1La caccia è un poema didascalico in cui l’autore dà voce alle sue due grandi passioni: l’arte venatoria e la poesia. Nel panorama letterario italiano Valvasone realizza la rinascita del genere cinegetico, recuperando contenuti e tecniche narrative da modelli latini. All’interno dell’opera, che non è un manuale in versi né un repertorio mitologico, è dedicato grande spazio alla riscrittura di tre narrazioni mitologiche. Questo contributo analizza le narrazioni in relazione alle loro fonti e ai loro modelli come momenti della ricezione di alcuni testi classici ben noti a un uomo di cultura quale Erasmo di Valvasone.
2Il poeta non si limita a una riproposizione dei miti antichi, ma li rielabora attingendo a scritti antiquari o contaminando i modelli, con l’obiettivo di renderli funzionali al contenuto didascalico e pedagogico del suo poema attraverso riferimenti alla contemporaneità e alla cultura materiale della caccia, ma anche di offrire delle digressioni che intrattengano piacevolmente il lettore lasciandolo riposare dalla messe di informazioni e di prescrizioni. L’opera di Valvasone pertanto si presta a essere studiata come esempio di ricezione sia nei passi qui esaminati sia nella sua interezza, cui le narrazioni mitologiche restituiscono la complessità di genere del poema didascalico antico secondo il modello delle Georgiche virgiliane.
- 1 Per la biografia di Erasmo di Valvasone le trattazioni più esaurienti sono quelle di Colussi (1993, (...)
- 2 Su Giampietro Astemio, cfr. Del Ben (2009, 328‑329).
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- 4 Il trattato, considerato un tempo perduto, non è mai stato pubblicato; il manoscritto reca il numer (...)
3Erasmo di Valvasone nacque nel castello avito di Valvasone nel 1528 e lì morì nel 15931; ricevette da adolescente un’accurata educazione umanistica alla scuola di Giampietro Astemio a San Daniele del Friuli2, dove si avvicinò ai classici, che presto divennero l’ispirazione per un’intensa attività poetica destinata, insieme con le incombenze legate all’amministrazione del suo feudo, ad accompagnarlo per tutta la vita. Nonostante la collocazione periferica di Valvasone, la frequentazione di Venezia, dei cui domini di terraferma il Friuli faceva parte, e l’amicizia con Cornelio Frangipane3 lo tennero aggiornato sul dibattito letterario dell’epoca. Infatti, anche a seguito dell’edizione del 1548 della Poetica di Aristotele a cura dell’udinese Francesco Robortello, era sorta un’accesa discussione sul concetto di poesia e sulla conseguente critica alle Georgiche di Virgilio, cui parteciparono anche Girolamo Fracastoro e Sperone Speroni, in relazione con Frangipane, e a difesa del poema didascalico virgiliano Valvasone scrisse un trattatello dedicato proprio a Cornelio Frangipane4.
4Tale dibattito si riflette anche nelle innovazioni della sua produzione poetica, tra cui si segnalano la traduzione in ottave di endecasillabi della Tebaide di Stazio (1570), un nuovo epos ricco di inserti tratti dall’epica cavalleresca, I primi quattro canti del Lancillotto (1580), poema incompiuto di argomento arturiano, l’Angeleida (1590), epos religioso sulla rivolta di Lucifero, noto anche a John Milton, e infine La caccia, pubblicata per la prima volta nel 1591, poema didascalico di argomento venatorio.
- 5 Sulla pedagogia di Valvasone, cfr. Favaro (2021, 197‑213).
- 6 Della caccia: poema del Signor Erasmo di Valvasone, all’ill. signor Cesare di Valvasone suo nipote, (...)
- 7 Orazio, Arte poetica, 343.
- 8 Sul poema didascalico e sulla fortuna delle Georgiche nel Rinascimento: Haskell (1999a; 1999b, 132‑ (...)
5La caccia, dedicata al nipote e pupillo Cesare di Valvasone5, è l’opera che ebbe maggior successo, come testimonia anche una seconda edizione nel 1593, accresciuta e corredata dal commento di Scipione di Manzano, alias Olimpio Marcucci6. Il genere didascalico rinasce nel Cinquecento sulla scia del recupero delle Georgiche come modello in cui, secondo il precetto oraziano di miscere utile dulci7, il contenuto tecnico-didascalico si contempera con una parte narrativa, che lascia spazio all’invenzione del poeta, anche mitologica. Tra i primi esempi vi è la Syphilis di Girolamo Fracastoro, pubblicata nel 1530, in cui la trattazione medica del morbo procede insieme con la narrazione di un nuovo mito8.
6Il poema in cinque libri di Erasmo di Valvasone combina contenuto didascalico e narrazione: ciascun libro si conclude con un racconto, a eccezione del primo che termina con le lodi del Friuli. Nel secondo libro l’argomento sono cani e cavalli e segue un lungo mito eziologico sull’origine dei cavalli del Carso; il terzo tratta delle stagioni atte alla caccia e dei doveri del cacciatore e si conclude con il racconto della caccia al cinghiale tra le rovine di Aquileia; il quarto contiene precetti destinati ai fanciulli che intendono diventare cacciatori e si conclude con la leggenda edificante di re Artù e della cerva bianca; il quinto, infine, riguarda gli uccelli utili all’aucupium e termina con il mito della metamorfosi di Scilla.
- 9 Sui miti degli Argonauti e di Diomede nell’Alto Adriatico, cfr. Corbato (1976, 13‑21), Vedaldi Jasb (...)
7A conclusione del secondo libro de La caccia, dedicato principalmente ai cavalli, si trova quindi una lunga narrazione mitologica, celebrativa dei cavalli del Carso, che fonde due dei miti anticamente attestati in area alto-adriatica, quello degli Argonauti e quello di Diomede9.
- 10 Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 282‑595.
- 11 Giustino, Epitome, XXXII, 3, 13‑15: «Histrorum gentem fama est originem a Colchis ducere, missis ab (...)
- 12 Cfr. Marziale, Epigrammi, IV, 25, 6‑7: «Et tu Ledaeo felix Aquileia Timauo, / hic ubi septenas Cyll (...)
8Già Apollonio Rodio faceva risalire l’Istro (Danubio) agli Argonauti, inseguiti dai Colchi furiosi per l’assassinio di Apsirto10, figlio del re Eeta, e li faceva uscire poi nella zona del golfo del Quarnaro, ma le fonti romane, Pompeo Trogo nell’Epitome di Giustino e Plinio il Vecchio, introducono il particolare che la nave Argo è portata a spalle per lungo tratto, con la differenza che Trogo li fa arrivare proprio al mare non lontano da Trieste11. A collegare invece i cavalli degli Argonauti con l’Alto Adriatico è Marziale che in due epigrammi racconta che Cillaro, il destriero di Polluce, si dissetò, non lontano da Aquileia, alle acque del Timavo dalle sette bocche di memoria virgiliana12.
- 13 Strabone, Geografia, V, 8‑9: «Proprio nella parte più interna dell’Adriatico c’è un santuario di Di (...)
9Per quanto riguarda Diomede, eroe civilizzatore che naviga lungo le coste dell’Adriatico, dove diffonde l’allevamento dei cavalli, il suo collegamento esplicito con il Timavo è attestato invece da Strabone nel libro quinto della Geografia, in cui si parla di un santuario dedicato all’eroe all’interno di un bosco sacro alle foci del fiume13.
- 14 Sulla formazione di Erasmo di Valvasone e sulla sua conoscenza dei classici, cfr. Cavicchi (1903, 9 (...)
- 15 Sulla fortuna del mito argonautico nella poesia latina umanistica di area friulana e giuliana, cfr. (...)
- 16 Sabellico (1502, 122‑123).
- 17 Candido (1543, 27‑28).
- 18 Cfr. la nota di Scipione di Manzano a La caccia, II, 194.
10Pur non escludendo una conoscenza diretta delle fonti antiche da parte di Erasmo di Valvasone14, conviene anche ricordare che la poesia epico-encomiastica di età umanistica di ambito friulano e giuliano e gli scritti antiquari di ambito friulano e veneto dei secoli XV e XVI trattano il mito degli Argonauti e quello di Diomede alle bocche del Timavo15. Marcantonio Sabellico, nel De vetustate Patriae Aquileiensis, pubblicato per la prima volta nel 1482 e più volte ristampato, narra prima dell’arrivo degli Argonauti con la nave in ispalla e poi di quello di Diomede, associandoli con la formula sub ferme idem tempus16. A seguire, Giovanni Candido nei Commentarii dei fatti di Aquileia, dato alle stampe per la prima volta nel 1521, racconta un’appendice friulana del mito argonautico17. E non a caso Giovanni Candido è più volte citato da Scipione di Manzano, che dice: «Leggansi le historie del Candido; da questa occasione dunque il nostro Authore ha finto quanto egli scrive delle razze del Charso in questa ultima parte»18.
11Le foci del Timavo sono il luogo in cui Valvasone racconta che Medea decise di fermare l’equipaggio tra plaghe accoglienti e verdeggianti, dove il poeta mitico Orfeo intratteneva i compagni, gli animali e le piante con la sua musica divina e il profeta Mopso prediceva la grandezza di quei luoghi. Il cantore stabilisce un raccordo esplicito tra il mito e la contemporaneità dell’autore attraverso il topos epico della profezia, celebrando il futuro avvento di Carlo d’Asburgo duca di Stiria (II, 165‑167) e preannunziando la grandezza di Venezia che sarebbe nata all’estremità opposta del golfo (II, 168‑173).
12Nel frattempo i marinai si affaccendavano a ricavare dalle querce di Japidia, l’antico nome dell’Istria, le tavole per riparare la nave Argo e Medea raccoglieva erbe nei dintorni, rendendosi famosa presso i locali, al punto che un monte fu chiamato con il suo nome, il colle stregato di Medea, cfr. II, 182:
Ben s’odon da vicin querele interne
A mille a mille, e spaventosi gridi
Con certo indizio, che l’atre caverne
Penetrin giù fin a’ perduti lidi,
Ove furon dannati a pene eterne
Gli Angeli al sommo creator infidi:
E talor anco a molti veder parve
Errar la notte mille ombrose larve.
- 19 In antico sloveno medja significa confine ed è parola attiva anche in altri toponimi quali Medja Va (...)
13Valvasone riprende la leggenda da Giovanni Candido, che la riferisce quando tratta dei giacimenti auriferi presso Aquileia (I, 11): «gli è certo argomento che fussero ne’ monti di Medea non longi d’Aquileia, sì per la concavità de le caverne, come per la fama, à la quale si debbe credere, ove per vecchiaia non si ha testimonio più certo. Ne i quali luoghi dicesi che s’odon strane voci e quasi magici strepiti, che si giudicano fatti da Medea, che seguì Giasone». Nessuno dei due però cita la fonte; Scipione di Manzano nel suo commento attribuisce la notizia ai racconti tramandati dalle «genti vicine» e l’etimologia suggerita per il colle non è attendibile, essendo Medea un toponimo probabilmente sloveno19.
14È la stessa maga della Colchide a questo punto a intervenire nella narrazione; con l’espediente retorico dell’introduzione del discorso diretto, poiché Medea voleva sdebitarsi con gli antichi Friulani per la loro generosa ospitalità, cfr. II, 185‑187:
Ecco, ed io già mi parto, e con voi resta
Il mio nome a dar fama al vicin monte:
Ma l’obbligo ch’io vi ho, fia cosa onesta,
Che con dono maggior pareggi e sconte:
Abbia perpetuo onor questa foresta,
Che quelle razze che berranno al fonte
Del gran Timavo sien celebri e note
Di quanto più largir natura puote.
Bevan virtù da queste limpide onde,
Ch’a render abbia egual ogni lor prole,
Al gran destrier che i labri ora v’infonde,
E sul tergo portar Castore suole.
Così disse ella, e china da le sponde
Veleni infuse, e mormorò parole,
Ch’al gran fiume donâr miglior natura,
Qual gli promise, e qual perpetua or dura.
E da quel dì non quei destrieri soli,
Che del fatal terren sono nativi;
Ma quegli ancor che da longinqui suoli
Son trasportati, e si nutriscon quivi,
Godono il don che per gli antichi stuoli
Trasse Medea del gran Timavo a’rivi,
Lascian crescendo il naturale inetto,
E nuovo abito fansi, e nuovo aspetto.
15Grazie agli intrugli che la maga versa nelle bocche del Timavo e alle formule magiche che lì pronunzia, non solo i cavalli autoctoni che si abbevereranno a quel fonte, ma anche quelli forestieri acquisiranno vigore pari a quello di Cillaro, il mitico cavallo di Castore. A questo punto Valvasone combina il mito argonautico con quello di Diomede: l’eroe argivo, prima di raggiungere le sue mete definitive, Arpo e Siponto in Puglia, fece pascere alle fonti del Timavo i celebri destrieri candidi, figli di Ares dio della guerra, sottratti a Reso re di Tracia nella sortita notturna narrata nel decimo libro dell’Iliade. I destrieri, rinvigoriti dalle virtù date alle acque dai sortilegi di Medea, fecondarono le giumente nostrane, già discendenti dai cavalli degli Argonauti, dando vita a una razza straordinaria, che da generazioni conserva intatta la sua purezza, cfr. II, 192‑196:
Forse i dotti scrittor, ch’antiquamente
Lodâr Eto e Piroo con chiari versi,
Infusa ebber l’Idea di questi in mente
A farne il Sol più splendido conversi:
E forse, se la Tracia anco non mente,
Di beltà, di valor non fur diversi
Quei che tirâr là dove l’Ebro sona,
Il gran carro di Marte e di Bellona.
Questi, questi son quei, che con maggiore
Sorso de gli altri hanno di ber in uso
L’antico pregio, e quel divin valore,
Che da Medea fu nel Timavo infuso,
Se ben del fiume l’incantato onore
Per tutto il Carso fu sempre diffuso;
Se ben conforme hanno al vivace aspetto
Un focoso voler tutti nel petto.
Ma né sola virtù di forte incanto,
Onde arricchì Medea l’onde del Carso,
Sì celebri li rende: un altro vanto
Arroge in lor da la natura sparso.
Poiché Troja sentì l’ultimo pianto
E ne cadde Ilïon distrutto ed arso,
Qua Dïomede le sue navi volse,
E ne trasse i destrier ch’a Reso tolse.
Prima che fosse ne la Puglia sorto,
E che v’avesse Arpo e Siponto eretti,
Ove i compagni suoi lo pianser morto
Spogliati in tutto de gli umani aspetti,
Qua stanco prese da principio porto,
Qua pose altari con devoti affetti,
E qua nel verde de la piaggia erbosa
Diede a’ lassi destrier debita posa.
E perché d’essi allor molte giumente
Rimaser pregne, il seme, che n’è sceso
Per tante etadi in numerosa gente,
Ancor rammenta Dïomede e Reso:
Il paterno valor ancor non mente,
Ancor non langue, ancor si sente acceso
De la gentil superbia il fiero core,
E spira in tutti gli atti il prisco onore.
16Dietro l’invenzione del mito intrecciata con i riferimenti storici contenuti nella narrazione, è possibile scorgere il nesso con un evento contemporaneo alla stesura del poema di Valvasone. Le ottave 166‑167 menzionano la morte di Carlo d’Asburgo duca di Stiria (1540‑1590) e consentono di datare la stesura del passo intorno al 1590; Carlo d’Asburgo fu infatti una presenza importante nei territori austriaci ai confini con il Friuli proprio dal punto di vista della selezione delle razze equine. Nel 1578 il terzogenito dell’imperatore Ferdinando I acquistò dal Vescovo di Trieste il castelliere abbandonato di Lipizza nel Carso, nel quale decise di impiantare un equile, destinato ai cavalli per la corte. Importò i celebri stalloni andalusi allevati dagli Asburgo in Ispagna e li innestò con fattrici di provenienza locale, soprattutto aquileiese. I lipizzani, cavalli armonici e ben strutturati, superbi nel portamento, che, nati con i mantelli dai colori più vari, prendono solo più tardi il definitivo mantello grigio chiaro, furono i cavalli della Corte Imperiale e della Scuola di Equitazione di Vienna fino al 1918. Il cavallo lipizzano quindi era una novità assoluta, un incrocio che rendeva europeo e imperiale il robusto cavallo da lavoro del Carso.
17Nonostante l’equile di Lipizza e la nuova razza, il cavallo del Carso continuava a essere allevato proprio vicino alle sorgenti del Timavo da Raimondo della Torre, divenuto castellano di Duino, località presso le foci del Timavo, dopo il matrimonio prima con Ludovica e poi con Chiara, figlie di Mattia Hofer, già signore di Castel Duino, cfr. II, 189‑191:
Tra le piagge del Carso altero sorge
Costeggiato da l’onde un chiaro monte,
Che tien da tergo mille rupi, e scorge
Il tempestoso mar d’Adria per fronte:
Di sua vista a le rupi e grazia porge,
E le fa da lontan celebri e conte
Sublime rocca che sul giogo siede,
Ma il cavalier via più che la possiede.
Gli antichi suoi signoreggiâr gran tempo
De’ ricchi Insubri la maggior cittade:
Ma poi siccome col girar del tempo
Ogni umana grandezza a terra cade,
Ceder costretti al fortunoso tempo
Lasciar l’Adda e le lor patrie contrade,
E gli aurei gigli, e la vermiglia torre
Venner nel foro del gran Giulio a porre.
Né qui poi meno ancor steser la lode
Del nome lor, de’ loro antichi pregi:
Ed or verace ed emulo, e custode
Del valor prisco, e de gli aviti fregi
Fra mille altre virtù questi si gode
Nutrir gran razza di destrieri egregi:
E sì feconda i suoi desir fortuna,
Che di tutte altre questa il nome imbruna.
18Forse Erasmo di Valvasone volle qui inventare un mito per celebrare l’antica razza attraverso la proiezione dell’evento in un glorioso passato mitologico, reagendo in un’ottica di celebrazione del Friuli, che pervade l’intero poema, all’introduzione dei nuovi destrieri colpevoli di togliere prestigio agli antichi e autoctoni.
19La chiusa del libro è un’allocuzione al cacciatore-lettore cui il poema didascalico si rivolge perché si serva dei cavalli del Carso, cfr. II, 197:
Dunque, o buon Cacciator, il Carso, senza
Cercar terre lontane, o razze nove,
Destrier ti potrà dar d’alta eccellenza,
Atto solo a compir tutte le prove:
Egli avrà franco cor, vaga apparenza,
Se spingerlo nel fuoco anco ti giove,
Non si può immaginar prontezza pare,
Co’ piedi asciutti correrà sul mare.
20La conclusione riprende le fila dell’attualità e giustifica la precedente narrazione eziologica così fitta di rimandi ai «dotti scrittor». Il mito è diventato specchio della realtà attuale, poiché l’antica razza del Carso, come la moderna lipizzana, nasce da madre autoctona e da padre forestiero, ma soprattutto è funzionale alla riabilitazione della razza nostrana. Alla maniera dei genealogisti a lui contemporanei, le attribuisce infatti una genealogia fantastica, che la radica nei primordi della storia friulana, in una saga nobilissima, quella degli Argonauti narrata da Apollonio di Rodi, e addirittura nelle gesta cantate da Omero nell’Iliade. Ne consegue che, attraverso questo riferimento blasonato, il Friuli, così come eccelleva per i levrieri e per le sue valorose genti, primeggia anche nell’allevamento dei cavalli.
- 20 Sull’uso del mito in Erasmo di Valvasone, e in particolare su questo racconto, cfr. Barberi Squarot (...)
- 21 Sul tema soprattutto, cfr. Szabò (1997, 167‑229), Barberi Squarotti (2000, 24‑25). È interessante l (...)
21Se il canto secondo si conclude con un lunghissimo ed elaborato inserto narrativo di contenuto eziologico ed encomiastico, il terzo propone la narrazione di una singolare caccia al cinghiale di tono completamente diverso, esemplare ed edificante20. Il libro tratta delle stagioni e dei luoghi atti alla caccia, fino poi a soffermarsi sui comportamenti che un cacciatore deve assumere e, a questo punto, è introdotto il racconto di una spettacolare caccia al cinghiale, il cui messaggio è che anche il cacciatore deve essere provvisto di timore religioso. Alla narrazione è attribuita così la funzione di riconciliare la caccia con la Chiesa che per secoli l’ha condannata21.
- 22 Per il commento al passo, cfr. Ovidio, Metamorfosi (2011, 332‑449).
22L’ottava 102 con il suo precetto secondo cui anche la battuta di caccia deve essere preceduta da una preghiera alla Vergine che favorisca l’impresa e protegga il cacciatore nelle situazioni più pericolose introduce nella narrazione, ritardata prima da una digressione sul pericolo delle streghe (106‑117) e poi dalla biografia del cacciatore protagonista. Si tratta di una grande battuta di caccia al cinghiale, modellata sulla caccia al cinghiale calidonio narrata da Ovidio in Metamorfosi, VIII, 260‑44422. Valvasone procede variando il modello con inserti digressivi e riferimenti alla realtà, ma avendo anche cura di richiamarlo.
- 23 È un nome parlante: in greco infatti θήρα significa caccia, Terone quindi è il cacciatore per eccel (...)
- 24 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, VIII, 279‑281: «tangit et ira deos. “at non inpune feremus, / quaeque inh (...)
- 25 La formula ritorna in La caccia, V, 34 per introdurre il pescatore Miseno al cui favoloso racconto (...)
23La sceneggiatura è diversa da quella ovidiana, poiché causa e protagonista assoluto della caccia è Terone, il cui stesso nome lo assimila alle belve23. Il tremendo cinghiale infatti è inviato nell’agro aquileiese per punire la sua empietà; non è, come nelle Metamorfosi, un flagello per tutta Calidone, dovuto alla dimenticanza del re Eneo, che non aveva sacrificato a Diana. A conforto del principio per cui la divinità, anche quella cristiana, «nel libro segna, / ove sono scritti gli inumani ed empi», coloro cioè che non la rispettano24, il narratore stesso all’ottava 118 introduce la storia di Terone con la formula «vid’io», che attribuisce veridicità alla storia riconducendola alla propria esperienza25.
- 26 Sui confini della selva Ercinia, cfr.: Cesare, La guerra in Gallia, VI, 25, 1; Plinio, Storia natur (...)
- 27 Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, XIX, 36.
24Egli era esempio per i cacciatori: cresciuto lungo le rive del Tagliamento, possente di membra, resistente alle fatiche e alle intemperie, di appetito erculeo, ma anche sinceramente devoto alla «celeste Diva», che onorava ogni mattina. Raggiunta l’età virile però, Terone è preso dal desiderio di cacce sempre più esotiche e abbandona il Friuli, che ne perde in soavità, tra il compianto delle ninfe e dei fiumi dall’Isonzo alla Livenza. Con abile transizione Valvasone sostituisce ai fiumi abbandonati altri fiumi, che — in accordo con quanto dice Giulio Cesare26 — segnano i confini della selva Ercinia, la nuova riserva di caccia di Terone. Qui la sua passione diventa sempre più smodata e si lancia alla caccia degli uri (123‑126), belve tremende di cesariana memoria che Valvasone descrive con una serie di similitudini culminanti in quella mitologica (125) dei tori spiranti fuoco domati da Giasone, utile a rimandare alla narrazione argonautica del libro secondo. Terone dissemina boschi e case dei suoi trofei di caccia — un po’ come Medoro e Angelica con i segni del loro amore27 —, ma la lunga consuetudine con i costumi diversi di una terra lontana e la continua conferma della sua «virtù accieca spesso / l’uomo, e troppo il fa por fede in se stesso».
- 28 Così era Terone fanciullo, ottava 120: «Ne la sua verde età lungo la riva / Del Tagliamento cacciat (...)
25In Terone si riconosce una sorta di “cacciatore nero” che non ha superato la fase iniziatica, ma che anzi si è cristallizzato in quella, finendo per assumere sembianze ferine, che stridono con la grazia della sua fanciullezza28. Si configura infine come un paradigma di dismisura, che si concretizza nella scelta di un luogo del tutto selvaggio per le sue cacce, contrapposto alla medietà della sua terra, nella predilezione per prede immani e nella bestialità del suo aspetto congiunta a un carattere empio, cfr. III, 130‑131:
Quel che si fosse, al suo terren natio
Volsesi al fin Teron, ma non più quello
Già sì gradito che da noi partio
Di volto e di costumi umile e bello,
Ispido il crin, folto la barba, e rio
Di novo orgoglio, e di pietà ribello;
D’empia religïon la lingua e ‘l petto
Senza fren, senza legge, aspro ed infetto.
Non distinguea ne’ dì fasti o nefasti
Cibo da cibo, nè lavor da posa:
I seguaci di Dio vergini e casti,
Che sostenner per lui morte famosa,
E de’ nostri peccati enormi e vasti
Pregando fan l’ira di lui pietosa,
Senza distinzïon scherniva, e i sacri
Lor Tempj, e loro Altari e simulacri.
26Presentato il protagonista, è sempre un fiume, la Natissa (Natisone) all’ottava 131, a introdurre l’antagonista, il cinghiale, descritto attraverso una sequenza di similitudini con i cinghiali del mito, cursoriamente con quelli di Maratona e di Erimanto e più diffusamente con quello calidonio (132), che ha la funzione di esplicitare il modello, precisando i tratti principali della storia, la vendetta di Diana, la distruzione della regione e la successiva morte di Meleagro, ma anche il superamento del modello stesso: «Fu, s’a paraggio e questi, e quei si mira, / senza grandezza, senza cor, senza ira».
- 29 Cfr. la riflessione morale di Candido (1543, 31‑32), a proposito della rovina di Aquileia: «i Barba (...)
27A questo punto, la narrazione si arresta nuovamente, poiché un’apostrofe sulla fragilità delle cose umane avvia la topothesia, in cui si descrive il terreno di caccia, Aquileia (134‑137): è un paesaggio con rovine, in cui i monumenti antichi della città romana hanno ceduto il posto a campi arati e a paludi e tanto diverso dal passato è il paesaggio che è quasi impossibile ritrovarne la pianta. La topothesia si conclude con un’ottava che principia con una seconda apostrofe alla natura effimera e superba delle cose umane «O umana superbia!» e si conclude con il biasimo della fama di uomini e di città, incapace, anche quando intagliata nel marmo, di sottrarsi allo scorrere del tempo. La topothesia è un’innovazione di Valvasone, che si sostanzia di una ricca tradizione antiquaria29. Offre uno sfondo suggestivo alla narrazione, di cui è anche una mise en abyme, poiché la gloria della città romana è stata cancellata dal tempo. Le tracce ormai illeggibili dell’antichità sono state sostituite dal nuovo grande tempio della Diva celeste che la purifica del suo passato pagano.
- 30 Cfr. Dante, Purgatorio, II, 4‑6.
28La caccia si svolge di domenica, introdotta da una perifrasi astronomica di ascendenza dantesca30 e doppiamente connotata: secondo l’uso pagano, come giorno del sole e, secondo quello cristiano, come giorno del Signore. I cacciatori iniziano la giornata pregando Dio, le schiere di «guerrieri alati», quasi a suggerire da parte dell’autore dell’Angeleida l’immaginario degli angeli schierati contro il ribelle Lucifero, prima bello e buono e poi diabolico, proprio come Terone, e infine gli apostoli e i santi. Rimane solo al di fuori del tempio Terone a bestemmiare la vera fede, finché tutti si addentrano nella selva per la caccia.
- 31 Ovidio, Metamorfosi, VIII, 329‑339: «Silva frequens trabibus, quam nulla ceciderat aetas, / incipit (...)
29L’inizio della battuta amplifica Metamorfosi, VIII, 329‑339, in cui una topothesia introduce i cacciatori nel fitto della boscaglia, dove aizzano i cani alla ricerca della preda, che trovano acquattata in una tana palustre31. Brevi sono i tratti con cui Valvasone descrive la selva e la tana del cinghiale, che non hanno la suggestione del bosco sacro ovidiano, ma, da buon cacciatore, concentra l’attenzione sui cani, protagonisti di questa prima fase della caccia, che non si avvale di reti a differenza che nel modello. I cani stanano la preda e dei cani è la prima reazione di letizia e di repentino sbigottimento di fronte alla natura immane della belva, cfr. 143:
Ma come lieti ne l’ascoso speco
Eran corsi a trovarlo, e l’avean desto,
Sì veggendol rotar lo sguardo bieco
Levato in piè con formidabil gesto
(Che non già prima immaginato seco
Sì grande se l’avean, nè sì funesto)
Sbigottîr tutti, e la latrante gola
Racchiuder tutti a quella vista sola.
- 32 La caccia, III, 144: «Chi vide mai non pria domato Bue / Furïar per le piazze orrido e fello / Poi (...)
30Il cinghiale, contrariamente al testo ovidiano, non è oggetto di una descrizione, ma si preferisce affidarne la mostruosità spettacolare a due lunghe similitudini. All’ottava 144 è paragonato a un toro, animale solitamente domestico, renitente però alla cattività che si sottrae alle corde e terrorizza la piazza, per porre l’evidenza sull’enormità delle zanne che sembrano appunto corna32. In questo particolare è attivo il richiamo al modello, poiché Ovidio conclude la descrizione della fiera con delle similitudini brevi tra cui quella di Metamorfosi, VIII, 288: dentes aequantur dentibus Indis, che Valvasone nega e trasforma in «Quasi corna e non zanne», riconducendo l’inlustrans a un animale meno esotico e più familiare ai suoi lettori. La sua corsa devastatrice è invece paragonata al proiettile di una bombarda che distrugge le mura di una città, ma anche in questo caso il richiamo al modello è dissimulato e più complesso del precedente, soggetto a un’operazione di attualizzazione. Ovidio presenta infatti il mostro come sputafuoco in una delle similitudini brevi della descrizione (Metamorfosi, VIII, 289: fulmen ab ore venit), ma soprattutto nel momento in cui il cinghiale stanato corre all’assalto (Metamorfosi, VIII, 356: spirat quoque pectore flamma); il poeta allora per renderne chiaro l’impeto inserisce la similitudine con il dardo della balista (Metamorfosi, VIII, 357: utque volat moles adducto concita nervo).
- 33 La caccia, III, 148: «Ma io che son d’ogni favor mendico / Appresso il Re che sol governa il Cielo, (...)
- 34 Sulla valenza simbolica del cinghiale, cfr. Pastoureau (2009, 239). La caccia al cinghiale è topica (...)
31Ritiratisi tutti i cacciatori per la paura, rimane solo, titanico davanti al verro Terone, che pronuncia parole di scherno per i compagni e per la divinità33, richiamando l’attenzione del cinghiale che lo assale. Ci si aspetterebbe a questo punto un corpo a corpo con la belva, memori di duelli tra uomo e cinghiale quali quello di Odissea, XIX o di altri testi dell’epica più recente, in cui tale scontro è prova iniziatica di effettivo valore34, ma il poeta ci sorprende lasciando Terone paralizzato dalla paura, incapace di proferir verbo e di lanciar arma, e pronto a pagare il fio della sua empietà per opera del mostro, cfr. 151:
Rotando il fier Majal venne, e la zanna
Al fier Teron ne l’anguinaglia impresse,
E di piaga mortal più d’una spanna
Lunga e profonda anco non meno il fesse:
Il miser cadde, e tardi al fin pur danna
L’empio furor che mal gran tempo resse:
E del vindice Ciel morendo porta
Seco gran pegno a la Tartarea porta.
- 35 Ovidio, Metamorfosi, VIII, 392‑400: «“discite, femineis quid tela virilia praestent, / o iuvenes, o (...)
32Anche nella sua morte agisce il modello ovidiano, poiché tra i cacciatori di Calidone v’è un empio, l’arcade Anceo che, pronto a vibrare un colpo dopo quello di Atalanta, reso vano dall’intervento di Diana, pronuncia parole di scherno nei confronti della dea e viene immediatamente trafitto al ventre dal cinghiale, senza che abbia il tempo di scagliare la bipenne35.
33Il monito insito nella vicenda di Terone è reso icastico dalla sua fine, in cui il contrappasso dei peccati si evidenzia attraverso lo scarto dal modello ovidiano. La paura che rende impotente Terone infatti è la negazione dell’audacia venatoria che l’ha caratterizzato per tutta la vita, ma soprattutto è pena per la sua empietà nei confronti della divinità. Inoltre, la mansuetudine con cui il cinghiale si lascia infine uccidere da uno stuolo di cacciatori meno eroici, ma «ch’avea voglia miglior», diversamente da quello di Calidone, la cui morte avviene per mano dell’impavida Atalanta, sottolinea la vanità dell’eroe.
- 36 Cavicchi (2003, 99‑103), si occupa in particolare della narrazione del libro V, con attenzione allo (...)
- 37 Sulla traduzione nel Cinquecento, cfr. Folena (1991); sulla traduzione delle Metamorfosi in partico (...)
- 38 Sulla Ciris pseudovirgiliana, cfr. Sudhaus (1906, 28‑33), Cavarzere (1998); per il commento, cfr. L (...)
34È la narrazione mitologica più lunga all’interno del poema36, che si presenta come una traduzione, o meglio una riscrittura37, della vicenda di Niso, re di Megara, e di sua figlia Scilla, innamorata di Minosse, nemico del padre, soggetto della Ciris pseudovirgiliana e trattata in versione più breve anche da Ovidio in Metamorfosi, VIII, 6‑15138.
35Dopo un lungo catalogo di uccelli prede e cacciatori, che Valvasone descrive e di cui tratteggia il carattere, all’ottava 139 l’avverbio «ecci» in funzione enfatica introduce non uno solo, ma una coppia di uccelli, «il veloce Smerigliuol» che perseguita l’allodola «scellerata membranza, ingiuria antica / ch’a la figliuola il genitor nemica». Con la formula «debb’io d’acquistar fede aver speranza, / s’io dirò come essi vestir le penne?» s’inizia il racconto meraviglioso della metamorfosi, che Valvasone confessa essere già stato narrato da «l’antica etade». Il racconto è eziologico, poiché spiega la fantastica origine della coppia di uccelli, ma è anomalo rispetto agli altri miti presenti nel poema, poiché è di argomento amoroso, non trasmette esplicitamente un messaggio pedagogico utile alla crescita del dedicatario, anche se l’infelice sorte di Scilla è dovuta alla sua debolezza di fronte alla passione, ed è sganciato anche dalla celebrazione del Friuli. Di conseguenza, si comprende che le passioni illecite sono da evitare pena castighi infiniti.
- 39 Sulla traduzione della Tebaide, cfr. Foffano (1897, 98‑102), Dalle Mule (1901), Cremona (1919, 28‑4 (...)
36Erasmo di Valvasone è un esperto traduttore: tra le sue prime opere pubblicate vi è infatti la traduzione della Tebaide di Stazio. Il poema epico subisce un’operazione parafrastica, sostanzialmente fedele, per cui la lingua, spesso tumida e oscura, del poeta di età flavia diventa scorrevole nelle ottave che amplificano e chiarificano il testo di partenza e la narrazione è arricchita da lunghe digressioni descrittive ed encomiastiche, esemplate su quelle dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, tanto caro a Valvasone39.
- 40 Nota a La caccia, V, 55.
37Con maggiore fedeltà e sulla strada della semplificazione il poeta si muove nella riscrittura dell’epillio pseudovirgiliano, come ben annota Scipione di Manzano: «molte cose di Virg. il nostro poeta ha tralasciato a bello studio, o perché non gli pareano proportionate all’uso della nostra età, o per molte altre ragioni, che lo possono haver mosso: e molte anco n’ha poste da se stesso, perché le ha giudicate dilettevoli alle orecchie moderne»40.
- 41 Pseudo-Virgilio, Ciris, 101: «Sunt Pandioniis vicinae sedibus urbes» e La caccia, V, 141: «Sorgea v (...)
38Il racconto di Valvasone riprende quello della Ciris a partire dalla traduzione del v. 101, la topothesia di Megara in relazione ad Atene41, di cui sono messe in evidenza le robuste mura (141) e procede con la menzione del re Niso e del suo crine d’oro, alla cui integrità è legata la salvezza della città (142), e della guerra mossa da Minosse (143), non destinata al successo se non fossero intervenute le armi di Amore (144). A questo punto è presentata la figlia di Niso senza farne il nome e, omettendo la parte in cui si spiega l’innamoramento come punizione inferta da Giunone a Scilla per uno spergiuro (vv. 136‑162), si passa immediatamente a descrivere l’innamoramento della fanciulla.
39La descrizione dell’innamoramento di Scilla (vv. 163‑190) è ritardata da due ottave (147‑148), in cui in forma di apostrofe patetica alla fanciulla sono espressi due desideri irrealizzabili introdotti dall’invocazione «O fortunata», l’uno che la fanciulla non fosse mai apparsa sulle mura e l’altro che non avesse ceduto allo sguardo di Minosse. Interviene quindi la lunga descrizione della follia d’amore (149‑156), che amplifica l’originale (vv. 163‑190).
- 42 Pseudo-Virgilio, Ciris: «Quae simul ac venis hausit sitientibus ignem / et validum penitus concepit (...)
40Per esempio, Valvasone sviluppa l’istantaneità della follia d’amore, esaurita dal poeta latino nei vv. 163‑16742, nelle ottave 149‑152:
Mentre ella intenta da le mura scorge
Il fiero Re, che la Cittade assale;
Il fiero Re, che risguardevol sorge
De’ cavalieri suoi fuor tutte l’ale,
Avventa Amor, ned ella se n’accorge,
Da l’infallibil arco acuto strale,
Che le scende per gli tocchi, e porta al core
Di non prevista piaga alto malore.
Qual ferita da l’aspido che giace
Tra’ fiori ascoso pastorella vaga,
Che per le vene tosto ardor penace
Si sente entrar, che la consuma e smaga;
Ed è già tutta incendio, e senza pace:
Duolsi, nè quasi appar segno di piaga
Picciolo è il dente, che la punge, e grande
Il velen che per l’ossa egli le spande.
La misera ch’in sen si sente il foco,
Che qual Leone incarcerato rugge,
Ritorna a la sua cella, e da quel loco,
Da quella vista, che l’incende, fugge:
Ma per stanza cambiar, molto nè poco
Non scema già la cura, e chi la strugge
Sta seco, e mosso più s’avanza, e sale,
Chè la natura de le fiamme è tale.
O infelice Vergine! omai tutta
Più non la cape la regal Cittade:
Di qua, di là s’aggira, ed erra, e lutta
Col suo fiero desir, ma sempre cade:
Qual di Gibele suol serva ridutta
Al suon del bosso ne l’Idee contrade:
O qual de’ Traci per l’inculte piagge
Folle religïon Menade tragge.
- 43 Cfr. Virgilio, Eneide, IV, 67‑68: «uritur infelix Dido totaque vagatur / urbe furens».
41Attraverso il dardo amore passa dagli occhi al cuore e crea uno straordinario sconvolgimento, illustrato dalla similitudine con la puntura dell’aspide, assente nel testo latino, e inserito nel quadro dinamico del ritorno di Scilla alla sua stanza, in cui il fuoco d’amore la devasta definitivamente e, a questo punto, è riprodotto in forma di apostrofe, con evidente rimando a Didone43, il sintagma «O infelice vergine», che introduce la similitudine con la Baccante, creando un rimando ancora più evidente che nell’originale con il modello epico dell’innamoramento di Didone.
- 44 «Iamque adeo dulci devinctus lumina somno / Nisus erat vigilumque procul custodia primis / excubias (...)
42Il testo procede poi, in aderenza all’originale, con l’apostrofe a Niso, in cui si preannuncia la distruzione della città e la trasformazione del re in un uccello, che sarà più forte degli altri uccelli (159‑161 = vv. 191‑205). Il sonno di Niso, sinteticamente descritto ai vv. 206‑20844, è introdotto da un’elaborata perifrasi astronomica che crea aspettativa nei confronti di quanto deve accadere, cfr. 162:
Uscito omai da le Cimerie grotte,
E giunto a mezzo il colmo anco del cielo,
Da tutto il carro de l’ombrosa notte
Sudava il pigro sonno umido gelo;
E l’umane fatiche avea interrotte
Per tutto il mondo il tenebroso velo;
Quando ecco e Niso in un soave lete
Omai stanco inchinò le luci quete.
- 45 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, VIII, 43‑80, già rilevato da Cavicchi (1903, 116).
- 46 «Ergo iterum capiti Scylla est inimica paterno: / tum coma Sidonio florens deciditur ostro, / tum c (...)
43Con il buio la fanciulla si avvicina alla stanza del padre, ma quando è sulla soglia, la coglie un’esitazione, si arresta e inizia un monologo (ottave 167‑168), di derivazione ovidiana45, che supplisce all’eliminazione della lunga sezione dell’epillio (vv. 220‑385), in cui interviene un ulteriore personaggio con funzione drammatica, la nutrice Carme, confidente e complice dell’eroina tragica. Nella Ciris infatti La vecchia sorprende la fanciulla e la interroga sul motivo della sua uscita notturna e, saputo che la causa è un amore tanto inopportuno quanto devastante, consapevole che è vano opporsi alla passione, suggerisce alla fanciulla di tentare di persuadere il padre. Poiché ogni tentativo è inutile, la soccorre con degli incantesimi, ma rivelatisi anch’essi vani, Carme aiuta la fanciulla a recidere il crine d’oro e, simultaneamente al taglio del capello, la città di Megara è conquistata46.
- 47 Pseudo-Virgilio, Ciris, 371‑373: «terque novena ligans triplici diversa colore / fila Ter in gremiu (...)
44Valvasone esclude questo ampio passaggio, funzionale al pathos e ai colori dell’epillio, poiché preferisce concentrarsi sulla causa della metamorfosi e sul taglio del capello, narrato nelle ottave 169‑171: Scilla, dopo il monologo, si avvia a compiere il crimine, ma prima di agire, esita tre volte, il numero magico del sortilegio di Carme nella sezione omessa47. A questo punto, conquistata Megara, Scilla è legata alla nave di Minosse come fosse una polena e trascinata tra un catalogo di divinità marine che ne ammirano la bellezza e tra i mostri del mare, iperbolicamente impietositi dal suo destino (ottave 171‑172 = vv. 391‑403).
- 48 Sui topoi del lamento dell’amante abbandonata, cfr. Hross (1958).
- 49 Virgilio, Bucoliche, VIII, 41: «ut uidi, ut perii, ut me malus abstulit error!»
- 50 Così anche Arianna in Catullo, Carmi, LXIV, 158‑163, e Briseide in Ovidio, Eroidi, III, 69.
- 51 Gli editori moderni inseriscono questi versi dopo il v. 477 al termine del viaggio della nave (Clau (...)
45È giunto il momento per Scilla di proferire il suo lungo lamento di amante abbandonata, consacrato come topos letterario dall’Arianna di Catullo e dalla Didone virgiliana48, in cui Valvasone procede in aderenza al testo latino (ottave 174‑187 = vv. 404‑458). Rivoltasi ai venti perché portino i suoi lamenti a una dea pietosa, invoca anche l’«Attica gente», Progne e Filomela, figlie di Cecrope, a lei sorelle nel destino di trasformazione in uccelli, e prosegue poi con l’invettiva contro Minosse in cui ricorda il «sacro patto» (cfr. v. 414 sacrato foedere) e rivolge la domanda «seguirò io, con queste funi attorno, / L’armata e penderò la notte e ‘l giorno?», che traduce eliminandone l’efficace anafora: Vinctane tam magni tranabo gurgitis undas? / Vincta tot adsiduas pendebo ex ordine luces? (vv. 415‑416). Enumera in seguito le colpe di cui si è macchiata e riflette sul paradosso della sua punizione, inflittale non da coloro che ha tradito, ma da colui che ha aiutato (ottave 177‑179 = vv. 418‑424). Il lamento raggiunge l’apice quando la fanciulla sottolinea il tradimento di Minosse, seguendo fedelmente l’originale, ma perdendo l’intenso contrasto creato dal poeta latino tra scelus omnia vicit alla fine del v. 427, in riferimento a Minosse, e in principio del v. 437 omnia vicit amor, in riferimento a Scilla, parafrasato l’uno in «non ammette alcun modo di pietade» (180) e, vistane la celebrità, conservato l’altro in «vinse ogni cosa Amore» (182). Quando ricorda il proprio innamoramento, Scilla ricorre al topico ut vidi, ut perii (v. 490) di ascendenza virgiliana49, che Valvasone parafrasa smorzandone la tensione in «ch’io non vidi quasi / e trafitta, e perduta ecco rimasi». Scilla dice addio alle nozze ed esprime il desiderio, anch’esso topico50, di poter seguire Minosse almeno come ancella o a dirittura di essere uccisa (ottave 183‑184 = vv. 437‑447). Valvasone conclude il lamento con le ottave 185‑186, in cui la fanciulla compiange il proprio corpo assediato dalle belve marine51.
- 52 È la versione di cui si discute ai vv. 54‑75 del poemetto, di cui ci rimane notizia attraverso gli (...)
46Si continuano poi a descrivere le sofferenze di Scilla, come una polena, mezza dentro e mezza fuori dall’acqua, finché alle ottave 190‑191 comincia la metamorfosi, su cui il poeta cinquecentesco lascia il dubbio se si tratti di un estremo supplizio oppure di un segno di clemenza celeste «O fosse pur dal Ciel, che sol l’udia, / Mossa al favor di lei l’alta clemenza», che sostituisce la pietà della Neptunia coniunx (v. 483), con cui il poeta latino alludeva per contrasto anche alle altre varianti del mito in cui Anfitrite stessa aveva trasformato Scilla in un mostro marino52.
- 53 Pseudo Virgilio, Ciris, 508‑509: «Et tamen hoc demum miserae succurrere pacto / vix fuerat placida (...)
- 54 Cfr. Pseudo Virgilio, Ciris, 493‑498: «sic liquido Scyllae circumfusum aequore corpus / semiferi in (...)
47Il rapporto tra la sezione dedicata alla metamorfosi di Scilla e l’originale (ottave 192‑196 = vv. 490‑517) si configura come una traduzione puntuale, se non fosse per alcune piccole ma significative omissioni, che rendono la descrizione di Valvasone meno attenta ai particolari naturalistici, ma egualmente oscillante tra la punizione e la salvezza, come attesta l’ottava 195: «E questo fu quel modo di salute, / Che in tanto strazio le mandar le stelle: / Di sì gran donna, e di regina che era, / In sul fior de’ suoi dì farla una fera»53. Nella metamorfosi l’accurata descrizione naturalistica di stampo ovidiano è notevolmente semplificata, soprattutto eliminando lo stato di transizione da donna a uccello, ottava 19354:
Così ancor Scilla nel ceruleo mare
Perdendo vien la sua vera natura
A poco a poco, e nel principio appare
Di Donzella, e d’augel mista figura;
Poi si fa fiera, e tutta atta a volare
D’ogni parte l’uman sembiante ottura:
Restringonsi non più fregiate d’ostro
Le guance, e ‘l mento si distende in rostro.
- 55 Pseudo Virgilio, Ciris, 499‑504: «tum qua se medium capitis discrimen agebat, / ecce repente velut (...)
48E all’ottava successiva, che traduce i vv. 499‑50455, Valvasone accuratamente tralascia di menzionare il colore del marmo del piumaggio e quello delle zampe dell’uccello in cui si trasforma Scilla. Sono omessi anche i versi con il riferimento alle nozze mancate (vv. 510‑513) e quelli conclusivi che descrivono le rocce deserte, nuovo habitat di Scilla (vv. 517‑519), e la metamorfosi di Niso (196), genericamente «fatto rapace augel» per volontà del cielo.
- 56 Cfr. Arato, Fenomeni, 636 e Germanico, Aratea, 645.
- 57 Cfr. Pseudo Virgilio, Ciris, 533‑537: «Namque ut in aetherio signorum munere praestans, / unum quem (...)
49La metamorfosi di Niso (ottave 197‑200 = vv. 520‑541) segue sostanzialmente il testo latino, salvo puntare l’attenzione, non tanto sul giudizio degli dei e di Minosse quanto sulla vendetta del padre nei confronti della figlia, un eterno inseguimento (su cui si insiste fino all’ottava 202), che era anche il tema anticipato in apertura, quando Niso e Scilla erano presentati in coppia nel catalogo. Per tale motivo è ripresa la similitudine con le costellazioni dello Scorpione e di Orione, con una significativa differenza: si tratta di una similitudine d’ambito venatorio, poiché Orione è sì un cacciatore, ma un cacciatore cacciato, in quanto tentò di violare Artemide, che si difese gettandogli contro uno scorpione, che gli punse un tallone e lo uccise. Lo Scorpione fu catasterizzato e Orione, posto in cielo davanti a lui, condannato a fuggire in eterno56, ottava 19857:
Come nel Ciel da lo Scorpion, che stende
Oltre al giusto confin le curve braccia,
Fugge Orïone, e via diversa prende
Da quel ch’ognor gli va dietro a la traccia,
Così fa l’Allodetta, e si difende
Dal fiero Smerigliuol, che la minaccia;
E l’antica ira, che tra lor s’indura,
È fatta d’ira omai propria natura.
50E proprio nell’inlustrans della similitudine, che ha reso icastica la dinamica dell’eterna pena di Scilla, il poeta latino enuncia i nomi degli uccelli in cui Scilla e Niso sono stati trasformati, finora solamente descritti: ciris, l’airone, e haliaaetos, un rapace marino di grandi dimensioni. Qui Valvasone opera il suo intervento più evidente, in ragione del contenuto e del genere del poema e con l’obiettivo di giustificare l’inserto narrativo: i due sono trasformati rispettivamente in un’«allodetta» e in uno «smerigliol».
- 58 Si fa riferimento all’edizione curata da Giuseppe Scaligero, la prima a recare il titolo di Appendi (...)
51Valvasone, abilmente omessi i colori dell’uccello in cui si era trasformata Scilla, ma conservatone il particolare della cresta, inventa una sua variante, riconducendo il mito alla sua esperienza venatoria e, per fare questo, si sente in diritto di confutare il più recente e autorevole editore dell’Appendix Virgiliana, cioè Giuseppe Scaligero58, come sappiamo dal commento di Scipione di Manzano, ottava 201:
Ben già tra noi si vide uomo prestante
D’anni e di senno, e di credenza molta,
Che solea disputar, e star costante,
Che non fu Scilla in Allodetta volta,
Ma divenne un augel d’altro sembiante
Assai maggior, che va per l’acque involta;
E che non in Smeriglio cambiò Niso,
Ma in un vero Falcon, le membra e ‘l viso.
- 59 Così Scipione di Manzano nel commento alla stanza 201: «la gran parte de’ Lettori, vogliono che Nis (...)
52Scipione di Manzano dedica un’intera pagina al commento di questa ottava, spiegando come Valvasone si opponga alla «gran parte de’ lettori», anche antichi, secondo cui Niso sarebbe diventato un’aquila o un grande falcone e Scilla una specie di garzetta, trampoliere acquatico simile all’airone59. Si svela allora la ragione per cui Valvasone è stato così selettivo nella traduzione della metamorfosi di Scilla, conservandone l’unico particolare utile, le penne dritte sul capo che ne fanno una sorta di cresta, a identificarla con l’allodola.
53Resta ora da capire il motivo per cui Valvasone ha inventato questa variante. È chiaro che essa meglio si adatta alle esigenze del poema di illustrare i vari tipi di caccia; nell’ottava 200 precisa infatti «Piccioli augelli son, ma non fu poco / il diletto giammai, che se ne ottenne: / E tornar suole ad ogni sesso, in grado / Ad ogni condizione, ad ogni grado», l’allodetta è un boccone piccolo e ghiotto per il cacciatore e lo smeriglio è il migliore accipitride per la caccia in volo, apprezzatissimo nella falconeria ancora ai tempi del poeta.
- 60 Cfr. edizione recente con traduzione in D’Angelo (2018, 1495‑1530).
- 61 Cfr. Villani (2009, 746‑749).
- 62 Sull’opera di Codroipo in relazione al suo contesto culturale e alle tecniche venatorie contemporan (...)
54Per comprendere meglio il significato di questa variante, conviene guardare al contesto in cui Valvasone viveva. La caccia era uno dei passatempi preferiti della sua classe sociale e la sua terra era un paradiso per cacciatori e uccellatori, infatti non fu né il primo né l’ultimo friulano a scrivere di caccia e di aucupio. Lo precedette Jacopo di Porcia con il trattato De venatione, databile alla prima metà del Cinquecento, in cui della falconeria si dice tantum militibus et generosis viris exercendam esse arbitror60, ma soprattutto Francesco Codroipo61, autore di un Dialogo sulla caccia de’ Falconi, Astori e Sparvieri, ambientato nel 1558, ma composto nei decenni successivi e pubblicato appena nel 1600. Considerata la vicinanza dei loro castelli e l’affinità degli interessi, è ragionevole pensare che Valvasone e Codroipo si conoscessero e quest’ultimo nella sua opera inserì tutte le conoscenze sulla falconeria del tempo con una passione e un interesse che stridono con la decadenza coeva della falconeria, avviatasi a diventare obsoleta a seguito dell’introduzione delle armi da fuoco62.
- 63 Dialogo de la caccia de’ falconi, astori, et sparvieri. Con l’aggiunta d’un discorso in materia de (...)
- 64 Codroipo (1614, 94).
55Ancora più interessante ai nostri fini, è però la seconda edizione del 1614 Con l’aggiunta di un discorso in materia de la Caccia de li smerigli, de l’Astorelle, e de li Falconi63, per mano di Girolamo Codroipo, nipote di Francesco, che continuava la passione familiare della falconeria e che dedica una lunga sezione alla caccia con gli smerigli: da qui possiamo trarre conferma alle notizie che la riscrittura della Ciris ci dà in materia. Lo smeriglio è falchetto di piccole dimensioni, che nasce in un generico Levante, vola sul mare e sverna in Friuli, dove si offre agli uccellatori che lo catturano e lo allevano per la caccia alle allodole. Esso è di «ale attissime alla velocità, et ancorché, di picciola statura, sono nondimeno, come ho detto, simili ai falconi in tutte le qualità»64. Più facilmente addestrabile e gestibile del grande rapace, è infatti formidabile nella caccia all’allodola, con cui viene anche addestrato, che stanca e logora con la paura, come a V, 202:
Ma comunque si sia, la pugna è tale,
Che suol far con la timida Allodetta
L’irato Smerigliuol sì presto d’ale,
Che non vola il Falcon con maggior fretta:
Seguendo lei sovra le nebbie sale,
E da le nebbie sovra lei si getta;
E quinci può non temerario avviso
Scilla Allodetta, e Smerigliuol far Niso.
56Si pensa che La caccia sia opera cui Erasmo di Valvasone attese durante la maturità al punto che la diede alle stampe ormai anziano, e ci lavorò fino a poco prima della morte. Se scolastico e libresco può apparire il desiderio di trasferire nella propria opera i classici tanto studiati, questi stessi classici nelle sue mani si trasformano in materia viva, cosa non scontata nella poesia cinquecentesca. Prova ne è la disinvoltura nella ricezione del mito, abilmente risemantizzato e ricontestualizzato, ora assemblando le fonti per creare un nuovo aition, ora trasformandolo in un apologo edificante, ora rinarrandolo, non senza variazioni e prese di posizione personali, per dilettare su una delle cacce più nobili, ma in decadenza. Anche se il più volte citato studio di Cavicchi su Valvasone e i classici nasceva da un bisogno inattuale di difenderne la poesia nell’impari confronto con i modelli, tuttavia mi sento di condividerne la conclusione: «Le felici disposizioni poetiche di Erasmo da Valvasone, il suo gusto artistico e la sua intelligente cura di una forma eletta fecero sì che dal suo studio dei classici derivasse agli episodi della Caccia, mediante una sapiente imitazione, pura e fresca fonte di bella poesia»65.