- 2 La prime tre serie si leggono, rispettivamente, in Amato 2015 ; in Amato 2016a e in Amato 2016b.
1Il presente contributo costituisce la quarta parte di una nutrita serie di osservazioni esegetico-testuali consacrata all’insieme degli scritti di Coricio di Gaza2 ed esso è il frutto del lavoro di edizione, con traduzione e commento, dell’intero corpus coriciano che vado preparando per la CUF sotto l’egida dell’Institut universitaire de France.
2Nello specifico, l’articolo propone note critiche a quattro delle declamazioni del retore gazeo : l’Apologia mimorum, il Patroclus, il Vir fortis ed il Rhetor (opp. XXXII, XXXVIII, XL e XLII Foerster / Richtsteig).
- 3 Per la natura letteraria dell’Apologia mimorum di Coricio, si seguono le co (...)
- 4 Per un attento studio del passo, rinvio a Corcella 2014, 24-28.
3Coricio, in conclusione della theoria che precede il suo discorso – da ascrivere piuttosto al genere declamatorio che a quello dell’oratoria pubblica3 –, ne definisce soggetto e finalità per il suo pubblico4 :
Οἷς μὲν οὖν ἦθος ἀστεῖον καὶ χάρις ἔμφυτος ἐπανθεῖ, τούτοις ἔστω μοι συνηγορία ἠθῶν ὁ λόγος· ὅτῳ δὲ φίλον κατὰ τὴν ποίησιν ἀναίτιον αἰτιάσασθαι καὶ σεμνότερος εἶναι δοκεῖν ἐθέλει τοῦ δέοντος, οὗτος γυμνάσιον καλείτω μοι τὴν ὑπόθεσιν.
« Per coloro in cui fiorisce un’indole spiritosa e un’innata leggiadria, per costoro sia il mio discorso una difesa dei caratteri ; a chi, al contrario, è gradito, per dirla poeticamente, “incolpare chi è senza colpa” (Hom., Il. 13, 775) e vuole apparire più austero del dovuto, costui definisca pure il mio soggetto un’esercitazione ».
- 5 Per la tradizione manoscritta coriciana ed il ruolo in essa giocato da M, v (...)
- 6 Vd. Corcella 2016.
- 7 Vd. Stefanis 1986, 34, 54 e 147.
- 8 Vd. Flusin 1988.
- 9 Vd. Sideras 1987, 186.
- 10 Vd. Kochanek 2013, 38.
- 11 Vd. Corcella 2014, 25, n. 13.
4Un evidente problema è rappresentato nel passo dal genitivo ἠθῶν di l. 2, correzione di Rohde per ἡμῶν di M (Matr. 4641), codex unicus per la nostra declamazione così come per la maggior parte dei discorsi di Coricio trattati in questa sede5. La congettura, ritenuta infelice ancora di recente da Corcella6, è stata respinta da Stefanis, il quale vi sostituisce μίμων sulla base essenzialmente del confronto con § 54 (p. 356, 14-15), dove Coricio utilizza l’espressione μίμων συνηγορία7 ; tale soluzione, giudicata « séduisante » da Flusin8, è stata approvata tout court da Sideras9, Kochanek10 e dallo stesso Corcella11.
- 12 Così Corcella 2014, 27.
- 13 Al riguardo, si condivide l’ottima interpretazione del passo fornita da Stefanis 1986, (...)
5Su tale strada, non sarebbe forse del tutto irragionevole proporre, come soluzione alternativa, una congettura del tipo ἡμῶν τῶν μίμων, più facilmente spiegabile dal punto di vista paleografico come mero errore di saut-du-même-au-même (ἡμ<ῶν τῶν μίμ>ων). La difesa che Coricio fa dei mimi sarebbe, dunque, strettamente legata all’ambiente gazeo ed ai locali spettacoli di mimo, il che ben si confà ad una declamazione che, come ben messo in luce recentemente da Aldo Corcella12, lungi dall’essere ambientata nella fittizia Sofistopoli tipica delle declamazioni di scuola, fa esplicito riferimento alla realtà di Gaza e della Palestina contemporanee, con allusioni a personaggi e situazioni specifiche note all’immediato pubblico gazeo e talora comprensibili unicamente per esso (si pensi, in particolare, all’allusione, al § 145, all’archimimo Secundo13 e ancora a quella, ai §§ 57-58, ai fratelli, entrambi mimi, originari di Gaza e trasferitisi probabilmente a Costantinopoli).
- 14 L’uso del termine ἦθος nel senso di dramatis persona è classico : cf. Ar., (...)
6In realtà, vorrei caldeggiare qui anche un’altra ipotesi finora mai neppure tentata, ovverosia che il discorso coriciano, attraverso l’apologia dei mimi, possa essere stato in realtà imbastito per difendere l’arte mimica dell’oratore stesso ed in generale dei declamatori di scuola – di qui il plurale ἡμῶν –, i quali notoriamente si trovavano ad impersonare i caratteri dei personaggi delle proprie declamazioni, fino al punto da divenire essi stessi all’occorrenza attori di teatro : in particolare, al § 95 dell’Apologia, Coricio ricorda la recitazione di mimi a Cesarea da parte di retori illustri, non dimostratisi inferiori per bravura agli attori di professione (p. 365, 25-366, 2 : ἀφικνεῖται γὰρ ἅπασα τῆς πόλεως ἡ σκηνή, παραγίνονται δὲ καὶ ῥήτορες ἄνδρες τὰ μίμων ὑποκρινόμενοι οὐ φαύλως βεβιωκότες οὐδ’ εὐγλωττίᾳ λειπόμενοι τῶν ὁμοτέχνων). Alquanto significativo per il nostro proposito risulta essere anche il soggetto di ben due distinte dialexeis sopravvissute nel corpus coriciano : nella prima (dial. 12 [op. XXI F.-R.]), il retore tiene a dimostrare “che occorre che gli oratori (al plurale) s’impegnino ad imitare i caratteri14 dei soggetti delle loro declamazioni” (ὅτι χρὴ τοὺς παριόντας ἐπιχειρεῖν τὰ τῶν μελετωμένων ἤθη μιμεῖσθαι) ; nella seconda (dial. 21 [op. XXXIV F.-R.]), “che l’oratore deve salvaguardare il carattere del personaggio soggetto di declamazione per l’intera durata del discorso” (ὅτι δεῖ τὸν παριόντα τοῦ μελετωμένου τὸ ἦθος διὰ παντὸς φυλάξαι τοῦ λόγου). E varrà la pena sottolineare come, nella prima delle due pièces (§ 1), Coricio richiama esplicitamente, per il suo pubblico che vi ha assistito, modelli presi in prestito dagli spettacoli mimici in teatro.
- 15 Si veda, in particolare, Schouler 1987 ; Schouler 2001 ; White 2009 ; White (...)
7Tutto ciò mostra bene, laddove sussistessero ancora dubbi, quell’affinità dell’arte mimica col mestiere di retore, quale è stata giustamente sottolineata dagli studiosi che si sono interessati a Coricio15.
8Il testo trasmesso da M potrebbe allora costituire l’esito di una corruttela più ampia, dovuta pur sempre a errore di saut-du-même-au-même, da sanare vuoi con le parole ἡμ<ῶν τὰ (τῶν μελετωμένων) ἤθη μιμουμέν>ων (cf. l’inscr. della già citata dial. 12 : τὰ τῶν μελετωμένων ἤθη μιμεῖσθαι) – il che permetterebbe, per giunta, non solo di recuperare in parte l’iniziale congettura di Rohde, forse liquidata troppo sbrigativamente dalla critica moderna, ma anche stilisticamente l’eventuale gioco di parole ἦθος / ἤθη – vuoi con ἡμ<ῶν τὰ μίμων ὑποκρινομέν>ων (cf. il già citato § 95 della nostra declamazione : ῥήτορες ἄνδρες τὰ μίμων ὑποκρινόμενοι).
9Subito dopo aver evocato in maniera esplicita il mito omerico – narrato in Od. 8, 266-367 – dell’adulterio di Ares ai danni di Efesto per amore di Afrodite : « Bene ! Ma come classificheremo i miti di Omero, ove è stato osato un adulterio di dèi, Ares che profana il letto di Efesto ed è caduto nella sua trappola ? » (§ 39 : εἶεν· τοὺς Ὁμήρου δὲ μύθους ποῦ τάξομεν, <ἐν> οἷς τετόλμηται μοιχεία θεῶν, Ἄρης τὴν Ἡφαίστου μιαίνων εὐνὴν καὶ ταῖς ἐκείνου μηχαναῖς ἐμπεσών;), Coricio ironizza :
Εἶτα μειράκια μὲν ἀπαγγέλλειν ἐκεῖνα παρασκευάζομεν καὶ τοσαύτην ποιούμεθα τούτου σπουδήν, ὡς τὸν ἀμελοῦντα ταῖς κατὰ τὸν παιδαγωγὸν σωφρονίζειν πληγαῖς.
« E poi noi prepariamo i ragazzi ad esporre quelle cose e in ciò mettiamo tanto zelo da correggere il negligente con le sferzate del pedagogo ! ».
- 16 Vd. Kaibel 1890, 111-112.
- 17 Vd. Headlam & Knox 1922, 464.
10Κατὰ τὸν παιδαγωγὸν è correzione di Foerster per κατὰ τὸν ποσειδῶν di M. L’intervento non ha fondamento paleografico alcuno né diversamente può dirsi per la proposta di Kaibel, il quale arriva perfino ad avanzare κατὰ τὸν Ἀσπασίαν e ciò sulla base di Pl., Mx. 236b, dove si legge che Socrate, il quale ha Aspasia come maestra, impara a memoria la lezione per paura delle bacchettate16 ; peggio ancora Knox, che intravede nel passo una corruzione per κατὰ τῶν ὀπισθιδίων17.
- 18 Vd. Van Dis 1897, 7-8.
- 19 Cf. anche Max. Tyr., diss. 29, 1, 30-31 Trapp.
- 20 Vd. Stefanis 1986, 76 e 158-159.
11Replicando a Édouard Tournier, il quale proponeva di stampare, in maniera stilisticamente del tutto inadatta, ναὶ μὰ τὸν Ποσειδῶ, W. Van Dis sembra incamminarsi sulla buona strada, limitandosi a scrivere κατὰ τὸν Ποσειδῶνα (o Ποσειδῶ) e vedendo in tale formula un’allusione alle inutili frustrate inferte da Serse al mare in Hdt. 7, 35 : « id est » – è il commento dello studioso – « pueros ignavos afficere plagis, quae frustra infligantur »18. Per quanto suggestiva, l’ipotesi di Van Dis appare francamente troppo arzigogolata, oltre che in contraddizione col testo coriciano : se in Erodoto è Poseidone (ovverosia il mare) a ricevere le sferzate19, in Coricio è questione di sferzate inferte “col concorso di Posidone”. Al confronto, risulta senz’altro più plausibile la proposta avanzata, in tempi più recenti, da Stefanis, il quale, pur mettendo il passo tra cruces, ipotizza, tra l’altro, nel commento che qui Coricio, sulla base di un fraintendimento a partire da Lib., or. 64, 41 Foerster (σοφιστὴς Τύριος, ὃς τῇ γλώττῃ τὰ τοῦ Ποσειδῶνος ἴσχυε σείων τε καὶ τινάσσων ἅπαντα), abbia voluto intendere che gli allievi negligenti sono sferzati “coi colpi di Posidone”, ovverosia alla stessa maniera in cui il dio dei mari scuote la terra20.
12Personalmente, ritengo anch’io come van Dis e sostanzialmente Stefanis che il testo di M risulti da una banale corruzione dell’originario κατὰ τὸν Ποσειδῶνα (o Ποσειδῶ) ; tuttavia, diversamente da entrambi, credo che la spiegazione della presenza di Poseidone vada trovata all’interno stesso del testo di Coricio.
- 21 Cf. Hom., Od. 8, 344-358.
- 22 Cf. e. g. Philostr., Im. 2, 14, 2.
13Come già accennato, l’oratore richiama, nel § precedente al nostro, l’adulterio di Ares ed Afrodite ai danni di Efesto. Ebbene, Poseidone gioca un ruolo fondamentale all’interno di tale mito, dal momento che è proprio grazie alla sua intercessione che la coppia di adulteri è liberata : Poseidone si porta, difatti, garante della pena inflitta ad Ares con conseguente cambiamento di disposizione di Efesto21. Coricio, dunque, non fa altro che sviluppare ulteriormente l’allusione al mito omerico, evocato subito prima, richiamando Posidone, uno dei cui attributi topici era, del resto, la πληγή ovverosia il colpo inferto col tridente22.
14A dimostrazione che le azioni dei mimi sono scherzose e non recano danno alcuno al pubblico, Coricio ricorda il caso dei prostituti nei simposi :
Αὐτοὺς γὰρ τοὺς πεπορνευμένους, οὓς ὀνομάζομεν ἐκ τοῦ τὰ σώματα διαλελύσθαι τῷ πάθει, ἡμέρας ὡς εἰπεῖν ἑκάστης ὁρῶντες ἀκούοντές τε κυμβαλιζόντων ἐν τοῖς συμποσίοις οὐδεμίαν αἰσθανόμεθα βλάβην ἐντεῦθεν ἡμῖν ἑπομένην.
« In effetti, quanto agli individui che si prostituiscono, che chiamiamo dall’indebolirsi dei loro corpi a causa del loro male, pur ammirandoli e ascoltandoli, per così dire, quotidianamente suonare il cembalo nell’àmbito dei simposi, ci rendiamo conto che alcun danno ne consegue a noi ».
- 23 Vd. Kaibel 1890, 111.
- 24 Vd. Gomperz 1878, 12 (= Gomperz 1912, 235).
- 25 Vd. Stefanis 1986, 98 e 172.
- 26 Vd. Corcella 2016.
- 27 Vd. Sideras 1987, 187, n. 9.
15Il testo così stampato da Foerster-Richtsteig risulta da una correzione di Kaibel23 del tràdito ἐκ τούτου in ἐκ τοῦ, laddove Gomperz24 proponeva di correggere lo stesso in ἐκλύτους e di sopprimere, a fronte di una diversa interpunzione del testo, l’infinito διαλελύσθαι. In tempi più recenti, Stefanis25 ha postulato una lacuna dopo οὓς, supponendo anch’egli la caduta di un termine quale ἐκλύτους. Di diverso avviso Corcella26, il quale seguendo Sideras27, ritiene più ovvio pensare che il vocabolo – se non ἔκλυτοι, forse, per lo studioso italiano, παθικοί o anche μαλακοί, con rinvio a Plu., san. 136B – « non sia menzionato ma vada compreso a partire dalla trasparente perifrasi ».
16In realtà, ad un attento studio del lessico coriciano, il verbo ὀνομάζω risulta essere sempre completato, in contesti simili, vuoi da un appellativo apertamente espresso (cf. op. V, 18 ; VIII, 52 ; XIV, 35 ; XV, 5 ; XXIII, 4 ; XXXIV, 5 ; ecc.) vuoi da un avverbio (cf. op. XXIX, 54 e XXXV, 64).
17È molto probabile, dunque, che dopo οὓς sia caduto, per salto da simile a simile, vuoi l’avverbio οὕτως – significativo il parallelo di D. L. 2, 106 : Μεγαρικοὶ προσηγορεύοντο, εἶτ’ ἐριστικοί, ὕστερον δὲ διαλεκτικοί, οὓς οὕτως ὠνόμασε πρῶτος Διονύσιος ὁ Χαλκηδόνιος διὰ τὸ πρὸς ἐρώτησιν καὶ ἀπόκρισιν τοὺς λόγους διατίθεσθαι ; in unione ad ὀνομάζω l’avverbio è usato da Coricio nel già citato passo di op. XXXV, 64 : οὕτω γὰρ ἂν αὐτὸν ὠνομάζετε – vuoi – anziché il più banale e quasi scontato ἐκλύτους (cf. e. g. Lib., arg. Dem. pr. 5, 7 Foerster ; Jo. Chr., ad Timoth. in PG 62, col. 634, 57 ; Jo. Lyd., Mag. 3, 65, 2 Schamp) – il termine, senz’altro più raro, διαλύτους (cf. nuovamente Plu., san. 136B), di cui Coricio fornirebbe chiaramente qui l’etimologia.
18Quanto ad ἐκ τούτου successivo, nulla osta all’ipotesi di Kaibel di vedervi un errore, piuttosto banale, di dittografia per ἐκ τοῦ ; tuttavia, non rinuncerei neppure ad un’ulteriore ipotesi, quella cioè di riconoscervi una corruzione per ἐκ τούτου τοῦ (cf. Dydim., In ep. cathol. 30, 11 Zoepfl ; Theod. Lasc., laud. Io. Duc. 508 Tartaglia).
19Rivolgendosi ad Achille, Patroclo esclama :
Ὑπείξωμεν οὖν ἅπασι τούτοις, ὅπως καὶ τῷ Μενοιτίῳ τὰς ὑποσχέσεις ἐκτίσωμεν, ἅς, ἐπειδὴ λήθην αὐτῶν εἰληφέναι δοκεῖς, ἀναμνῆσαί σε βούλομαι.
« Cediamo, dunque, a tutto ciò, in modo anche da soddisfare le nostre promesse a Menezio, delle quali desidero rinnovarti il ricordo, giacché sembri averle dimenticate ».
20Come mostra il parallelo di op. XXXV, 131 (εἴξωμεν οὖν, εἰ δοκεῖ, παραινοῦντι [p. 426, 21]), alla lezione ὑπείξωμεν di una parte della tradizione manoscritta va senz’altro preferita la variante di M, εἴξω μὲν, che si correggerà in εἴξωμεν. Invero, già al § 3 della nostra declamazione, Patroclo ha impiegato il medesimo verbo, indirizzandosi sempre ad Achille (εἶξον λοιπόν, Ἀχιλλεῦ, Πατρόκλῳ δακρύοντι καὶ χρόνῳ παραδραμόντι καὶ βαρβάρων πυρὶ καὶ μεγίσταις τῶν Ἀχαιῶν συμφοραῖς [p. 439, 8-11]).
21Coricio ricorda, per bocca di Patroclo, i termini della restituzione di Briseide da parte di Agamennone ad Achille :
Οὐ τοίνυν πολλὰ καὶ λαμπρὰ χαριζόμενος Βρισηΐδα τῶν δώρων ὠνεῖται. οὐδὲ δίδωσι μέν, δίδωσι δὲ τῆς εὐνῆς ἐπιβάς, οὐδὲ κοσμίως ἀποδιδοὺς ἐν ὑπονοίαις δυσχεραίνειν παρῆκεν, ἀλλ’ ἀνεῖλε τοῦτο καθάπαξ ὅρκῳ καταλύσας τὴν ὑποψίαν.
22Dopo δίδωσι δὲ s’integri μήποτε, molto chiaramente caduto per salto da simile a simile (δ[ὲ μήποτ]ε), e s’intenda :
« E non solo la restituisce, ma la restituisce senza aver calcato il suo letto, né, riconsegnandola con decoro, ha permesso che tu soffrissi nelle more dell’incertezza, bensì diede questo ordine dopo aver dissipato una volta per tutte il dubbio con un giuramento ».
23A tale intervento spinge, del resto, l’ipotesto omerico di Il. 9, 133 (= 275) – μή ποτε τῆς εὐνῆς ἐπιβήμεναι – citato letteralmente da Coricio al § 33 (p. 455, 9) della presente declamazione, così come pure nel Polidamante (op. X, 29 [p. 138, 13-14]).
24Il vir fortis coriciano lamenta come il suo avversario tenti di manomettere la realtà, paragonando la questione oggetto di dibattimento a quella in cui qualcuno deve pagare un debito ad un altro : il debitore vuole pagare quanto dovuto, il creditore in alcun modo vuole riscuotere ; il primo, allora, insiste per voler restituire il dovuto, non volendo dare l’impressione di essere né povero né ingrato.
Παραβάλλει τοίνυν ἐμὲ – aggiunge il protagonista della declamazione coriciana – μὲν τῷ δεδανεικότι τὴν τῆς πόλεως σωτηρίαν δάνειον ὀνομάζων, τῷ δὲ χρέος ὀφείλοντι καὶ καταβαλεῖν ἀξιοῦντι τὸν δῆμον, ἀποδόσει δὲ τοῦ δανείσματος τὴν γραφήν. καί φησί με τῇ πόλει προσάπτειν ὑποψίαν ἀγνωμοσύνης, εἰ μὴ τὴν ἀμοιβὴν ἀπολήψομαι.
25Ἀποδόσει alla l. 3 è correzione del Foerster per ἀπόδοσιν della tradizione manoscritta. L’intervento non è da seguire, laddove s’interpunga e s’intenda correttamente il passo :
Παραβάλλει τοίνυν ἐμὲ μὲν τῷ δεδανεικότι, τὴν τῆς πόλεως σωτηρίαν δάνειον ὀνομάζων, τῷ δὲ χρέος ὀφείλοντι καὶ καταβαλεῖν ἀξιοῦντι τὸν δῆμον, ἀπόδοσιν δὲ τοῦ δανείσματος τὴν γραφήν.
« Ebbene, egli paragona me al creditore, chiamando la salvezza della città credito, il popolo, invece, al debitore ed a colui che è giusto che paghi, (chiamando) restituzione del credito il dipinto ».
- 28 Sul passo, vd. l’interpretazione fornita in Amato 2015, 136-137.
26Per una costruzione simile all’interno del corpus coriciano, cf. op. IV, 30 (p. 94, 7-8)28 : ἔπαινος γὰρ ἑκάστῳ μὲν ἐπαινουμένῳ τερπνόν, ἐρῶντι δὲ ἡδὺ παιδικῶν ἀκούοντι (« La lode è cosa gradita per chiunque sia lodato, cosa dolce, invece, per un amante che sente della sua amata »).
- 29 Vd. Denniston 1966, 165-166.
27È possibile che, all’interno della frase τὴν τῆς πόλεως σωτηρίαν δάνειον ὀνομάζων, sia caduta per saut-du-même-au-même la particella μέν da integrare vuoi dopo l’articolo τὴν ovvero dopo il sostantivo σωτηρίαν vuoi dopo δάνειον. L’omissione, tuttavia, di μέν – in opposizione a δέ – non è infrequente nella prosa attica29.
εἰ τοίνυν […] αὐτὸ δὲ τὸ μὴ γέρας λαβεῖν ᾔτησα δωρεὰν ὑποσχόμενος, ἂν ἀπέλθω τοῦτο λαβών, λύσειν τὰ δυσχερῆ, ἆρα ἄν, εἰ σμικρὰν οὕτω δέησιν ἐδεήθην τοῦ δήμου, ἀντειπεῖν ἀπετόλμας;
Traduco :
« [se] come ricompensa avessi chiesto semplicemente di non ricevere il premio, promettendo che, qualora prenda e porti a casa il risultato, lo avrei liberato dai pericoli, forse che, se io avessi rivolto al popolo una richiesta di così piccola entità, tu avresti osato opporti ? »
28Foerster indica come modello, donde Coricio si sarebbe ispirato per l’espressione δέησιν ἐδεήθην, gli Acarnesi di Aristofane (ὡς γέλοιον, ὦ θεοί, / τὸ δέημα τῆς νύμφης ὃ δεῖταί μου σφόδρα [1058-1059]) : l’ipotesi non è da escludere, per quanto il retore gazeo sembra qui rifarsi piuttosto all’oratoria attica (cf. D., or. 29, 4 ; Aeschin., or. 2, 43 e 3, 61 ; Din., or. 3, 21 ; Is., or. 9, 34).
- 30 Vd. al riguardo Albini 1997, 121-122 (= Albini 1998, 193-194 ; = Albini 199 (...)
29Ad Aristofane (ἄπελθε τουτονὶ λαβών [Av. 948]), la lettura delle cui commedie in àmbito scolastico da parte di Coricio risulta essere consistente30, andrà, al contrario, correttamente ricondotta la formula coriciana ἀπέλθω τοῦτο λαβών, per la quale nessun parallelo era stato finora indicato dagli studiosi.
30La legge consente a chiunque porti felicemente a termine una guerra di chiedere qualsivoglia premio alla città ; è a questo titolo che l’oratore protagonista della declamazione coriciana ritiene di essere meritevole di ricompensa, ma gli si oppone un militare :
Τῷ κατορθώσαντι πόλεμον ἐπέτρεπεν ὁ νόμος, ὅ τι βούλεται γέρας, αἰτεῖν καὶ παρεῖχεν αἰτοῦντι. πολιορκουμένης πόλεως ῥήτωρ μόνος ἀποτολμήσας τὴν ἔξοδον εἰς λόγους ἦλθε τοῖς ἐναντίοις καὶ πείθει καταλῦσαι τὴν προσεδρείαν καὶ χρῆται τῷ νόμῳ δωρεᾶς ἀξιοῦντι τυχεῖν. ἀντιλέγει στρατιώτης ἀνὴρ ὡς τῷ κρατοῦντι δι᾿ ὅπλων, οὐ τῷ πείθοντι λόγοις νέμοντος ἆθλα τοῦ νόμου.
31Indistintamente, tutte le declamationes coriciane presentano, a conclusione dell’hypothesis, la formula μελετῶμεν seguita dal nome del personaggio all’accusativo sia esso di tipo definito (μελετῶμεν τὸν Πολυδάμαντα, μελετῶμεν τὸν Πρίαμον, ecc.) che generico (μελετῶμεν τὸν νέον, μελετῶμεν τὸν αἰτοῦντα τὴν δωρεάν, μελετῶμεν τὸν τῆς κόρης πατέρα, ecc.).
- 31 Tale espressione ricorre unicamente nei manoscritti Ath. Laur. Ω 123 (descr (...)
32Stupisce, di conseguenza, l’assenza di tale formula alla fine dell’hypothesis del Rhetor ; essa andrà integrata per congettura vuoi con μελετῶμεν τὸν ῥήτορα31 vuoi – onde meglio spiegarne la caduta come errore di saut-du-même-au-même (νόμ[ου … ἄθλ]ου) – con μελετῶμεν τὸν ἀξιοῦντα τυχεῖν τοῦ ἄθλου (cf. op. XXVI [decl. 7], hypoth. [p. 283, 14] : ὁ κτείνας τὸν νέον … τυχεῖν ἀξιοῖ δωρεᾶς) o anche, in alternativa, μελετῶμεν τὸν αἰτοῦντα τυχεῖν τοῦ ἄθλου (cf. op. XXXII [or. 8], 46 [p. 354, 18] : οὐδ’ ἀπώκνησεν, ὅτου ἂν αἰτήσῃ τυχεῖν, ὑποσχέσθαι διδόναι).
33Coricio descrive la gioia ed al tempo stesso l’incredulità dei cittadini dinanzi alla notizia della vittoria contro i nemici ad opera dell’oratore :
Φυλαττόμενοι γάρ, μὴ τύχωσι μάτην τοσαύτης ἀπολαύσαντες ἡδονῆς, ἠπίστουν, ἠρώτων, ὅρκον εἰσέπραττον, πάλιν ἠπίστουν, ἠρυθρίων ὁμολογεῖν, ὡς οὐ πειθαρχοῦσιν ὀμωμοκότι. πολλοὺς ἐπὶ τὰς ἐπάλξεις ἀνήγαγεν ἡ τῆς ἀπιστίας ὑπερβολὴ μόνοις τοῖς ὀφθαλμοῖς τὸ σαφὲς ἐπιτρέψαντας.
- 32 Per la descrizione del manoscritto, vd. D’Alessio 2014, 243-246.
34Nel contesto, il participio aoristo ἐπιτρέψαντας, testimoniato dalla maggior parte dei manoscritti, risulta essere problematico ; a nostro avviso, ad esso va preferito il futuro ἐπιτρέψοντας attestato nel Matr. 4679 (N-49) del XIII / XIV sec.32. S’intenda : “L’eccesso di sfiducia spinse molti verso le torri di difesa onde verificare coi soli occhi la veridicità dei fatti” (corsivo mio).
35Coricio attribuisce sicuro vantaggio ad un attacco sferrato all’improvviso dai nemici il fatto che questi ultimi colpiscano la città del tutto impreparata ed inconsapevole :
[…] πλεονέκτημα μέγα καὶ νίκης ἐνέχυρον τοῖς ἐξαίφνης ἐπιστρατεύουσι τὸ τῆς ἀδικουμένης πόλεως ἀπαράσκευον, εἴπερ οἱ μὲν ἐν ἐξουσίᾳ πολλῇ ταράττοντος οὐδενὸς σφᾶς αὐτοὺς καταστήσαντες εἶτα ἐπέρχονται, ἡ δὲ τοῦ συνειδότος αὐτὴν ὑπτίαν ἐργαζομένου ῥᾳστώνην ἄγουσα τέως οὐκ οἶδεν, ἥτις γένηται θορύβῳ συνεχομένη.
36Il testo così come stampato da Foerster-Richtsteig non ha senso alcuno : dinanzi a συνειδότος, s’integri la negativa οὐ – cf. e. g. Orig., Cels. 1, 58 : Ὅρα οὖν ἐν τούτῳ τὸ παράκουσμα τοῦ οὐ διακρίναντος μάγους Χαλδαίων –, chiaramente caduta per confusione con il τοῦ precedente, e s’intenda :
« […] grande vantaggio e sicura garanzia di vittoria per chi sferra un attacco all’improvviso scaturiscono dall’impreparazione della città offesa, se è vero che i nemici, dispostisi con grande libertà di manovra, senza che nessuno sia in grado di ostacolarli, poi sferrano l’attacco, mentre la città, che la <non> consapevolezza rende indolente, se ne sta tranquilla, finché non ha consapevolezza di quale essa diventi una volta stretta dal tumulto dei soldati ».