- 1 La letteratura sui Border Studies è considerevole. Per la linea di ricerca che qui si sviluppa, mag (...)
1La riflessione sul tema dei confini territoriali è oggi all’ordine del giorno sia nel dibattito pubblico sia in quello accademico, tanto da far nascere un campo di studi che taglia sagittalmente l’intera sfera del sapere, dalla politologia alla geografia, dall’economia all’urbanistica, dal diritto alla teologia, e che si coagula nella molteplicità di analisi prodotta dai Border Studies1.
2Profondi mutamenti nell’articolazione politica ed economica dello spazio globale hanno fatto del confine un punto dirimente nell’agenda politica e accademica. Questo perché quegli stravolgimenti dell’ordine spaziale moderno hanno messo in crisi profonda l’immagine vestfaliana, la cui grana ancora struttura il nostro mondo, dei confini politici quali linee rigide, stabili, fisse, determinate, evidenti e limpide.
3Un cenno ai cambiamenti maggiormente evidenti che attraversano lo spazio globale mostra che l’immagine metaforica del confine come “linea”, determinata a tal punto da divenire una seconda natura dello spazio politico globale, non è più in grado di restituire la complessità del mondo che abitiamo. Un paio di esempi in questo senso: il massiccio processo di “globalizzazione” che da decenni determina la geografia politico-economica dello spazio globale; l’emergere di ondate migratorie dovute sia a ragioni contingenti (persecuzioni religiose e politiche) sia a ragioni strutturali di crescente inabitabilità di specifiche zone del mondo (migrazioni climatico-ambientali); le strategie politiche di fortificazione materiale condotte da numerosi Stati europei ed extra-europei; l’aprirsi di una network society a seguito di processi che interessano sia il campo delle informazioni (la diffusione mondiale del web, l’affermarsi di social network quali Twitter e Facebook) sia il campo dell’economia (l’imporsi del capitalismo finanziario); l’affermarsi di una sensibilità universale per il tema dei diritti umani, considerati come primari rispetto al particolarismo politico dei singoli Stati, e dunque strabordanti rispetto ai confini che determinano l’estensione delle sovranità statali; il ruolo crescente di organismi sovranazionali (Unione Europea, Ong, Banca mondiale) nei processi decisionali. Questi sono solo alcuni dei temi che, interessando direttamente il ruolo dei confini nell’articolazione dello spazio globale, hanno contribuito a farne una questione di assoluta rilevanza. Laddove la congerie postmoderna si è sforzata di pensare, insieme al superamento dell’impianto moderno, l’annichilirsi del confine e l’aprirsi di un borderless world, un’analisi maggiormente sorvegliata invita piuttosto a una loro problematizzazione.
- 2 Van Gennep 1981: 22-34.
- 3 Ivi: 16.
4Non bisogna tuttavia limitare l’importanza del tema alle contingenze del secolo. Esso ha una portata diacronica che abbraccia l’intera storia dell’umano, perché, come rileva un classico dell’antropologia novecentesca quale Les rites de passage di Arnold van Gennep, ne scolpisce i caratteri fondamentali. Van Gennep mostra come il rito di passaggio, inteso come transito da una fase della vita a un’altra, sia reso possibile non solo dall’investimento simbolico che la comunità opera sul transito, ma dalla spazializzazione di tale investimento. Di questa spazializzazione del simbolico sono esempi eccellenti tutti quei riti fondativi sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta come l’attraversamento del confine che separa la dimensione protettiva del villaggio da quella pericolosa della foresta2. Il riconoscimento simbolico di spazialità differenti, la cui differenza è determinata dall’esistenza di confini, diviene la condizione di possibilità del passaggio stesso dell’individuo da una fase esistenziale a un’altra, passaggio a tal punto “radicale” da essere ammantato di significati «magico-religiosi»3.
- 4 Cfr. Sferrazza Papa 2019: 23-58.
- 5 Diener, Hagen 2012: 1.
- 6 Nail 2016: 4.
5Queste riflessioni preliminari possono essere ricondotte a una concezione dello spazio come condizione materiale di qualunque prassi umana, un apriori fisico dell’esperienza. Ciò non significa ovviamente che l’uomo faccia dello spazio una materia inerte di cui è sovrano assoluto, sì il contrario: la vita dell’umano è in costante relazione, attiva e passiva, con lo spazio ch’egli abita4. In questo senso una definizione dell’essere umano suggestiva e ricca di implicazioni teoretiche è quella suggerita da Diener e Hagen, i quali lo descrivono come un geographic being: «gli umani tracciano linee che dividono il mondo in specifici luoghi, territori e categorie. Siamo “esseri geografici” per i quali la creazione di luoghi, e di conseguenza il processo di produzione di confini, sembra naturale»5. L’essere umano non si limita ad adattarsi all’ambiente in cui vive, ma lo organizza e modifica attivamente. I confini sono il primo strumento di organizzazione formale dello spazio, poiché grazie a essi si istituiscono spazi differenziali che stabiliscono o ribadiscono differenze sociali, politiche, culturali ed economiche tra gruppi umani. Nei processi sociali e politici questo passaggio di differenziazione spaziale è cruciale, e molto acutamente Thomas Nail rileva che «una società senza alcun tipo di confine, interno o esterno, non è altro che ciò che chiameremmo la terra o il mondo»6: ossia, non è una società ma un puro dato geologico.
6I processi di identificazione con membri appartenenti allo stesso gruppo sociale, per esempio, sono possibili precisamente in virtù della separazione di un gruppo da un altro, una separazione che non è solo simbolica, ma che passa da una differente collocazione geografica. In questa concezione dello spazio, i confini rappresentano la condizione di possibilità del riconoscimento dell’alterità e, dialetticamente, del riconoscimento della propria identità.
- 7 Cfr. Jones 2016.
- 8 Balibar 2002: 77.
7Tale separazione spaziale, essendo intrinsecamente politica, può certo coprire un’ampia gamma di possibilità: dal vicinato benevolo al conflitto sanguinoso, dalla contrattazione giuridica tra le parti allo sterminio organizzato, dallo scambio di doni all’invasione. La possibilità che la dialettica tra le due parti si risolva in un’inimicizia assoluta non significa però che l’esistenza del confine implichi di per sé la svalutazione dell’alterità, come viceversa certa letteratura critica ha sostenuto7. Ed è appena il caso di ricordare che anche all’interno della stessa comunità il confine possiede, secondo la bella definizione di Étienne Balibar, una natura intrinsecamente “polisemica”, dal momento che «non esiste mai nello stesso modo per individui appartenenti a differenti gruppi sociali»8.
8La produzione di confini è insomma una caratteristica propria della socialità umana, che contempla sia rapporti di buon vicinato sia relazioni altamente conflittuali, e proprio per questo va analizzata con serietà scientifica e non con presupposizione ideologica. In che modo la filosofia può contribuire a questo esercizio di serietà?
- 9 La pressoché totale assenza di un approccio filosofico nei Border Studies appare evidente dalla let (...)
9Nonostante il crescente interesse accademico per il tema dei confini, un punto rimane oscuro e poco esplorato, ed è un punto che concerne la riflessione filosofica in senso stretto. Se vi è un ruolo per la filosofia nei Border Studies9, è quello di una rigorosa concettualizzazione dell’oggetto d’indagine. Di cosa parliamo esattamente quando parliamo di confini? È possibile definire in maniera esaustiva cosa sia un confine? E se sì, in quali termini?
10La riflessione ontologica ha tentato di fornire una definizione del confine intendendolo come “oggetto”, rifacendosi in questo senso a una metafisica ben precisa degli enti del mondo. Il confine, in questo spezzone della riflessione filosofica contemporanea, viene pensato come un oggetto dato una volta per tutte, come un fenomeno del mondo del quale, una volta accertata l’esistenza, è possibile ricostruire sia le condizioni di esistenza, sia le regole che lo istituiscono.
11Questo approccio tuttavia semplifica moltissimo la natura del confine. Pensare la natura del confine implica infatti ragionare primariamente sulla sua costituzione, su ciò che precede il suo darsi come ente, ma proprio per questo necessariamente lo condiziona. Una volta riconosciuta la natura fiat del confine10, ossia il suo essere un prodotto artificiale dell’agire umano, la domanda sul suo essere presuppone la domanda sulle sue fasi costitutive. Non si può insomma esaurire una teoria del confine pensandolo come ob-jectum, come ciò che immobile e stabile ci si para innanzi, ma è necessario analizzarlo in quanto processo in costante divenire: sostituire al border il bordering, all’ontologia l’ontogenesi.
- 11 Castells 1996; Bauman 2000.
- 12 Per una critica puntuale del confine come metafora cfr. Vila 2003: 307-310.
12La domanda ontologica sull’essere del confine rimane in ogni caso fondamentale per una concettualizzazione dei Border Studies. Per questa ragione, l’approccio che proporremo si pone in maniera profondamente critica nei confronti di una tendenza significativa nel dibattito accademico ad analizzare le tematiche spaziali in termini “metaforici”. Due prospettive influenti nel dibattito scientifico come quella di Castells e di Bauman sono sintomatiche di questa tendenza11: entrambi forniscono potenti metafore per descrivere la topologia dello spazio contemporaneo (il flusso e il liquido), ma questo apparato metaforico diviene a tal punto onnicomprensivo da fagocitare la concettualizzazione della metafora stessa, che diviene così o un presupposto sociologico o un espediente retorico. La metafora divora la teoria, e nella metafora finisce per essere inglobata la nozione stessa di confine12. Il confine, però, non è affatto una metafora, bensì un fenomeno sociale altamente complesso che incide materialmente sulla vita umana e non. Lungi dal metaforizzarlo, è necessario esercitare su di esso una massiccia concettualizzazione.
13A partire da questo quadro preliminare, il saggio sviluppa una prospettiva ontogenetica: quali sono gli elementi costitutivi delle pratiche di bordering, quali gli agenti sociali in gioco, quali le condizioni di possibilità per la creazione di un confine. Lo scopo è svelare ciò che questa “semplice linea” nasconde. A tal fine, il prosieguo del saggio è così strutturato: nel paragrafo 3 verranno analizzate e problematizzate le riflessioni interne all’ontologia sociale sul tema del confine come oggetto; nel paragrafo 4, a partire da un celebre passaggio di Rousseau, si proporrà una fenomenologia del bordering; nel paragrafo 5 verrà sostenuta la necessità, a partire dalle analisi svolte, di concepire il confine come un dispositivo in senso foucaultiano, ossia il risultato contingente del combinarsi di elementi sia materiali sia immateriali, di pratiche sociali e di pratiche linguistiche.
- 13 Nel saggio verranno prese in considerazione due prospettive dell’ontologia sociale a nostro avviso (...)
14È nella cornice dell’ontologia sociale che, per la prima volta, il confine come fenomeno sociale è stato sottoposto a serrata indagine filosofica. La prima proposta teorica di sicuro rilievo in questo senso è quella di John Searle. Nel saggio La costruzione della realtà sociale Searle prende in considerazione l’esempio del confine per dimostrare la regola costitutiva della sua ontologia sociale, ossia l’assegnazione di funzione.
- 14 Searle 1996: 48-49 (corsivi nostri).
Si consideri una tribù primitiva che inizialmente costruisce un muro intorno al suo territorio. Il muro è un esempio di funzione imposta in virtù della pura fisica: il muro, supporremo, è alto abbastanza per tenere fuori gli intrusi e dentro i membri della tribù. Ma supponiamo che il muro gradualmente si evolva dall’essere una barriera fisica per diventare una barriera simbolica. Si immagini che il muro gradualmente si sgretoli in modo che la sola cosa rimasta sia una fila di pietre. Ma si immagini che gli abitanti e i loro vicini continuino a riconoscere la fila di pietra come ciò che demarca i confini del territorio in modo tale da influenza il loro comportamento. […] La fila di pietre ora ha una funzione che non viene svolta in virtù della pura fisica, ma in virtù dell’intenzionalità collettiva. […] La fila di pietre svolge la medesima funzione di una barriera fisica, ma non fa ciò in virtù della sua costruzione fisica, ma perché le è stato assegnato collettivamente un nuovo status, lo status di un demarcatore di confini14.
15Il confine è qui ciò che si ottiene una volta che alla funzione di un oggetto demarcante uno spazio viene stornata la sua materialità: il confine è un muro senza pietre, che ha un significato per i soggetti non in virtù della sua concretezza fisica, ma perché è l’oggetto di un’assegnazione di status che sposta la sorgente della funzione dalla materia all’intenzionalità collettiva.
16Il problema dell’argomento di Searle è che presuppone un oneroso impegno d’astrazione dal contesto materiale e reale entro il quale un confine prende forma. Bisogna supporre che il muro sia abbastanza alto; bisogna supporre una decadenza fisica abbastanza rapida da permettere agli abitanti di apprezzare la continuità funzionale tra il muro e il confine (di non dimenticarsi, insomma, che quello è il confine di quel muro: l’argomento di Searle funziona presupponendo la buona memoria dei membri della tribù); bisogna infine supporre che gli abitanti vedano in quella sottile linea il medesimo oggetto fisico ormai assente, e che riempiano quell’assenza assegnando al confine una funzione precedentemente demandata alla fisicità della pietra.
17Questo processo d’astrazione dalle condizioni reali, questo disinteresse assoluto per la condizione sociale e territoriale entro cui il confine prende forma, solleva il legittimo dubbio che l’esempio di Searle non sia davvero tale, ossia che non rappresenti il caso paradigmatico di un processo generale di bordering. Certo, Searle si limita a ricorrere a questo esempio per introdurre la teoria dell’assegnazione di status, ma rimane legittimo derivarne la tesi generale per cui tutti i confini emergono una volta sottratta al muro la sua pesantezza materiale.
18Come rileva Maurizio Ferraris, questa conclusione appare paradossale dal momento che nella realtà sembra accadere precisamente il contrario. Nonostante Searle presenti l’istituzione di confini come esito del passaggio dal fisico al simbolico, uno «sviluppo alquanto naturale e innocente»15, teoreticamente ciò che non è chiaro è precisamente il passaggio che conduce dall’oggetto fisico all’oggetto sociale. Per due ragioni.
- 16 «Le postazioni di frontiera, le torrette di guardia, i fili spinati e tutto il resto tenderanno, co (...)
- 17 Ferraris 2009: 170.
- 18 Ferraris 2009: 171.
19In primo luogo, il rapporto fisico-sociale va di fatto invertito 16. Il muro di Berlino, ad esempio, è la materializzazione di una separazione tra blocchi ideologici, politici, culturali, ma è soprattutto la trasposizione fisica su pietra di una lettera di Erich Honecker, ossia di un documento la cui fisicità è tutt’altro che decisiva17. Chiosa dunque Ferraris: «[l]a situazione normale è che prima si firma un documento, poi si traccia un confine, infine sorgono muri, garitte e cani poliziotto, mentre l’idea di Searle è, piuttosto curiosamente, che i confini siano ciò che resta una volta che muri, reticolati, garitte e cani poliziotto se ne sono andati»18.
20La seconda ragione è che il muro dal quale deriva, per sottrazione fisica, il confine, prevede tutta una “socializzazione” che non può in alcun modo derivare dalla pura materialità. Se il muro può diventare un confine è perché lo è già, e lo è già perché la comunità lo riconosce in quanto tale. Questa attività di riconoscimento della funzione sociale del muro ne eccede l’ottusa materialità, perché non può essere desunta da essa. Searle, che pensa “modernamente” il confine perché lo intende come linea sul terreno, non riconosce che è proprio questa immagine semplificata a non poter rendere conto del contesto materiale entro il quale il confine prende forma in quanto tale. Se l’argomento di Searle non funziona, è perché viziato da una prospettiva ab origine fallace, che fa coincidere il confine con la linea.
- 19 A differenza del “testualismo forte”, per il “testualismo debole” l’equivalenza tra esistenza e dim (...)
21La seconda analisi che prenderemo in considerazione è quella di Maurizio Ferraris. Egli, sulla scia della grammatologie di Derrida, sviluppa una teoria dell’ontologia sociale che definisce “testualismo debole”, ponendo al centro della realtà sociale non più il fenomeno dell’assegnazione di funzione, ma il documento19. In questo modo, Ferraris sgrava la materia dalla responsabilità di costituire l’origine dell’oggetto sociale, responsabilità che assegna all’atto dell’iscrizione.
22Per ottenere un oggetto sociale è “sufficiente” un atto inscritto di cui abbiano memoria almeno due soggetti. Reciprocamente articolate, registrazione e memoria sono le condizioni necessarie e sufficienti per la produzione di oggetti sociali. All’interno di questo quadro teorico, il confine è un caso particolare, se pur ai limiti del paradigmatico, del processo di istituzione di un oggetto sociale. Ponendo deliberatamente la propria teoria come critica radicale della prospettiva di Searle, Ferraris muove dai suoi stessi esempi, di cui poco sopra abbiamo visto la serrata confutazione.
23Per quanto concerne la riflessione sui confini, il problema dell’impostazione ferrarisiana può essere così posto: spostando il baricentro sull’attività documentale – che ha un ruolo decisivo nella realtà sociale e che Ferraris ha avuto il merito di sottolineare con forza –, il testualismo debole si ritrova nell’eccesso opposto rispetto al realismo debole di Searle. Il testualismo debole infatti espelle del tutto l’elemento materiale dalla costituzione del confine, il quale a questo punto «risulta del tutto indifferente a ciò che lo implementa fisicamente»20. Tuttavia, la performatività sociale di un confine sembra intuitivamente dipendere anche – certo: non solo – dalla sua costituzione fisica.
24Ferraris insiste con particolare vigore sulla dimensione immateriale; il confine non è un oggetto sociale perché materialmente presente in quanto tale, ma perché è il risultato di una serie di atti documentali che prima ne stabiliscono l’esistenza, e poi la rinforzano certificandola. È l’accumulo documentale-burocratico a conferire maggiore o minore peso ontologico al confine. Il problema però è che i confini reali sono fenomeni sociali costituiti sempre da una controparte fisica che non è una semplice implementazione dell’oggetto-confine, ma che lo costituisce nella sua essenza. Il che non significa certo che l’elemento fisico fondi in quanto tale il confine, ma nemmeno che gli sia «del tutto indifferente». Non esiste nel mondo un solo confine unicamente testuale.
25Anche in questo caso il problema consiste nell’interpretare il confine come un oggetto semplice, come una linea su una mappa, astraendolo dalla dimensione concreta, storica, nel quale esso emerge. Se fosse una linea su una mappa, il confine senza dubbio consterebbe di una quantità pressoché nulla di concretezza fisica; ma il confine reale non è una linea su una mappa. Tra la linea sulla mappa e la sua materializzazione fisica vi è un’eccedenza ontologica che non riesce a essere risolta semplicemente riducendo il confine a oggetto sociale. La soluzione che proponiamo è quella di estendere la natura del confine oltre quella di semplice oggetto, cessando di pensarlo in quanto tale, in modo da rendere conto di tutte le dimensioni che concorrono nella sua costituzione.
26L’ontologia sociale cerca di definire che tipo di oggetto sia il confine, e nel far ciò si sforza di ricostruirne le modalità di esistenza. I risultati che emergono da quest’analisi non sono tuttavia pienamente soddisfacenti perché non catturano né la complessità del border, né quella del bordering. È necessario dunque un approccio teorico differente.
- 21 La tesi centrale del Discorso, ossia il riconoscimento della decadenza che accompagna il passaggio (...)
27Facciamo un balzo nel passato di quasi 3 secoli. Nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1755) Rousseau propone una ontogenesi del confine ampiamente ignorata dalla critica21. Secondo Rousseau il gesto originario che sabota l’innocenza umana è l’introduzione di una discontinuità territoriale. L’uguaglianza tra gli uomini si sfascia una volta tracciato un confine, poiché in virtù di esso viene immediatamente introdotto nello spazio comune l’istituto della proprietà privata. Tuttavia, questo gesto originario è altamente complesso, e di questa complessità è necessario dar conto per meglio individuare le caratteristiche di un confine.
- 22 Rousseau 1972: 60.
- 23 Brown 2013: 38. Rivendica la necessità per i Border Studies di presupporre un rapporto vincolante t (...)
28È noto l’incipit della seconda parte del Discorso: «il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile»22. È stato notato che Rousseau s’inscrive in una tradizione di pensiero che interpreta il gesto del “tirare un confine” come fondamento stesso della società civile, vedendo nel confine ciò che è «preliminare a qualsiasi ordine politico e giuridico»23, dal quale cioè questo stesso ordine rampolla. La materialità del gesto diventa, per questa tradizione di pensiero, un vero e proprio atto performativo politico, che il Discorso di Rousseau esibirebbe in maniera parossistica.
29Il testo rousseauviano è tuttavia ben più stratificato di quanto questa suggestiva interpretazione potrebbe a primo acchito suggerire. Ad analizzarlo con attenzione, emerge infatti come la fondazione della “società civile” attraverso l’istituzione di un confine sia il punto d’approdo di una serie di fasi che vengono distinte cronologicamente, ma che logicamente si intrecciano punto per punto. Ne individuiamo tre.
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La prima è una fase “materiale”, che si risolve nel cingere il terreno. L’individuo agisce su di uno spazio continuo privo di confini, introducendo una discontinuità fisica. Segmenta lo spazio mediante un recinto, uno steccato, o semplicemente tracciando una linea sul terreno. Il confine è tirato, ma non è ancora possibile in questa fase affermare che esso esista in quanto fenomeno sociale. Un individuo che tira una linea introduce una discontinuità ontica, ma non produce un confine.
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La seconda è una fase linguistico-discorsiva: per produrre un effetto sociale, a questa inscrizione spaziale va aggiunto un atto locutorio mediante il quale il soggetto dichiari che quella partizione del mondo corrisponde a una sua differenziazione politico-giuridica. Essa permette di identificare un mio e un tuo. Senza questa dichiarazione, il confine non avrebbe alcun effetto. Dopo aver cinto il terreno, il fondatore della società civile se ne assume la responsabilità affermando un diritto proprietario, dicendo “questo è mio”.
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- 24 L’importanza della credenza per il passaggio di Rousseau è sottolineata in Smith, Zaibert 2001: 271
La terza fase chiude l’ontogenesi del confine. Un confine è tale solo e soltanto nel momento in cui qualcuno è disposto a credere all’affermazione di chi, tracciandolo, rivendica un diritto di possesso24. Senza questo passaggio, le due fasi precedente si risolvono in un nulla di fatto. Ciò che è decisivo è dunque l’accento posto da Rousseau su un complesso atto sociale quale la credenza. Dopo aver cinto il terreno affermandone la proprietà, il soggetto necessita che qualcuno capisca ciò che sta dicendo, che ne riconosca il significato e, soprattutto, che gli creda. In assenza di questa complessa serie di atti sociali, non è possibile istituire un confine. La possibilità dell’esistenza del confine si fonda insomma sull’esistenza di una società in miniatura che ne riconosca la legittimità.
- 25 Raffestin 1984 ha teorizzato un simile embricarsi per quanto concerne le pratiche di “territorializ (...)
30Generalizzando questa articolazione, possiamo dire che qualunque confine si costituisce come la risultante delle tre fasi individuate da Rousseau. Vi è una fase materiale, una linguistico-discorsiva, una sociale. Ciò significa che il confine non si risolve in nessuna di esse, ma è il nodo che le allaccia tutte e tre. Nessuna di queste tre componenti risulta privilegiata in punto di principio, ma è anzi proprio la loro eterogeneità a restituire la complessità del confine che la riflessione ontologica non considera quando, interpretandolo come oggetto, lo pensa come semplice linea. Per come emerge dall’ontogenesi implicita nel testo di Rousseau, il confine è allo stesso tempo materiale, discorsivo e sociale25; esso è l’embricarsi di questi differenti momenti che solo nella loro articolazione complessiva lo costituiscono in quanto tale.
31Questo esercizio ermeneutico ci conduce al cuore del nostro discorso: come approcciare metodologicamente la complessità ontologica del confine? Come restituire l’eterogeneità degli elementi e delle fasi che lo costituiscono? Come è possibile pensare il confine mediando universale e particolare, teoria e dato empirico? Un problema ben evidenziato da Paasi: «se tutti i confini sono unici, su quali fondamenta possiamo avanzare argomenti teoreticamente convincenti su di essi, e su quali fondamenta questi argomenti possono risultare universalmente validi?»26.
32Constatata la complessità del fenomeno del bordering, una strada proficua da percorrere è quella di concettualizzare il confine come un esempio di ciò che Michel Foucault ha inteso con il termine “dispositivo”.
33Foucault utilizza la nozione di “dispositivo” come un concetto operativo in grado di catturare la complessità e la eterogeneità delle relazioni tra saperi e poteri. È proprio questa eterogeneità che qui interessa rilevare, perché la ritroviamo dispiegata nel fenomeno del confine. Foucault definisce il “dispositivo”
un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo stesso è la rete che si può stabilire tra questi elementi27.
34Un dispositivo è un assemblaggio coerente di elementi eterogenei, materiali e immateriali, che concorrono parimenti a produrlo.
35La complessità ontologica del confine, per come è emersa dall’analisi finora condotta, suggerisce di pensarlo come un dispositivo in senso foucaultiano. Il confine non è riducibile a un “oggetto”, che già etimologicamente rimanda a un ente definito una volta per tutte, a un qualcosa che è ob-jectum, che sta passivamente e una volta per tutte dinnanzi l’osservatore. Il confine è piuttosto un insieme di elementi eterogenei che concorrono tutti quanti sia nella sua definizione “ontica”, sia nel processo mai definitivo della sua produzione. Se il confine non è dato una volta per tutte, se cioè non può essere pensato come “oggetto”, è perché gli elementi che combinandosi lo producono non stanno mai fra di loro in un rapporto fisso, ma sempre variabile.
36Pensiamo a uno dei confini per eccellenza della nostra epoca, quello israelo-palestinese. Esso non è in alcun modo riconducibile a una “linea” sulla mappa – e infatti la collocazione “geografica” dei territori è altamente contesa –, né a un determinato momento storico a partire dal quale è collettivamente possibile indicarlo. È vero che il confine viene fissato provvisoriamente in seguito ai trattati del 1948, ma è altrettanto vero che, da un lato, gli argomenti utilizzati da ambo le parti rimandano precisamente a un passato biblico dal quale tentano di attingere legittimità, e dall’altro lato è evidente ch’esso venga continuamente modificato al punto tale da non poter essere mai individuato una volta per tutte.
37Il problema dei confini contemporanei non è allora che «non sono più semplicemente linee su una mappa»28, ma che non lo sono mai stati. È l’ontogenesi del confine a negare la validità della sua riduzione a “linea”. Ciò su cui una teoria filosofica del confine dovrebbe mettere l’accento è dunque la loro costitutiva storicità, ossia la necessità di passare metodologicamente dal border al bordering.
38È necessario altresì sottrare il confine alla sua mera datità fenomenica. Se è vero che il confine è un dispositivo, allora esso non è solamente un assemblaggio di elementi eterogenei, ma anche un processo che si dispiega nella storia, un continuo riorganizzarsi di tutti quegli elementi materiali e immateriali che concorrono nel produrlo. I confini sono manifestazioni di pratiche sociali, e dunque mutano fenomenicamente in virtù delle pratiche che li costituiscono e modificano.
39I confini empirici non sono linee immaginarie, ma un inesausto processo di ridefinizione di ambienti politici e territoriali; un processo che tiene insieme la mutevole materialità del confine, le forze armate disposte a sua protezione, i discorsi che lo legittimano, e che si cristallizza nel fenomeno del confine. Il quale, per questo motivo, non può mai essere sottratto alla dimensione oggettiva, storica, reale e geografica nella quale emerge.
40Attingendo da una variegata messe di autori e tradizioni, abbiamo mostrato che l’ontogenesi del confine è un complesso intreccio di elementi eterogenei e di natura radicalmente diversa: materiale fisico, linguaggi, simboli, atti sociali. La metafora del confine come linea è analiticamente debole e concettualmente erronea: nessun confine è davvero solo una linea. Ogni confine ha una storia, ossia emerge a partire da un contesto materiale che non può essere espulso dalla sua costituzione. Questa stessa storia materiale non cessa mai di definirlo: il confine è un processo in continuo divenire. Pensarlo come un dispositivo permette di non astrarlo dalle condizioni materiali nelle quali dispiega i suoi effetti e nelle quali si presenta fenomenicamente.
41In conclusione: è emersa la necessità per i Borders Studies di un approccio filosofico che renda conto dei concetti e dei fenomeni presi in esami. Si è rilevato che i tentativi in tal senso finora condotti hanno certo aperto una strada verso una concettualizzazione dei confini, ma avendo assunto la metafora della linea come costitutiva della loro natura, si sono preclusi la possibilità di restituirne la complessità ontogenetica. Per superare questa difficoltà, nell’ultimo paragrafo si è proposta un’interpretazione del confine come dispositivo in senso foucaultiano, ossia un insieme eterogeneo di elementi materiali e immateriali. In questo modo si è sottolineata l’impossibilità di ridurre il confine alla sua configurazione fenomenica, così come a regole costitutive e istitutive poste al di fuori dell’orizzonte storico-materiale, e si è piuttosto insistito sul carattere processuale del confine. Analiticamente tale cornice teorica è vantaggiosa, perché permette di studiare i confini particolari, sempre necessariamente differenti l’uno dall’altro, ma ancorandoli a un modello generale incentrato sull’articolazione delle differenti dimensioni che li costituiscono.
42Riteniamo che questa prospettiva possa fornire ai Border Studies una solida base teorica e una concettualizzazione efficace del loro oggetto di studio, mediando tra una visione eccessivamente astratta e generica del confine come “oggetto” e le infinite differenze delle varie singolarità empiriche, delle quali una teoria filosofica deve cercare di restituire il minimo comun denominatore.