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Identità e culture popolari nell’Italia globalizzata. Studio sul teatro di Saverio La Ruina

Anna Mirabella
p. 171-181

Testo integrale

1La globalizzazione viene spesso intesa come processo di omologazione delle culture su scala planetaria, che potrebbe e dovrebbe essere arginata tramite la preservazione e valorizzazione delle differenze culturali locali. In realtà costruendo le categorie di globale e locale come termini antitetici, si rischia di cancellare la complessità dei fenomeni indotti dalla globalizzazione che contraddicono la tesi della fine della differenziazione fra le culture, già ipotizzata negli anni Sessanta. Intesa come processo di universalizzazione di quelle pratiche, saperi tecnico-scientifici nati con la Grande Trasformazione, la globalizzazione si è imposta, in una prima fase, tramite la dominazione imperialista, poi coloniale e neocoloniale che ha effettivamente messo in crisi gli universi culturali investiti da tali fenomeni. Ma nella fase attuale, l’ordine globale si afferma attraverso processi di appropriazione dei suoi fondamenti, processi ormai inevitabili, automatici ed in questa misura imposti, che trasformano dall’interno le culture1. L’incorporazione/appropriazione dei principi dell’oridine globale mobilita tutte le risorse di una cultura che è condotta a modificare e adattare la strutturazione simbolica che ne definisce la singolarità. Questo processo sollecita una ricomposizione delle stratificazioni della memoria storica interna ad una cultura e rimette in gioco i processi individuali di identificazione dei soggetti.

  • 2 Per una analisi di orientamento sociologico sul fenomeno della globalizzazione in Italia, vedi Cesa (...)

2Come avviene questo processo in Italia, cioè in un contesto caratterizzato da una forte differenziazione culturale interna, già oggetto di una problematica ricerca di conciliazione con l’identità nazionale lungo tutta la sua breve storia? Cosa diventa nell’Italia globalizzata2 l’eredità di quelle culture popolari sul cui progressivo declino a partire dagli anni del Miracolo economico ci si è interrogati collettivamente per definire il divenire dell’identità degli italiani?

  • 3 Per una sintesi sulla posta in gioco nell’interesse e nell’uso per le culture popolari in sede antr (...)

3Dalla scomparsa delle lucciole pasoliniane, all’uso ideologico delle culture popolari viste come modello di resistenza al capitalismo, agli studi storico-antropologici volti a produrre una ricostruzione filologica della loro realtà, le culture popolari sono state oggetto di un’intensa riflessione almeno fino alla metà degli anni Ottanta3. A parte l’ultimo recupero ideologico delle tradizioni padane operato dalle leghe, le culture popolari sembrano essere state relegate nei musei di tradizioni popolari e valorizzate come patrimonio da sfruttare nella promozione turistica. Esse non sembrano più svolgere alcun ruolo nei processi di definizione identitari collettivi degli italiani.

4Tuttavia oltre alla persistenza dell’uso delle lingue dialettali, per quanto italianizzate, negli ultimi anni va notato il successo a livello nazionale di narrativa o fiction centrati su culture locali come la Sardegna dei briganti di Marcello Fois o la Sicilia di Camilleri. Il successo nazionale di queste opere che si servono del riferimento a mondi culturali della tradizione, a universi linguistici cui molti italiani sono estranei sembra significativo di un mutato rapporto con le tracce di quella memoria che fonda le appartenenze locali. In che modo quelle sopravvivenze linguistico-culturali entrano in gioco nei processi identitari dei lettori o degli spettatori?

  • 4 Nato a Castrovillari nel 1960, Saverio La Ruina si diploma alla Scuola di Teatro di Bologna. Nel 19 (...)
  • 5 La pluralità delle forme di ricezione dell’evento teatrale e dei percorsi individuali di costruzion (...)

5Agli esempi citati si aggiunge il grande successo di critica e di pubblico dei monologhi teatrali del drammaturgo, autore e regista calabrese Saverio La Ruina4. Recitati in dialetto calabro-lucano, Dissonorata, un delitto di Calabria (2006) e La Borto (2009) forniscono un esempio altamente significativo della posta in gioco e degli effetti che produce il confronto con l’universo delle culture popolari nell’Italia globalizzata. Nei due spettacoli le tracce linguistico-culturali della cultura popolare calabrese vengono usate per produrre nella finzione una ricostruzione di questo universo culturale. Al di là degli effetti dell’illusione teatrale, quelle tracce rimangono dei riferimenti frammentari che guidano lo spettatore nella produzione di un’identità come processo di differenziazione e di singolarizzazione che è solo avviato dai segni delle appartenenze locali. I due monologhi si limitano a circoscrivere i limiti della funzione di tali segni lasciando allo spettatore il compito di definire nella ricezione degli spettacoli i contenuti positivi del processo identitario in cui viene coinvolto dall’esperienza teatrale 5.

6In Dissonorata e La Borto due donne ormai anziane rievocano la loro giovinezza nella Calabria povera e patriarcale dei primi anni del dopoguerra. Raccontano vite fatte di umiliazioni e privazioni, di gravidanze vissute o rifiutate in condizioni terribili, di violenze subite nei rapporti con gli uomini.

7Pasqualina, in Dissonorata, arriva all’adolescenza con un dramma: una sorella maggiore che non riesce a trovare marito nel piccolo villaggio dove la famiglia vive coltivando le terre e allevando le pecore. Obbligata ad aspettare il suo turno, Pasqualina si innamora di un vicino di cui resterà incinta. Nonostante le promesse di matrimonio riparatore, il vicino fugge in America abbandonando Pasqualina alla vendetta della famiglia. Se ne incarica il fratello, che rimasto solo in casa con la sorella, le dà fuoco. Pasqualina riesce a salvarsi gettandosi in una fontana. Curata approssimativamente in un ospedale, dove subisce ulterirmente l’ostilità delle infermiere solidali con la famiglia, verrà aiutata dalla zia Stella, unica donna pronta a trasgredire il codice d’onore. Contro la volontà di suo marito, Stella assiste Pasqualina che il giorno di Natale, in una stalla, partorisce il piccolo Saverio, protetto non dal bue e dall’asino ma da un generoso maiale.

  • 6 L’errata ortografia del titolo del monologo rinvia alla cultura esclusivamente orale della protagon (...)

8In La Borto, Vittoria narra di un suo onirico incontro con Gesù Cristo nel quale giustifica le ragioni dell’aborto clandestino del suo ottavo figlio6. Partita di mattina presto a cercare fichi, si trova davanti ad una porta che apre. Vi trova Gesù, circondato dagli apostoli, che però non la fa entrare perché indegna del paradiso. Vittoria inizia allora il racconto della sua vita per convincerlo della sua innocenza. Sposata dalla famiglia a 13 anni con un uomo molto più anziano e sciancato, Vittoria si ritrova gravida ogni anno, come le altre donne del suo villaggio. Esausta di questa vita fatta di povertà e gravidanze, decide di abortire clandestinamente rischiando la propria vita. Non ne uscirà indenne. Ricoverata per un fibroma, subirà diverse operazioni che la renderanno non più fertile all’età di trent’anni. Curata male da un corpo medico che la considera come una assassina, Vittoria subisce tutta la violenza di quegli uomini che rifiutano di assumere qualsiasi responsabilità nel controllo delle nascite, chiudendo gli occhi nel momento in cui, dopo numerosi figli, lasciano alle donne la libertà di rischiare la loro vita abortendo clandestinamente. Il figlio di Dio ascolta e perdona prima di scomparire. Vittoria allora conclude raccontando la dura esperienza di una sua nipote nell’Italia di oggi. Incinta a sedici anni, potrà abortire in una costosa clinica privata milanese solo dopo aver superato gli ostacoli dei sempre più numerosi ginecologi obiettori di coscienza.

Il dialetto e il corpo dell’attore

9Accompagnato da un musicista, situato nel fondo della scena, La Ruina recita in prima persona le storie di Pasqualina e Vittoria in dialetto calabro-lucano. Seduto su una sedia, indossa un paio di pantaloni e una maglietta da uomo sopra i quali indossa un tipica vestaglietta da casa in Dissonorata o un semplice gilet rosa e dei calzettini blu in La Borto. A parte questi segni femminili discreti, nessun travestimento mimetizza il corpo maschile dell’attore che mantiene inalterata la propria voce da uomo.

10Il dispositivo teatrale dei due monologhi è identico. Esso è fondato sull’alternarsi di una relazione di distanziazione e di identificazione degli spettatori rispetto alla scena che si produce in primo luogo attraverso la straniante immagine del corpo maschile dell’attore da cui nasce la finzione di due personaggi femminili, ma anche grazie all’uso del dialetto.

  • 7 Nella presente analisi prendiamo in conto solo le possibili piste di ricezione di un ipotetico pubb (...)

11L’uso del dialetto produce un particolare effetto nella costruzione di un pubblico di italiani come comunità di spettatori7. Il dialetto ha una particolarità, per quanto possa essere di difficile comprensione, non è mai una lingua straniera per un italiano che la riconosce subito come lingua di una parte del territorio nazionale. Il dialetto si parla essenzialmente per eredità familiare e rinvia ad un territorio e ad una cultura specifica. Per quanto possa essere italianizzato, il dialetto richiama appartenenze locali specifiche che però sono da subito riconosciute come facenti parte di un’identità nazionale comune, la cui lingua di riferimento è l’italiano. La doppia appartenenza culturale così come il bilinguismo italiano/dialetto sono dei caratteri propri dell’identità culturale italiana. Ogni italiano può riferirsi ad una appartenenza linguistica locale, che egli la usi o che sia solo la parlata del luogo delle sue origini e della generazione che lo ha preceduto. Ogni italiano riconosce nel locutore di un dialetto diverso dal suo, un connazionale. Così, se il dialetto calabrese della scena non è il mio è perché io ne parlo o ne conosco un altro che mi rinvia ad una dimensione identitaria specifica, che mi distingue e allo stesso tempo mi accomuna agli altri italiani, ugualmente legati ad una lingua locale.

12L’uso scenico del dialetto calabro-lucano mette collettivamente gli spettatori a confronto con questa dimensione specifica dell’identità lingustica italiana. Chi non capisce il dialetto della scena, si trova in una posizione di provvisorio estraniamento riflessivo che porta lo spettatore a riconoscere dietro all’estraneità, mai assoluta, della lingua scenica, la comune differenziazione rispetto alle appartenenze linguistico-dialettali che caratterizza tutto il pubblico della sala.

13La distanziazione dalla scena si produce in altro modo per chi capisce senza difficoltà il calabrese. Chi accede pienamente al contenuto della narrazione, si trova di fronte ad un’immagine della Calabria tradizionale profondamente violenta che non è, e non vuole certo essere, il ritratto etnografico di un passato ben più complesso. All’identificazone prodotta dalla lingua segue lo straniamento rispetto ad un universo originario che diventa sempre meno familiare, sempre più inquientante. Questo alternarsi di identificazione e straniamento attraverso la lingua si definisce in modi diversi a seconda dei diversi livelli di comprensione della lingua legati all’origine culturale dello spettatore, più o meno prossima all’area del dialetto calabrese e dei dialetti del Sud in generale.

14La lingua dialettale è solo uno degli elementi del dispositivo teatrale attraverso i quali si produce l’alternarsi di straniamento e identificazione dello spettatore. E proprio chi capisce meno la lingua ne fa subito l’esperienza.

  • 8 La Ruina, Saverio, “Dialoghi con lo spettatore e il critico”, in Prove di drammaturgia, n. 2, dicem (...)

15Dal corpo maschile di Saverio La Ruina emergono i due personaggi, Vittoria e Pasqualina, che sono da subito nella loro identità femminile, anche per chi non capisce bene il dialetto. Seduto e quasi immobile su una sedia, La Ruina crea i due personaggi attraverso gesti minimalisti delle mani e dei piedi, attraverso il modo di inclinare la testa, di guardare, aprire e chiudere gli occhi. Sono gesti spesso appena abbozzati, scorie o residui di una cultura posturale caratteristica delle donne di un altro tempo, iscritti nella nostra cultura visiva, grazie anche al cinema neorealista. La Ruina recupera teatralmente quella gestualità di cui Pasolini deplorava la scomparsa già negli anni Sessanta e che, malgrado l’omologazione dei corpi da lui denunciata, sono tuttavia ancora dei segni intelleggibili di identificazione, tracce visibili che, come la lingua, fanno risalire ad un passato culturale. Assieme ai gesti, e senza modificare il timbro della voce, la cadenza e il ritmo dell’elocuzione, tipico della parlata delle donne, contribuiscono a far apparire sulla scena Pasqualina e Vittoria. Preso dalla trama dei racconti dei due personaggi e/o dalla codificazione visiva di quei gesti femminili appena accennati, lo spettatore entra nella finzione, crede a “quelle concrete e verissime irrealtà del teatro”8 che sono le due donne anziane della scena. Costantemente però, la sua attenzione si sposta sul corpo maschile dell’attore, distogliendo lo spettatore dalla possibilità di credere agli indizi gestuali o narrativi che lo hanno illuso per un attimo. La Ruina crea un dispositivo attoriale attraverso il quale viene mantenuta la distinzione fra il corpo maschile dell’attore e i personaggi femminili. Il corpo maschile dell’attore non è semplice supporto dei personaggi. Esso li produce di volta in volta sulla scena e, mantenendosi nella sua alterità in questo processo creativo, trasforma i monologhi delle due donne in dialoghi fra maschile e femminile. Questo è l’aspetto centrale del dispositivo teatrale dei due spettacoli.

La scena come dispositivo di ascolto della differenza

16L’ordine sociale patriarcale si fonda sulla gerarchizzazione e subordinazione del femminile al maschile. Assegnate alla sfera privata e riproduttiva, le donne non sono riconosciute pienamente come soggetti, interlocutori dotati di volontà, responsabili, capaci di scegliere. Questo diniego legittima la dominazione maschile e la subordinazione delle donne, escludendo ogni possibile relazione di scambio ugualitario fra donne e uomini. È proprio questa logica che la scena teatrale sovverte, creando le condizioni di possibilità per un dialogo fra uomo e donna attraverso il riconoscimento di ciò che nell’immaginario patriarcale maschile viene negato: la soggettività femminile.

  • 9 Se sulla scena l’alterità del corpo femminile è rispettata, in La Borto, Vittoria descrive efficace (...)

17La scena elabora principalmente l’immaginario maschile a riguardo delle donne. Nei due monologhi La Ruina non prende la parola al posto delle donne e non si sostituisce ad esse per denunciare le violenze subite. Il corpo femminile in sé resta esterno alla scena come a figurare la sua alterità solo parzialmente appropriabile dal maschile9. L’attore mantiene l’identità maschile del suo corpo che non mimetizza né trasforma in finzione del femminile. Egli si limita ad appropriarsi e a farsi interprete di quei segni della comunicazione non verbale (gesti, cadenze della voce) che contraddistinguono la presenza femminile all’interno del sistema patriarcale. Attraverso questi segni o tracce ricostruisce la rappresentazione di una soggettività femminile positivamente riconosciuta come alterità fonte di un narrativo, quello dei due vissuti di Pasqualina e Vittoria.

18L’autore in molte interviste spiega di aver costruito i due monologhi dopo aver ascoltato i racconti delle esperienze di donne calabresi e dopo aver attentamente osservato la loro gestualità per riprodurla sulla scena. Ed è proprio questa postura dell’ascolto da parte di un uomo che il dispositivo teatrale dei due spettacoli riproduce di fronte allo spettatore. Il mantenimento della differenza fra corpo maschile e personaggi femminili serve a creare sulla scena le condizioni di un ascolto, rispettoso della differenza e opacità dell’altro. L’assenza del corpo femminile, solo evocato da tracce che ne creano la finzione, indica metaforicamente il rispetto di un’alterità irriducibile corpo maschile dell’attore che non preclude la possibile empatia e capacità di ascolto dei personaggi femminili.

19Pasqualina e Vittoria portano sulla scena drammatiche storie legate alla maternità. È proprio attraverso l’elaborazione scenica del rapporto del maschile col materno che l’autore riesce a sovvertire la gerarchizzazione dei sessi che struttura l’immaginario patriarcale. Se Pasqualina dà alla luce un bambino che si chiama Saverio, come l’autore/attore che crea il personaggio, Vittoria spiega le ragioni del suo aborto a Gesù, al figlio di Dio. L’interlocutore di queste madri è in primo luogo un figlio, che nello spazio dello spettacolo progressivamente riesce a intendere le ragioni della madre, imparando ad ascoltarla in quanto donna e non solo come madre. Ciò è particolarmente evidente in La Borto dove è addirittura il Figlio di Dio che ascolta Vittoria, calma la sua rabbia accusatoria contro la scelta dell’aborto per poi svanire nel nulla salutando la madre con un gran sorriso. Per nulla conforme alla dogamtica cattolica, questo Gesù appare soprattutto come figlio che ascolta, che riesce a capire le ragioni della madre.

20La scena mostra un figlio che ha una vera capacità di capire le scelte della madre e ciò gli permette di identificarla, oltre che come propria madre, anche come donna, soggetto autonomo di scelte e di responsabilità. Questo sguardo sul materno attesta il passaggio all’età adulta del figlio che esce dal rapporto di identificazione con il materno, necessario durante la crescita ma che altrettanto necessariamente deve essere modificato una volta raggiunta la maturità. La distinzione fra corpo maschile dell’attore e personaggi materni rafforza simbolicamente l’immagine di questo necessario “scorporamento” del figlio rispetto al corpo protettivo materno che garantisce tanto l’autonomia del figlio e della madre quanto la possibilità di una relazione ugualitaria fra donne e uomini adulti.

21È importante sottolineare questa dimensione simbolica dei due monologhi poiché proprio rappresentando questo percorso di emancipazione del figlio dalla dipendenza materna i due spettacoli figurano e sovvertono uno dei principali fondamenti della dominazione patriarcale.

  • 10 Lacoste du Jardin, Camille, La vaillance des femmes, Paris, La Découverte, 2008, p. 5.

22Come sottolinea l’antropologa Camille Lacoste du Jardin, “nelle società patriarcali le donne e gli uomini si erano trovati chiusi nei ruoli rispettivi di ‘essenzialmente madre’ e ‘essenzialmente figlio’, ruoli che rendevano gli uni e gli altri indisponibili per rapporti più ugualitari”10. Legati da una relazione di dipendenza, madre e figlio non hanno relazioni di scambio ugualitario. L’incapacità di emanciparsi da questi ruoli, di relativizzarli al solo periodo dell’infanzia, non permette di sospendere la relazione di dipendenza che si trasforma in relazione di dominio e di controllo non più della madre sul figlio ma al contrario del maschile adulto sulle donne. È infatti il fratello di Pasqualina, unico figlio maschio, che esegue la condanna della sorella, dando fuoco al suo corpo gravido, segno della trasgressione del codice d’onore.

23L’immagine del maschile dominatore che appare nella narrazione di Pasqualina viene da subito decostruita dal dispositivo attoriale dell’ascolto che abbiamo appena descritto. La finzione del testo viene da subito contraddetta dalla ‘realtà’ del corpo maschile dell’attore che accoglie il personaggio femminile ristabilendo le condizioni per una relazione di scambio, di ascolto e non di dominio. Il contenuto della finzione narrativa è negato dalla performance attoriale. Lo spettatore se ne rende conto progressivamente, oscillando fra l’adesione alla narrazione che lo integra nella finzione del mondo patriarcale e la presa di distanza riflessiva grazie alla presenza del corpo dell’attore. Ma non solo. Altri elementi interni alla stessa narrazione concorrono a provocare la distanziazione riflessiva dello spettatore, a cominciare dalla profonda violenza subita dalle donne in quell’universo popolare e che è descritta in modo crudo, senza retoriche del dolore.

24In entrambi i monologhi diversi passaggi indicano allo spettatore la natura fittizia della descrizione della Calabria di Pasqualina e Vittoria. I loro racconti contengono infatti numerose derive grottesche e surrealiste. Diventare moglie e soprattutto madre è l’unico modo per ottenere un minimo di considerazione e libertà. Pasqualina descrive allora l’orrore di chi non riesce a sposarsi attraverso una accumulazione di immagini sempre più grottesche: donne che si buttano dai balconi per disperazione, altre che trasformano il monumento ai caduti in luogo di pellegrinaggio, ecc. Nel finale, quando il giorno di Natale dà alla luce suo figlio, Pasqualina riprende le parole del maiale filosofo, alter ego surrealista del bue da presepe, che si propone come protettore del piccolo Saverio. Nella lista che fa Vittoria dei rimedi inventati dalle donne del villaggio per evitare o interromprere le gravidanze c’è di tutto: lavori domestici notturni di tutti i tipi per aspettare che il marito dorma, inutili filtri tossici, che rendono solo cieche, cadute provocate dai tavoli o nelle scale che rendono zoppe, ecc. Il miglior rimedio ad un certo punto sembra venire da una donna che pregando la Madonna del Pollino non è rimasta incinta da due anni. Tutte le donne del villaggio si mettono a seguire il suo esempio, affollando la chiesa giorno e notte. Pregano tutti i santi, anche uno dimenticato nel sottoscala della chiesa e di cui nessuno sa il nome. Quando il sistema si rivela inefficace, le donne si rivoltano e fanno a pezzi tutte le statue della chiesa, provocando la morte per disperazione del prete del villaggio. Atto di luddismo antireligioso, la scena ilarante e grottesca va ben al di là di qualsiasi realismo.

  • 11 È l’autore stesso che indica questa estensione della problematica del monologo alla questione attua (...)

25Le derive surrealiste, assieme alla violenza dei contenuti narrati, portano lo spettatore ad uscire dall’illusione teatrale e a sospendere la sua credenza nella veridicità del mondo tradizionale descritto. La narrazione stessa provoca questa disillusione dello spettatore. È significativo a questo riguardo che ne La Borto Vittoria esca dal contesto storico del suo racconto e metta in parallelo la sua vicenda con l’odissea della sua nipote sedicenne che, per evitare i ginecologi anti-abortisti deve andare in una clinica a Milano. Il finale stabilisce così una linea di continuità fra la problematica centrale attraverso cui il mondo tradizionale è evocato. Il disfunzionamento delle relazioni fra uomini e donne, il controllo del corpo delle donne e la gerarchizzazione fra i sessi permane come questione centrale nell’Italia di oggi. In modo analogo, la storia di Pasqualina non appare allo spettatore informato solo come un fatto di un altro tempo. Casi analoghi di donne bruciate o barbaramente uccise non sono estranei alle cronache italiane o di paesi come l’India, il Pakistan, il Medio Oriente ecc. o ancora delle comunità di quei paesi immigrate in Occidente11.

26Ciò che fa credere alla realtà teatrale della cultura popolare rappresentata è essenzialmente la lingua dialettale, potente vettore di produzione di appartenenze esclusive. Così come ciò che fa credere ai due personaggi femminili, e crea la relazione di identificazione alla scena dello spettatore, è la gestualità e la cadenza della voce. Ma nell’insieme il dispositivo teatrale è costruito per disilludere sistematicamente lo spettatore facendogli prendere coscienza dei processi identificatori in cui è stato coinvolto.

27Da un lato, lo spettatore realizza la persistente forza di quelle tracce di un ordine culturale passato (tanto la lingua dialettale quanto le forme espressive del corpo, cioè i gesti) nel produrre schemi identitari cui sembra difficile sottrarsi. Quei segni sono infatti ciò che struttura la finzione teatrale cui lo spettatore aderisce. Tuttavia, il dispositivo teatrale è costruito in modo da produrre regolarmente lo straniamento dello spettatore rispetto alla scena. Attraverso l’alternarsi di identificazione e distanziazione lo spettatore è condotto a relativizzare il valore univoco delle tracce di quel mondo passato. Nell’esperienza della scena, esse diventano sempre più delle metafore di una singolarità, frutto di una stratificazione della memoria, veicolata in particolare dalle lingue, che ricollega lo spettatore a delle identità collettive specifiche che tuttavia hanno un valore relativo. Svelando l’illusorietà del mondo tradizionale rappresentato, la scena impedisce qualsiasi possibilità di adesione identitaria ad esso, qualsiasi possibilità di iscrivere in esso la propria origine per farne la base di un’identità chiusa e univoca, fonte di violenza e dominio.

28La finzione del mondo tradizionale sembra servire da mediazione per elaborare precisamente questa questione dell’origine della violenza, che, proiettata sulla società patriarcale, si trova ad essere rappresentata come effetto dello squilibrio nelle relazioni di genere e come conseguenza della non accettazione della differenza. Il dispositivo teatrale dei due monologhi, come abbiamo cercato di mostrare è precisamente volto a suggerire, decostruendo le rigide identità di genere del patriarcato dal punto di vista maschile, la strada verso la costruzione di identità singolari aperte alla valorizzazione positiva della differenza, intese come processi che permettono di stabilire relazioni ugualitarie.

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Note

1 Gauchet, Marcel, “La mondialisation, le mondial et l’universel” (in http://gauchet.blogspot.fr/2007/05/la-mondialisation.le-mondial-et.html).

2 Per una analisi di orientamento sociologico sul fenomeno della globalizzazione in Italia, vedi Cesareo, Vincenzo (a cura di), Globalizzazione e contesti locali. Una ricerca sulla realtà italiana, Milano, Fanco Angeli, 2003.

3 Per una sintesi sulla posta in gioco nell’interesse e nell’uso per le culture popolari in sede antropologica e demologica vedi Dei, Fabio, Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma, Meltemi, 2007. Su culture popolari e globalizzazione vedi anche Bausinger, Hermann, Vicinanza estranea. La cultura popolare fra globalizzazione e patria, Pisa, Pacini Editore, 2008.

4 Nato a Castrovillari nel 1960, Saverio La Ruina si diploma alla Scuola di Teatro di Bologna. Nel 1992 è cofondatore della compagnia teatrale Scena Verticale (www.scenaverticale.it). Come attore e regista, Saverio La Ruina partecipa a diverse produzioni della compagnia fra le quali va segnalato un percorso shakespeariano che va da Hardore di Otello. Tragedia calabro-shakespeariana (2000), a Amleto ovvero cara mammina (2002) e Kitsch Hamlet (2004). La Ruina approda alla scrittura drammaturgica con Dissonorata. Un delitto di Calabria nel 2006. Lo spettacolo ottiene un successo di pubblico e di critica immediato e nel 2007 riceve il prestigioso premio UBU per l’interpretazione e per la drammaturgia. Nel 2009 scrive e recita il monologo La Borto per il quale ottiene il premio UBU per il miglior testo italiano inedito. Con il suo più recente monologo, Italianesi (2011), La Ruina ottiene ancora il riconoscimento UBU come miglior attore. Attualmente inediti, solo dei testi di Italianesi e Dissonorata è annunciata la prossima pubblicazione. Diversi estratti degli spettacoli sono disponibili sul sito youtube.com. Rinviamo il lettore in particolare alla visione di un estratto da Dissonorata (http://www.youtube.com/watch?v=dRHfJDNfvoU) e uno da La Borto (http://www.youtube.com/watch?v=Cak3oQzhTtQ).

5 La pluralità delle forme di ricezione dell’evento teatrale e dei percorsi individuali di costruzione del senso da parte dello spettatore sono iscritti nel dispositivo teatrale che verrà dunque analizzato in questa prospettiva. Per un approfondimento di tale prospettiva critica, si veda in particolare Rancière, Jacques, Le spectateur émancipé, Paris, La Fabrique, 2008.

6 L’errata ortografia del titolo del monologo rinvia alla cultura esclusivamente orale della protagonista che non istruita non conosce l’esatta struttura della parola “aborto”.

7 Nella presente analisi prendiamo in conto solo le possibili piste di ricezione di un ipotetico pubblico italiano. Per un pubblico non italiano, il dialetto è semplicemente una lingua straniera, cui accede attraverso i sottotitoli che sono evidentemente assenti nelle rappresentazioni in Italia.

8 La Ruina, Saverio, “Dialoghi con lo spettatore e il critico”, in Prove di drammaturgia, n. 2, dicembre 2009, p. 29.

9 Se sulla scena l’alterità del corpo femminile è rispettata, in La Borto, Vittoria descrive efficacemente quello sguardo maschile patriarcale che trasforma il corpo femminile in puro oggetto d’uso di cui vengono solo rilevate le parti legate agli stereotipi della seduzione. Appostati sulla via principale del villaggio gli uomini scrutano le donne vedendo non soggetti ma solo gambe, seni, bocche, ecc. Ne selezionano gli esempi migliori che vengono assemblati nell’immaginario per creare l’oggetto perfetto di un desiderio maschile incapace di confronto con la realtà del soggetto femminile. Questa parte del monologo può essere visionata su You Tube (http://www.youtube.com/watch?v=Cak3oQzhTtQ).

10 Lacoste du Jardin, Camille, La vaillance des femmes, Paris, La Découverte, 2008, p. 5.

11 È l’autore stesso che indica questa estensione della problematica del monologo alla questione attuale della violenza contro le donne nel mondo. In una recensione a Dissonorata, viene riportata la seguente dichiarazionie dell’autore: “Sono sì partito da un sostrato di storie vere tramandate da un’oralità popolare che le ha elevate al rango di piccole epopee femminili. Ma ho trovato nuova ispirazione dalle tragiche e purtroppo attuali storie che hanno come protagoniste, loro malgrado, le donne musulmane, sempre più vittime di violenze considerate legittime come avveniva nella Calabria del passato. È un modo per non abbassare la guardia, lì come qui, di fronte a questo dolore spesso silenzioso e inerme” (http://www.associazioneculturaleolivadese.it/dissonorata.-un-delitto-d-onore-in-calabria.html).

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Anna Mirabella, «Identità e culture popolari nell’Italia globalizzata. Studio sul teatro di Saverio La Ruina»Narrativa, 35-36 | 2014, 171-181.

Notizia bibliografica digitale

Anna Mirabella, «Identità e culture popolari nell’Italia globalizzata. Studio sul teatro di Saverio La Ruina»Narrativa [Online], 35-36 | 2014, online dal 01 avril 2022, consultato il 07 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/narrativa/1178; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/narrativa.1178

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Autore

Anna Mirabella

Université de Nantes, L’AMo - EA 4276

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