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L’Italia degli Altri. Riflessioni postcoloniali in occasione del 150° anniversario dello stato senza nazione

Chantal Zabus
Traduzione di Laura Nieddu
p. 133-144

Testo integrale

  • 1 Mack Smith, Denis, Modern Italy: A Political History, New Haven & London, Yale University Press, 19 (...)
  • 2 Graziano, Manlio, L’Italie: Un état sans nation?, Paris, Erès, 2007.

1A Napoli, nel 1860, il parigino Maxime du Camp, amico di Flaubert, sentì alcune persone gridare “Viva l’Italia” e poi chiedere ai loro vicini cosa volesse dire la parola “Italia”; un altro osservatore riferiva che il popolo si chiedeva se “Italia” potesse essere il nome della moglie del re1. Qualche esempio di come lo stato-nazione non fosse ancora nato nello spirito del popolo. E non è nemmeno sorprendente che lo storico Manlio Graziano abbia definito l’Italia contemporanea come “uno stato senza nazione” e tracciato un quadro geopolitico di un’identità nazionale incerta2. Eppure gli inizi non furono incerti. Il 18 febbraio 1861, sulla scia della spedizione dei Mille, nacque il Risorgimento. Come indica il nome, fu una vera risurrezione – un movimento per l’unificazione d’Italia dopo che, con l’aiuto dei francesi, gli austriaci erano stati espulsi dal Nord nel 1859 e Giuseppe Garibaldi era riuscito a controllare il Sud. Si costituì a Torino un parlamento che rappresentava tutte le province recentemente annesse e un mese più tardi, il 17 marzo 1861, esso conferì a Vittorio Emanuele II il nuovo titolo di re d’Italia per grazia di Dio e volontà del popolo.

  • 3 Amselle, Jean-Loup, L’Occident décroché: Enquête sur le postcolonialisme, Paris, Stock, 2008.
  • 4 Meyran, Régis, “Rencontre avec Jean-Loup Amselle: Critique postcoloniale: attention aux dérapages!” (...)
  • 5 Ashcroft, Bill, Griffiths, Gareth, Tiffin, Helen, Theory and Practice in Post-Colonial Literatures,(...)
  • 6 Lopez, Alfred J., Posts, and Pasts: A Theory of Postcolonialism, Albany, State University of New Yo (...)
  • 7 Goldberg, David Theo, Quayson, Ato (a cura di), Relocating Postcolonialism, Oxford, Blackwell, 2002 (...)

2Come riconciliare la storia coloniale e la storia tout court dell’Italia – un secolo e mezzo – con la teoria postcoloniale, la sua critica del colonialismo, i suoi sospetti nei confronti della ragione occidentale, generata dal secolo dei Lumi, secolo dei diritti dell’uomo, della democrazia, dell’universalismo? La teoria postcoloniale tende a fare l’archeologia del fatto coloniale, ma soprattutto a contestare l’egemonia del pensiero e dei saperi occidentali – a provincializzare l’Europa, come scrive Dipesh Chakrabarty. Jean-Loup Amselle percepisce queste correnti di pensiero cosiddette postcoloniali come una successione di “arretramenti” rispetto all’Occidente3. Vede, a torto, nel postcolonialismo una chiusura identitaria4. Ora, secondo la definizione dell’opera-chiave di Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen Tiffin, The Empire Writes Back (1989), “il termine ’postcoloniale’ riguarda tutte le culture toccate dal processo imperialista a partire dal momento della colonizzazione fino ad oggi”5, lasciando intravedere tutt’al più un punto d’origine e un’apertura identitaria verso diverse anglofonie, che avrebbe generato delle applicazioni teoriche rispetto ad altre “fonie”. Peraltro, Alfred Lòpez vede nel termine “postcoloniale” “piuttosto il movimento di una libertà, di una liberazione”, che punta verso “un avvenire già visibile”6. E Goldberg e Quayson ci vedono una “etica del divenire” (an ethics of becoming)7. Ma qual è stato per l’Italia questo “momento della colonizzazione”?

3Al contrario di Francia o Inghilterra, l’Italia recentemente unificata non ha un passato coloniale omogeneo. L’Italia da poco creata nel 1861 può dunque solo recuperare le tracce memoriali di un’espansione coloniale anteriore: dalla gloria dell’impero romano alla grandezza dei regni medievali come quello di Sicilia, che aveva sconfitto i Saraceni e i pirati di Barberia; Venezia aveva esteso il proprio impero fino ai confini della Grecia e di Costantinopoli, mentre le scoperte di Cristoforo Colombo (che navigava per conto della corona spagnola) e del navigatore fiorentino Amerigo Vespucci davano a certi storici italiani l’impressione di dominio sul Nuovo mondo.

4Dopo la morte nel 1861 di uno dei grandi promotori dell’unità italiana, il Conte (Camillo Benso) di Cavour, i governanti persero quasi tutto il loro entusiasmo per il colonialismo, in parte forse perché l’unificazione era l’opera di un piemontese legato alla terra, senza tradizione marittima. Dunque, quando fu il momento di andare alla famosa conferenza di Berlino negli anni 1880, per reclamare la propria fetta di torta (dal Maghreb al Corno d’Africa, passando da Mashreq, Albania e Tunisia) e negoziare con le altre potenze europee, l’Italia fece la figura del parente povero dell’Europa. Anche un piccolo paese come il Belgio rivendicava il Congo, che fu proprietà personale di Leopoldo II, re dei belgi, fino a quando, costretto da accuse di crudeltà, questi fu obbligato a darlo al popolo belga nel 1908.

  • 8 Mack Smith, Denis, Modern Italy, cit., p. 119.

5Il celebre commento del primo ministro Benedetto Cairoli all’ambasciatore austriaco in occasione delle trattative preliminari al Congresso di Berlino (nel 1878) è impregnato d’idealismo: “L’Italia andrà a Berlino con le mani libere e ci tiene a tornare indietro con le mani pulite”8. Ma si potrebbe quasi dire che gli italiani sono tornati da Berlino a mani vuote, al contrario di francesi e inglesi, che invece sono tornati con le mani piene. La ragione potrebbe essere che l’Italia non era sostenuta da nessun alleato e che il sistema parlamentare italiano era tale che nessun governo durava abbastanza a lungo da poter sviluppare una politica coloniale. Bisogna inoltre ricordare che durante gli anni che intercorsero tra l’ascesa di Mussolini al potere nel 1922 e la Costituzione (nel 1948), si succedettero 70 governi.

  • 9 Ibid., p. 165.

6Francesco Crispi, sostenitore della Triplice Alleanza (con l’Austria e la Prussia di Bismarck) e fervente promotore dell’espansione coloniale, intraprese l’invasione dell’Etiopia, dove corruppe il re di Choa, il potente Menelik II, negus d’Etiopia, il cui fornitore d’armi era il poeta Rimbaud, mentre l’Eritrea, che fu federata all’impero etiope nel 1950 e conquistò l’indipendenza solo nel 1992, risultò essere una misera colonia di popolamento a causa del suo clima; l’Italia aveva voluto un impero, e si era ritrovata con un deserto. Dopo la disfatta italiana nel tentativo di occupare la Tunisia e l’Egitto nel 1881-1882 e la vittoria di Menelik II a Adua nel 1896, le prospettive italiane di colonizzare lo spazio mediterraneo erano sempre più esigue. Bismarck diceva allora che l’Italia aveva un grande appetito, ma che i suoi denti erano cariati9.

7Si è dovuta attendere la propaganda fascista sotto Benito Mussolini per mettere in evidenza la necessità del colonialismo all’italiana. Gabriele D’Annunzio era servito da modello con il suo ardente nazionalismo e le sue poesie, di cui una del 1911 (data che coincide con la dichiarazione di guerra alla Libia) che esortava i compatrioti a vendicarsi delle loro disfatte africane e evocava il famoso “fardello dell’uomo bianco”. La politica estera e coloniale di Mussolini (dal 1922 al 1936) incarna questo imperialismo esacerbato che mirava a fare del Mediterraneo un lago italiano e a creare un’Africa italiana lungo tutto il Mar Rosso. Del resto, nel suo Modern Italy (1997), lo storico americano Denis Mack Smith intitola il capitolo su questo periodo “Decline and Fall of a Roman Empire” – declino e caduta di un impero romano.

  • 10 Palma, Silvana, L’Italia coloniale, Roma, Editori Riuniti, 1999.
  • 11 Cfr. Del Boca, Angelo, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, R (...)
  • 12 Ponzanesi, Sandra, “The Past Holds No Terror? Colonial Memories and Afro-Italian Narratives”, in Wa (...)

8Già sotto Crispi, i fascisti sostenevano la ricerca di una quarta sponda, ovvero una quarta riva per gli italiani delle province del Sud, che lasciavano in massa il proprio paese alla fine dell’Ottocento. La definizione assunse tutto il suo rilievo sotto Mussolini, poiché si riferì in questi termini a quel lembo del mare nostrum che va dalla Tunisia alla Libia, e in seguito a ciò un centinaio di migliaia d’italiani si stabilirono a Tripoli. Tuttavia, come ha mostrato Palma, gli emigrati italiani preferivano di gran lunga gli Stati Uniti10. Questo colonialismo proletario aveva una doppia funzione: aiutare le popolazioni italiane più svantaggiate e realizzare allo stesso tempo una missione civilizzatrice in Africa. Questo doppio programma non è mai stato oggetto di interrogativi da parte della popolazione italiana, visto che la premessa coloniale era che gli “italiani [sono] brava gente”, come ricordano sarcasticamente lo storico Angelo Del Boca11 e la critica Sandra Ponzanesi12, a significare che la loro missione civilizzatrice non poteva che portare del bene.

9In effetti, gli altri non erano tanto gli africani, quanto gli abitanti del Sud dell’Italia (Sicilia, Campania, Puglia o Calabria), tutti in terribili situazioni di disagio. Alcuni uomini di stato piemontesi, come Cavour e Agostino Depretis, che fu più volte Presidente del Consiglio (1876-1878; 1878-1879; 1881-1887), non avevano mai preso in considerazione la possibilità di viaggiare verso il Sud per constatarne di persona lo stato di miseria. Quanto a Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio successore di Depretis, vi si recò solo una volta: durante lo stato d’emergenza che seguì il terremoto nello stretto di Messina nel 1908. Per questi tre grandi uomini del Nord-Ovest dell’Italia, il Sud cominciava a Roma. Per le province del Sud, cioè per gli altri, l’Italia rappresentava un dominatore come tanti altri e questo ormai da secoli.

  • 13 Mack Smith, Denis, Modern Italy, cit., p. 205.

10Questo intracolonialismo, che si sente ancora oggi, banalizza in qualche modo ogni teoria postcoloniale. Secondo i principi fondamentali della teoria postcoloniale, che studia i rapporti di forza tra il colonizzatore e i soggetti colonizzati e le ripercussioni di questi rapporti, il soggetto colonizzato intorno al 1890, che avrebbe dovuto essere l’africano, era il siciliano. Il piemontese era difatti, secondo i calcoli di Epicarmo Corbino, quasi due volte più ricco del siciliano medio13. In quest’ottica, la novella Cavalleria rusticana del siciliano Giovanni Verga, pubblicata nel 1880 (e l’opera di Pietro Mascagni a questa ispirata), mostrava i contadini soffrire sotto il giogo italiano, e il suo romanzo Mastro Don Gesualdo del 1888, tradotto più tardi da D.H. Lawrence, era ancora più eloquente.

11Nel 2010, il proprietario di un agriturismo nei dintorni della città di Piazza Armerina, nella provincia di Enna, in Sicilia, mi ha confidato che pagava delle tasse a Roma come farebbe un paese colonizzato indebitato, ma mantenuto dallo stato da cui dipende. Altri direbbero che il Nord mantiene il Sud come un ruffiano con una prostituta. Le tasse attuali somiglierebbero molto a quelle del dopo 1860, quando i soldi del Sud venivano sottratti per pagare gli interessi degli azionisti del Nord. In termini postcoloniali, lo statuto della Sicilia alla fine dell’Ottocento è paragonabile a quello dell’Irlanda rispetto al Regno Unito: vaste proprietà, proprietari terrieri assenteisti, società segrete, rivolte causate dalla carestia e seguite dall’emigrazione.

12Antonio Gramsci, segretario generale del partito comunista nel 1925, di tradizione marxista, era convinto che la divisione tra il Nord e il Sud dell’Italia ai suoi tempi fosse dovuta a un malinteso tra i contadini rurali del Sud e il proletariato urbano del Nord. Arrestato dai fascisti e condannato per cospirazione, elaborò un concetto di egemonia culturale nei suoi Quaderni dal carcere, che scrisse in prigione tra il 1948 e il 1951. In questi quaderni, Gramsci utilizzava la parola “subalterno” al posto di “proletariato”, perché il senso delle sue parole non fosse palese ai censori della prigione. Il termine riempirà una lacuna semantica per significare ciò che la parola “proletario” non indicava al di fuori del senso di mano d’opera capitalista.

  • 14 Cfr. Spivak, Gayatri Chakravorty, “The New Subaltern: A Silent Interview”, in Vinayak, Chaturvedi ( (...)
  • 15 Cfr. Guha, Ranajit (a cura di), Subaltern Studies 1: Writings on South Asian History and Society, D (...)
  • 16 Guha, Rajanit, “On Some Aspects of the Historiography of Colonial India”, in Ranajit Guha (a cura d (...)
  • 17 Guha, Rajanit, “The Elementary Aspects of Peasant Insurgency”, e Spivak, Gayatri Chakravorty, “Suba (...)

13Gramsci, senza volerlo, stava alimentando la teoria postcoloniale. In effetti, gli storici dell’Asia del Sud-Est, nel loro collettivo e nell’omonima rivista Subaltern Studies, hanno preso in prestito il termine da Gramsci e il vocabolo “subalterno” ha così assunto il senso di un popolo o di un gruppo di persone a cui è negata una mobilità sociale ascendente o centrifuga14. Ranajit Guha, il padre-fondatore di questa scuola e il primo editore della rivista Subaltern Studies, definì “subalterno” un soggetto di “rango inferiore” e raccomanda che il termine venga utilizzato per indicare vari aspetti della subordinazione nella società dell’Asia del Sud-Est, espresso attraverso la classe, la casta, l’età, il genere (gender), e la funzione15. Guha dimostra anche altrove come la storiografia dell’India, a causa della sottomissione a une élite coloniale e a una élite nazionalista borghese, non ha tenuto conto del contributo del popolo alla lotta per l’indipendenza16. Questa storiografia distorta, secondo la quale le élite indiane rivendicavano solo per se stesse l’indipendenza, sarebbe stata poi trasmessa dai discorsi neocolonialisti e neonazionalisti in India e nel Regno Unito. Come Gramsci ha cercato di fare in precedenza, il collettivo indiano ha portato la prova storica che il contadino ha mostrato, attraverso le sue esigenze e le forme d’espressione cosiddette “elementari”, i primi vagiti di un’identità di classe legata alla condizione coloniale17.

  • 18 Spivak, Gayatri Chakravorty, “Can the Subaltern Speak?”, in Colonial Discourse and Postcolonial The (...)
  • 19 Ibid., p. 78.

14Il collettivo indiano merita attenzione perché sono questi storici ad aver ispirato Gayatri Chakravorty Spivak, uno dei tre cosiddetti pilastri della teoria postcoloniale, con Homi K. Bhabha, di famiglia parsi, membro di una piccola minoranza zoroastriana-persa a Bombay, ambiente a predominanza indù e musulmana, e con il defunto Edward Said, teorico americano di origine palestinese. In effetti, nel suo testo-chiave Can the Subaltern Speak? (1988), Gayatri Spivak rileva nel lavoro del collettivo Subaltern Studies un dilemma, nel senso che questi intellettuali sono incapaci, visto il loro statuto privilegiato, di provare empatia per la coscienza subalterna. Spivak mette in dubbio anche il loro uso di metodologie occidentali, di natura coloniale, nell’analisi discorsiva di un soggetto terzo-mondo18. Spivak vede in questa soppressione del subalterno una sorta di “violenza epistemica”19.

  • 20 Boutang, Pierre-André, Chevallerey, Anne, Des brigades rouges à Attac, film-documento, Paris, Ed. M (...)

15Gramsci – spettro di Marx, per così dire – e la situazione italiana intracoloniale che descriveva, e che perdura ancora oggi, hanno contribuito in modo surrettizio ai fondamenti della teoria postcoloniale. L’apporto italiano a questi fondamenti postcoloniali risale a molto lontano, se si considera che la Scienza Nuova (1725) di Giambattista Vico ha ispirato il primo libro di Edward Said, Beginnings: Intention and Method (1975). Più vicino a noi, il filosofo Giorgio Agamben e Toni Negri, maître à penser della sinistra italiana degli anni 1970, conosciuto per il suo pensiero altermondialista (“dalle Brigate Rosse a Attac”20) e per i suoi libri – entrambi in collaborazione con Michel Hardt – Empire (2000) e Multitude (2004), sono anche loro dei teorici italiani che continuano a ispirare la teoria postcoloniale.

16Per tornare a Spivak, considerata l’invisibilità del soggetto terzo-mondo che denuncia, la donna del terzo-mondo viene doppiamente cancellata. Utilizzando la metodologia della decostruzione come nella Grammatologie di Derrida (1967), da lei tradotto, Spivak si appropria dello spazio lasciato e trascurato dall’analisi etnocentrica occidentale e lo indica come il posto dell’Altro, che diventa, nel suo studio, la subalterna femminile. Postulando che la subalterna femminile è afona e dunque deve essere rappresentata dall’intellettuale al femminile, Spivak contribuisce all’inserimento degli studi subalterni nell’ambito della critica femminista.

  • 21 Andall, Jacqueline, National Belongings: Hybridity in Italian Colonial and Postcolonial Cultures, B (...)
  • 22 Per un panorama analitico su queste scrittrici, cfr. Contarini, Silvia, “Narrazioni, migrazioni e g (...)
  • 23 Cfr. a questo proposito l’intervista di Armando Gnisci a Shukran, Rai Tre, ottobre 2008.

17Rispetto ad altri paesi europei, solo recentemente l’Italia ha preso pienamente coscienza del suo passato coloniale e delle conseguenze dei movimenti migratori su scala globale21. E solo recentemente l’Italia ha riconosciuto una seconda generazione d’immigrati di origine non italiana. Anche se persone provenienti da ex-colonie, quali Somalia, Etiopia ed Eritrea, si sono stabilite nelle metropoli italiane fin dagli anni 1970, solo agli inizi degli anni 1990, ovvero solo da due decenni, è nata contemporaneamente ai nuovi flussi migratori una letteratura italiana, che Silvia Contarini insieme ad altri ha chiamato “dell’immigrazione”22. Ciò che colpisce immediatamente è la fondamentale presenza di donne scrittrici e, inoltre, di personaggi femminili, fenomeno che va in senso contrario rispetto alla nascita di una letteratura simile in contesto anglofono o francofono, dove in un primo tempo predominano gli uomini23. Queste scrittrici, benché abbiano acquisito la nazionalità italiana o siano anche nate in Italia, possono inserirsi soltanto negli interstizi della società italiana e utilizzare la loro doppia subalternità per rivedere la storia coloniale italiana e la presenza italiana nel Corno d’Africa, cominciata nel 1882 con l’occupazione della Baia d’Assab (sotto Depretis) e durata fino al 1941, quando la Gran Bretagna ha preso il controllo della regione e ha consegnato l’Etiopia al suo imperatore Hailé Selassié.

  • 24 Ghermandi, Gabriella, Regina di fiori e di perle, Roma, Donzelli, 2007, p. 198.
  • 25 Nasibù, Martha, Memorie di una principessa etiope, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2005, p. 248.
  • 26 Barry, Kesso, Kesso, princesse peule, Paris, Seghers, 1988.

18In quest’ottica revisionista, l’italiana di origine etiope Gabriella Ghermandi ha iniziato a raccogliere i racconti orali sul periodo della colonizzazione italiana in Etiopia, tra i membri della sua famiglia e altri testimoni, in modo da dare agli italiani “la nostra versione dei fatti”24, come dice uno dei suoi personaggi femminili in Regina di fiori e di perle (2007). Martha Nasibù, figlia del Degiac, uno dei ranghi più elevati della società feudale etiope ha scritto l’unica biografia della sua famiglia e della sua deportazione in Italia, misura presa dagli italiani per ostacolare il progredire della resistenza anticoloniale al momento della conquista dell’Etiopia nel 1936. Moglie di un italiano, Martha Nasibù dedica il libro a suo figlio Carlo, il trait d’union tra la cultura d’origine e la cultura d’adozione25, come ha fatto, per citare giusto un esempio francese, la guineana Kesso Barry nella sua autobiografia Kesso, princesse peuhle (1988), che racconta l’arrivo in Francia dopo il declino della teocrazia del Fouta Djalon e l’ascesa al potere di Sékou Touré26.

  • 27 Contrazione di demewez, “sangue” e “dolce” in amarico.
  • 28 Cfr. Luraschi, Moira, “Beyond Words: Mirroring Identities of Italian Postcolonial Women Writers”, i (...)

19Nasibù denuncia tra l’altro la pratica del madamismo, dal vocabolo madama, termine piemontese riferito a una donna autoctona che vive more uxorio, ovvero come se fosse sposata con un uomo italiano. Questa pratica era incoraggiata dal governo coloniale per mettere fine all’epidemia di sifilide e di altre malattie veneree che imperversavano nei giri della prostituzione. Tuttavia, il partner italiano non riconosceva la sua madama come moglie, poiché molto spesso era già sposato in Italia. La pratica del madamismo era considerata nel diritto etiope come l’equivalente della pratica amarica del damoz27, una forma di matrimonio temporaneo praticata dal popolo amhara in Etiopia28. I bambini concepiti durante il contratto di damoz, che può essere sciolto o rinnovato a seconda dei casi, appartengono alla famiglia del padre e hanno diritto all’eredità. Ma nella pratica coloniale del madamismo o madamato, i bambini nati dall’unione, ovvero i meticci, non avevano nessun diritto e non potevano pretendere la nazionalità italiana. Non erano nemmeno riconosciuti dalla famiglia della madre in una società patrilineare. La donna amhara che aveva contratto tale legame si ritrovava allora da sola coi suoi figli, i quali ebbero il nome di missioni, perché molti bambini meticci erano cresciuti dai missionari. Questo meticciato rettifica la celebre pubblicità antirazzista di United Colors of Benetton che, un decennio fa, aveva mostrato una donna nera allattare un neonato bianco.

  • 29 Comberiati, Daniele (a cura di), La quarta sponda, Milano, Pigreco, 2007, p. 155.

20Accenno a questa immagine quasi etnografica per fare riferimento a quella storia dei vinti e degli oppressi privilegiata dalle letterature postcoloniali. Storia di donne, dunque, e di bambini che, come i racconti apocrifi, sono stati estromessi dai metaracconti coloniali italiani. Oltretutto, durante il periodo fascista e la sua retorica dominante di purezza razziale ariana e latina, la pratica del madamismo è stata condannata e il Decreto Regio 880 del 19 luglio 1937 ha imposto una sorta di apartheid tra donne indigene e uomini italiani; chi viveva con una madama veniva o rimpatriato senza troppe esitazioni o imprigionato per un periodo da uno a cinque anni, mentre la prostituzione, al contrario, era tollerata. A questo proposito, Ghermandi ha confidato a Daniele Comberiati in un’intervista del 2007 che il colonialismo ha “creato danni a quattro generazioni di donne, e io sono quella che chiude”29.

  • 30 Hargreaves, Alec, McKinney, Mark, Postcolonial Cultures in France, London, Routledge, 1997.
  • 31 Comberiati, Daniele, “La letteratura postcoloniale italiana; definizioni, problemi, mappatura”, in (...)

21Seguendo l’esempio di Hargreaves e di McKinney nel loro Postcolonial Cultures in France30, alcuni critici italiani, soprattutto donne, hanno iniziato a studiare questi racconti di donne immigrate, ma anche altri generi narrativi, come il romanzo, per elaborare una teoria postcoloniale aldilà della letteratura migrante, espressione che ricorda la littérature multiculturelle in Francia o la migrantenliteratur in Germania. In questa nuova accezione, il termine postcoloniale, che veniva impiegato solo per le culture toccate dall’imperialismo europeo, ossia, nel nostro caso, le culture africane, si allarga per testimoniare della diaspora africana nel paese colonizzatore. In questo senso, Daniele Comberiati propone “un allargamento del corpus, allargamento che investe sia il contesto geografico/spaziale che quello, per così dire, generazionale”31. Grazie alla sua amplificazione discorsiva e alle incursioni in una necessaria soggettività, il romanzo va aldilà della scrittura testimoniale della prima ondata di autori immigrati, spesso testi autobiografici sui pericoli affrontati durante la traversata del Mediterraneo.

  • 32 Portelli, Alessandro, “Fingertips Stained with Ink: Notes on New ’Immigrant Writing’ in Italy”, in (...)
  • 33 Ponzanesi, Sandra, Merolla, Daniela, “When does a migrant stop being a migrant?”, in Ponzanesi, San (...)
  • 34 Per maggiori dettagli, cfr. Aden, Sheikh Mohamed, Petrucci, Pietro, Arrivederci a Mogadiscio. Somal (...)

22Questi scritti di donne, realizzati con l’aiuto di amanuensis quali dei giornalisti italiani, erano spesso il risultato di ciò che Portelli ha chiamato il “compromesso necessario” con il mercato dell’editoria, poco incline a dare voce all’esperienza dell’immigrazione32. Tuttavia, Daniela Merolla e Sandra Ponzanesi, nella loro introduzione a Migrant Cartographies (2005), s’interrogano sull’appellativo limitativo d’“immigrato” e sulla sua cosiddetta alterità irriducibile: “Quando un immigrato smette di essere un immigrato?”, si domandano giustamente33. Inoltre, il termine “immigrato” o “migratorio” non è sempre appropriato per designare “la nuova letteraria italiana”, perché questi scrittori sono figli di coppie miste (Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Gabriella Kuruvilla), o sono nati in Italia da genitori non italiani, spesso provenienti da ex-colonie italiane, come la Somalia34 (Igiaba Scego), o vivono già in Italia da molti anni (Laila Wadia).

  • 35 Cfr. Ponzanesi, Sandra, Paradoxes of Postcolonial Culture. Contemporary Women Writers of the Indian (...)
  • 36 Vorpsi, Ornela, Il paese dove non si muore mai, Torino, Einaudi, 2005, p. 111.

23In questa nuova configurazione la Letteratura migrante subisce una seria battuta d’arresto, e può subentrare la teoria postcoloniale35; ma questa nuova configurazione ci interessa anche perché implica pure ciò che in ambito anglosassone è definito Diaspora studies. Ornela Vorpsi, giovane donna originaria dell’Albania, arrivata in Italia nel 1991 e residente attualmente in Francia, illustra bene la distanza rispetto alla prima generazione “dell’immigrazione”. Il suo primo romanzo, Il paese dove non si muore mai (2005), che ha vinto il Premio Grinzane Cavour, offre uno sguardo critico sull’Albania natale (invasa da Mussolini che, nel 1939, voleva farne la sua terza sponda), descrivendo allo stesso tempo l’Italia come una “terra promessa” rifiutata dagli albanesi: “Ne hanno abbastanza di terre promesse. Hanno capito che vi si muore e loro non vogliono morire”36.

  • 37 Coppola, Manuela, “’Rented Spaces’: Italian Postcolonial Literature”, in Social Identities, n. 17, (...)
  • 38 Per esempio, nella categoria “racconti e poesie”, si trovano: Barbara Pumhösel, Ingrid Beatrice Cos (...)

24Malgrado l’attuale fervore per la traduzione in italiano di romanzi di successo britannici, quali White Teeth (2001) di Zadie Smith, Brick Lane (2003) di Monica Ali, e Londonstani (2006) di Guatam Malsani, e d’altra parte, malgrado Igiaba Scego sia stata descritta come la prima di una nuova generazione di scrittori italiani, Manuela Coppola considera che “siamo ancora lontani da una ridefinizione della letteratura italiana che dovrebbe tener conto delle soggettività plurali presenti nello spazio italiano contemporaneo”37. La rivista El-Ghibli: rivista online di letteratura della migrazione, sotto la direzione di Pap Khouma (www.El-Ghibli.org), prima rivista letteraria in Italia con un comitato scientifico di scrittori e critici non italiani, rappresenta un passo avanti38. Bisogna però segnalare che, eccetto rare eccezioni, questi scrittori scelgono di stabilirsi nel Nord dell’Italia piuttosto che nel Sud, in quelle regioni che hanno forse risentito della colonizzazione italiana più della Somalia o dell’Eritrea.

  • 39 Andall, Jacqueline, Gender, Migration and Domestic Service: The Politics of Black Women in Italy, A (...)
  • 40 Cfr. Curti, Lidia, “Female Literature of Migration in Italy”, in Feminist Review, n. 87, 2007, pp. (...)

25Inoltre, i recenti flussi migratori al femminile sono stati oggetto di studi come per Jacqueline Andall, Gender, Migration and Domestic Service (2000)39. Queste immigrate d’origine africana –badanti, assistenti sociali e ragazze alla pari, hanno riconfigurato da sole gli spazi pubblici in Italia, come stazioni, uffici postali e parchi40, e occupano degli “spazi in affitto”, per parafrasare l’espressione di Michel de Certeau.

26Le ex-colonie italiane non sono tutte all’origine dell’immigrazione. Diversi flussi migratori si sono diretti verso la piccola isola di Lampedusa di 20km2; è il primo approdo europeo per l’Africano. A titolo di esempio recente, la rivoluzione del gelsomino in Tunisia nel gennaio 2011 ha causato il riversamento di circa 20000/25000 tunisini, desiderosi di lavorare nell’Unione Europea e, in particolare, in Francia. È molto per un’isola di 6000 abitanti, ma per l’Italia e l’Europa non è una marea umana impossibile da assorbire. Sta di fatto che l’Italia è sous rature, poiché all’immigrato africano interessa l’Europa, non l’Italia.

  • 41 Stroobants, Jean-Pierre, Ridet, Philippe, “Immigration: Paris et Rome appellent à l’aide”, in Le Mo (...)

27Sotto la pressione della Lega Nord, partito xenofobo, di cui ha bisogno per la sua coalizione (questo prima di ricevere “lo schiaffo” alle elezioni amministrative del 2011), Silvio Berlusconi, per sbarazzarsi di questi “intrusi”, ha concesso loro dei permessi di soggiorno di 6 mesi che consentono di circolare in tutta l’Unione Europea. Con uno slancio simile e sotto la pressione del Front National, Nicolas Sarkozy, nell’anno delle elezioni, ha replicato minacciando di riconsiderare la soppressione delle frontiere all’interno dell’Unione Europea – ovvero la Convenzione di Schengen del 1985!41.

28La “primavera araba” potrebbe tradursi in migrazioni non di “proporzioni bibliche”, come si è detto a Parigi, ma certo notevoli. In uno scenario di questo genere, l’Italia “postcolonializzata” dall’interno si ritrova nello stesso tempo in dialogo forzato con l’esterno, l’Unione Europea. È in tale prospettiva che lo stato-senza-nazione prende coscienza del suo doppio debito, nei confronti di una storia coloniale per procura e di una storia postcoloniale dentro uno spazio – Schengen, certo – ma uno spazio il cui futuro dirà se sarà impermeabile, e a che livello d’impermeabilità, ai nuovi flussi migratori che irrompono sulle sue coste.

  • 42 Discorso del Presidente Napolitano, Verso il 150˚ dell’Italia Unita; tra riflessione storica e nuov (...)

29Ma guardando da più vicino, la vera situazione postcoloniale, in una definizione allargata paradossalmente dall’interno, resta quella tra Nord e Sud. E non è un caso se il Presidente Giorgio Napolitano abbia ricordato, in occasione del 150° anniversario dell’Unità italiana, la “disperata guerriglia sociale dei contadini poveri del Mezzogiorno”42.

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Note

1 Mack Smith, Denis, Modern Italy: A Political History, New Haven & London, Yale University Press, 1997, p. 52.

2 Graziano, Manlio, L’Italie: Un état sans nation?, Paris, Erès, 2007.

3 Amselle, Jean-Loup, L’Occident décroché: Enquête sur le postcolonialisme, Paris, Stock, 2008.

4 Meyran, Régis, “Rencontre avec Jean-Loup Amselle: Critique postcoloniale: attention aux dérapages!”, in Sciences humaines, n. 193, 2008, pp. 22-25.

5 Ashcroft, Bill, Griffiths, Gareth, Tiffin, Helen, Theory and Practice in Post-Colonial Literatures, London-New York, Routledge, 1989 (Quando non indicato, le traduzioni sono nostre).

6 Lopez, Alfred J., Posts, and Pasts: A Theory of Postcolonialism, Albany, State University of New York, 2001, p. 41 (in corsivo nel testo).

7 Goldberg, David Theo, Quayson, Ato (a cura di), Relocating Postcolonialism, Oxford, Blackwell, 2002, p. XIII.

8 Mack Smith, Denis, Modern Italy, cit., p. 119.

9 Ibid., p. 165.

10 Palma, Silvana, L’Italia coloniale, Roma, Editori Riuniti, 1999.

11 Cfr. Del Boca, Angelo, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Roma-Bari, Laterza, 1992.

12 Ponzanesi, Sandra, “The Past Holds No Terror? Colonial Memories and Afro-Italian Narratives”, in Wasafiri; Special Issue on Migrant Writings in Europe, n. 31, 2000, pp. 16-22.

13 Mack Smith, Denis, Modern Italy, cit., p. 205.

14 Cfr. Spivak, Gayatri Chakravorty, “The New Subaltern: A Silent Interview”, in Vinayak, Chaturvedi (a cura di), Mapping Subaltern Studies and the Postcolonial, London, Verso, 2000, pp. 324-340.

15 Cfr. Guha, Ranajit (a cura di), Subaltern Studies 1: Writings on South Asian History and Society, Delhi, Oxford University Press, 1982, p. VII.

16 Guha, Rajanit, “On Some Aspects of the Historiography of Colonial India”, in Ranajit Guha (a cura di), Subaltern studies, cit., pp. 1-7.

17 Guha, Rajanit, “The Elementary Aspects of Peasant Insurgency”, e Spivak, Gayatri Chakravorty, “Subaltern Studies. Deconstructing Historiography”, in Guha, Rajanit, Spivak, Gayatri Chakravorty (a cura di), Selected Subaltern studies, New York, Oxford University Press, 1988, pp. 3-32.

18 Spivak, Gayatri Chakravorty, “Can the Subaltern Speak?”, in Colonial Discourse and Postcolonial Theory: a Reader, New York, Harvester Wheatsheaf, 1993, pp. 66-111.

19 Ibid., p. 78.

20 Boutang, Pierre-André, Chevallerey, Anne, Des brigades rouges à Attac, film-documento, Paris, Ed. Montparnasse, 2004.

21 Andall, Jacqueline, National Belongings: Hybridity in Italian Colonial and Postcolonial Cultures, Berne, Peter Lang, 2010; Finaldi, Giuseppe Maria, Italian National Identity in the Scramble for Africa: Italy’s African Wars in the Era of Nation-Building 1870-1900, Berne, Peter Lang, 2009.

22 Per un panorama analitico su queste scrittrici, cfr. Contarini, Silvia, “Narrazioni, migrazioni e genere” in Quaquarelli, Lucia (a cura di), Certi Confini: Sulla letteraura italiana dell’immigrazione, Milano, Morellini, 2010, pp. 119-159.

23 Cfr. a questo proposito l’intervista di Armando Gnisci a Shukran, Rai Tre, ottobre 2008.

24 Ghermandi, Gabriella, Regina di fiori e di perle, Roma, Donzelli, 2007, p. 198.

25 Nasibù, Martha, Memorie di una principessa etiope, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2005, p. 248.

26 Barry, Kesso, Kesso, princesse peule, Paris, Seghers, 1988.

27 Contrazione di demewez, “sangue” e “dolce” in amarico.

28 Cfr. Luraschi, Moira, “Beyond Words: Mirroring Identities of Italian Postcolonial Women Writers”, in Enquire, n. 3, giugno 2009, p. 6.

29 Comberiati, Daniele (a cura di), La quarta sponda, Milano, Pigreco, 2007, p. 155.

30 Hargreaves, Alec, McKinney, Mark, Postcolonial Cultures in France, London, Routledge, 1997.

31 Comberiati, Daniele, “La letteratura postcoloniale italiana; definizioni, problemi, mappatura”, in Quaquarelli, Lucia (a cura di), in Certi Confini, cit., p. 168.

32 Portelli, Alessandro, “Fingertips Stained with Ink: Notes on New ’Immigrant Writing’ in Italy”, in Interventions, n. 8, 2006, pp. 472-83.

33 Ponzanesi, Sandra, Merolla, Daniela, “When does a migrant stop being a migrant?”, in Ponzanesi, Sandra, Merolla, Daniela (a cura di), Migrant Cartographies: New Cultural and Literary Spaces in Postcolonial Europe, Lanham, Lexington Books, 2005, p. 4.

34 Per maggiori dettagli, cfr. Aden, Sheikh Mohamed, Petrucci, Pietro, Arrivederci a Mogadiscio. Somalia: l’indipendenza smarrita, Roma, Edizioni Associate, 2004.

35 Cfr. Ponzanesi, Sandra, Paradoxes of Postcolonial Culture. Contemporary Women Writers of the Indian and Afro-Italian Diaspora, Albany, State University of New York Press, 2004.

36 Vorpsi, Ornela, Il paese dove non si muore mai, Torino, Einaudi, 2005, p. 111.

37 Coppola, Manuela, “’Rented Spaces’: Italian Postcolonial Literature”, in Social Identities, n. 17, 1, 2011, pp. 121-135.

38 Per esempio, nella categoria “racconti e poesie”, si trovano: Barbara Pumhösel, Ingrid Beatrice Cosman, Julio Monterio Martins, Stefanie Golish, Candelaria Romero.

39 Andall, Jacqueline, Gender, Migration and Domestic Service: The Politics of Black Women in Italy, Aldershot, Ashgate, 2000.

40 Cfr. Curti, Lidia, “Female Literature of Migration in Italy”, in Feminist Review, n. 87, 2007, pp. 60-75.

41 Stroobants, Jean-Pierre, Ridet, Philippe, “Immigration: Paris et Rome appellent à l’aide”, in Le Monde, 28 aprile 2011, p. 1.

42 Discorso del Presidente Napolitano, Verso il 150˚ dell’Italia Unita; tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso, pronunciato presso l’Accademia dei Lincei il 12 febbraio 2010, pubblicato il 13 febbraio 2010 su http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=1784.

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Chantal Zabus, «L’Italia degli Altri. Riflessioni postcoloniali in occasione del 150° anniversario dello stato senza nazione»Narrativa, 33-34 | 2012, 133-144.

Notizia bibliografica digitale

Chantal Zabus, «L’Italia degli Altri. Riflessioni postcoloniali in occasione del 150° anniversario dello stato senza nazione»Narrativa [Online], 33-34 | 2012, online dal 01 mai 2022, consultato il 07 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/narrativa/1338; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/narrativa.1338

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Autore

Chantal Zabus

Institut Universitaire de France, Universités Paris 13 et Paris 3 (EA 4400)

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