- 1 Cohen 2005. Sul tema si veda anche Biraghi 2019.
- 2 Armando, Durbiano 2023.
1In un saggio del 1984 destinato a una certa fortuna interpretativa, lo storico dell’architettura Jean-Louis Cohen presentava la figura dell’architetto-intellettuale come l’esito di condizioni specifiche che avevano permesso ad alcuni architetti italiani – in contrapposizione, per esempio, a quelli francesi – di affiancare alla propria attività professionale e di insegnamento una riflessione approfondita sulle condizioni del proprio operare, rafforzando un’interpretazione dell’architettura come attività al tempo stesso pratica e speculativa1. Nel volume collettivo Critica della ragione progettuale, i due curatori Alessandro Armando e Giovanni Durbiano, entrambi architetti e docenti di progettazione architettonica al Politecnico di Torino, propongono al tempo stesso un prolungamento e un rovesciamento di questa tradizione2. Il loro lavoro, sviluppato in più tappe nel corso dell’ultimo decennio, conferma la rilevanza della teoria per il progetto di architettura, ma propone al tempo stesso una lettura innovativa del rapporto tra pratica e riflessione filosofica, nonché dell’oggetto stesso di quest’ultima. Il titolo del libro definisce bene i contorni di questo posizionamento. Se molta teoria architettonica del ventesimo secolo è stata attenta in primo luogo alla forma delle opere e alle poetiche dei progettisti, qui l’osservazione si sposta sul progetto di architettura, considerato come un ambito d’azione distinto rispetto all’architettura costruita e in parte anche rispetto all’intenzionalità di chi lo propone. Gli strumenti per osservarlo sono mutuati da una pluralità di ambiti, tra i quali spiccano la teoria della documentalità di Maurizio Ferraris – che ispira una lettura del progetto come sequenza di operazioni che si traducono in iscrizioni documentali – e la actor/network theory latouriana – quest’ultima alla base dell’ipotesi che le pratiche progettuali vadano pensate come processi sociotecnici che coinvolgono una molteplicità di attori e attanti e sono caratterizzati da forme di scambio, deviazione, istituzionalizzazione. La figura dell’architetto mantiene una centralità nella riflessione, ma principalmente per comprendere in che modo e con quali saperi una simile figura si trovi ad agire all’interno di un campo popolato da «un intreccio ibrido di decisioni e automatismi» (p. 133).
- 3 Armando, Durbiano 2017.
2Oggetto di una prima sistematizzazione in un volume pubblicato nel 2017, Teoria del progetto architettonico3, la riflessione di Armando e Durbiano ha assunto nel tempo un carattere più spiccatamente collettivo di cui il libro qui discusso offre un buon esempio. Il lavoro è l’esito di un seminario di dottorato organizzato nel 2020-21 con la partecipazione di tre filosofi: Bruno Moroncini, Carlo Galli, Maurizio Ferraris. Gli scambi avvenuti in quel contesto vengono restituiti entro una struttura che punta alla coesione argomentativa e a una certa sistematicità cumulativa. A un capitolo introduttivo dei curatori, che pone alcune domande specifiche sulla natura del progetto come pratica, seguono tre saggi dei filosofi, che sviluppano dalle loro rispettive posizioni alcuni dei temi proposti. Un’articolata controrisposta dei curatori e un commento di Tommaso Listo – co-organizzatore del seminario – chiudono il volume.
- 4 Vanno in una simile direzione, ma con una differente impostazione, anche altri lavori recenti, per (...)
3La discussione prende le mosse dalla ricostruzione dettagliata di alcune esperienze progettuali e questa costruzione di una base empirica per il dialogo filosofico merita di essere sottolineata poiché rappresenta uno dei principali elementi di novità rispetto al modo in cui la riflessione veniva impostata in Teoria del progetto architettonico. Se quel volume conteneva pochi o nessun riferimento a specifiche pratiche di progettazione, sottintendendo uno sfondo comune di familiarità con la professione da parte di un pubblico di lettori-architetti, Critica della ragione progettuale pone invece la descrizione di un’attività, osservata nel proprio svolgersi quasi quotidiano, al centro della scena4. Interrogando i filosofi a partire dalla ricostruzione a posteriori di alcune situazioni date, il volume persegue una strategia di generalizzazione basata su un salto dal particolare al generale, a partire dal presupposto implicito che ogni esperienza, se raccontata sotto la giusta prospettiva, contenga elementi che tendono ad assumere un valore di generalità, se non di universalità. La concisione delle storie e la loro articolazione e messa in scena fanno sì che queste si offrano alla riflessione nella forma di apologhi, narrazioni emblematiche che possono apparire illustrative di condizioni ricorrenti dell’agire.
4Sono quattro le storie che vengono raccontate e tre di queste riguardano in prima persona i curatori: autonarrazioni tratte dalle loro esperienze professionali, condotte in comune all’interno di uno studio associato. Le storie vengono definite come “ordinarie”, termine che si presterebbe a una discussione (presentano in realtà alcuni elementi di peculiarità, come il radicamento in un contesto urbano specifico, il ricorrere di alcuni temi progettuali, l’esistenza di relazioni di conoscenza e mutuo riconoscimento tra i progettisti e i propri interlocutori) ma che viene qui inteso soprattutto come sinonimo di un’attività “gettata” nel mondo reale, inserita entro intrecci di apparati, procedure, scambi. In un primo caso, un progetto di riallestimento di un museo viene bloccato in più occasioni da una serie di veti, provenienti in particolare da funzionari della conservazione. In un secondo caso, chiamati per un progetto di recupero di un edificio storico, gli architetti si trovano nella condizione di dover supplire alle indecisioni della committenza elaborando proposte la cui scala spaziale e temporale va molto al di là dell’incarico ricevuto. In un terzo caso, si racconta di un progetto realizzato nel quale tuttavia un mix di fattori già incontrati nelle due vicende precedenti porta a un’opera molto diversa rispetto alle ipotesi iniziali. A queste storie se ne aggiunge una quarta, che non è oggetto di esperienza diretta ma è piuttosto tratta dal vasto repertorio di biografie e exempla codificato dalla storiografia architettonica del ventesimo secolo. Il fuoco dell’attenzione è Albert Speer, architetto di Hitler a partire dal 1934 e ministro degli armamenti della Germania nazista dal 1942 al 1945. Il suo caso funge da controesempio, nella misura in cui presenta la situazione limite di un progettista per il quale il rapporto con il committente e con il potere risulterebbe così diretto da non comportare un confronto con forme di condizionamento di tipo burocratico. La traiettoria di Speer appare insieme eroica e tragica, mentre – nel confronto – le storie professionali dei due architetti assumono un carattere un po’ comico, di una comicità quasi slapstick: sono fatte di ostacoli imprevisti, inciampi, rincorse, acrobazie. Per definirle, alcuni dei filosofi usano il termine “peripezie” (p. 69).
5Come pensare un’attività dove controllo dei processi e autorità degli esperti appaiono variabili dipendenti rispetto all’intrico delle condizioni? Le domande poste ai filosofi tendono a ruotare intorno a tre parole chiave: sapere, potere, azione. Al centro del primo ordine di domande è quale tipo di sapere sia il progetto, dal momento che tende a manifestarsi all’interno di processi in cui una data soluzione può essere respinta o modificata per ragioni del tutto indipendenti rispetto al proprio contenuto tecnico. Al centro del secondo è il rapporto con la politica: fino a che punto il progetto può avere un’incidenza politica sul reale, fino a che punto si limita invece a riprodurre situazioni di potere esistente? E anche: in processi decisionali deboli o poco strutturati, può il progetto contribuire a rafforzare l’autorità dei committenti o di altri attori? Al centro dell’ultimo ordine di questioni stanno le modalità dell’azione progettuale e le possibilità di introdurre forme di innovazione che la rendano più efficace e più capace di muoversi all’interno dell’imprevedibilità delle negoziazioni.
6A queste domande i saggi filosofici offrono spesso risposte che puntano a riformulare i termini della questione, magari a partire dall’esame ravvicinato di un dettaglio specifico. Bruno Moroncini discute l’appartenenza o meno dell’architettura alle scienze umane e sostiene che essa può essere pensata, sulla scia di Aristotele, come «una tecnica o arte fondata su saperi scientifici e su esperienze pratiche» (p. 44). Il testo offre una rilettura della crisi del trascendentalismo cartesiano e kantiano e delle teorie di Derrida sulla decostruzione, viste come «edifici capaci di non cadere in rovina nonostante non siano costruiti per stare in piedi, per stare in verticale» (p. 53). Nella prospettiva sull’architettura che viene offerta è centrale una presa di distanza rispetto alla posizione heideggeriana che lega l’abitare «ai valori della presenza, della conservazione, della protezione dell’umano (e del divino)». Carlo Galli inquadra il problema del progetto architettonico all’interno di una lettura ampia del progetto come «metafisica dell’epoca moderna», che si trova necessariamente gettato «in un mare di contingenza», «accidentalità» e «scabrosità» (p. 69). In questo senso «l’architettura contiene, produce ed evidenzia l’enigma dell’agire moderno», una condizione in cui «si assiste a un’eterogenesi dei fini, a una perdita di controllo di tutti su tutto – così che la caratteristica dell’epoca parrebbe quella di attivare l’agire razionale del soggetto e al tempo stesso di negarne l’attuabilità finalistica» (p. 70). Maurizio Ferraris prende le mosse dalla biografia di Speer, proponendone un’interpretazione per alcuni versi distante da quella dei due curatori, soprattutto nel sottolineare i possibili punti di contatto tra esperienze professionali che, per quanto diverse, appaiono tutte riconducibili ad alcune caratteristiche ineliminabili del progetto. La prima è l’associazione di quest’ultimo con la responsabilità, analizzata a partire dall’autodifesa di Speer al processo di Norimberga, dal suo fallimentare tentativo di dichiararsi non responsabile dell’Olocausto in quanto ingranaggio di un efficacissimo apparato tecnico. (Gioca qui la differenza tra il programma, che in quanto mera esecuzione di una disposizione tecnica, «non può essere colpevole», mentre il progetto «comporta sempre una responsabilità e un’intenzione, per quanto grandi siano i vincoli con cui può urtarsi».) La seconda caratteristica del progetto è il suo ritardo, visto come un tratto così poco accidentale che può quasi essere assunto come una sua definizione. «Il progetto ha un ritardo costitutivo, ha sempre un intralcio, e per questo è il ritardo, non ha un ritardo» (p. 108).
7Nella loro risposta, Armando e Durbiano precisano il proprio posizionamento e sviluppano con maggiore articolazione una serie di argomenti che erano rimasti fino a quel momento sottintesi. Non riassumo qui nel dettaglio le loro conclusioni. Vorrei piuttosto sottolineare come il volume si presti a essere letto secondo più di una modalità: lo scambio che i saggi documentano deve parte della propria vitalità alla tensione che si instaura tra un movimento di esplorazione caratteristico del dialogo e l’intenzione di convogliare i diversi spunti verso un sapere sul progetto che si vorrebbe unitario. Si possono trovare elementi di riflessione di grande rilevanza tanto seguendo il serrato movimento di domanda-risposta-controrisposta che la struttura del libro propone quanto perdendosi nei movimenti laterali e indugiando sulle deviazioni, come quella proposta da Bruno Moroncini con un’analisi del sofisma lacaniano sul tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata, che si rivela piuttosto pertinente per discutere la condizione di chi, come i progettisti discussi in questa ricerca, deve prendere «posizione all’interno di uno spazio intersoggettivo» (p. 66).
8Critica della ragione progettuale conferma il percorso di ricerca avviato da Armando e Durbiano come una delle esperienze più interessanti nel campo della riflessione sull’architettura avviate negli ultimi anni e ne ribadisce il potenziale dal punto di vista della costruzione di percorsi interdisciplinari. Sul piano specifico del dialogo tra architetti e filosofi, il volume riscatta quasi da solo una tradizione che è stata spesso costellata da strumentalizzazioni e trasposizioni superficiali, mostrando come sia possibile uno scambio ricco di implicazioni – e forse anche, come tutti gli scambi riusciti, di qualche rischio – per i partecipanti. Altri, più e meglio attrezzati di chi scrive, sapranno entrare nel dettaglio delle argomentazioni che i saggi propongono e discutere con l’attenzione che meritano alcuni dei punti chiave di questo dialogo filosofico a più voci. Nel seguito della presente nota, vorrei invece sottolineare tre questioni aperte che si collocano sul perimetro, più che nel cuore, della ricerca e che mi sembrano di particolare rilevanza nella prospettiva di un suo sviluppo futuro. Riguardano in particolare tre temi che hanno un ruolo centrale nel delimitare il campo del lavoro e definire i paradigmi della sua scientificità: l’osservazione della realtà empirica, la ricerca di un’efficacia dell’azione progettuale, e l’individuazione di un pubblico cui la ricerca sull’architettura si rivolge.
- 5 A titolo di esempio, si veda De Carlo 2013.
- 6 Una simile linea di riflessione epistemologica sulle pratiche di osservazione del reale è largament (...)
9La costruzione empirica della ricerca è, lo si è detto, un ambito di indagine che il libro porta in primo piano, facendo delle autonarrazioni della pratica professionale (da parte dei due curatori, ma anche di Speer attraverso le sue Memorie del Terzo Reich) un fondamento per la riflessione teorica. Nel presentare esperienze progettuali osservate dal punto di vista di attori immersi in una situazione data, il volume sembra volersi richiamare a un’ontologia “piatta” di matrice latouriana, un riferimento che veniva esplicitamente fatto proprio dai due curatori nel precedente Teoria del progetto architettonico (pp. 155 sgg.). Eppure è difficile sottrarsi alla rassicurante impressione di familiarità che emana da queste storie, e che contrasta con il senso di spaesamento che, al contrario, le ipotesi teoriche della ricerca tendono a lasciare nel lettore. Con il loro andamento temporalmente lineare, l’attenta selezione degli attori inclusi o esclusi dal quadro, la studiata scansione dei tempi del racconto, gli antagonisti che compaiono all’improvviso sulla scena, queste storie somigliano più alle narrazioni autobiografiche che così tanti architetti-eroi del ventesimo secolo ci hanno lasciato a proposito dei loro progetti riusciti o falliti (per esempio Giancarlo De Carlo, richiamato in queste pagine5) che a una asciutta registrazione di quel fitto intreccio di relazioni che caratterizzerebbe, nelle ipotesi che sostengono il lavoro, la pratica di progetto. Si apre qui la questione della possibile sottovalutazione del peso che una lunga tradizione di canoni descrittivi e linguistici ha sulle descrizioni della pratica architettonica e del ruolo fondativo che questi codici culturali hanno storicamente avuto nella stessa definizione del campo disciplinare del progetto. È possibile assumere consapevolmente questi stereotipi narrativi per metterli al servizio di un impianto teorico radicalmente rinnovato? O non è piuttosto necessario perseguire un rafforzamento della riflessione epistemologica sulle modalità della ricerca empirica e sulle strategie della generalizzazione, ragionando su come costruire modalità di osservazione e descrizione della realtà che siano maggiormente congruenti rispetto alle premesse6?
10La parola “efficacia” è centrale in questo lavoro, come nei precedenti lavori dei due curatori, e individua uno dei suoi obiettivi dichiarati: le questioni pratiche vengono sottoposte ai filosofi, ci viene detto, «con l’intento di trovare alcune vie per rendere più efficaci i progetti» (p. 8). La nozione non è oggetto di una definizione specifica all’interno del volume, anche se veniva discussa con qualche ampiezza in Teoria del progetto architettonico, dove l’analisi contrapponeva due possibili strategie, rispettivamente definite «bellica» e «comprensiva» e orientate la prima «al conseguimento di vincoli contrattuali efficaci» e la seconda «ad allargare, se necessario, le implicazioni di un contratto» (p. 267). I saggi qui raccolti riprendono la questione soprattutto per sottolineare che l’ipotesi di un’efficacia intesa come traduzione il più possibile lineare di un progetto in un’opera di architettura non è un obiettivo coerente con le premesse della ricerca, perché è la stessa definizione di progetto – dove il ritardo e la deviazione assumono un valore costitutivo – a mettere in discussione un rapporto di questo tipo. «Il muro ben progettato non è il buon progetto del muro», si legge a p. 122, e la differenza sta nel fatto che la realizzazione passa attraverso una serie di scambi e offre la «possibilità di iscrivere il dissenso, che [il progetto] immancabilmente incontrerà non appena diventerà oggetto di una transazione» (p. 123). Nella discussione della possibilità di introdurre forme di innovazione nella pratica progettuale che chiude la loro risposta, Armando e Durbiano aggiungono a queste considerazioni un punto significativo: che proprio la produzione di teoria sia una delle strategie che il progetto può perseguire per guadagnare maggiore efficacia. Una delle coppie concettuali che vengono proposte a proposito dell’innovazione è quella tra innovazione indipendente e dipendente, «ovvero tra pratiche di ricerca che gli architetti possono svolgere con le loro mani, e pratiche che necessitano filiere articolate di competenze e risorse tecnologiche esterne». Se nella seconda categoria rientrano soprattutto i dispositivi di progettazione digitale, la prima categoria è essenzialmente identificata (lo mostra bene un diagramma a p. 145) con la capacità del progettista di sviluppare un’autoriflessione sulla propria azione: gli esempi inclusi altro non sono che i libri pubblicati dagli stessi autori, questo – per il momento – escluso.
11In questo e in altri punti, Critica della ragione progettuale suggerisce che una riflessione condotta a partire da un’esperienza pratica alla pratica sia necessariamente destinata a ritornare, contribuendo a definire per il progetto di architettura una strategia di azione più incisiva. Sarebbe sul piano pratico che si dovrebbe misurare la bontà delle considerazioni qui proposte e i primi beneficiari dei risultati della ricerca dovrebbero forse essere gli stessi architetti che l’hanno condotta. Visto in questi termini, il volume sarebbe da considerare soprattutto come una risposta, di natura più pragmatica che teorica, alla debolezza dello statuto della professione dell’architetto nelle società contemporanee. Perché, allora, una ricerca di questo tipo dovrebbe interessare un pubblico più ampio? Fino a che punto una maggiore efficacia dell’azione progettuale è un obiettivo che lettori non necessariamente vicini ai problemi della pratica professionale possono essere chiamati a condividere e far proprio? Sono domande che ricevono un’attenzione tutto sommato limitata all’interno di un lavoro dove è piuttosto l’assunzione esplicita di un punto di vista specifico, quello degli architetti, ad essere vista come il fondamento stesso della scientificità delle osservazioni che vengono proposte. E tuttavia proprio il dialogo con i filosofi apre ad altre direzioni possibili e a un ampliamento dello sguardo, offrendo ai lettori spunti di largo respiro su questioni come il rapporto tra tecnica e modernità, tra conoscenza e decisione. Si intravede qui, all’orizzonte, una delle maggiori sfide che questa ricerca si trova oggi di fronte. È possibile che Critica della ragione progettuale sia la testimonianza di un punto di flesso, del momento in cui una riflessione partita da una serie di domande sulle specificità delle pratiche dell’architettura e sulla possibile rifondazione di un sapere disciplinare appare sul punto di riarticolare su nuove basi, e per un nuovo pubblico, un discorso su ruolo, legittimità, compiti dell’expertise architettonica all’interno di società democratiche alle prese con processi di rapido e profondo cambiamento.