1Una storia delle donne è stata a lungo inesistente o anche sconveniente. Ecco, infatti, cosa pensava Plinio del genere femminile:
Solum autem animal menstruale mulier est […] acescunt superventu musta, sterilescunt tactae fruges, moriuntur insita, exuruntur hortorum germina, fructus arborum, quibus insidere, decidunt, speculorum fulgor aspectu ipso hebetatur, acies ferri praestringitur, eboris nitor, alvi apium moriuntur, aes etiam ac ferrum robigo protinus corripit […]. (Storia naturale, VII, 15, 63‑64)
La donna è il solo tra gli esseri viventi ad avere le mestruazioni […] al sopraggiungere [di una donna che ha le mestruazioni] il vino nuovo diventa acido; al suo contatto le messi diventano sterili; muoiono gli innesti; bruciano i germogli nei giardini, cadono i frutti degli alberi presso cui la donna si è fermata; al solo suo sguardo, la lucentezza degli specchi si appanna; si smussa la punta delle lame, si oscura lo splendore dell’avorio, muoiono le api negli alveari; persino il bronzo e il ferro si arrugginiscono all’istante […].
2Non serve alcun commento a queste parole. In effetti, per secoli, la maggior parte delle donne, votate al silenzio della riproduzione materna e alla cura domestica, nell’ombra intima e privata della casa, non ha avuto storia. Solo in anni relativamente recenti, dopo tanti sensibili mutamenti storico-sociali, grazie all’antropologia e agli studi di genere, i gender studies, il mondo femminile è stato esplorato e continua ad esserlo, grazie alla dinamica di una storiografia che orienta la ricerca sul ruolo della donna in rapporto al suo contesto sociale.
- 1 Bachofen (1861).
- 2 La bibliografia sull’argomento è ormai cospicua: mi limito ad alcuni titoli essenziali, come ad ese (...)
3Possiamo far risalire le radici della cultura di genere alle riflessioni scaturite dalle prime ipotesi sul matriarcato, teorie che hanno dato vita ai successivi dibattiti antropologici fin dalla metà dell’800, quando Johann Jakob Bachofen1 scrisse il suo famoso libro sul diritto materno. E, sebbene Bachofen fosse interessato in particolare al matriarcato preistorico, i suoi studi indirizzarono la ricerca sulla ginecocrazia come fenomeno storico e di conseguenza sul rapporto tra donna e potere, influenzando il modo di scrivere la storia, che divenne storia plurale, quindi anche storia di donne2.
- 3 Livio, Riassunti, LVIII; Appiano, La guerra civile, I, 16, 70; Plutarco, Caio Gracco, 14, 2.
- 4 Botteri (1992).
4Donne di oggi e di ieri: nel nostro caso Cornelia, donna romana del II secolo a.C., entrata nella leggenda come modello ideale di mater/matrona. Una madre in lutto, di più, una madre tragica soprattutto a causa dei due figli che le erano stati strappati prematuramente con la violenza, senza neppure la consolazione di una sepoltura, perché la città ne aveva rifiutato i corpi, gettandoli nella corrente del Tevere, simbolicamente purificatore3. Così, infatti, Roma puniva coloro che avevano sovvertito la concordia ordinum della respublica. E la tradizione più ostile suggerisce che i figli di Cornelia, Tiberio e Caio Gracco, entrambi tribuni della plebe, con le loro riforme agrarie e istituzionali, avessero meritato tale sorte, aspirando al regno, accusa infamante per tutto l’universo romano repubblicano4.
- 5 Cantarella (1996), Cenerini (2002).
5Perché stiamo parlando di Cornelia? Perché è un’immagine autorevole dell’universo femminile, donna e madre che una lunga tradizione ha fissato nella memoria quale orgoglioso paradigma di un’eroica ascendenza e di una tragica discendenza. Inoltre, abbiamo scelto di parlare di Cornelia perché le fonti antiche la ricordano con relativa dovizia di testimonianze, caso abbastanza singolare, dato che di solito c’è stato ben poco spazio a Roma per la visibilità pubblica delle donne5.
- 6 Dove non altrimenti specificato, le date che seguono saranno da intendersi a.C.
- 7 Cantarella (1996, 80 ss.), Venturini (1997).
- 8 Bandelli (1972).
6All’incirca dalla fine del III secolo6, le donne romane avevano cominciato ad emanciparsi. Dobbiamo cercare soprattutto nelle norme del diritto il successo di questo fenomeno, ossia nel mutato regime giuridico del matrimonio: da quando, cioè, la donna sposata non era più sottoposta alla potestà esclusiva del marito, mentre rimaneva ancora vincolata giuridicamente alla famiglia di origine. Poteva succedere allora che, alla morte del padre, la donna ne ereditasse la fortuna, eventualmente insieme ai suoi fratelli, ma in seguito, qualora fosse rimasta vedova, grazie ad una norma emanata dal pretore, la donna avrebbe potuto legittimamente entrare in possesso anche dei beni del marito, trovandosi così a poter ereditare da due famiglie7. Il cambiamento di queste dinamiche familiari portò inevitabilmente delle conseguenze, fra cui l’affermarsi del luxus, fenomeno che divenne a Roma un problema politico e ideologico, per cui non a caso fu emanata una serie di provvedimenti per controllare il lusso femminile, soprattutto quello esibito con l’ostentazione, fossero gioielli, o abiti esageratamente sfarzosi oppure carri troppo vistosi. La prima legge, voluta dalla leggendaria misoginia di Catone il Censore, fu la Oppia sumptuaria nel 215. Vent’anni dopo (195), due tribuni ne proposero l’abrogazione e, malgrado il tentativo catoniano di bloccare il provvedimento, una clamorosa rivolta delle matrone ne decretò il successo (Valeria Fundania de lege Oppia sumptuaria abroganda). Ora, se consideriamo la storia di Roma tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C., è abbastanza facile immaginare quale fosse la percentuale di sopravvivenza femminile composta da giovani mogli e figlie, soprattutto dopo la guerra punica che aveva decimato migliaia di uomini. Questo discorso è volto solo a richiamare l’attenzione sulla realtà esistente a Roma di un numero rilevante di donne rispetto alla popolazione maschile. In taluni casi, vedove e orfane di personaggi della nobilitas potevano diventare titolari di ingenti patrimoni. Di queste donne, relativamente libere o quanto meno liberate, solo alcune hanno avuto l’onore della cronaca e della risonanza storiografica, come ad esempio Cornelia e sua madre, anche se la rigida tradizione del mos maiorum e la mentalità romana, rigorosamente declinata al maschile, le hanno indissolubilmente vincolate alla fortuna dei loro uomini. Tuttavia, sia Cornelia che la madre Emilia passarono alla storia per la loro ricchezza. Lo racconta Polibio, che dai Cornelii Scipioni era di casa e conosceva molto bene la moglie dell’Africano, nonché sorella di L. Emilio Paolo (cos. 168). Dalle sue narrazioni apprendiamo del ricco corredo di oggetti che la matrona portava in occasione di pubblici eventi, sfilando su una carrozza lussuosa con grande seguito di ancelle e servi, che recavano oggetti preziosi per i sacrifici (Polibio, XXXI, 26, 1‑10). Buona parte di questo cospicuo patrimonio passò in eredità alla figlia, che lo aggiunse ai beni del padre e del defunto marito8.
7Cornelia visse accanto agli uomini più autorevoli dell’epoca sua: P. Cornelio Scipione, il padre, potentissimo esponente dell’alta aristocrazia romana, la gens Cornelia, che nel 202 aveva sconfitto Annibale in Africa, meritando così l’appellativo di Africano; Tiberio Sempronio Gracco, il marito, di nobile famiglia plebea, valoroso generale, due volte console (177, 163) ed anche censore (169), patronus di importanti clientele nella Spagna Tarragonese, dove fondò anche una città, Gracchurris; Scipione Emiliano Africano Minore, primo cugino e genero, in quanto marito della figlia Sempronia, vincitore della terza ed ultima guerra punica; L. Emilio Paolo, fratello di sua madre, dunque zio, trionfatore della Macedonia, anch’egli più volte console e censore; Tiberio e Caio Gracco, i suoi figli, che divennero celebri come tribuni della plebe, per tutta una serie di ‘sovversive’ proposte di riforme politiche. Questi i nomi più famosi della sua illustre parentela, tutti magistrati eminenti nelle più alte cariche dello Stato. E non solo, ma a questi uomini Roma fu in buona parte debitrice della sua espansione. Nel II secolo, da città-Stato Roma era ormai passata al ruolo di potenza mondiale, e questo cambiamento determinò un’inevitabile trasformazione della precedente struttura del sistema politico, sociale ed economico.
8Il nuovo Stato romano disponeva dell’indennità di guerra pagata da Cartagine; di quella cospicua versata dalla Siria e dall’Asia e dell’enorme bottino portato a Roma dopo la III guerra macedonica, ad opera di L. Emilio Paolo (Livio, XXXIX, 6, 2‑7‑1). A tal punto era accresciuto il patrimonio del tesoro che dal 168 il governo aveva abolito la tassa annua per tutti i cives. Ma una inadeguata organizzazione amministrativa del territorio ed una gestione economica del tesoro, atta a favorire gli interessi della casta (quid novum?) provocarono una grave situazione di crisi, in più direzioni e in diversi settori sensibili dello Stato. A pagare le spese più pesanti fu il ceto dei piccoli proprietari residenti nei loro fondi, gente impreparata al cambiamento del sistema di produzione e di mercato, ed anche inesorabilmente ridotta di numero, causa il lungo impegno militare. Il governo in cerca di soluzioni creò un pubblico demanio, dove ogni cittadino romano aveva diritto di sfruttare l’ager publicus per l’agricoltura e la pastorizia. Il provvedimento, apparentemente solidale con il populus, in realtà favorì i cittadini abbienti, perché lo Stato non fu in grado di controllare il territorio, probabilmente ancora privo di catasto, e lasciò che i grossi proprietari di latifondi se ne impadronissero. Non dimentichiamo che durante tutta la storia di Roma lo stato endemico della respublica e dei principati fu la guerra, per cui l’arruolamento continuo di uomini provocò quasi in ogni periodo danni talvolta irreparabili al sistema di produzione agricolo, per la desertificazione umana dei terreni.
- 9 Arnold J. Toynbee, Hannibal’s Legacy. The Hannibalic War’s Effects on Roman Life, 2 voll., London, (...)
- 10 Barca (2019).
9Della parentela di Cornelia, anche i figli sono troppo noti perché qui se ne parli diffusamente. È sufficiente ricordare il loro impegno politico per risolvere i problemi più urgenti di quella che potremmo chiamare «l’eredità di Annibale», parafrasando il titolo di un libro famoso9, un lascito di gravi problemi agrari (le colture e la ridistribuzione delle terre), di problemi istituzionali (elezioni, giustizia-tribunali) e di quelli sociali (arruolamenti e colonie). L’esistenza di Tiberio e del fratello (133, tribunato e morte di Tiberio Gracco; Caio Gracco 123/122 tribunati e morte), ci riguardano solo nella misura in cui si avverte l’intervento della loro madre, legata da vincoli di sangue e di casta a tutto quell’establishment che li avversò fino alla morte. Sacrificio inutile: il programma dei tribuni della plebe, per nascita appartenenti alle famiglie delle élites dominanti, che a ben giudicare fu un programma lungimirante, fallì completamente nel giro di pochi anni per l’ostinata reazione di una parte della classe dirigente, e la loro azione non portò alcun cambiamento radicale di regime, sola condizione questa per giustificare una rivoluzione. Non fecero la rivoluzione, ma Tiberio e Caio Gracco morirono entrambi massacrati: il primo, perché chiedeva un successivo tribunato; l’altro, perché aveva portato la colonizzazione in Africa, contro il divieto del senato: entrambi eliminati mentre tentavano di realizzare le loro riforme politiche10. Una cosa è certa: non si era ancora mai vista nella Roma repubblicana una simile efferata violenza e, precedente ancor più grave, l’aggressione mortale contro due magistrati nell’esercizio delle loro cariche.
10«Cornelia vide Tiberio e Caio massacrati e privati della sepoltura. Ed anche chi negherà siano stati virtuosi [boni, in senso politico, cioè optimates], potrebbe ammettere siano stati grandi». Queste sono parole di Seneca, estratte dal discorso consolatorio ad Marciam (16, 3), che cita Cornelia quale esempio di coraggiosa rassegnazione per la morte dei figli. Orgogliosamente tragica, secondo la versione di Seneca e di Plutarco, la reazione di Cornelia alla morte dei figli; più scomposta invece nelle parole che avrebbe indirizzato al più giovane di essi, per via epistolare. Della donna, infatti, si conservavano delle lettere di cui Cicerone e Quintiliano apprezzavano molto lo stile. Custodite in parecchi manoscritti e collocate di seguito alle biografie di Cornelio Nepote, sopravvivono ancora le lettere, o per esser più precisi, i frammenti di due lettere, piuttosto arbitrariamente attribuite a Cornelia. È infatti quasi certo che queste non siano state scritte dalla matrona, mentre si suppone esse provengano dall’ambiente aristocratico degli optimates di fine II secolo, allo scopo di mostrare l’estraneità di Cornelia alla politica demagogica di C. Gracco, il figlio minore, quello che aveva forse colpito più a fondo gli interessi e l’orgoglio della nobilitas (tribunali e colonie africane). Avrebbe detto Cornelia, rivolta a Caio:
- 11 Botteri & Raskolnikoff (1983), Petrocelli (1994, 53 ss.), Cenerini (2002, 36 ss.).
Denique quae pausa erit? Ecquando desinet familia nostra insanire? Ecquando modus ei rei haberi poterit? Ecquando desinemus et habentes et praebentes molestiis desistere? Ecquando perpudescet miscenda atque perturbando re publica? (Libri mss. Corn. Nep. In fine; Peter, H.R.R., Leipzig, 1906, p. 38)11
Quando tutto ciò cesserà? Quando la nostra famiglia smetterà di commettere follie? Quando si potrà finirla? Quando faremo cessare gli affanni, quelli che subiamo e quelli che provochiamo? Quando ci si vergognerà di portare disordine e turbamenti nello Stato?
11Poco probabile che Cornelia, pur affranta dal lutto, avesse pronunciato queste parole angosciose di aperta condanna verso l’operato dei figli, che paiono piuttosto riconducibili all’immaginario collettivo di tutta la ‘leggenda scipionica’ e alla manipolazione posteriore della propaganda antigraccana. L’insistenza e l’accenno alla follia dell’intera gens Cornelia meglio s’attagliano, infatti, ai caratteri strumentali del pamphlet politico, forse un libello messo in circolazione dalla nobilitas per colpire attraverso Tiberio e Caio Gracco i tentativi successivi dei tribuni populares, che negli anni della tarda repubblica agitavano violentemente la piazza agli ordini di Glaucia e Saturnino. Della stessa matrice tendenziosa sembra la notizia, pur raccolta con cautela anche da Plutarco (Caio Gracco, 13, 2), che Cornelia avesse partecipato alla realizzazione dei progetti sediziosi del figlio, inviandogli a Roma dei rinforzi armati, probabilmente un manipolo dei loro clientes in veste di mietitori, nell’imminenza della votazione di una lex frumentaria. Con questo sospetto sulla matrona scendeva come un’ombra l’accusa di complicità. Tuttavia, vere o false che fossero le lettere di Cornelia o i dubbi sulla sua attiva condivisione al movimento del figlio, nulla toglie al suo alto profilo intellettuale e alla sua ‘genetica’ partecipazione alla vita politica. Del resto, assidua frequentatrice di letterati e filosofi greci e romani, la donna era stata educata all’umanesimo filoellenico che connotava il ‘circolo’ degli Scipioni, a capo del quale stava suo padre, il più celebre dei Cornelii. Insigni personaggi come il retore Diofane di Mitilene, i filosofi stoici Blossio di Cuma e Panezio, lo storico Polibio, per citarne alcuni, erano frequentatori abituali delle ville dei Cornelii12.
- 13 Per evitare palesi omonimie, talvolta le donne venivano distinte in ordine di nascita con nomi pers (...)
- 14 Moir (1983).
- 15 Questa malformazione femminile, interpretata come segno infausto di sventura, sembra ricollegarsi a (...)
12Cornelia porta solo il gentilizio senza cognomen, come imponeva l’uso dell’onomastica femminile repubblicana13, articolata in modo tale da ricordare che la donna in primo luogo appartiene ad una famiglia, è filia. In questo caso poi, non una figlia qualsiasi, come abbiamo ben visto. A parità di gloria, come rampolla di rango, Cornelia è anche madre dei Gracchi, di tanti Semproni Gracchi (secondo la tradizione, dodici). Un’apoteosi per il mondo romano: una discendenza, filia appunto, poi mater. Del marito di Cornelia, Tiberio Sempronio Gracco, la storiografia mette in evidenza, oltre alle alte cariche dello Stato, la grande differenza di età degli sposi. E come sposo entra anch’egli nella leggenda per un atto immenso d’amore: essendo stati catturati due serpenti dentro casa, l’aruspice interrogato disse che, uccidendo il serpente di sesso femminile, sarebbe morta Cornelia. Al contrario, la morte del maschio avrebbe causato il decesso di Tiberio. L’uomo non ebbe alcuna esitazione e fece uccidere il maschio, perché dichiarò: «Cornelia è giovane e può ancora avere dei figli». La fonte è Plinio, che commenta: «questo voleva dire Tiberio Gracco, risparmiare la moglie e pensare al bene dello Stato» (Plinio, Storia naturale, VII, 36, 122; l’episodio è riferito anche in Gli uomini illustri, 57, 4; Cicerone, Sulla divinazione, I, 18, 36; 2, 62; Plutarco, Tiberio Gracco, 1, 2; Valerio Massimo, IV, 6, 1)14. Insomma, lasciarla in vita per dare cittadini alla patria. L’interpretazione di questo presagio, come del resto le altre esaltanti immagini dell’eccezionale prolificità di Cornelia, paiono inserirsi in un glorificante disegno matrilineare. La stessa tradizione raccolta da Plinio ci consegna anche un curioso segreto intimo di Cornelia. Nel VII libro della Storia Naturale, quello dedicato ad un fantastico universo antropologico, troviamo anche una serie di descrizioni più o meno curiose sulle particolarità fisiche maschili e femminili, fra cui un excursus tra il vero e l’inverosimile concernente il flusso mensile delle donne (passo testualmente già menzionato all’inizio) e qualche nota disordinata sul concepimento e sulla dentizione dei bambini. Alcuni pargoli, ricorda Plinio, nascono già con i denti, come Manio Curio, che ebbe perciò il cognomen di Dentato. Questa precoce dentizione eccezionale, quando si verifica in una donna, è di cattivo augurio, e l’erudito cita il caso di una Valeria, la quale, essendo nata con i denti, avrebbe portato terribili sventure alla città natale. Allontanata dal suo luogo d’origine fu confinata a Pomezia e la città andò in rovina, come avevano profetizzato gli aruspici (VII, 15, 69‑70). In questa casistica di fenomeni viene annoverata Cornelia, non nata con i denti, ma generatrice ‘dentata’: «concreto genitali gigni infausto omine Cornelia Gracchorum mater indicio est» (VII, 15, 69), presagio certo di sciagure dunque, perché la disciplina interpreta come infausto augurio per le donne nascere, come accade ad alcune, con le parti genitali chiuse15.
- 16 Zanker (1984 e 1987), La Rocca (1995), Ruck (2004), Hemelrijk (2005), Cenerini (2013).
13Alla morte del marito, Cornelia fu chiesta in sposa dal re d’Egitto Tolomeo VIII Evergete, diventando così anche un prezioso oggetto di scambio per una possibile alleanza straniera. Cornelia rifiuta, scegliendo la solitudine del talamo e incarnando la leggenda della donna univira. Del resto, da un unico uomo aveva già dato alla patria un gran numero di figli, di cui solo tre rimasti in vita: i tribuni e Sempronia, consorte di Scipione Emiliano Africano Minore. Roma naturalmente incoraggiava la politica dell’incremento demografico, politica lungimirante in funzione del continuo fabbisogno di soldati. Nel 131, ad esempio, il censore Q. Cecilio Metello Macedonico aveva pronunziato un’orazione in senato de prole augenda a favore dell’aumento demografico. Più tardi Augusto, citando il precedente di Metello, aveva promosso una vivace campagna per incrementare le nascite, promulgando una serie di leggi contro il celibato (nel 18 a.C. de maritandis ordinibus; Papia Poppea, 9 d.C.) non certo solo per moralizzare i costumi. L’incitamento etico alla prole è da sempre un tema caro alle politiche di regime. Non dimentichiamo, tuttavia, che la donna romana, a differenza della donna greca, godeva di grande considerazione in quanto educatrice, perché alla parte materna era affidato il compito di curare la formazione dei futuri dirigenti dello Stato. Sarà sufficiente ricordare la memoria tacitiana «de severitate ac disciplina maiorum circa educandos formandosque liberos» (Dialogo sull’oratoria, 28, 3) dove si evocano tre personaggi femminili esemplari: «sic Corneliam Gracchorum, sic Aureliam Caesaris, sic Atiam Augusti matrem praefuisse educationibus ac produxisse principes liberos accepimus» (ivi, 28, 5). E possiamo dedurre da contesti archeologici con quale onore plastico Augusto esaltasse la maternità di donne famose e di dee nella realizzazione figurativa del consenso imperiale16.
- 17 Esistono esempi celebri, comunemente noti: rimando al bel lavoro di Cenerini (2002 e 2013).
14La fonte antica più monumentale della biografia di Cornelia — e non si tratta di un eufemismo — è costituita da un’epigrafe incisa su un massiccio blocco di marmo che presenta questo testo: CORNELIA AFRICANI F GRACCHORUM (CIL VI, 31610). È noto che la categoria più numerosa delle fonti di tutta la civiltà romana antica è quella di natura epigrafica (non a caso qualcuno definisce tout court quella romana «civiltà dell’epigrafe») ed è soprattutto grazie alle iscrizioni se oggi disponiamo di un corpus relativamente importante anche di testimonianze al femminile, siano esse iscrizioni sepolcrali oppure onorarie o di altra natura. Naturalmente la documentazione epigrafica più significativa riguarda quasi sempre personaggi dei ceti aristocratici, e nel caso in cui il ricordo della donna viene tramandato nella forma dell’elogio funebre, allora ci viene restituita un’icona fissa e ripetitiva, un ideale stereotipo di donna del tutto conforme alla mentalità romana del mos maiorum. Nell’età di Cornelia l’identità della matrona viene celebrata con il ricordo del gentilizio, nomen, con il matrimonio, la maternità ed altre doti fondamentali come la castità, per cui è definita casta e fedele solo al marito, univira; è anche pudica nel senso della riservatezza e pia, ossia devota al culto e lanifica, lavora la lana, tesse e fila dentro casa, dunque domiseda (es. CIL VI, 11602). Ciò che colpisce è la persistenza di tale modello ideale della matrona romana, che sembra conservare non una memoria, ma uno stereotipo della memoria, una rigida ipostasi, rappresentata sostanzialmente dall’appartenenza gentilizia, che connota la sua posizione sociale spesso in virtù del matrimonio e del ruolo materno17.
- 18 Coarelli (1978).
- 19 Per un’analisi attenta di questa iscrizione, cfr. Kajava (1989).
15L’epigrafe che ho sopra trascritto (CIL VI, 31610) si trova su un blocco di marmo pentelico (largo 1, 12 m, alto 80 cm e profondo 1,35 m), e reca in alto la firma dell’autore, Tisicratis, scultore di origine greca, probabilmente attivo nel Lazio, durante il secondo secolo a.C.18. La base è stata ritrovata a Roma verso la fine dell’800 (1878), all’interno del portico d’Ottavia, precisamente nel luogo indicato da Plinio il Vecchio (Storia naturale, XXXIV, 31), e l’esame delle lettere dell’iscrizione ci porta con sicurezza all’età augustea19. Plinio scrive nel I secolo d.C. e poteva certamente vedere quanto descriveva. L’erudito osserva: «Ci rimangono ancora le accuse di Catone che durante la sua censura tuonava contro l’uso di innalzare statue alle donne romane nelle province [un’eco delle leggi promosse da Catone contro il lusso delle donne] tuttavia non poté impedire che se ne innalzassero anche a Roma, per esempio a Cornelia, madre dei Gracchi e figlia dell’Africano Maggiore» (questo è un probabile errore della fonte di Plinio, poiché Catone morì nel 149, e dovremmo escludere che in tale data la donna fosse celebrata come madre dei Gracchi, attivi più tardi, a partire dal 133 a.C.). «Essa è rappresentata seduta, con il particolare notevole dei sandali senza correggia». Sembra abbastanza strano che la matrona portasse i sandali senza lacci, ed è ancora più strano che la cosa sia stata annotata con tale acribia e altrettanta curiosità: «sedens huic posita soleisque sine ammento insignis» (XXXIV, 31). Dovremmo dedurre che si trattava davvero di un fatto singolare. Ritorneremo dopo sull’argomento. Il testo di Plinio continua e leggiamo che «un tempo (la statua) era collocata nel portico pubblico di Metello. Ora si trova negli edifici di Ottavia» (ibid.). Questo passo, che proviene da un paragrafo del XXXIV libro, in cui Plinio trattava della statuaria antica, va confrontato con qualche frase di Plutarco. Nella biografia dedicata a C. Gracco, Plutarco riferisce della popolarità di Cornelia, alla quale il popolo, grato per aver convinto il figliolo a ritirare la legge de abactis (che stabiliva l’ammissibilità a ricoprire cariche pubbliche ad un magistrato che fosse stato deposto dal popolo stesso) aveva dedicato una statua di bronzο con questa iscrizione «Κορνηλίαν μητέρα Γράγχων» (Caio Gracco, 4, 4). Evidentemente Plutarco disponeva di una fonte diversa, forse più antica, risalente a tempi non sospetti, quando l’onore dedicato a Cornelia era soprattutto per celebrare i suoi figli, i valorosi tribuni. Comunque sia, a noi ora importa ragionare su quanto rimane.
16Al tempo di Plinio la statua si trovava nel portico fatto costruire da Ottavia (verso il 33 a.C.?) sorella di Augusto, mentre prima era collocata nel portico dei Metelli, una delle più potenti famiglie di Roma, tradizionalmente ostile alla politica dei Gracchi. Si calcola che la porticus Metelli sia stata eretta tra il 146 e il 131: in quale preciso momento Cornelia venne esposta in pubblico, e quando e perché la trasportarono altrove, non è dato sapere. Potremmo fare delle ipotesi ed anche suggerire una data per la morte di Cornelia, anche se la storia della lotta politica e delle sommosse civili, negli anni posteriori alla scomparsa dei Gracchi, appartiene ad uno dei periodi più difficili da ordinare e ricostruire nei fatti e nella cronologia relativa della tarda repubblica romana.
17Risulta che Sempronia, la figlia di Cornelia, ormai vedova dell’Africano Minore, fu chiamata per riconoscere un certo L. Equitius, che proclamava essere figlio di suo fratello Tiberio ed aspirava nel 100 al tribunato del 99. Questo episodio, dunque, potrebbe situarsi abbastanza verisimilmente nel 100. Cornelia doveva esser morta allora, perché altrimenti avrebbero chiesto a lei il riconoscimento ufficiale del nipote. Non è da escludere però che se Cornelia fosse stata ancor viva a quell’epoca, forse sarebbe stata troppo vecchia per affrontare un viaggio dal Miseno a Roma.
- 20 Petrocelli (1994), Dixon (2007).
18La donna, infatti, dopo la tragedia dei figli si era ritirata lontana dalla capitale, in una sua villa nella baia di Napoli, a Capo Miseno, esclusivo luogo di villeggiatura dell’aristocrazia, nonché sede navale della flotta romana. L’ambito salotto della sua domus, che doveva essere pregevole dato il raffinato gusto della proprietaria e l’ingente ricchezza di cui disponeva (come già ricordato aveva ereditato dal padre, l’Africano, dalla zia e dal marito, Tiberio Sempronio Gracco) era frequentato da personaggi famosi, da una corte cosmopolita di amici ed intellettuali, che l’aristocratica dama intratteneva brillantemente, anche se, pare, negli ultimi anni fosse ormai caduta in uno stato di perenne malinconia. Forse si era un po’ persa, causa il destino, che si era accanito contro di lei, vedova e ormai madre della sola Sempronia, la moglie infelice dell’Emiliano, l’Africano Minore. Circolavano anche voci che Cornelia fosse stata complice, insieme alla figlia, della morte misteriosa dell’Emiliano. Malgrado tante fonti ci parlino della matrona20, e le fonti ne parlano, come avviene per i personaggi che dalla dimensione storica si trasformano in modelli paradigmatici, malgrado ciò, dicevo, non una la cita in modo autonomo, anche se le vengono riconosciute grandi doti e talenti: rimane sempre la figlia dell’Africano o la madre dei Gracchi. Lei stessa si doleva «perché i Romani la chiamavano suocera di Scipione e non ancora madre dei Gracchi» (Plutarco, Tiberio Gracco, 8, 7).
- 21 È anche vero però che, a differenza della donna greca, alla donna romana è sempre stato riconosciut (...)
- 22 Valerio Massimo, IV, 4, 1.
19L’iscrizione scolpita sotto i piedi della sua statua, onore forse per la prima volta decretato ad una donna, ben testimonia il ruolo rigidamente sancito dalla tradizione romana più antica, quello di madre21, ampiamente confermato dalla storiografia e dall’aneddotica, divenuto paradigmatico attraverso i secoli. Chi non ricorda la famosa storiella edificante della matrona che esibisce i figlioli di fronte all’amica che vanta le sue gioie?22 Tanto è celebre questo episodio esemplare da essere diventato luogo comune di orgoglio materno, un’icona letteraria e artistica, come mostra, a titolo di esempio, una grande tela di Angelika Kauffman (1785). Non stupisce che l’icona di questa madre romana sia comparsa persino sui quaderni di scuola, tra gli anni 1930‑1940.
- 23 Dumézil (1974, 163 ss.). Qualche pagina di un brillante lavoro di Maurizio Bettini analizza la funz (...)
- 24 Bettini (1998, 111).
20Abbiamo ricordato come Plinio alluda ad una particolarità fisiologica di Cornelia (cfr. supra, § 12, «concreto genitali»). L’annotazione di questo dettaglio fisico appare davvero singolare, quanto meno paradossale se attribuito ad una donna celebre anche per la sua fertile, incessante attività procreativa. E a questo punto potremmo anche fare un ragionamento sul tratto iconografico del sandalo della statua di bronzo di Cornelia, così come Plinio, osservando il monumento, ha voluto sottolineare: il sandalo della donna era privo di legacci, la calzatura rimaneva slacciata, senza nodi. Cornelia una donna trasandata? E quand’anche, nessuno mai avrebbe pensato di immortalarla evidenziandone questo aspetto. Sarebbe allora possibile trovare qualche relazione tra questi particolari così intriganti? Che i genitali chiusi di Cornelia indicassero un presagio funesto lo ha dimostrato la storia e perciò non è da escludere che la tradizione, le credenze popolari e la leggenda avessero attribuito questo inconveniente a Cornelia, a posteriori, come una sorta di contrappasso di fronte a tanta generosa prolifica natura. Come spiegare il sandalo privo di corregge? Molto improbabile che i Romani avessero immortalato la loro matrona per eccellenza con i tipici sandali all’egiziana, calzature quasi prive di lacci, molto simili alle nostre ineleganti ciabatte infradito, quando ancora aleggiava per Roma il fantasma di Cleopatra, tragica evocazione dell’Egitto. Potremmo piuttosto pensare ad un’allusione volontaria del committente, che forse intendeva mettere in relazione elementi all’apparenza peregrini, ossia la rappresentazione della calzatura non annodata di Cornelia e l’anomalia dei suoi genitali, ammesso che già circolasse questo particolare così intimo. Nella cultura romana infatti e, come noto, non solo in questa, il nodo può assumere nelle sue diverse funzioni anche il ruolo di dispositivo simbolico, sovente congiunto al mistero della nascita di esseri mortali e di figure divine o leggendarie. E non dimentichiamo la sfera del cerimoniale religioso, dove tra i flamines, il rappresentante di Giove, il flamen Dialis, dotato di privilegi sacri e di rigorosi interdetti, è obbligato ad osservare quello singolare di non portare nodi, in quanto deve essere libero da ogni legame23. Il nodo e i lacci sembrano ricondurre naturalmente al concetto del ganglio vitale che lega e che deve essere sciolto, o che si taglia, riflesso per esempio in quello leggendario di Gordio o, ancora più significativamente, in quello naturale del cordone ombelicale della nascita e del parto. La dea romana del parto, Giunone Lucina, che portava alla luce i neonati, non tollerava nodi alle vesti, perché i nodi non permettevano alla partoriente di sgravarsi. «Alle cerimonie per Giunone Lucina», dice Servio, il commentatore dell’Eneide, nel IV-V secolo d.C. (Commento all’Eneide, IV, 518), «non si poteva accedere se non dopo aver sciolto ogni nodo». Possibile allora una correlazione simbolica tra Cornelia, immagine della fecondità e dei parti, con i genitali «concreti», serrati, quindi evocazione di parti, e di parti molteplici e dolorosi, e la Cornelia statuaria con i sandali senza legature, sciolta da nodi? Nessuna cultura manifesta più esplicitamente di quella di Roma arcaica l’importanza dei lacci e dei nodi proprio nella sfera del matrimonio, della concezione e della nascita. La sposa romana portava una piccola cintura di lana sulla veste virginale. Lo sposo, a nozze avvenute, slegava questa cinta, sciogliendo il nodo che la tratteneva, passaggio simbolico dalla condizione di vergine a quella di maritata e, secondo le credenze popolari, auspicio di fertilità. Sciogliere i nodi: come era risaputo si dovevano sciogliere tutti i nodi della donna. Non dovevano portare nodi in alcune cerimonie religiose, né durante certe pratiche di magia, e non nel travaglio del parto: dalla fascia che reggeva i seni, alla cintura, ai nastri dei capelli, ai lacci dei sandali. Di fronte alla scultura monumentale di Cornelia con il sandalo slacciato, dunque visibilmente senza alcun nodo, si intendeva forse sottolineare la prolificità della donna, non solo mater Gracchorum24 ma, nel segno della propaganda augustea, madre che partorisce figli da dare allo Stato, malgrado la nota anomalia fisica e, dunque, vieppiù sublimata da parti dolorosissimi.
- 25 Plutarco, Caio Gracco, 4, 4; cfr. Coarelli (1978).
21Secondo studi recenti, pare che la statua bronzea di Cornelia sia stata eretta appena dopo la morte della donna, quindi proprio a ridosso degli anni 100. Seguendo Plinio, la scultura fu collocata dapprima nel portico dei Metelli, in seguito, rimossa, venne esposta nel complesso voluto da Ottavia, la sorella di Augusto, un’altra insigne madre in lutto per la perdita del figlio, e un figlio speciale, perché M. Claudio Marcello, il fanciullo morto nel 23, non solo era amato da lei, ma il Principe lo aveva destinato alla sua successione. Insieme alle altre statue che ornavano il portico di Ottavia, un palcoscenico tutto al femminile, animato da immagini leggendarie di donne e divinità madri, Cornelia rappresentava degnamente la sua funzione ma, mentre l’espressione isolata mater Gracchorum evocava un preciso episodio politico della storia repubblicana, ben diverso valore mediatico aveva l’aggiunta del patronimico Africani filia. Il programma di Augusto volto all’incremento delle nascite onorava la maternità di Cornelia ricordandone la discendenza attraverso la potente ascendenza: era filia, prima di essere madre, ma figlia di un grande romano, il vincitore di Annibale, protagonista dell’affermazione di Roma in quello scontro di civiltà che diventerà, da Cesare Ottaviano Augusto in poi, lo scontro mai più sopito tra Occidente ed Oriente. La scrittura sulla base della statua è senza ombra di dubbio di età augustea e, quasi certamente, essa fu rifatta nel momento in cui spostarono l’immagine per deporla nel portico di Ottavia, dove Plinio poteva ancora vederla. È probabile, come ha già suggerito F. Coarelli, che la didascalia riferita da Plutarco dipenda invece da una fonte precedente25, quando l’ignoto committente nel ricordo di Cornelia aveva voluto in realtà celebrare Tiberio e Caio Gracco, per non dimenticare un momento tragico della lotta politica interna della repubblica romana tra fine II e I secolo. Se questo fosse l’originale, la dedica a Cornelia andrebbe letta come memoria di un modello tecnonimico contro l’evidenza epigrafica di quanto invece ancora rimane, ancorché rimaneggiata, testimonianza della perdurante mentalità paternalistica del mondo romano.