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Appunti sulla tradizione delle satire di Luigi Alamanni

Franco Tomasi
p. 31-59

Texte intégral

  • 1  Opere Toscane di Luigi Alamanni, Lione, Gryphius, 1532 vol. I, 1533 vol. II. Dell’edizione del pri (...)
  • 2  Catalogues des Actes de François I, II, 5058 e 6520.

1Tra il 1532 e il 1533 Luigi Alamanni pubblica per i tipi di Sebastien Gryphe le opere toscane, due eleganti volumi in ottavo per un totale di circa 650 pagine di testi.1Ben lontano dall’essere quel « picciol libretto » che raccoglie le « primizie » di un « ingegno sterile », come dichiara il poeta nella lettera prefatoria al primo libro, l’edizione lionese, generosamente sovvenzionata da Francesco I,2 è di fatto un vero e proprio bilancio di una più che decennale esperienza letteraria e, insieme, un’ambiziosa ed organica proposta teorica. Nella lunga epistola proemiale indirizzata al sovrano Alamanni infatti, apparentemente solo per difendere alcune scelte metriche e di genere non ordinarie nel primo Cinquecento (endecasillabo sciolto, elegia e satira), ma in realtà per mettere in rilievo la novità della sua letteratura, espone lucidamente le scelte teoriche, in primo luogo mirate a sperimentare i generi e i temi dei classici latini e greci in lingua volgare, in nome di una ideale continuità retorica e linguistica tra antichi e moderni (« tutte le lingue son le medesime, sol che da persone discrete [...] sieno esercitate »).

  • 3  Nei testi si incontrano frequenti dichiarazioni metaletterarie nelle quali il poeta ribadisce il s (...)
  • 4  Per un’analisi della produzione lirica degli Amori di Bernardo Tasso alla luce delle possibili inf (...)

2Si tratta, a ben vedere, della proposta di un « classicismo volgare », insistentemente ribadito anche nelle poesie,3 che risponde ad istanze non diverse da quelle che animavano la produzione, ad esempio, di Bernardo Tasso, che nel ’31 pubblica gli amori, o di Gian Giorgio Trissino, al quale spesso Alamanni viene avvicinato per l’affinità degli orientamenti (riproposizione di generi classici a tutto campo, sperimentazione dell’endecasillabo sciolto e, soprattutto, stretto legame tra letteratura e politica).4 Al di là della fortuna e delle peculiarità dei singoli tentativi, è per noi interessante osservare come il presupposto comune a queste soluzioni che escono a stampa tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta fosse da un lato il riconoscimento dell’importanza degli orientamenti teorici bembeschi, accettati magari solo per le premesse o per la pars destruens (in sostanza, il rifiuto della tradizione cortigiana), e dall’altro la volontà di integrare nel piano della concreta prassi letteraria l’imitazione dei classici volgari con quella degli antichi, avanzando in questo modo dei progetti letterari se non sempre frontalmente contrapposti a quello di Bembo, almeno alternativi.

3Non sarà inutile ricordare che Alamanni doveva aver cominciato a maturare questa posizione nell’ambiente degli Orti Oricellari, dove sin dai primi decenni del Cinquecento e grazie anche all’influenza di Trissino si discutevano possibili ipotesi per una nuova letteratura volgare, considerata ormai legittimata ad affrontare il confronto con i metri e i generi della tradizione classica. All’interno di questo elitario cenacolo letterario, che Alamanni frequentò sino al ’22, quando in seguito alla partecipazione alla congiura antimedicea, fuggì in Francia, accanto alle figure più mature di Trissino, Bernardo Rucellai e, non ultimo, Machiavelli, si veniva distinguendo un generazione di giovani, tutti nati sul finire del Quattrocento, desiderosa di promuovere un nuovo modo di fare letteratura a Firenze, come ben testimonia una pagina del castellano di Trissino che nella finzione del dialogo fa affernare a Bernardo Rucellai :

  • 5  Gian Giorgio Trissino, Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma, Salerno, 1986, pp. 54 (...)

Ma io dico ancora che le propositioni sopra di esso non sono vere, le quali dicono che la lingua di dante e del petrarca non è naturalmente intesa in altri paesi che in quelli di toscana. e questo non essere vero si può con la prova istessa conoscere; anzi, più vi dirò che ’l petrarca meglio s’intende in lombardia che in Fiorenza. e di lombardia, o per meglio dir de la marca trevigiana, la quale noi per il suo antico nome nominiamo venezia, vennero ne la nostra età le prime osservazioni e le prime regole de la lingua di lui, cominciatesi ad osservare in Padoa per messer giovan aurelio da rimene, e poi seguite per messer bembo, per messer triphon gabriele, per messer giovanfrancesco fortunio, per messer Nicolò delfin, per il fracastoro, per iulio camillo, e per altri di quel paese ch’io non nomino, et in vero il stilo loro dimostra di quanta lunga avanzino i nostri scrittori, e fra li stili di homini non toscani quanto risplenda quello di messer Jacopo sannazaro qui a ciascuno è manifesto. e ciò adiviene per usarsi da loro una lingua eletta, illustre e cortigiana. ma noi, che semo de la pura fiorentina contenti, non possemo a la loro vaghezza aggiungere. e, tra i nostri, quelli che sono più da la patria lingua partiti et a quella di dante e del petrarca accostati hanno havuto il miglior stilo, come il benivieni, lo alemanno, il guidetto, il Buondelmonte e la buona memoria di cosmo mio nipote.5

  • 6  Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, vol. II Testo, a cura di D. De Robertis, Fire (...)
  • 7  Cito, ad esempio, il Magliabechiano VII, 371 della Biblioteca Nazionale di Firenze ; si tratta di (...)
  • 8  Sino ai primi anni Venti tra gli annali di Giunta troviamo infatti poche opere volgari : l’edizion (...)
  • 9  Cito dell’edizione veneziana del ’24, Opere di Girolamo Benivienifiorentino novissimamente rivedut (...)

4Il quadro letterario che la pagina trissiniana disegna non lascia davvero dubbi sulla consapevolezza del gruppo fiorentino che si era allontanato « da la patria lingua » per proporre una letteratura volgare affine a quella delle punte più avanzate della riflessione teorica dell’Italia settentrionale (con la significativa inclusione di Sannazaro). Il rifiuto del municipalismo e il ritorno alle autorità linguistiche trecentesche per avere « il miglior stilo » costituiscono dal punto di vista ideologico uno scarto profondo rispetto alla tradizione cittadina. Degna di nota, tra l’altro, sembra anche l’elezione di Dante accanto a Petrarca come autorità linguistica e stilistica capace di definire il perimetro della lingua imitabile, un’asserzione che se può essere letta in filigrana come una promozione della riqualificazione di Dante sostenuta da Trissino, va comunque anche interpretata come reale presa di distanza del gruppo fiorentino rispetto alle sperimentazioni settentrionali, un allontanamento chiaramente misurabile nella persistenza di un evidente dantismo all’interno della lirica, ad esempio, di Cosimo Rucellai o dello stesso Alamanni. Del resto, a ribadire questa linea fiorentina era intervenuto anche Bernardo Giunta nella sua lettera prefatoria all’antologia di sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani in dieci libri raccolte, un volume almeno idealmente promosso dall’ambiente degli Orti; l’editore in quella lettera aveva infatti invitato i giovani poeti ad affiancare Dante a Petrarca nell’ideale Parnaso cui guardare per apprendere la lingua lirica (« né il divino Dante ne le sue amorose canzoni indegno fia in parte alcuna riputato di essere insieme con il Petrarca per l’uno de duoi lucidissimi occhi de la nostra lingua annoverato »),6 e la generazione di Alamanni, Cosimo Rucellai, Francesco Guidetti e altri, la cui produzione lirica è testimoniata da un buon numero di manoscritti che non sembra azzardato definire antologie di gruppo, era entusiasta interprete di questa linea.7 L’acquisizione di una lingua letteraria elettiva e nobilitata sarà inoltre per Alamanni la condizione necessaria ed indispensabile per nuove e più ambiziose sperimentazioni nel sistema dei generi. A questo proposito si può forse aggiungere un ulteriore commento al passaggio citato del castellano per dare ragione dell’inserimento di Girolamo Benivieni nella serie dei fiorentini che hanno mostrato una nuova sensibilità linguistica. Per ragioni anagrafiche e culturali è evidente che si trattava per i giovani fiorentini di un illustre maestro o precursore piuttosto che di un loro sodale e quindi Trissino sembra stabilire implicitamente tra lui i e più giovani letterati un rapporto simile a quello esistente tra Giovanni Augurelli e Pietro Bembo. Benivieni infatti, come altri tra i quali lo stesso Bernardo Rucellai, aveva illustrato nelle sue opere la possibilità per una lingua volgare, già in parte affrancata dal linguaggio quattrocentesco, di praticare una poesia impegnata a nobilitare sul piano filosofico la lirica d’amore ed aperta ad un dialogo franco con la tradizione classica. A sfogliare le sue opere uscite nel 1519, uno dei pochi e selezionatissimi poeti volgari contemporanei editi a quell’altezza per i tipi dei Giunti,8 incontriamo infatti anche dei volgarizzamenti di alcuni generi letterari classici, come l’elegia, l’egloga, oppure capitoli morali e traduzioni di salmi. Le piccole didascalie volute dall’autore a commento dei testi (ad esempio : « Amore fugitivo del poeta greco Mopso tradocto in lingua latina per M. Agnolo Politiano et di latina in thoscana per Hieronymo Benivieni », o « Descrittione del medesimo amore tradotta da una Elegia di Propertio »)9 aiutano a chiarire l’ideale ruolo che Benivieni giocava per il gruppo di Alamanni e Rucellai, quello cioè di anello di congiunzione tra la generazione degli umanisti di fine secolo e, appunto, quella dei giovani letterati nati nei primi anni del Cinquecento. Quella di Benivieni finiva per essere quindi una prima proposta di un classicismo volgare declinato in senso fiorentino, al cui clima culturale andrà ascritta anche la venatura moraleggiante e religiosa non disgiunta dalla vis polemica presente poi anche in alcuni testi alamanniani.

  • 10  Interessante a questo proposito una lettera che Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni scrivono da L (...)
  • 11  Ad esempio, Alamanni inviò l’egloga Nymfe ch’alberga l’onorata valle per mezzo di Luisa di Savoia (...)
  • 12  Oltre ad alcune importanti sezioni di testi direttamente rivolti alla corte francese ed alla siste (...)
  • 13  È noto l’amore di Francesco I per le lettere classiche, benché la sua conoscenza di latino e greco (...)
  • 14  Alamanni sembra essere stato uno degli artefici del mito di Francesco I sovrano e poeta, secondo u (...)
  • 15  Sulla Nazione fiorentina residente soprattutto a Lione cfr. M. Charpin-Feugerolles, Les florentins (...)

5L’articolato e composito progetto di sperimentazione al quale Alamanni aveva tenacemente lavorato nel corso degli anni Venti era quindi una sorta di ideale sviluppo delle istanze culturali nate nell’ambiente degli Orti.10 Ma l’itinerario biografico del poeta, diviso tra Francia e Italia in una stagione particolarmente tumultuosa della storia fiorentina, aveva aggiunto a quel progetto una ulteriore linea forte, quella cioè che mirava a soddisfare l’“orizzonte d’attesa” della corte francese e del sovrano, una propensione, che se era già presente in alcuni testi scritti nel corso degli anni Venti,11 andava enfatizzata in occasione dell’edizione a stampa.12 Il sovrano, preoccupato di contornarsi di una classe intellettuale di alto livello ed affascinato dalla cultura italiana era anche particolarmente attento a promuovere la traduzione di opere classiche in lingue volgari moderne,13 secondo una politica culturale rivolta alla costruzione di un’ideale e “immaginario” profilo di principe delle arti e poeta, immagine che anche Alamanni con le opere toscane contribuirà ad edificare.14 Se gli orientamenti letterari di Alamanni erano in buona parte compatibili con quelli del sovrano, l’allestimento della raccolta delle sue opere rendeva però necessario un riallineamento tanto nella costruzione dell’intera architettura del libro quanto nella sistemazione o nell’aggiustamento dei singoli testi, soprattutto laddove vi era una forte presa di posizione politica. Alla mediazione tra attese della corte francese e autonoma proposta letteraria va infatti aggiunto almeno anche un ulteriore “orizzonte di attesa” al quale Alamanni indirizzerà parte delle sue opere, quello cioè dei fuoriusciti fiorentini, di quella Nazione particolarmente forte a Lione, all’interno della quale Alamanni aveva trovato un suo ruolo, un gruppo le cui ideali prospettive politiche non erano sempre coincidenti con le posizioni del sovrano francese, sentito di volta in volta come partner d’affari, alleato per la soluzione dei problemi nello scacchiere politico italiano e, non ultimo, come pericoloso arbitro della libertà di esercitare i propri negozi.15

  • 16  Nel corso dell’Ottocento Piero Raffaelli (Versi e prose di Luigi Alamanni, Firenze, Le Monnier, 18 (...)
  • 17  Luigi Alamanni, Oratione et Selva, s.l., s.d. [ma Firenze, eredi di Filippo Giunta il vecchio, 152 (...)
  • 18  Nell’allestimento del piccolo libro lirico all’interno delle Opere toscane Alamanni intervenne rit (...)
  • 19  Notizie sul ramo della famiglia Strozzi cui apparteneva Giovan Maria si trovano nel repertorio di (...)
  • 20  Biblioteca Angelica di Roma, 1680 ; per la descrizione del ms. cfr. G. Mazzatinti Inventario gener (...)

6I diversi interlocutori ai quali Alamanni si era rivolto nel corso del tempo finivano per creare però delle difficoltà in vista dell’organizzazione e dell’allestimento di volumi a stampa, data la compresenza di orientamenti letterari e ideologici il cui ideale punto di fuga non era sempre identico. L’articolazione di un libro coerente ed omogeneo in tutte le sue parti richiedeva quindi al poeta un lavoro di attento conguaglio delle possibili interferenze tra i testi, un lavoro di adattamento che può essere colto se si guarda con una diversa attenzione alla circolazione manoscritta che i suoi testi ebbero prima dell’edizione. Si trovano infatti svariati testimoni che già possiedono la struttura della raccolta organizzata secondo i criteri di un vero e proprio libro.16 Seguendo questa ipotesi di lavoro forse è possibile sfumare la netta dicotomia tra “piazza” e “corte”, tra pubblico fiorentino e francese, termini oppositivi che Mazzacurati proponeva come poli opposti e apparentemente inconciliabili dell’universo ideologico e letterario di Alamanni; l’uno da addebitare all’oratione edita dai Giunti nel 152817 l’altro a carico dell’edizione di Lione. È possibile osservare come all’interno della compatta compagine delle opere toscane Alamanni abbia cercato di far convivere diverse istanze, non sempre di immediata evidenza : a rendere più difficoltosa l’individuazione del continuo intrecciarsi di sperimentalismo letterario, strategia cortigiana e presa di posizione politica contribuisce inoltre anche una certa uniformità stilistica caratteristica della letteratura alamanniana. Utile può diventare allora, per verificare questa ipotesi, riconsiderare, ad esempio, un manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze, il Magliabechiano VII, 676 (d’ora in poi mb), intitolato psalmi, satyre, sonetti : barzellette, mandrigrali et stanze composte da Luigi alamanni cittadino fiorentino, di grande interesse anche perché firmato e datato dal suo copista, Giovan Maria Strozzi, che afferma di averlo trascritto « in Avignone nello anno mdxxviii » (c. 77r). Si tratta di una raccolta molto coerente, assai probabilmente d’autore, nella quale troviamo già organizzate in forma di autonomi libri i salmi penitenziali introdotti da una lettera di Alamanni a Bernardo Altoviti (datata primo gennaio 1526), le satire e la serie di sonetti e madrigali che compongono una sorta di diario autobiografico del poeta dopo la sua prima fuga da Firenze. Riadattando questi materiali per il loro inserimento nel primo volume delle opere toscane Alamanni invertirà l’ordine delle diverse sezioni, allargando e articolando la sezione dei metri brevi in un’architettura narrativa di più ampio respiro,18 lasciando in posizione centrale le satire, pur modificando il loro assetto, e affidando ai salmi penitenziali il compito di chiudere il primo volume. Anche se le informazioni raccolte sul copista ci permettono di identificarlo solo approssimativamente,19 possiamo però, sulla scorta degli elementi forniti dal codice stesso, ricondurre il manoscritto all’ambiente dei fiorentini in terra francese, di cui Alamanni soprattutto con i testi contenuti in questo libro aspira a farsi portavoce. E che questo volumetto godesse di una certa fortuna presso il pubblico dei fuoriusciti lo conferma, tra le altre cose, la presenza di una copia del Magliabechiano eseguita nel 1531 a Napoli da Bilicozo Gondi.20 In effetti, sarà proprio il dichiarato schieramento su posizioni ideologiche in qualche modo riconducibili a quel gruppo a motivare, come vedremo, delle importanti differenze che si registrano tra il manoscritto e la stampa soprattutto per le satire. Nel codice mb troviamo infatti una ben organica raccolta di satire che differisce da quella poi allestita nella stampa per ordinamento, per un sostanziale numero di lezioni frutto anche, come vedremo, del lavoro di allineamento a posizioni politiche più credibilmente compatibili con quella francese e, infine, per la soppressione di un testo. Vediamo in un quadro sinottico il rapporto tra il manoscritto e la stampa :

  • 21  L’unica edizione moderna delle satire è quella proposta da P. Raffaelli, Versi e prose cit., pp. 2 (...)

Mb vii, 676, cc. 10v-49v

Opere toscane, lione 1532, pp. 357-418

i.
Da che stolti pensier, fra quanti inganni

1. (i)
da che stolti pensier, fra quanti ingann

ii.
Mai più non vo’ cantar com’io solia

2. (ii)
mai più non vo’ cantar com’io solia

iii.
Or m’odia il mondo in un medesmo et teme

iv. al bruciolo
Carco forse talor di sdegno amico

3. (iv) messer antonio bruciolicarco forse talor di sdegnio amico

v.
Poscia che andar collo invescato piede

4. (v) albizo del bene
poscia ch’andar con lo ’nvescato piede

vi.Quant’or sia lungo al buon costume antico

5. (vi) monsigniore [...] soderini
perch’io sovente già vi vidi acceso

vii. alexandra serristora consorte cariss.Per quantunque dolor m’astringa il core

6. (vii) alessandra serristora consorte cariss.
per quantunque dolor m’astringa ’l core

viii. giuliano buonacorsi tesauriere diProvenza

Quanto più il mondo d’ogni’ntorno guardo

7. (viii) giuliano buonaccorsi tesauriere di Provenza
quanto più ’l mondo d’ogni ’ntorno guardo

ix. maximiliano sforzaPoscia che lunge da voi lasciando vidi

8.(ix) annibale di nuvolaraposcia che lunge da voi lasciando vidi

x.Beato quel che ’n solitarie rive

9. (x) tommasino guadagni
se con gli occhi del ver guardasse bene

xi. a tommaso sertiniIo vi dirò poi che udir vi cale

10 (xi) tommaso sertini
io vi dirò poi che udir vi cale

xii.
Osanto vecchio a cui del ciel le chiavi

11. per la morte di lodovico alamanni
Chi desia di veder come sia frale

12. (iii)
Or mi minaccia il mondo, et m’odia et teme21

  • 22  Annibale di Nuvolara, ammirato capitano delle truppe francesi e particolarmente stimato e apprezza (...)

7In primo luogo, ancor prima di analizzare variazioni di natura più squisitamente letteraria, va osservato l’attento lavoro di ridefinizione dei destinatari dei singoli testi messo in atto nel passaggio dal manoscritto, dove solo cinque satire hanno un destinatario, alla stampa, dove saranno invece nove testi su dodici ad averne uno. Questa operazione può essere in parte ricondotta al desiderio di corrispondere alle caratteristiche ideali della tradizione del genere, cioè della satira intesa come dialogo tra familiari ed amici, che richiede quindi la presenza di un interlocutore reale. All’origine di questa capillare integrazione sembrano però soprattutto esserci delle ragioni sociali e politiche; infatti, grazie alla rete di relazioni che il poeta esibisce viene idealmente rappresentata un’intera comunità. Se forse per il manoscritto, comunque veicolo di diffusione ancora privata, si può ipotizzare che immaginari destinatari e reali lettori potessero coincidere, e quindi meno urgente poteva essere il bisogno di dare loro una consistenza attoriale nel testo, nella realizzazione della raccolta a stampa diventava invece quasi necessario rappresentare simbolicamente il referente a cui quei testi erano rivolti. Non solo quindi rito cortigiano e ripresa di un tòpos letterario, la precisazione degli interlocutori all’interno dell’edizione acquista un evidente significato sociale e ideologico, identificando pubblico e autore nel gruppo della Nazione fiorentina, ritratta grazie ad una calcolata scelta tra i suoi elementi di maggior prestigio nelle diverse attività, tanto nel campo finanziario (Albizo del Bene, Giuliano Buonaccorsi e Tommaso Guadagni) quanto in quello militare (Annibale di Nuvolara)22 e intellettuale (Giovanni Soderini e l’amico Antonio Brucioli). L’inserimento dei destinatari quindi non comportava una ridefinizione della fisionomia delle satire, che del resto per le caratteristiche retoriche e stilistiche di impronta giovenaliana, lontana del pacato dialogo oraziano, difficilmente potevano coinvolgere all’interno del discorso un interlocutore. Il lavoro di adattamento compiuto da Alamanni in particolare per le satira v e x dimostra efficacemente questa intenzione soprattutto sociale. Si veda, ad esempio, l’incipit della satira x, dedicata nella stampa a Tommasino Guadagni.

  • 23  La revisione dell’incipit della satira spinse Alamanni ad un lavoro di minuziosa revisione dell’in (...)

Mb vii, 676, c. 4iv

Opere toscane, p. 397

Se con gli occhi del ver guardasse bene,
caro mio tommasin, ciascuno in terra
non aria tante in van fatiche et pene,

non arian qui tra noi sì lunga guerra
i semplicetti cor dal falso spinti
dietro al vulgare stuol ch’agognia et erra,

non mille volti ognior sarian dipinti
da mille passion, ma tutte in gioco
le prenderieno a miglior vita accinti,

non graverebbe al mondo il troppo o ’l poco
l’umane menti, che selvagge et schive
soli a’ dolci pensier darebben loco.

Beato quel che ’n solitarie rive
lunge dal vulgo, al nudo aperto cielo
fuor di ville et città contento vive

beato quel che ’n solitarie rive
lunge dal rozzo vulgo, al nudo cielo
fuor dall’ampie città contento vive23

  • 24  Nel nuovo incipit infatti si dispiega un intero periodo ipotetico, con la protasi che occupa la pr (...)

8Il personaggio evocato non ha nessun vero peso psicologico né attoriale, perché non viene realmente coinvolto nella struttura discorsiva delle quattro terzine aggiunte. Queste anzi, se tolgono in parte evidenza al calco petrarchesco dell’incipit della versione manoscritta (rvf. 259, 1-4), sono invece coerenti con le regole compositive dell’intera satira, obbedienti ad una geometrica articolazione sintattica grazie alla quale ad ogni singola terzina viene affidata una autonoma cellula del discorso.24

  • 25  Ad iniziare la serie dei giudizi negativi sarà Ruscelli, che pubblica per i tipi di Pietrasanta (V (...)

9Tra le differenze nell’organizzazione generale dei testi si può invece osservare lo spostamento della satira or m’odia il mondo et in un medesmo teme in sede finale, in sostituzione della satira espunta osanto vecchio a cui del ciel le chiavi,e l’aggiunta del compianto per la morte del fratello. Sono spostamenti che non modificano radicalmente l’architettura complessiva del libro, progettata da Alamanni in modo tale da poter illustrare tutte le possibili soluzioni tematiche e stilistiche per il nuovo genere letterario volgare. È una scelta che non riscuoterà le simpatie dei lettori contemporanei, piuttosto severi nei giudizi già qualche decennio dopo la pubblicazione delle opere toscane.25 La relativa fortuna presso il pubblico italiano va comunque spiegata anche in virtù delle scelte teoriche che Alamanni aveva fatto : al bivio tra la colloquialità pacata e ironica di Orazio e la furiosa oratoria delle invettive di Giovenale, il poeta fiorentino sceglie senza esitazioni la strada del secondo, confortato in questo anche dalla fortuna di cui godeva Giovenale a Firenze, letto e spesso riutilizzato dalla violenta omiletica che in Savonarola aveva trovato l’interprete più celebre. Lo stesso Alamanni aveva motivato questa scelta teorica nella lettera prefatoria al primo volume a stampa :

Non mancheran qualche altri ancora, che leggendo le mie satire quasi universal dannatore di tutte le cose vorran dannarmi, ma sappian questi che in così fatto giudicio saran per mia difesa schiera lunghissima di greci comici, non poca di satiri latini, et tra i nostri cristiani quei che più son chiamati religiosi, et onorati et volentieri ascoltati sopra i pergami da’ migliori, i quali in null’altro più acquistan fama che in altrui biasimi, ove quanto più son larghi, più son seguiti, et questi et tutti gli altri tanto più agevolmente et volentier mi escuseranno, quanto mi vedran più (fuggendo i particulari) seguir generalmente il vero, sciolto quanto più posso da quelle passioni che al più soglion far traviare gli umani ingegni, et quando pur nessuna delle sopra dette cose fusse abastante ad acquistar di ciò perdono dalla maiestà vostra, il titol medesimo di satira che le portono segniato in fronte può far fede à ciascuno che ivi (ad imitation degli antichi) null’altro cerco che con acerbi rimordimenti et senza sdegnio degli ascoltanti andar raccontando gli altrui falli, a i quali sempre è soggiaciuto il misero mondo, et soggiace oggi più che gia mai.

  • 26  Per una utile sintesi delle posizioni teoriche nel primo Cinquecento (e oltre) sulla satira tanto (...)

10Il rifiuto della dimensione privata e intima, tipica del discorso oraziano (« fuggendo i particolari »), è dunque giustificato in nome della volontà di raggiungere un pubblico più allargato, secondo un’interpretazione del genere che all’invettiva classica (« schiera [...] di Greci comici, non poca di satiri Latini ») univa il discorso moralistico di impronta più specificamente religiosa (« i nostri Cristiani »).26 Il richiamo alla rovinosa corruzione del tempo che chiude questa apologia del genere costituisce di fatto il fulcro argomentativo della prima satira che, sia nella versione manoscritta sia in quella a stampa, precisa, secondo un consueto modello classico, i motivi che hanno spinto il poeta a scegliere la musa satirica :

Tra che stolti pensier, tra quanti ’nganni
questa vita mortal sepolta giace,
con che cieco penar si fuggon gli anni ?

Omagnianimo rè, l’antica pace
com’oggi è spenta et la virtù sbandita ?
Sol vive e regnia quanto a dio dispiace,

Ma chi ’l conosce ? ogni uom dritta et spedita
crede prender la via ch’al ciel conduce
schernendo altrui, che forse l’ha smarrita.

  • 27  P. Floriani, Le « satire » cit., p. 114, dove analizza nel dettaglio l’incipit di questa satira.
  • 28  Alcune interessanti osservazioni di carattere teorico e stilistico sulla satira si trovano per il (...)
  • 29  C. Dionisotti, Machiavellerie cit., pp. 152-53.

11La lettura di questo incipit illustra in maniera evidente l’utilizzo del linguaggio petrarchesco, prelevato in particolare dal « Petrarca “moralista” »,27 magari rifunzionalizzato per disegnare un più universale e spesso astratto scontro tra vizio e virtù. Il tono incalzante e serrato di questo incipit, fedele al precetto della retorica classica che alla satira richiedeva un inizio ex-abrupto,28 sarà comunque mantenuto per le prime quattro satire del manoscritto. Nella precisa architettura in cui il libro si articola infatti, ai primi testi viene attribuito il compito di lamentare in modo via via più dettagliato la dilagante corruzione che obbliga il poeta a scrivere, costretto suo malgrado ad abbandonare la lirica d’amore (« Mai non vo’ più cantar com’io solia / ma di sempre seguir Lucilio intendo / con chi lui segue per più dotta via. / [...] / Quante fiate ho già da me rimosse / le pie sorelle e le sdegnose note / chiuse nel petto per uscir gia mosse » 2, 1-12 ; « et vi dolete ch’or cantando in rima / ne’ vostri campi la mia falce stendo / tra le biade d’Amor stancata prima » 3, 7-9), secondo un tòpos della tradizione satirica latina. Nella sezione proemiale, accanto all’insistita catalogazione dei vizi, non priva di un irrigidimento schematico del discorso, trova spazio, soprattutto nelle satire ii-iii, anche il tema politico, condotto, come era immaginabile, secondo la prospettiva ideologica dei fuoriusciti fiorentini. Testimonianza evidente di questo schieramento è l’insistito ricorso ad un’esemplificazione che istituisce un rapporto tra il glorioso passato romano, specie nell’esaltazione degli eroi repubblicani, e il presente, dando vita quindi ad una riflessione che è al contempo una generica rampogna contro i mali del secolo ed una più mirata e non troppo cifrata allusione ai fatti fiorentini. L’aperta militanza in favore delle idee politiche dei fuoriusciti era tale da obbligare Alamanni ad una attenta revisione dei testi, in particolare per la satira ii, che nella versione a stampa presenta infatti vistose correzioni. Il tema attorno al quale tutta la satira è organizzata, come si è detto, è la necessità del poeta di offrire la sua testimonianza o, meglio ancora, è una riflessione sulla posizione che l’intellettuale (« il saggio ») deve tenere nei confronti del potere e della politica. Non a caso è proprio questo il testo nel quale Dionisotti ha giustamente scorto un attacco di Alamanni al principe di Machiavelli (« deve il saggio tener la sua impromessa / quand’util sia, ma se dannosa viene / folle è da dir chi si ricorda d’essa, / santo precetto et bel, che ’n se contiene / l’aureo libro mortal ch’han quegli in mano / ond’oggi Italia di servir sostiene » 2, 28-33),29 un testo nel quale originariamente Alamanni accusava le forze straniere di essere prive di virtù, attente solo ad ottenere il potere con la simulazione (« lo ’nganno è l’arme sua, non spada o lancia » 2, 61). Il risentito appello al sovrano francese, si può immaginare condiviso dai fuoriusciti, non poteva però rimanere così schietto e polemico all’interno di un’edizione finanziata dallo stesso sovrano : Alamanni doveva quindi modificare per opportunità politica il richiamo

Mb vii, 676, c. 15v

Opere toscane, pp. 364-65

Non sia di voi chi di mio dir si sdegni,
sdegnisi pur con chi si tace et vede
son questi miei d’amor quei d’odio segni.

non sia di voi chi di mio dir si sdegni,sdegnisi pur con chi lo tace et vede,
questi miei son d’amor, quei d’odio segni.

Parlo a voi sol de’ regal gigli erede

o famoso signior de gigli erede,
io non parlo di voi, che sempre aveste
troppo nimico ’l ciel per troppa fede,
ma del rapace augel, c’ha l’unghie preste

l’aquila or taccio, impia cagione amara,
che chi regina fu serva oggi siede,

nel sangue pio, che fu cagion’ amara
delle gran crudeltà, che voi vedeste,

spesso anima gentil fallendo impara,
tornivi a mente pur ch’i giorni vanno
et morte è spesso de gran fatti avara.

ma l’anima gentil vivendo impara,
tornivi a mente pur ch’i giorni vanno,
et morte è spesso de gran fatti avara.

12Un deciso riorientamento certamente dovuto a ragioni cortigiane, ma con il quale Alamanni comunque non sembra rinunciare del tutto a mantenere una posizione filofiorentina. L’invito ad intervenire, magari non in virtù degli errori passati ma in nome dell’esperienza e della saggezza (l’anima infatti « vivendo », non più « fallendo » impara), resta un appello fatto a nome dei fuoriusciti perché il sovrano si schierasse più risolutamente con loro.

  • 30  Tra i diversi luoghi ripresi dalla sesta satira giovenaliana viene, ad esempio, riproposto il ritr (...)

13Dopo le prime quattro satire, più dirette verso la condanna morale e politica della realtà contemporanea, la distribuzione dei temi nella parte centrale del libro si basa invece su una calcolata alternanza tra la condanna dei vizi e la lode delle virtù. In particolare, sono i costumi delle donne a costituire l’ossatura portante, con un trittico formato dalle satire v, vii e ix, disposte secondo una precisa sequenza tematica. Nella satira v infatti, riprendendo anche nelle dimensioni la satira misogina di Giovenale (« Credo Pudicitiam Saturno rege moratam ») Alamanni passa in rassegna i vizi della donna, sempre più attratta dal denaro e dal lusso, preda di un appetito sessuale incontrollabile (« Quante ha Pasife alla sua torta via ? / Che se ciascuna ’l Minotauro avesse, / di vie più d’un Teseo mestier faria » 4, 136-138) o attenta solo al vacuo e al superfluo.30 La satira si chiude, con una ripresa dell’incipit che mostrava Albizzo andare « con lo ’nvescato piede [...] in gli amorosi campi », esortando l’amico ad abbandonare il pericolo : « tirate adunque il piè per tempo fuora / anzi che il vostro error prenda costume / che gli è vizio d’amar chi solo adora / Vener, Bacco, tesor, l’ozio e le piume » (241-44). In controcanto rispetto alla v la satira vii, dedicata alla moglie rimasta in Firenze, esalta la virtuosa povertà della coppia, provata dalla Fortuna (« del nostro buon oprar sotto la luna / eterna povertà, tristezza e scherno / oggi s’acquista, e senza grazia alcuna » 6, 19-21) ma capace di resistere alla dilagante corruzione. Chiude infine questo trittico la satira ix che descrive le donne provenzali, tratteggiandole come lascive e scostumate, al punto che il poeta stesso, attratto da una donna che potrebbe diventare il suo terzo idolo letterario (« oh se com’ella ha qui Sorga e Durenza, / così gustato avesse Arno e Mugnone, / il terzo chiaro onor vedria Fiorenza » 8, 40-42), rinuncia poiché a causa degli « spiriti provenzal [...] che son bruti animal senza ragione » le donne seguono un costume « torto nel tutto dal dritto segno » (51). Intercalate in questo terzetto dedicato prevalentemente alle donne troviamo la satira vi, che ha per oggetto la decadenza dei costumi militari (« Or come lunge al buon costume antico / sia quel tra noi che ci administra Marte / ascoltate da me che ’l ver ne dico » 5, 13-15) e la satira viii, incentrata sul tema dell’amicizia vera, nella quale è possibile avvertire, sotto i cascami dell’imitazione del modello classico, un’eco delle vicende autobiografiche (in particolare, l’aiuto economico offerto ad Alamanni da Giuliano Buonaccorsi : « Se non mi ’ntende ogni uom com’io vorrei, / ben m’intendo io, che la cortese mano / sentii sı` larga a gran bisogni miei » 7, 13-15); il ricordo personale non è però indirizzato a dare dimensione intima al discorso, ma piuttosto per aggiungere al catalogo degli esempi una dolorosa esperienza vissuta in prima persona. Proprio il tema del denaro e della partecipazione alla vita sociale che caratterizza la satira contro le donne provenzali, volgari e soprattutto attente solo al denaro, e quella in lode dell’amicizia di Buonaccorsi, costituisce una naturale premessa per la celebrazione della vita solitaria, della fuga dal mondo della corte, una esaltazione che occuperà due intere satire. Se il modello generale è ancora una volta quello di Giovenale, in questo caso la celebre terza satira, il linguaggio e il repertorio di luoghi che Alamanni utilizza sono ancora una volta prevalentemente petrarcheschi, come dimostra l’attacco della satira ix (« Beato quel che ’n solitarie rive / lunge vulgo al nudo aperto cielo / fuor di ville et città contento vive / et si cura e si tempra il caldo e ’l gielo / colla sua famiglia, all’ombra e ’l foco, / né soverchio pensar gli cangia il pelo » ix, 1-6) o l’incipit di quella successiva :

Io vi dirò, poiché d’udir vi cale,
Tommaso mio gentil, perch’amo et colo
più di tutti altri il lito provenzale,

et perché qui così povero et solo
più tosto che ’l seguir signiori et regi
vivo temprando ’l mio infinito duolo.

Né cio mi vien perch’io tra me dispregi
quei ch’han dalla fortuna in mano il freno
di noi per sangue et per ricchezze egregi,

ma ben è ver ch’assai gli estimo meno
che ’l vulgo, et quei ch’a ciò ch’appar di fuore
guardan, senza veder che chiugga il seno.

14Queste due satire ci permettono anche, ad un’analisi più ravvicinata, di osservare l’attento ed insistito recupero di tessere dantesche, tessere che provengono tutte dalla commedia e che contribuiscono a forzare il discorso verso tonalità retoriche alte, proprie del Dante più politico e severo, in una ideale riproposizione della violenza oratoria di Giovenale riletta attraverso il linguaggio dantesco. L’allusione aperta, quasi plateale (« Ma qual piè potrei color seguire /ch’io non so quell’arte / di chi le scale altrui convien salire » 10, 16-18) si inserisce comunque in una orchestrazione del discorso ripresa dal modello latino; all’affermazione che la vita solitaria è una necessità dovuta all’impossibilità per il poeta di mentire (« Io non saprei, Sertin, porre in disparte / la verità » 10, 19-20 ; « mentiri nescio » Giovenale, satire, III, 41) segue un lunghissimo elenco dei vizi della vita cittadina. Alamanni articola il catalogo su di uno schema rigido e piuttosto monotono, affidandosi alla ripresa ad inizio di terzina dello stesso attacco (« non saprei »), modulo che viene iterato per ben diciassette volte !

15L’ultima satira del manoscritto, poi rifiutata nella stampa, si riallaccia per il tema alle prime quattro ed è forse quella più innovativa rispetto al modello classico e più pericolosamente esposta dal punto di vista politico. In un immaginario discorso a san Pietro il poeta punta il dito contro il malcostume del clero, corrotto, oramai paradossale controesempio della virtù cristiana della povertà (« Ove han costoro quel chiaro fonte vivo / di caritate, onde il gran vostro Duce / infuse a tutti voi sì largo rivo ? [...] di lor nessuno a povertà soccorre, / credo bensì ch’a voi, Giovanni e Piero, / vorrian senza donar le reti torre » xii, 73-84), e dedito solo a soddisfare appetiti materiali (« Nella privata lor più stretta cena / voglion di tanti vin, tante vivande, / che tal Lucullo pur ne vide appena » xii, 109-11). Anche in questo caso Dante veniva a soccorso, certo riletto e ripensato anche in nome dei nuovi fermenti del pensiero riformatore, forse più legati alla forte esigenza di rinnovamento che a Firenze aveva spinto molti ad appoggiare l’avventura di Savonarola piuttosto che ad una reale adesione a correnti protestanti. Fosse un esercizio letterario per allagare il repertorio tematico delle satire oppure un più deciso affondo contro il potere mediceo romano, Alamanni decise di non stampare la satira poiché, evidentemente, i toni potevano suonare troppo violenti, rischiando persino di mettere in imbarazzo il « cristianissimo » sovrano cui erano dedicate le opere.

  • 31  La costruzione della satira è particolarmente curata nella distribuzione della parti ; ad un prolo (...)
  • 32  Già P. Raffaelli osservava che « questa satira [terza nella sua ed.] si trova in più codici da me (...)
  • 33  Nella satira indirizzata all’amico Brucioli molte sono le tessere intertestuali o le allusioni al (...)
  • 34  Anche P. Floriani osservava come la satira Or m’odia il mondo fosse « l’esempio più flagrante » de (...)
  • 35  Sul tema dell’esilio di Alamanni, più genericamente analizzato nell’arco dell’intera esistenza del (...)

16La struttura del libro di satire però, così come Alamanni doveva averla concepita sin dall’origine, riservava all’ultimo componimento il compito di lanciare un forte messaggio politico, chiudendo così la raccolta con una ripresa (o rilancio) dei temi con i quali si era aperta. Per tenere fede a questo disegno, Alamanni, una volta decisa la cassatura della satira osanto vecchio, a cui del ciel le chiavi,affidò il ruolo di finale rampogna a quella tra le quattro satire di apertura che più rispondeva ai bisogni strutturali per la chiusura del libro. Il testo scelto fu il terzo del manoscritto, or m’odia il mondo in un medesmo et teme, che venne opportunamente riadattato, una scelta che appare motivata da svariate ragioni. Innanzi tutto si trattava della satira politica più esplicita, nella quale Alamanni faceva una sistematica rassegna della corruzione delle diverse forze politiche europee, cominciando da quelle straniere (Francia, Spagna), per giungere poi a quelle italiane (Milano, Genova e Venezia), e chiudere, in un crescendo di indignazione e durezza dei toni, con Firenze e Roma.31 È forse la satira nella quale il richiamo a Dante si fa più esplicito e forte, un appello non solo stilistico, come vedremo, ma più militante ed ideologico. In secondo ordine bisogna ricordare che nella storia della tradizione delle satire un capitolo molto importante ed ai nostri occhi significativo fu costituito dalla circolazione di pezzi sciolti, di singole satire che ebbero particolare fortuna presso i lettori. Furono soprattutto la satira indirizzata a Brucioli (la quarta del manoscritto) e or m’odia il mondo in un medesmo et teme a circolare, spesso accoppiate, indipendentemente dal resto dei testi. Interessa qui osservare che questi testi, nell’ideale successione cronologica della tradizione, appartengono alla fase più arcaica, quella per intenderci che precede la stampa lionese, e inoltre si trovano in manoscritti miscellanei, delle vere e proprie raccolte private di chiara origine fiorentina, volumi che raccolgono e antologizzano i testi più interessanti, verrebbe da dire i best seller, del momento. Si veda, ad esempio, il manoscritto Antinori 161 conservato alla Biblioteca Laurenziana di Firenze : qui troviamo oltre alle due satire di Alamanni un’antologia di autori fiorentini di primo Cinquecento (Lorenzo Martelli, Bardo Segni e altri) con l’inserimento, nella parte iniziale del codice, delle “petrose” di Dante. Oppure il manoscritto Ital. 89 della Houghton Library, che grazie ad una nota di possesso posta sulla prima pagina sappiamo essere di « Francesco di Zanobi Nacci e delli amici », manoscritto la cui mise-en-pages denuncia il desiderio di allestire un elegante volume secondo criteri quasi quattrocenteschi, nel quale sono ospitati soprattutto testi alamanniani, come, ad esempio, una prima redazione della raccolta di elegie, un’egloga e la satira or m’odia il mondo, con l’aggiunta di una canzone di Lodovico Martelli. E l’elenco di testimoni di antologie di materiale fiorentino di primo Cinquecento che contengono la due satire potrebbe continuare, ad esempio con il codice 152 della biblioteca comunale di Pistoia, o i Magliabechiani VII, 675, VII, 677 e, non sorprenderebbe se una sistematica recensio permettesse di aumentarne il numero.32 La satira iii (12) insomma, era evidentemente uno dei testi più apprezzati e letti tra quelli che circolavano manoscritti, un testo che per le caratteristiche ideologiche e stilistiche aveva il carattere di un vero e proprio pamphlet sulla situazione politica contemporanea e specialmente contro i Medici. La stessa posizione assunta dal poeta nei confronti della Francia che apre la serie degli stati analizzati, non è affatto né cauta né compiacente (« Godi pur Francia, et poi che sol ti piace / segui Vener, le piume, et l’ocio e ’l vino, / virtù fuggendo, et quanto al senso spiace » 12, 19-21, calco del dantesco « Godi Fiorenza, poi che se’ sì grande » inf. 26,1), eco forse della frustrazione dei fuoriusciti per l’ambiguo atteggiamento del sovrano francese nei confronti delle sorti della loro città. Al duro attacco contro l’ambigua neutralità veneziana (« Forse non pensi aver nimici intorno, / il viversi infra due non porta amici, / ma dall’altro et dall’un fa danno et scorno » 12, 76-78) e allo sconsolato sguardo verso la decadenza di Genova e Milano, l’invettiva muove con forza verso il potere mediceo. L’attacco a Firenze si apre con una ripresa dell’incipit del ventiseiesimo dell’inferno che già dava avvio alla rampogna contro la Francia, una ripresa quindi utilizzata in funzione anaforica per segnalare la seconda parte della satira (« Et tu, Fiorenza bella, ond’oggi suona / sì lunge il grido, ma non forse quale / brama, chi teco ognior piange et ragiona, / batti sicura omai, batti pur l’ale / dietro a chi folle ti conduce in loco, / onde tornar, né calcitrar non vale » 12, 112-115 ; « Godi Fiorenza, poi che se’ sì grande, / che per mare e per terra batti l’ali / e per l’inferno tuo nome di spande » inf. 26, 1-3). Qui, come nella satira a Brucioli,33 la ripresa di tessere dantesche, tutte prelevate dalla zone più impegnate politicamente della commedia, non a caso contro la corruzione della sua città o contro la corruzione della Chiesa, acquista infatti un peso ed una forza diversa. Se l’assorbimento del linguaggio petrarchesco avviene secondo la « tecnica della citazione », come ha osservato Floriani, cioè senza incidere profondamente nella strutturazione ideologica del testo, il recupero di Dante avviene invece secondo i modi dell’allusione, una pratica intertestuale che doveva risultare particolarmente efficace quando ci si ricordi il pubblico cui questa satira era indirizzata, un uditorio, quello dei fiorentini, per il quale Dante era una sorta di patrimonio comune, una specie di lessico familiare, assai più che in altre zone d’Italia, soprattutto nel corso del Cinquecento. Per questo motivo il gioco allusivo, cioè il significativo riverbero tra semplice ripresa lessicale e l’istituzione di un dialogo tra l’opera citata e quella che la cita, poteva caricarsi di significativi messaggi cifrati. In questo modo, l’insistito recupero di temi, luoghi, personaggi e situazioni dantesche che Alamanni compie in queste satire politiche34 permette al poeta di creare anche una sua ideale autobiografia nei panni danteschi : anche lui come il padre Dante esiliato dalla patria, anche lui costretto a conoscere le difficoltà di chiedere ospitalità, anche lui, soprattutto, impietoso nel condannare nelle sue opere letterarie la corruzione crescente della sua città e del papato.35 Insomma, in questo caso c’era il desiderio aperto, platealmente illustrato nel testo, di associare l’imitatio stili all’imitatio vitae, secondo una lettura tutta politica e funzionale all’ideologia dei fuoriusciti repubblicani del modello di Dante.

17Il libro di satire approntato per la stampa illustra dunque un tentativo da parte di Alamanni di allinearsi, almeno genericamente, alle posizioni politiche della corte francese e nel contempo di mantenere l’attacco verso i Medici, pur rinunciando a toni ritenuti eccessivamente aspri (la soppressione di xii). In realtà, come abbiamo visto, l’ammorbidimento della polemica antimedicea non era poi così marcato, e in anni difficili della storia di Firenze come quelli della stampa lionese certi attacchi non potevano passare del tutto inosservati; se la presenza del privilegio concesso da Clemente VII alle opere toscane sorprende, più perplessità ancora suscita per noi la contemporanea edizione a Firenze presso i Giunti del primo volume delle opere toscane. In diverse occasioni gli studiosi che si sono dedicati ad Alamanni hanno cercato di fare luce attorno a questa vicenda editoriale, in particolare tentando di comprendere se la testimonianza di Nicolò Franco, contenuta nei dialoghi piacevoli, era degna di fede :

  • 36  NicolÒ Franco, Dialogi piacevoli, Venezia, Giolito, 1539, c. XIr. Nella seconda edizione dell’oper (...)

Anche clemente fe’ brugiare l’opre de l’alamanni in roma, la prima volta che ci comparsero e tolse la pena a chi ce l’avea condutte. e per che conto ? perché il divino spirito gli era paruto eretico, piangendo la rovina della sua patria, biasimando la tirannide e confortando i suoi cittadini a la libertà.36

  • 37  Mazzuchelli nella Vita di Luigi Alamanni, premessa dell’edizione della Coltivazione (Venezia, Remo (...)

18Da tempo in realtà le tessere per risolvere questa piccola querelle erano state segnalate,37 magari pubblicate in sedi piuttosto marginali tanto da essere sfuggite a chi più recentemente si è occupato della vicenda. Provare a ricomporre questi pezzi sparsi può aiutarci a comprendere il peso e la portata che nella storia della politica fiorentina l’edizione deve aver giocato, soprattutto in virtù dei testi politicamente più esposti di Alamanni.

  • 38  I due stati sono descritti in N. Bingen, Philausone cit., pp. 38-39 ; ai dati proposti dalla Binge (...)
  • 39  Cfr. W. Pettas, The Giunti and the Book Trade in Lyon, in Libri tipografi biblioteche. Ricerche st (...)
  • 40  Una mia personale collazione sul campione dei testi delle satire mi ha permesso di mettere in evid (...)

19In realtà sin dall’allestimento dell’edizione lionese cominciarono a sorgere i primi problemi. Esistono infatti di questa edizioni almeno due stati, segnalati da Nicole Bingen,38 che differiscono solo per delle correzioni nel fascicolo iniziale del volume e in quello finale. Non sembra improbabile che il fascicolo iniziale, che ospita il frontespizio e la lettera prefatoria, sia stato allestito nella fase finale della lavorazione del volume, tanto che nel primo stato nel retro del frontespizio troviamo una serie di errata corrige, che segnalano solamente sette refusi. Quello che qui più conta segnalare è che nella stessa carta l’editore indica anche i privilegi con i quali esce il volume, che sono ovviamente quelli del sovrano francese, di Clemente VII e « dell’Illustriss. Signioria della Repubblica fiorentina ». Sono soprattutto gli ultimi due a sorprendere, perché Alamanni era pur sempre uno dei protagonisti dell’avventura repubblicana chiusasi nel 1530 a Firenze, e il clima instaurato da Alessandro in città non era certamente orientato alla conciliazione e quindi alla facile concessione di privilegi a dichiarati nemici dello stato. Probabile allora che Alamanni, forse troppo fiducioso, avesse dato per scontata la concessione del privilegio tanto da stamparlo ancor prima di averlo ottenuto e che, saputo o intuito il rifiuto del potere mediceo, abbia rapidamente provveduto a modificare il fascicolo iniziale. Nel secondo stato infatti qui non troviamo alcun accenno a privilegi o a errata corrige ; tutte queste informazioni furono spostate nella parte finale del libro, esattamente nell’ultimo fascicolo, con un indice molto più completo, gli errata più precisi (i refusi riportati sono saliti a diciotto) e, soprattutto, senza la menzione del privilegio fiorentino. Risolto per tempo questo problema, l’edizione lionese poté uscire senza ulteriori difficoltà. Qualcuno però, assai probabilmente su invito di Alamanni o almeno con la sua approvazione, pensò di allestire a Firenze una edizione gemella a quella francese. È facile immaginare che dal mercato lionese, dove i Giunti operavano, potesse arrivare a Firenze il testo da stampare, anche solo tenendo conto dell’efficacissima rete commerciale estesa a buona parte dell’Europa di questi editori.39 Più azzardato era però il proposito di stampare l’edizione in una città ancora molto irrequieta politicamente. Il primo volume dell’edizione fiorentina, chiaramente esemplata su quella lionese,40 uscì comunque nel mese di luglio per i prestigiosi tipi dei Giunti, ma ebbe subito problemi, come testimonia la lettera di Nicolò Guicciardini del 12 dicembre 1533, nella quale ragguaglia Francesco Guicciardini sugli ultimi avvenimenti accaduti in città :

  • 41  Opere inedite di Francesco Guicciardini, illustrate da G. Canestrini, vol. IX, La prigionia di Cle (...)

Abbiamo ancora per conto delle opere di luigi alamanni nuovamente stampate (che furno mandate qua e vendonsi publicamente ai cartolai, le quali contenevano biasmi di n.s. e dello stato e laudi di qualche uno de’ ribelli e modi dello Stato passato), confinato in valdarno uno de’ giusti che le aveva lette e mandate qua da lione, non osservando pena del capo e confiscazione de’ beni; e gio. Battista giovanni che le ricevé condannato in 70 scudi ; e dua cartolai che le vendevano in 10 scudi per uno, perché né loro né giovanni battista sapeva il contenuto, ma non avevano domandato licenza.41

  • 42  Felice quindi l’intuizione di Camerini che, pur non essendo a conoscenza dell’incidente politico c (...)

20Al di là della precisa ricostruzione dell’itinerario compiuto dalle opere interessa osservare come si punti l’indice soprattutto sul loro côté politico che, come abbiamo visto, per il primo libro era sostanzialmente riservato alle satire. L’operazione maldestra non fu priva di conseguenze per i Giunti fiorentini, tanto che nei tre anni successivi all’edizione delle opere di Alamanni (delle quali riuscirono a stampare solo il primo volume) il ritmo di lavoro della loro tipografia fu quasi interrotto.42 Ma la questione della censura divenne anche oggetto delle rivendicazioni dei fuoriusciti, tanto che nelle querele indirizzate ad Alessandro de’ Medici fecero esplicito riferimento alla vicenda :

  • 43  Francesco Guicciardini, Opere inedite, p. 339.

Un libraro, il quale aveva alcune opere di luigi alamanni fuoriuscito, non proibite né quivi né in altra parte del mondo, fu condannato in scudi ottocento e bandito pena della vita; e un altro che n’aveva venduti quattro volumi fu condannato in scudi dugento.43

21La risposta alle querele del duca non si fece attendere e sotto i toni apparentemente benevoli, fa in realtà ben intuire la durezza con la quale doveva essere intervenuto, specificando tra l’altro con più precisione le ragioni che avevano reso necessario il sequestro dell’edizione e il tentativo di impedire circolazione dell’opera :

  • 44  Francesco Guicciardini, Opere inedite, p. 373.

Sono impressi i libri di luigi alamanni, per i quali si può vedere quanto inonestamente parlassi non solo del governo di firenze ma di clemente, e in laude de’ rebelli. però essendo libri sediziosi e scandalosi fu molto conveniente punire i librari che gli avevano condotti a vendere in firenze sanza licenza de’ magistrati. Enondimeno perché si fece più a esemplo e terrore degli altri che per altra causa, fu mitigata la pena a una minima quantità.44

22In questa versione ufficiale viene quindi menzionato esplicitamente l’attacco ai Medici, tanto a Roma quanto a Firenze. È quindi assai probabile che la testimonianza di Franco non sia così priva di fondamento e che i versi delle satire, nonostante la cassatura del testo più violento contro il papato, non fossero passati inosservati agli occhi della corte pontificia.

  • 45  Cfr. C. Bec, Les livres des florentins (1413-1608), Firenze, Olschki, 1984, pp. 81-88.

23La rigida censura cui furono sottoposte quindi le opere toscane ci offre una conferma ulteriore della compresenza al loro interno di diverse linee pensate e rivolte a diversi destinatari. Accanto alla volontà di garantirsi una sicurezza in Francia, convive infatti anche un desiderio di intervenire con forza nel dibattito politico fiorentino, istanze queste che trovano sempre spazio nel contesto di un complesso ed articolato progetto letterario, valido, almeno nelle intenzioni, sia per l’Italia quanto per la Francia. E che nelle opere toscane ci fossero molti elementi che dovevano suonare familiari ed interessanti alle orecchie del pubblico fiorentino sembrerebbe testimoniarlo anche la presenza nelle biblioteche delle famiglie della città di quel volume, a specchio della fortuna dei manoscritti che abbiamo almeno di scorcio potuto osservare.45Anche se, va aggiunto, poteva trattarsi della ristampa del 1542, curata dai Giunti veneziani, in anni, dunque, nei quali a Firenze si cercava piuttosto di normalizzare la cultura, magari approntando una sorta di museificazione del recente passato in un disegno storiografico teleologicamente concluso dalla presenza di Cosimo.

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Notes

1  Opere Toscane di Luigi Alamanni, Lione, Gryphius, 1532 vol. I, 1533 vol. II. Dell’edizione del primo volume esistono almeno due stati, segnalati da N. Bingen, Philausone (1500-1660). Bibliographie des ouvrages en langue italienne publiés dans les pays de langue française de 1500 à 1660, Genève, Droz, 1994, pp. 38-39, dei quali si discuterà più oltre. Per una lettura complessiva delle Opere toscane il rinvio d’obbligo è ancora la monografia di H. Hauvette, Luigi Alamanni (1495-1556). Sa vie et son oeuvre, Paris, Hachette, 1903, in part. pp. 151-232. Tra i pochi contributi apparsi negli ultimi anni dedicati alla prima raccolta del poeta fiorentino (considerata nel suo insieme o solo per l’analisi di alcune parti) cfr. G. Mazzacurati, 1528-1532 : Luigi Alamanni, tra la piazza e la corte, in L’écrivain face à son public en France et en Italie à la Renaissance, Actes du Colloque International de Tours, 4-6 décembre 1986, Paris, Vrin, 1989, pp. 51-70 ora in Id., Rinascimenti in transito, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 89-112 ; P. Floriani, Le « satire » di Luigi Alamanni, in Id., Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 95-123 ; F. Bausi, La nobilitazione di un genere popolaresco : il Diluvio di Luigi Alamanni, « Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance », LIV (1992), pp. 23-42 ; U. Rozzo, La cultura italiana nelle edizioni lionesi di Sébastien Gryphe (1531-1541), in Du Pô à la Garonne. Recherches sur les échanges culturels entre l’Italie et la France à la Renaissance, Avant-propos de M. Simonin, Préface d’A. C. Fiorato, Postface d’A. Michel, Agen, Centre Matteo Bandello d’Agen, 1990, pp. 13-4 ; R. Rinaldi, Le vie della selva. Appunti sulla riformulazione rinascimentale di un genere lirico, « Proteo », I (1995), pp. 41-60, ora ampliato in Id., Le imperfette imprese. Studi sul Rinascimento, Torino, Tirrenia, 1997, pp. 187-230 ; P. Cosentino, L’intellettuale e la corte : Luigi Alamanni e la monarchia francese, in Cultura e potere nel Rinascimento, Atti del IX Convegno internazionale (Chianciano-Pienza 21-24 luglio 1997), a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, Franco Cesati Editore, 1999, pp. 398-404.

2  Catalogues des Actes de François I, II, 5058 e 6520.

3  Nei testi si incontrano frequenti dichiarazioni metaletterarie nelle quali il poeta ribadisce il suo proposito di rifarsi ai precedenti classici. Si legga, ad esempio, l’incipit della prima elegia, alla quale spetta il compito di aprire l’intera raccolta : « Scorgemi antico amor fra Cyntia e Flora / pien di novi desir, di speme armato / ove altro Tosco piè non presse ancora, / dietro al maggior che ’n dolce stilo ornato / cantò per Delia, e a chi scrisse il nome / che la seconda volta fia lodato. / Mostrimmi oggi il cammin ch’io prendo, e come / loro il mostrò Callimaco e Fyleta, / primi cui già questa edra ornasse chiome. / Arno omai cerca di novel poeta, / io sarò forse quel fin ch’altri vegnia / che fior più vaghi de nostri orti mieta » (Opere toscane, I, p. 1) ; oppure il richiamo alla tradizione della satira classica « Mai più non vo’ cantar com’io solia, / ma di sempre seguir Lucilio intendo / con chi lui segue per più dotta via / et se ne campi altrui mia falce stendo / scusimi ira et dolor, che m’ange et tira / la` ’ve più d’altri me medesmo offendo » (Opere toscane, I, pp. 361-62) e di quella moderna « Seguiam pur tutti, ch’ogni dì novelle / (così non fusse ’l ver) materie avremo / tanto da creder più quanto men belle, / et ben se ’l sa chi vede ’l mondo scemo / d’ogni antica virtù, ripien di ragnie / ond’i cor cinti et le trist’alme havemo, / né l’Ariosto anchor di me si lagnie / il ferrarese mio chiaro et gentile, / ch’oggi con lui cantando m’accompagnie, / né ’l mio basso saper si prenda a vile / che fors’ancor (s’io non l’estimo ’n darno) / girando ’l verno in più cortese aprile, / non avra a schivo ’l Po, le rive d’Arno » (Opere toscane, I, p. 370).

4  Per un’analisi della produzione lirica degli Amori di Bernardo Tasso alla luce delle possibili influenze di Antonio Brocardo cfr. G. Forni, Il canone del sonetto nel XVI secolo, « Schede umanistiche », 2 (1997), pp. 113-22.

5  Gian Giorgio Trissino, Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma, Salerno, 1986, pp. 54-56 (ho sostituito i caratteri greci).

6  Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, vol. II Testo, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1977 [ristampa anastatica dell’edizione Giunti, 1527], c. AA 1r ; sul senso dell’operazione giuntina cfr. l’Introduzione di De Robertis all’edizione citata, C. Dionisotti, Machiavelli e la lingua fiorentina, in Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980 ; G. Gorni, Di qua e di là dal Dolce Stile (in margine alla Giuntina), in Id., Il nodo della lingua e il Verbo d’Amore, Firenze, Olschki, 1981, pp. 217-41 ; N. Cannata Salamone, L’Antologia e il canone : la Giuntina delle Rime Antiche (Firenze 1527), « Critica del testo », II (1999), pp. 221-47. Utile per la definizione del progetto culturale dell’antologia anche l’Introduzione a Bardo Segni, Rime, a cura di R. Castagnola, Firenze, Presso l’Accademia della Crusca, 1991.

7  Cito, ad esempio, il Magliabechiano VII, 371 della Biblioteca Nazionale di Firenze ; si tratta di una testimonianza interessante perché per larghi tratti nel manoscritto fiorentino si articola un’antologia di autori che corrisponde alla serie proposta dalla pagina trissiniana ; vi troviamo infatti, sapientemente alternati, molti componimenti di Alamanni, Francesco Guidetti, Cosimo Rucellai, ovviamente, ma anche di Pietro Bembo, Jacopo Sannazaro e dello stesso Trissino, più un gruppo di petrarchisti come Pietro Barignano, che saranno sentiti per tutto il Cinquecento come estranei al petrarchismo cortigiano (la tavola del manoscritto si può leggere in G. Mazzatinti, Inventario delle biblioteche d’Italia, vol. XII, Forlì, 1905-1906, pp. 75-79). Tra gli altri, si può ricordare il manoscritto Antinori 161 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, del quale si daranno maggiori dettagli più oltre, interessante perché presenta un’antologia di autori fiorentini, in buona parte provenienti dall’ambiente degli Orti Oricellari, ma anche le petrose dantesche, segno di una connotazione tutta fiorentina e assai attenta, accanto al Petrarca, alla lirica dantesca (notizie e bibliografia sul manoscritto in Bardo Segni, Rime, pp. 20-21). Questi due manoscritti miscellanei, come altri per i quali non c’è qui lo spazio per analisi approfondite, andrebbero forse studiati con maggiore attenzione soprattutto in quanto antologie, cioè come veri e propri libri capaci di testimoniare un milieu di sperimentazione nel quale accanto ai nomi dei protagonisti locali (in questo caso i fiorentini), vengono collocati quegli autori del resto della penisola affini per tonalità espressiva ma anche, e soprattutto, per posizione ideologico-letteraria. Una prima dimostrazione dell’utilità di un riesame dei manoscritti di lirica cinquecenteschi intesi in primo luogo come antologie costruite consapevolmente, come ritratti di un gruppo, si può leggere in E. Strada, « Avanguardie petrarchiste » e tradizione manoscritta nel Veneto del primo Cinquecento, in « I più vaghi e odorosi fiori ». Studi sulla antologie liriche del Cinquecento, Alessandria, Dell’Orso, in corso di stampa. Aggiungo solo, infine, che una piccola serie di testi di Cosimo Rucellai e di Francesco Guidetti tratte dal manoscritto A8 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano si può leggere nelle Rime di poeti italiani del secolo XVI, Bologna, Romagnoli, 1873, pp. 38-83 (reprint Forni, 1968), riedite poi da H. Hauvette in « Bulletin Italien », IV (1904), con l’aggiunta di qualche utile ragguaglio sulle biografie dei due poeti.

8  Sino ai primi anni Venti tra gli annali di Giunta troviamo infatti poche opere volgari : l’edizione di Petrarca del 1505 e di Dante del 1500, mentre sul fronte della letteratura volgare contemporanea troviamo solo i nomi di Bembo (Gli Asolani di Messer Pietro Bembo, 1505, ristampato nel ’19), di Sannazaro (Arcadia, 1514, ristampata nel ’19) e, appunto, di Benivieni. Non sembra davvero una coincidenza casuale che questi nomi corrispondano alle indicazioni contenute nella pagina trissiniana citata, a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di un legame particolarmente stretto tra la produzione giuntina e l’aristocratico ambiente degli Oricellari. Cfr. I Giunti tipografi editori di Firenze 1497-1570. Annali, a cura di D. Decia, R. Defiol e L. S. Camerini, Firenze, Giunti Barbèra, 1978, in part. pp. 36-37.

9  Cito dell’edizione veneziana del ’24, Opere di Girolamo Benivienifiorentino novissimamente rivedute da molti errori espurgate con una canzona dell Amor celeste et divino, col commento dello Ill. S. Conte Giovannni Pico Mirandolano distinte in Libbri III. et altre Frottole de diversi Auttor (colophon : Stampato in Vinegia per Gregorio de Gregori, Nell’anno del nostro Signore 1524, A dì 28 de Aprile), c. 126v. La scelta della terza rima per le traduzioni di questi componimenti classici non sarà probabilmente priva di ripercussioni per lo stesso Alamanni che, ad esempio, sceglie questo metro per le sue elegie, genere che cominciò a praticare già negli anni precedenti alla prima fuga da Firenze. Va quindi rivisto il giudizio risoluto di Hauvette che riteneva privi di un reale peso per Almanni questi precedenti (« Mais ces essais [le traduzioni di B.] sont peu significatifs ; aucun d’eux ne contient cet accent personel qui devrait être la caractéristique esentielle de l’élégie amoureuse », Luigi Alamanni cit., p. 200). Per inquadrare le coordinate essenziali dell’opera letteraria di Benivieni cfr. almeno G. Gorni, « Sotto enigmatici velamenti ». La « canzona d’amore » de Benivieni, le « commento » de Jean Pic de la Mirandole et l’« androgyne » de Platon, in Regards sur la Renaissance italienne. Mélanges de littérature offerts à Paul Larivaille, Études réunies par M.-F. Piéjus, Nanterre, Université Paris X, 1998, pp. 345-53, in part. pp. 346-48.

10  Interessante a questo proposito una lettera che Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni scrivono da Lione a Battista della Palla nel 1524, purtroppo unico documento in nostro possesso per ricostruire la biblioteca del poeta fiorentino negli anni Venti. L’elenco dei libri che Alamanni desidera tenere con sé conferma l’influenza degli indirizzi culturali che aveva maturato a Firenze ; infatti sono presenti soprattutto titoli di letteratura classica accanto ad alcuni selezionati autori volgari : « Un Petrarca, nero ; uno Dante, nero ; Ovidio de Fastis, Trist., et Ponto ; un Cento Novelle ; Arcadia del Sananzaro ; opere greche di Luciano ; Epistole d’Ovidio ; Virgilio ; Teocrito ; la Fiammetta ; Catullo et Tibullo ; Apiano Alexandrino ; De officiis ; opere latine di Luciano ; Bibbia ; una Etica, con i magni Morali ; un’altra Etica, con lo Hecatonfilon ; un’altra picola, con la Politica ; un Platone grande. D’altre nostre favole et poche et cattive cose non abbiamo inventario », lettera edita da Guasti nel « Giornale storico degli Archivi toscani », III (1858), pp. 201-202.

11  Ad esempio, Alamanni inviò l’egloga Nymfe ch’alberga l’onorata valle per mezzo di Luisa di Savoia a Francesco I durante la sua prigionia in Spagna (1525). Il sovrano, che amava esercitarsi nella poesia, mostrò di gradirla tanto da tradurla in francese con il titolo Nymphes, qui le pays gratieux habitez, cfr. François Ier, Œuvres poétiques, edition critique par J. E. Kane, Genève, Slatkine, 1984, pp. 175-78 ; notizie su questa traduzione si trovano, oltre che nell’edizione citata, in A. Hulubei, L’eglogue en France au XVIe siècle, Paris, Droz, 1938, pp. 185-88 e H. Hauvette, Luigi Alamanni cit., p. 449.

12  Oltre ad alcune importanti sezioni di testi direttamente rivolti alla corte francese ed alla sistemazione di altri per renderli più assimilabili alla politica francese, Alamanni allo scopo di mettere al centro dei volumi la figura dell’ideale destinatario utilizzò particolari strategie di impaginazione, come il costume di aprire e chiudere ogni sezione di testi con una didascalia che destina al sovrano i componimenti.

13  È noto l’amore di Francesco I per le lettere classiche, benché la sua conoscenza di latino e greco fosse molto limitata. Per questo motivo assumevano grande importanza i lettori del re o gli intellettuali al suo servizio che avevano il compito di leggere e tradurre opere classiche e discutere con lui del mondo antico, solitamente in contesti conviviali. Si veda quanto afferma a questo proposito A. Coron : « François Ier fut avant tout un homme de culture orale, aimant s’entourer de lettrés pour s’entertenir avec eux et manifester ainsi une curiosité intellectuelle cedependat indéniable », Collège royal et Bibliotheca regia. La bibliothèque savant de François Ier, in Les origines du Collège de France (1500-1560), Actes du Colloque international (Paris, décembre 1995), Volume publié sous la direction de M. Fumaroli, Paris, Collège de France/Lincksieck, 1998, pp. 143-83, p. 148.

14  Alamanni sembra essere stato uno degli artefici del mito di Francesco I sovrano e poeta, secondo un disegno politico-culturale mirato a riconoscere alla Francia il luogo di origine della poesia moderna. Già nell’introduzione delle Opere toscane Alamanni, mentre giustifica teoricamente l’uso dell’endecasillabo sciolto, ricorda l’origine provenzale della rima, facendo appello alla competenza poetica del sovrano : « han detto molti che la rima fu come cosa necessaria trovata da i nostri poeti, i quali avendo considerato che tutte le parole Toscane han termine nel fin del verso di vocale, volsero (come cosa povera) che fusse accompagniata dalla vaghezza della rima, ma questi tali mostran di non sapere ch’ella abbia origine avuta davanti che in noi ne’ Provenzali, i quali in contrario han quasi tutte le lor dictioni terminanti (come meglio di me et di tutti gli altri sa la Maiestà vostra) in consonante, talmente che più presto vulgare et mal fondata usanza da quei primi si può chiamare che ragionevole » Opere toscane, I, c. *3v. Un importante episodio nella costruzione del mito del re di Francia poeta sarà la presunta scoperta della tomba di Laura ad Avignone nel 1533, raffinato gioco letterario probabilmente organizzato dello stesso Alamanni, grazie al quale « le roi et Pétrarque, les deux François étaient définitivement liés, et le “pétrarquisme”, l’appropriation en termes français de la poésie qui fondait la langue italienne, entrait dans la composition d’un image symbolique d’un François Ier imaginaire », J. Balsamo, « Du Florentin les lamentables voix » : mythe pétrarquien et modèle pétrarquiste en France au XVIe siècle, in L’Italia letteraria e l’Europa, Atti del convegno di Aosta 20-23 ottobre 1997, Roma, Salerno, 2001, pp. 109-26, p. 115. Questa strategia mitografica fu continuata anche negli anni successivi da Alamanni, come sembra dimostrare la canzone inedita Pien di tristi sospir, di passo in passo scritta per conto del cardinale Ippolito d’Este a Francesco I nel 1539, che nella lettera accompagnatoria dichiara « mi punse una troppo grande invidia verso quelli, a cui dal ciel è concesso il poter alleggerir almeno le lor doglie con le rime et con i versi (sì come ho molte volte veduto far così felicemente a Vostra Maestà), ma pur essendo questo negato a me, apersi tutti i miei concetti a M. Loiggi Alamani » BNF, Nouv. Acq. Fr. 21601, cc. 53r-56v (si tratta di un manoscritto ottocentesco « copie du manuscrit de Saint-Petersbourg Autographes n° 44 »).

15  Sulla Nazione fiorentina residente soprattutto a Lione cfr. M. Charpin-Feugerolles, Les florentins à Lyon, Lyon, Association typographique, 1889 ; E. Picot, Les Italiens en France au XVIe siècle, Bordeaux, Gounouilhou, 1918 (rist. anastatica, Manziana, Vecchiarelli, 1995) ; R. Cooper, Humanism and Politics in Lyon in 1533, in Intellectual Life in Renaissance Lyon, Proceedings of the Cambridge Lyon Colloquium 14-16 april 1991, edited by P. Ford and G. Jonford, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 1-32 ; J. Boucher, Présence italienne à Lyon à la Renaissance. Du milieu du XVe à la fin du XVIe siècle, Lugd, Lyon, 1994 ; J. F. Dubost, La France italienne : 16-17 siècles, Paris, Aubier, 1997 ; J. Boucher, Les Italiens à Lyon, in Passer les monts. Français en Italie - l’Italie en France (1494-1525), Études réunies par J. Balsamo, Firenze-Parigi, Cadmo-Champion, 1998, pp. 38-46.

16  Nel corso dell’Ottocento Piero Raffaelli (Versi e prose di Luigi Alamanni, Firenze, Le Monnier, 1859, 2 voll.), Henri Hauvette (Luigi Alamanni, cit.) e altri (cfr. Saggio di poesie inedite di Luigi Alamanni, Firenze, Magheri, 1819) hanno in realtà compiuto una significativa recensio dei manoscritti contenenti opere alamanniane ; la loro attenzione era però rivolta soprattutto alla ricerca di pezzi inediti piuttosto che alla precisa definizione di una cronologia dei testimoni di opere poi confluite nell’edizione lionese.

17  Luigi Alamanni, Oratione et Selva, s.l., s.d. [ma Firenze, eredi di Filippo Giunta il vecchio, 1529].

18  Nell’allestimento del piccolo libro lirico all’interno delle Opere toscane Alamanni intervenne ritoccando i componimenti e inserendoli in una raccolta più ampia, soprattutto allo scopo di inserire l’ampia sezione di testi dedicati a Batina Larcara Spinola, che non sono presenti nel manoscritto. Le numerose e significative correzioni apportate alle liriche e all’ordinamento meriterebbero uno studio autonomo ; va almeno segnalato il criterio generale che dovette animare il lavoro di adattamento della struttura del piccolo canzoniere per la stampa perché, al pari del lavoro compiuto sulle satire, testimonia il modus operandi grazie al quale Alamanni corregge l’indirizzo dei suoi componimenti verso un destinatario francese. Al primo sonetto del manoscritto (Il bel paese, il loco ov’io già nacqui, c. 5or, poi L’almo terren ove infelice nacqui, Opere toscane, I, p. 188), primo lamento dell’esule per la patria perduta, Almanni prepone un sonetto dedicato al sovrano (Spirto sovran, che di regale ammanto, Opere toscane, I, p. 188) nel quale compendia la storia che verrà narrata nel canzoniere e la dedica al re. Si tratta di un testo di servizio, scritto probabilmente ad hoc per dare un nuovo profilo all’intera raccolta, capace cioè di mitigare i toni di alcuni dei sonetti successivi, non proprio carichi di gratitudine verso Francesco I (sono i testi del primo approdo in Francia dove, come già ricordato, Alamanni non ebbe subito vita facile). In questo modo, premettendo in sede iniziale una nuova conclusione del canzoniere, cioè un ringraziamento al sovrano che ha accolto il poeta esule, anche i componimenti che seguivano andavano letti secondo una prospetttiva ideologica parzialmente diversa rispetto a quella originaria del manoscritto.

19  Notizie sul ramo della famiglia Strozzi cui apparteneva Giovan Maria si trovano nel repertorio di Pompeo Litta, Famiglie celebri, Milano, Tipografia Ferrario, 1839, vol. V, tav. XII, il quale afferma che « passati in Francia abitavano in Lione, ove li credo estinti, non essendomi riuscito di trovarne notizie » ; sicuramente il nostro Giovan Maria doveva essere ben inserito nella comunità fiorentina della città, poiché sposò Maria Carnesecchi, membro di una delle famiglie di banchieri fiorentini più importanti a Lione e più tardi a Parigi (sulla famiglia della moglie cfr. E. Picot, Les Italiens cit., p. 122-26).

20  Biblioteca Angelica di Roma, 1680 ; per la descrizione del ms. cfr. G. Mazzatinti Inventario generale dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, vol. XXII, Firenze, Olschki, 1915, p. 121.

21  L’unica edizione moderna delle satire è quella proposta da P. Raffaelli, Versi e prose cit., pp. 238-91 ; si tratta però di un’edizione malfida perché ispirata a principi ecdotici assai poco coerenti (mescola arbitrariamente l’ordinamento e le diverse lezioni del manoscritto con quelli della stampa ; vi sono inoltre alcuni palesi fraintendimenti del testo, dovuti ad errori di trascrizione). Floriani ha fornito un primo quadro della situazione filologica delle satire (Le « satire » cit., p. 121 nota 15), auspicando « una messa a punto sistematica, sia per servire ad un’edizione critica [...], sia per rilevare sistematicamente le varianti, che interessano sia lo storico che lo studioso di letteratura ». Nelle citazioni dei testi ho utilizzato i numeri romani per indicare le satire nella versione manoscritta e quelli arabi per quella a stampa. Salvo ragioni particolari, comunque segnalate, ho citato dal testo dell’edizione lionese.

22  Annibale di Nuvolara, ammirato capitano delle truppe francesi e particolarmente stimato e apprezzato da Francesco I (numerose sono infatti le gratificazioni economiche che il sovrano gli tributa, cfr. Catalogues des actes cit.), sostituisce Massimiliano Sforza, morto qualche anno prima dell’edizione lionese. All’elenco dei destinatari segnalato deve essere aggiunto il gruppo dei testi dedicati ai familiari (la moglie e il fratello morto) ; queste dediche non devono far pensare ad una declinazione più intima della satira, perché anche il tema privato viene utilizzato comunque per una rampogna politica e morale.

23  La revisione dell’incipit della satira spinse Alamanni ad un lavoro di minuziosa revisione dell’intero testo, come dimostrano le numerose varianti della versione manoscritta ; di queste ultime allego qui una campionatura per illustrare il peso quantitativo della revisione apportata nella stampa (la numerazione dei versi si basa sul testo dell’edizione lionese) : 14 « lunge dal vulgo, al nudo aperto cielo » ; 15 « fuor di ville et città » ; 16 « et si cura si tempra il caldo e ’l gielo » ; 24 « come arpie fugge et come rie syrene » ; 30 « sua gloria et fama » ; 31 « non ha davanti, non dietro alle spalle » ; 33 « ch’ei va » ; 35 « cura quanto » ; 39 « che di dolci sapor pasce et contenta » ; 40 « appetito semplice » ; 43 « Non pensa » ; 48 « fin che la notte il vieti » ; 53 « che sparse vanno » ; 58 « l’instabil » ; 60 « sempre schernisce chi di ciò sospira » ; 61 « et pur senza cura al tempo fresco e bello » ; 63 « l’un cuopre il colle, et l’altro ombra il ruscello » ; 76 « poscia che breve il freddo giorno luce » ; 79 « che la terra » ; 80 « il vel nocturno al chiuso albergo ». Anche per la satira vi (Quant’or sia lungo il buon costume antico), dedicata successivamente « A Monsigniore reverendiss. de Soderini vescovo di Santes », Alamanni aggiunse quattro terzine nell’attacco della satira per giustificare la presenza dell’interlocutore (« Perch’io sovente già vi vidi acceso, / monsignor reverendo, in alto sdegnio / contro al secol presente a vizi inteso, / prenderò ardir col basso stile indegnio / di ragionar con voi mostrando certo / del buon vostro voler non piccol segnio, / nel cammin di ragion sassoso et erto / non si truova oggi alcun, che tutti vanno / nel sentier piano all’altrui voglie aperto. / Questi son quei che sozzamente fanno / il misero mondo d’ogni ben mendico / et ripien di dolor d’eterno affanno » 5, 1-12) e rivide con attenzione l’intera sartira. Ecco l’elenco delle varianti più significative : 13 « quanto hor sia lungo » ; 14 « quel che l’arme fra noi ministra a Marte » ; 15 « odal ne sdegni quando » ; 16 « oda i primi a se stesso » ; 17 « et vedrà » ; 19 « pensa or colui, cui falsamente » ; 20 « solo la forza e ’l ferro essere tra gli altri tale » ; 21 « che dal comun sentier possa andar fuora » ; 22 « non in mille anni porta il mondo eguale » ; 23 « ch’a lui non sembra » ; 32 « che ben sembra » ; 33 « all’uman greggie » ; 34 « di quiete et pace » ; 35 « guerre discordie, giorno et notte agogna » ; 36 « in cui più d’altro » ; 41 « ch’adrizzi il piede » ; 44 « che non volga » ; 46 « involto » ; 53 « dietro a’ suoi sempre, onde indifeso et vinto » ; 60 « mostro hanno al mondo » ; 61 « fur sempre l’opre » ; 65 « quant’ha ’l ciel forza, et quanto val natura » ; 67 « sacro è ch’intende ognor cerca et misura » ; 69 « chi l’esser di noi » ; 81 « si pianga invano » ; 87 « a tal ; 96 « peccato sol » ; 99 « con più forza non ci stan di sopra » ; 102 « da serpe a noi vie più dannose et fiere » ; 106 « et tu il vil » ; 108 « drieto a più rei con disnor proprio et danno » ; 109 « che tutto » ; 110 « or Marte, or Palla, con vergogna et sdegno » ; 114 « chi n’è men degno » ; 117 « s’al secol che vidi or punto t’assembra » ; 118 « dove hai colui » ; 120 « donò più gloria che duol forse et pene ? » ; 126 « che la sua patria poi pianse altrettanto » ; 137 « per la sua libertà muraglia et schermo » ; 154 « tal ch’omai » ; 156 « a quei miglior cui l’oprar dritto piace » ; 163 « Italia già » ; 164 « ch’argento et oro ».

24  Nel nuovo incipit infatti si dispiega un intero periodo ipotetico, con la protasi che occupa la prima terzina e l’apodosi tripartita simmetricamente articolata in tre terzine, legate tra loro dall’evidente anafora « non arian », « non mille volti », « non graverebbe ». Del resto, tutta l’ossatura sintattica della satira è basata sull’insistita ripresa anaforica del periodo negativo, in virtù del desiderio di produrre un vero e proprio catalogo di esempi. La forte autonomia sintattica e semantica che in questo modo viene ad assumere ogni singola terzina potrebbe ricordare movenze stilistiche e retoriche già proprie del capitolo morale di fine Quattrocento o di inizio secolo, come, ad esempio, quelli di Machiavelli. In quel caso però, l’autonomia sintattica e logica di ogni singola terzina viene smorzata dalla rigida consequenzialità logica del discorso, per cui ogni singola cellula è un anello argomentativo necessario, cfr. l’Introduzione di G. Inglese a NicolÒ Machiavelli, Capitoli, Roma, Bulzoni, 1981, in part. cap. II. Alamanni invece, riprendendo in questo il modello classico della satira, specie di Giovenale, costruisce il suo discorso da un’apertura, cui spetta il compito logico di specificare il tema del discorso, seguita poi da un catalogo di esempi organizzato secondo una successione non necessariamente vincolata ad un preciso ordine logico. L’intelaiatura che dovrebbe garantire la coesione del discorso poetico diventa allora l’insistito gioco di riprese anaforiche o la tramatura di simmetriche riprese sintattiche. Sulla terza rima nel periodo di passaggio tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento cfr. almeno A. Tissoni Benvenuti, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, in Ludovico Ariosto : lingua, stile e tradizione, Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio Emilia e Ferrara 12-16 ottobre 1974, a cura di C. Segre, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 303-13, e per la situazione quattrocentesca fiorentina C. Peirone, Storia e tradizione della terza rima. Politica e cultura nella Firenze del Quattrocento, Torino, Tirrenia, 1990.

25  Ad iniziare la serie dei giudizi negativi sarà Ruscelli, che pubblica per i tipi di Pietrasanta (Venezia 1554) le satire di Alamanni assieme a quelle di Ariosto. A dire la verità, il poligrafo è piuttosto cauto (del resto Alamanni era ancora vivo) e si limita a esporre le critiche più diffuse, ricordando però il valore esemplare della lingua utilizzata : « Nelle satire del s. Luigi Alamanni sono alcuni che non lodino il chiamar satire alcune d’esse, che non contengono veruna cosa satirica, come quelle ove piange la morte del fratello, e qualche altra che ve ne è. Di che poi che egli è vivo, e spero che così ce lo conserverà lungamente Iddio, ed è persona dottissima da saper mantener per bene fatte cose sue, non mi affaticherò io qui per ora a dir quanto potrei dirne in difesa sua. Bastandomi di dire che di stile e di lingua sia ornatissimo e degno d’esser imitato et seguito da gli studiosi della lingua nostra », Le satire di M. Lodovico Ariosto, et del S. Luigi Alamanni, nuovamente ristampate, con le correttioni e annotationi di Girolamo Ruscelli, Venezia, Plinio Petrasanta, 1554, pp. 143-44. Più espliciti invece i curatori delle due antologie di satire edite negli anni Sessanta, quando ormai il modello oraziano era pienamente accettato come quello esemplare e fondativo del genere : Francesco Sansovino, pur ripubblicando tutte e dodici le satire di Alamanni, le giudica « argute veramente, ma di stil troppo elevato in questa materia e non punto piacevole, ma più tosto aspro e severo. Percioché la satira vuol esser per così dire, umile e pedestre, come altrove si ha detto. Piange in queste la sua patria Fiorenza. Certo per soggetto grave, e meste, ma per maniera di dire molto differenti da quelle bellissime dell’Ariosto », Sette libri di satire di Lodovico Ariosto, Hercole Bentivogli, Luigi Alamanni, Pietro Nelli, Antonio Vinciguerra, Francesco Sansovino, Venezia, Sansovino, 1560, c. 5ov ; più severo invece Marco degli Andini, curatore dell’antologia Satire di cinque poeti illustri apparsa a Venezia nel 1565, che pubblica solo quattro satire di Alamanni « delle più brevi e forse meno indegne », poiché lo trova « alquanto [...] spiacevoletto » (c. a2r-3v).

26  Per una utile sintesi delle posizioni teoriche nel primo Cinquecento (e oltre) sulla satira tanto nel settore umanistico quanto in quello volgare cfr. P. Debailly, La poétique de la satire classique en vers au XVIe siècle et au début du XVIIe, « L’information littéraire », 1993-95, pp. 20-25.

27  P. Floriani, Le « satire » cit., p. 114, dove analizza nel dettaglio l’incipit di questa satira.

28  Alcune interessanti osservazioni di carattere teorico e stilistico sulla satira si trovano per il periodo primocinquecentesco soprattutto nei materiali di commento ai testi classici, cfr. P. Debailly, La poétique cit. Si veda, ad esempio, quanto afferma in merito alle caratteristiche dell’incipit della prima satira di Giovenale il commentatore dell’elegante edizione Britannico : « Principium igitur more satyrico ex abrupto fecit, ut Persius, O curas hominum, Oratius, Qui fit Mecoenas », Com[m]mentarii Ioannis Britannici in Iuvenalem, c. a 1r.

29  C. Dionisotti, Machiavellerie cit., pp. 152-53.

30  Tra i diversi luoghi ripresi dalla sesta satira giovenaliana viene, ad esempio, riproposto il ritratto della donna amante delle lettere che si atteggia a sapiente critico letterario : « Elle san più d’altrui che perché sente / Livio del Padovan sia Crispo avanti, / et come à Greci sol l’istoria mente / che ’l Mantovan le voci al ciel sonanti / già mai non pieghi, et ch’alto et basso Omero / come la guida il suo suggetto canti, / fan de due Fiorentin giudicio intero / lodando ’n questo ’l dir, la tema ’n quello, / più di dir vaghe che d’udirne ’l vero » 4, 55-63 : cfr. Giovenale, Satire VI 433-36 « Illa tamen gravior, quae cum discumbere coepit, / laudat Virgilium, periturae ignoscit Elissae, / committit vates et comparat, inde Maronem / atque alia parte in trutina suspendit Homerum ».

31  La costruzione della satira è particolarmente curata nella distribuzione della parti ; ad un prologo di sei terzine, cui spetta il compito di motivare l’indignazione e la necessità per il poeta di scrivere, seguono poi due simmetriche parti di trentuno terzine ciascuna, la prima dedicata a tutte le forze politiche non direttamente legate ai Medici (ad ognuna vengono dedicate circa 7 terzine), la seconda invece concentrata su Firenze (17 terzine) e Roma (14 terzine).

32  Già P. Raffaelli osservava che « questa satira [terza nella sua ed.] si trova in più codici da me diligentemente osservati » (Versi e prose cit, p. 245 nota 4), pur senza segnalare quali fossero questi manoscritti, seguito da H. Hauvette « Le succès de cette satire fut assez grand, car je l’ai retrouvée dans cinq manuscrits » (Luigi Alamanni cit., p. 177 nota 1).

33  Nella satira indirizzata all’amico Brucioli molte sono le tessere intertestuali o le allusioni al poema dantesco : « Né si vergogni ’l nostro gran Toscano / d’una Cianghella, un Lapo saltarello, / ch’or chi mille ne vuol, non cerca ’nvano » 3, 19-21 ; « Chi non mette in seguir lo ’ngegnio et l’arte / (onde Sardanapal men chiaro appare) / Venere et Bacco, et non Apollo o Marte, / con mille scherni suoi sente biasmare / lo ’ntendere e ’l saper, ch’oggi follia / sembra alle menti di mal’ opre avare » 3, 28-33.

34  Anche P. Floriani osservava come la satira Or m’odia il mondo fosse « l’esempio più flagrante » del recupero di tessere dantesche (Le « satire » cit., pp. 118-19).

35  Sul tema dell’esilio di Alamanni, più genericamente analizzato nell’arco dell’intera esistenza del poeta, cfr. C. Bec, De Dante à Alamanni : exil et écriture en Italie, in Exil et civilisation en Italie (XIIe-XVIe siècles), Études réunies par J. Heers et C. Bec, Paris, Press Universitaires de Nancy, 1990, pp. 95-104.

36  NicolÒ Franco, Dialogi piacevoli, Venezia, Giolito, 1539, c. XIr. Nella seconda edizione dell’opera curata da Girolamo Giovannini per i tipi di Salicato nel 1590 questa notizia (e altre) fu eliminata : per questi interventi del Giovannini cfr. F. Pignatti, I Dialogi piacevoli di Niccolò Franco, in Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nell’Italia del classicismo. Seminario di letteratura italiana, Viterbo, 6 febbraio 1998, a cura di P. Procaccioli e A. Romano, Manziana, Vecchiarelli, 1999, pp. 99-129. Sembra opportuno osservare che le parole di Franco ironizzano sull’origine dei provvedimenti di Clemente VII, svelando la ragione tutta politica della presunta eresia.

37  Mazzuchelli nella Vita di Luigi Alamanni, premessa dell’edizione della Coltivazione (Venezia, Remondini, 1756, pp. 42-44), confutava l’ipotesi di Apostolo Zeno, che negava la veridicità del testo di Franco, grazie alle notizie contenute in un manoscritto strozziano (dove si potevano leggere le Querele dei fuoriusciti) che facevano esplicito riferimento ad interventi punitivi per impedire la diffusione e la stampa delle Opere toscane. Più di un secolo e mezzo dopo Hauvette tenne per buono il documento citato da Mazzuchelli, ma non diede credito al dialogo di Franco, giungendo quindi ad ipotizzare che le misure censorie di cui si dava notizia nelle Querele fossero da collegare all’edizione dell’Oratione del ’29 (H. Hauvette, Luigi Alamanni cit., p. 94 nota 3). La recensione di Flamini al volume di Hauvette, « Giornale storico della letteratura italiana », XLV (1905), p. 387 nota 2, fece definitivamente chiarezza sulla questione, sulla scorta dei suggerimenti di E. Teza, Le Opere toscane dell’Alamanni e il Governo di Firenze, « Biblioteca delle scuole italiane », X (1904), pp. 4-5, citando nuovamente i documenti delle Querele e una lettera di Niccolò Guicciardini. Ho utilizzato tutti i documenti segnalati da questi studiosi nelle pagine che seguono.

38  I due stati sono descritti in N. Bingen, Philausone cit., pp. 38-39 ; ai dati proposti dalla Bingen posso aggiungere che dalla consultazione che ho effettuato di una quindicina di esemplari in diverse biblioteche, solo la copia segnalata dalla Bingen (Biblioteca Nazionale di Parigi, Res. Yd.1224) testimonia il primo stato, dato che spinge ad ipotizzare che il numero delle copie tirate con il privilegio fiorentino fu piuttosto ridotto rispetto al volume complessivo dell’edizione. Aggiungo inoltre che alcuni esemplari dei due volumi delle Opere toscane lionesi furono stampati su pergamena, probabilmente per farne dono a personaggi illustri, secondo un costume piuttosto consueto, come testimoniano gli esemplari posseduti dalla Biblioteca Nazionale di Parigi (Res. Vélins 2157-8) e dalla Biblioteca Nazionale di Firenze (Palat. D.10.5.16).

39  Cfr. W. Pettas, The Giunti and the Book Trade in Lyon, in Libri tipografi biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, Firenze, Olschki, 1997, vol. I, pp. 169-92.

40  Una mia personale collazione sul campione dei testi delle satire mi ha permesso di mettere in evidenza uno svariato numero di varianti di stato, di cui si darà conto altrove.

41  Opere inedite di Francesco Guicciardini, illustrate da G. Canestrini, vol. IX, La prigionia di Clemente VII. La caduta della repubblica fiorentina e la legazione di Bologna. Carteggio dal 1527 al 1534, Firenze, presso M. Cellini e Comp., 1866, CXX, p. 246.

42  Felice quindi l’intuizione di Camerini che, pur non essendo a conoscenza dell’incidente politico che le Opere toscane avevano provocato, aveva ipotizzato che comunque quell’operazione potesse essere stata all’origine della sensibile riduzione della produzione degli editori fiorentini : « Se si pensa che Bernardo [Giunti] è a Prato nel giugno del ’32 e che l’opera dell’Alamanni, che non richiede allestimento speciale, esce il 9 luglio, non possiamo che pensare ad un’azione quasi irresponsabile da parte di chi, per lui, si fosse temporaneamente incaricato della conduzione della tipografia. Bernardo cercò di porvi rimedio con un’epistola ossequiosa al Duca Alessandro che egli antepose alle Historie Fiorentine del Machiavelli, edite nello stesso anno, presentandogliele. Fosse che Bernardo non trovasse più protezione negli ambienti medicei o che l’amministrazione dei beni recentemente acquisiti lo tenesse troppo occupato, è un fatto che la tipografia fu completamente trascurata, rimanendo inattiva per tre anni. Il responsabile della paralisi e forse dell’incidente relativo all’Alamanni, è da identificare nella giovane persona dell’incapace e negligente Benedetto », I Giunti tipografi cit., p. 229.

43  Francesco Guicciardini, Opere inedite, p. 339.

44  Francesco Guicciardini, Opere inedite, p. 373.

45  Cfr. C. Bec, Les livres des florentins (1413-1608), Firenze, Olschki, 1984, pp. 81-88.

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Pour citer cet article

Référence papier

Franco Tomasi, « Appunti sulla tradizione delle satire di Luigi Alamanni »Italique, IV | 2001, 31-59.

Référence électronique

Franco Tomasi, « Appunti sulla tradizione delle satire di Luigi Alamanni »Italique [En ligne], IV | 2001, mis en ligne le 06 octobre 2009, consulté le 11 octobre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/italique/176 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/italique.176

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Franco Tomasi

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