rivela nella vastissima bibliografia dello scrittore con i lavori dedicati agli amatori latini quali D’Annunzio, Casanova, a Boccaccio e al suo opus magnum, all’iberico Gòngora, tradotto da Chiara. La parola Africa abbinata alla guerra ricorre frequentemente nel romanzo con le reminiscenze di Orimbelli, prodotto del dannunzianesimo deteriore, che millanta imprese mirabolanti accanto al generale Aimone Cat. Il suo passato è oscuro e avvolto in una nuvola della sabbia del deserto e la sua guerra coloniale è tutta nel suo grottesco baule pieno di memorabilia africane9. A leggerne se ne ride e il riso africano inganna perché, a sentirne profondamente la vicenda, il lettore deve provare dolore.
17Il capolavoro di Chiara si basa per lo più sulla valenza metamorfica delle parole “africane” che travestono il lago Maggiore avvalendosi dell’esotismo coloniale e della carica evocativa che i vocaboli ad esso legati hanno nell’immaginario collettivo. Non dissimile per certi versi è il romanzo grottesco La presa di Macallé di Andrea Camilleri (2003). La “priapata” in questione sembra la realizzazione pratica delle teorie di quel parasaggio di Gadda che è Eros e Priapo (scritto nel ’45 e apparso nel ’67).
18Il protagonista, Michilino, è un fascista seienne dotato di un membro di proporzioni gigantesche. Michelino ha fantasie esotiche per le quali si immedesima in Buffalo Bill che combatte gli indiani o immagina di fare guerra agli abissini (in una di queste fantasticherie massacra addirittura un cane con il coltello). A scuola dimostra di saper già leggere e scrivere e di aver assorbito la propaganda fascista e il padre decide di mandarlo a lezione privata dal professor Olimpio Gorgerino che ne abusa sessualmente con la scusa di insegnargli i costumi degli antichi spartani. Nel risvolto di copertina del volume Salvatore Silvano Nigro riassume così le vicende del bimbo:
Il sofistico professore Gorgerino, pedofilo e capo dell’opera nazionale balilla, lo denuda, e brutalizza il suo “loco spartano” per festeggiare di volta in volta la presa di Macallè, di Tacazzè, Adigrat, Amba Alagi, Amba Aradam, Axum. […] Vari teatri in un sol teatro spiega la mascherata pubblica organizzata con i balilla e le piccole italiane, per festeggiare la presa di Macallè; e onorare i caduti in guerra.
19L’educazione sentimentale grottesca vede le vicende africane entrare e condizionare l’altrimenti placida vita di provincia. La propaganda fascista e l’indottrinamento cattolico fanno il resto: un ragazzo viene ucciso durante la battaglia di Macallè e al sabato fascista viene messa in scena una ricostruzione della battaglia (definita “una minchiata sulenne” dai genitori del caduto), interpretata dai giovani balilla. Michelino fa la parte di un soldato italiano, mentre Alfio Maraventano fa l’abissino. Si scontrano, Alfio ha la meglio e Michelino preso dalla rabbia si ripromette di ucciderlo; scopre dove vivono i Maraventano, non lontano dalla casa della maestra. La sartoria ha la porta sempre aperta e Alfio fa i compiti su un tavolino volgendo la schiena all’entrata. Un giorno Michelino lo assalta e gli pianta la baionetta di balilla in gola, lasciandolo moribondo. La polizia attribuisce la responsabilità dell’assassinio al padre di Alfio. Alfio Maraventano finisce in ospedale, dove muore di tetano, con grande sollievo di Michelino che temeva di “dover rifare il lavoro daccapo”. A Camilleri riesce il difficile compito di portare avanti il romanzo per otto capitoli mantenendo il complesso equilibrio della discrasia tra il reale e l’ideale che caratterizza il modus grottesco. Il finale di un libro così ambiguo, però, non può che essere tragicissimo e il romanzo non può che essere un unicum nella produzione camilleriana e nella letteratura italiana tutta, come sottolinea Wu Ming 2:
- 10 Wu Ming 2, La presa di Macallé, in Nandropausa, n. 5, 3 dicembre 2003, http://www.wumingfoundation. (...)
Un capolavoro si riconosce dal suo essere inimitabile e un romanzo così, in Italia, non poteva che scriverlo Camilleri […] con la solita voce da cantastorie siculo, la consueta ironia, le situazioni da sganasciarsi, il tono leggero eppure con contenuti durissimi, radicali, neri come in nessuno degli strombazzatissimi noir degli ultimi tempi. […] Un romanzo implacabile sul potere disumano – anti-umano verrebbe da dire – di un certo cristianesimo, sugli orrori della propaganda, sullo schifo dello scontro di civiltà, l’abiezione dell’indottrinamento, la mania di infilarsi l’elmetto e dimenticarsi fuori il cervello. E tutto questo senza mai abbandonare quello strano sorriso, a volte carnascialesco, a volte sardonico, a volte sarcastico. Ma sempre, e comunque, impeccabile10.
20La mitologia di regime, le parate, le mascherate, l’orgoglio imperial-coloniale e il disprezzo per i popoli vinti così come una concezione distorta del binomio peccato-fede traviano un bambino di sei anni di cui abusano tutti e che è violato nel profondo della coscienza al punto da finire pluriassassino. La crudezza delle descrizioni, che riguardino i numerosi coiti presenti o i delitti compiuti con feroce inconsapevolezza da Michelino, non è nello stile di Camilleri e può spiazzare, ma la finalità non è attrarre il lettore con scene pruriginose quanto mostrare la violenza e l’ipocrisia della storia italiana recente e denunciarne l’opera distruttiva compiuta sulla psicologia di un bambino, un tradimento che vede alleati due fondamentali simboli della morale: la chiesa e la famiglia.
21Camilleri ripropone gli echi e le conseguenze delle vicende d’Africa anche nel recente Il nipote del Negus (2010), una satira di costume. Come sovente accade Camilleri parte da un fatto realmente accaduto e si assenta dalla storia come nella Scomparsa di Patò lasciando che il truffaldino nipote del titolo sconvolga con gesta tragicomiche le gerarchie fasciste, sociali e altre della solita Vigàta.
22Già a fine Ottocento, i caduti di Dogali che Carducci indicò in una lettera privata come “cinquecento contadini che non potendo scappare erano morti”, per D’Annunzio diverranno “quattrocento bruti morti brutalmente”, almeno nell’uscita di Andrea Sperelli, nelle prime pagine del Piacere (1889). Lo scrittore pescarese bandisce volontariamente ogni apertura al riso, ma il malumore per le imprese che poi appoggerà ampiamente e con gesti clamorosi nel romanzo d’esordio è tangibile. Il secondo dopoguerra, critico ed estendibile nella particolarissima situazione politica italiana dello stato a doppio fondo fino ai nostri giorni, non si avvale assolutamente solo dei realismi e dei neorealismi. La percezione dei fatti coloniali attraverso il prisma del riso sembra volerne portare la trattazione a un livello più alto, più complesso e letterariamente ricercato. Non basta più il resoconto storico, quasi a ricalcare i monumentali volumi di Angelo Del Boca (accade a Lucarelli). Flaiano, timidamente, traccia una strada che percorrono gli altri; il millantatore Fusco stravolgendo i reportage con uno stile ironico e al vetriolo, lasciandosi affascinare dall’esotismo posticcio delle colonie; Chiara trapianta l’Africa e il Mediterraneo sul Lago Maggiore grazie al potere evocativo della parola e su di esso costruisce gli intermezzi ridanciani della Stanza; e infine Camilleri: un autore finisecolare, fortemente ancorato alla grande tradizione novecentesca ma profondamente contemporaneo. L’equilibrio classico della sua comicità è esiziale perché gli permette di ottenere praticamente ogni effetto desiderato. La presa di Macallé è un grottesco nella migliore tradizione italiana e del grottesco serba l’infinità varietà di interpretazioni. Camilleri, navigatissimo uomo di teatro, conosce il grottesco teatrale dei Pirandello, Antonelli, Chiarelli e Rosso di San Secondo, quello degli anni ’20 ed è quello l’effetto che probabilmente ricerca: la rottura totale, il cinismo artistico, il riso amaro, ma con la costante presa sul reale coevo.
Note
1 Lucarelli, Carlo, L’ottava vibrazione, Torino, Einaudi, 2008, p. 433.
2 “Camminavo forse da un’ora quando vidi il camaleonte. Brava bestiola. Stava attraversando il sentiero con la cautela di un ladro che cammina sul cornicione dell’albergo preferito. Calmo, onestamente spaventato da quell’Africa piena di insidie metteva una zampetta dietro l’altra con delicatezza. [...] Non avrei osato colpirlo, non l’avrei distolto dalla sua accurata ricerca di cibo. ’Una sigaretta?’ Gli infilai la sigaretta accesa in bocca. Se ne andò fumando, da buon diplomatico, sempre più spaventato di vivere, pronto a gettare la cicca per una mosca, pronto a tutto, ma talmente pigro anche lui!” (Flaiano, Ennio, Tempo di uccidere, Milano, Rizzoli, 2008, p. 30).
3 Cfr. Pirandello, Luigi, Umorismo e altri saggi, a cura di P. Gibellini, Firenze, Giunti, 1994, p. 134.
4 Fusco, Gian Carlo, Guerra d’Albania, Palermo, Sellerio, 2006, p. 138.
5 Fusco, Gian Carlo, L’Iitalia al dente, Palermo, Sellerio, 2002.
6 Chiara, Piero, La stanza del vescovo, a cura di Giancarlo Vigorelli, Milano, Mondadori, 1976. D’ora in poi solo SV seguito dal numero di pagina in coda alla citazione.
7 L’autore dissemina nel testo rimandi “mediterranei” come questo: “Risalendo verso nord, mi trovai davanti alla villa del Pascià Emanuele Zervoudachi, un misterioso personaggio venuto sul lago una ventina d’anni prima dalla Turchia, che alcuni dicevano figlio di un cuoco di Cannobio andato al servizio del Sultano, altri invece davano per un vero pascià con tanto di odalische e altri per un greco di Salonicco che aveva fatto fortuna al tempo delle guerre balcaniche. Lo Zervoudachi era un omino piccolissimo, che somigliava al suo in parte omonimo e coetaneo Vittorio Emanuele di Savoia, sempre incazzato, come capita ai piccoli di statura [...]. Guardai l’alto palazzo affacciato sul lago e mi vennero in mente la Sublime Porta, il Serraglio, gli eunuchi e per riflesso l’ingegner Berlusconi” (SV, 41).
8 A proposito delle avventure africane di Orimbelli leggiamo: “Il dottor Orimbelli, profittando dell’eccezionale buon umore di sua moglie, parlò della guerra d’Africa, che doveva essere il suo chiodo fisso. Era stato ufficiale negli squadroni somali a cavallo comandati dal generale Aimone Cat, aveva combattuto con onore ed era entrato vittorioso a Gondar. Suo cognato era in linea anche lui durante uno dei contrattacchi che decisero la guerra nella regione del lago Ascianghi, ma dal 2 aprile 1936 non si erano più avute sue notizie. Sorvolò sul cognato e parlò di marce e di battaglie, di Addis Abeba, di Badoglio e di Graziani, ma soprattutto di Aimone Cat, che lo aveva proposto per una medaglia d’argento, poi sfumata quando si era saputo che non era iscritto al Fascio” (SV, 10).
9 “Con l’aiuto di Domenico che era andato a prendere tenaglia, martello e scalpello, il baule venne aperto. Sotto una divisa da capitano c’era una spada d’ordinanza, un pugnale, una ’machine-pistole’ tedesca, una rivoltella calibro 9 e un fucile Winchester, avvolti in pezze di tela. Più sotto, pacchi di lettere legati con lo spago e distinti ognuno con un nome. Ne lessi alcuni Fanny, Lina, Bruna, Luciana, Marisa. Erano lettere di donne, tutte datate del periodo napoletano. In un angolo del baule, dentro una cappelliera di cuoio, c’era un cappello duro di marca inglese che sul marocchino interno portava stampate in oro le iniziali T.M.O. Fra le altre cianfrusaglie, come ferri di cavallo, talleri di Maria Teresa, pipe e oggettini di avorio, c’era una bussola tascabile, un reggipetto nero, due o tre paia di mutandine femminili, calze lunghe di seta e giarrettiere di velluto d’ogni colore. ’Ricordi di guerra’ disse il Procuratore della Repubblica. In una specie di grossa tasca dissimulata nel rivestimento interno del coperchio, vennero rinvenuti dei biglietti di banca a corso legale per il valore di circa un milione di lire. Era tutto quanto l’Orimbelli possedesse in proprio” (SV, 77).
10 Wu Ming 2, La presa di Macallé, in Nandropausa, n. 5, 3 dicembre 2003, http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/nandropausa5.html#camilleri.
Torna suPer citare questo articolo
Notizia bibliografica
Srecko Jurisic, «Il turismo bellico. Sulle categorie del riso nell’immaginario postcoloniale italiano», Narrativa, 33-34 | 2012, 385-394.
Notizia bibliografica digitale
Srecko Jurisic, «Il turismo bellico. Sulle categorie del riso nell’immaginario postcoloniale italiano», Narrativa [Online], 33-34 | 2012, online dal 01 mai 2022, consultato il 05 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/narrativa/1490; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/narrativa.1490
Torna su