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HomeNumeri71Il filo e la marionetta

Abstract

La nozione di progettare ha un’ambiguità tale da sfidare i capisaldi concettuali che siamo abituati a usare, basati su coppie oppositive come ontologia-epistemologia, o teoria dell’architettura-teoria del progetto. Rompere queste coppie per snidarne le ambiguità è particolarmente ostico perché richiede uno sguardo esterno e terzo, uno sguardo che superi le trattazioni e ne riporti gli effetti – e non le trattazioni stesse – nell’agire. Per questo, l’articolo propone una lettura parallela sui temi: da un lato il progettare nell’ottica della riflessione filosofica, dall’altro in quella strettamente legata all’agire dell’architetto. Senza intersezioni se non l’organizzazione per macro-temi. Al lettore è lasciato il compito, e la libertà, di costruire i ponti tra le due letture, nell’idea che gli spunti di una parte nutrano evoluzioni possibili anche per l’altra.
Come due facce della stessa medaglia, le parti sono legate da una concordanza di pensiero e di intenti, e da una serie di riscontranze nei risultati dei processi logici, che offrono due dimostrazioni parallele. Ma al tempo stesso, coerentemente con la tesi proposta, il loro contenuto non può, ai fini del futuro che genera e influenza, considerarsi concluso nelle sue parole, senza cioè che quei ponti, volontariamente o meno, siano creati. Non si propone quindi un dialogo tra sordi bensì, come nella quarta sinfonia di Charles Ives, due orchestre che suonano contemporaneamente due parti indipendenti, associate solo da un coro in distanza. Quel coro, quel referente, è il progettare, ovvero l’azione di conoscenza, svelamento e decisione tentativa e auspicativa del futuro: e la chiave di rottura concettuale è uno sguardo che guarda al progettare come a un efficace sviluppo strategico del potenziale.

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Note della redazione

Nella versione online dell’articolo, le due parti sono articolate in paragrafi successivi caratterizzati dallo stesso titolo: anche se concepito e curato da entrambi gli autori, quelli con la denominazione “A” sono attribuibili a Carlo Deregibus, quelli con la denominazione “B” ad Alberto Giustiniano.
In the online edition of the paper, the side-by-side reading was changed into consecutive paragraphs sharing the same title: although the paper was devised and edited by both authors, those with the “A” titles are by Carlo Deregibus, while those with the “B” titles are by Alberto Giustiniano.

Testo integrale

La natura del progettare - A

1Il progettare è qualcosa che avvolge gran parte della nostra vita. Progettiamo ogni volta che ci alziamo dal letto per fare colazione, e ogni volta che vogliamo andare da qualche parte. Progettiamo quando decidiamo cosa fare nel weekend, quando scegliamo un ristorante, quando organizziamo una serata con gli amici. Perché progettare significa immaginare qualcosa nel futuro e designarne (non a caso design in inglese) le condizioni per la realizzazione. Certo, non dobbiamo progettare proprio tutto: in effetti, gran parte della nostra vita è fatta di routine accuratamente raffinate, meccanismi che automatizzano le nostre reazioni. E anche se le situazioni variano continuamente, possiamo per lo più riciclare le routine attraverso meccanismi di analogia cognitiva raffinati nel corso della vita (Hofstadter-Sander 2011). Ma qualora la routine venga troppo forzata o, in altri termini, quando interverrà un fattore di novità, ecco emergere il progettare: cioè un atto di coscienza, consapevole o meno, che a fronte di una valutazione anche sommaria delle possibilità che si aprono di fronte al soggetto, in una certa situazione, porta a una scelta finalizzata a fare qualcosa nel futuro.

2Questa definizione del progettare, estremamente comprensiva, consente di tracciarne una serie di caratteristiche generiche invarianti.

  • 1 L’autore non presuppone però una dimensione “autoriale”: cioè in cui si vuole la riconoscibilità, l (...)

3La prima è che il progetto richiede un qualche tipo di autore: l’atto progettuale, poiché si caratterizza in ogni caso come atto creativo che risponde a un bisogno in qualche modo diverso da quanto risolvibile attraverso automatismi, non può avvenire senza un autore, sia esso un individuo singolo, un gruppo o un’entità1. La seconda è che è un atto finalizzato a qualcosa: non può esistere un progetto senza un fine di qualche tipo, sia esso la realizzazione di qualcosa di nuovo o un diverso modo di affrontare un problema esistente. La terza è l’inevitabile presenza di un elemento di novità, che non è solo ovvia conseguenza dell’esistenza del futuro in quanto non ripetizione del passato, ma è condizione essenziale perché ci si allontani dal polo della routine: la novità potrebbe derivare da nuove condizioni, o dalla scelta di affrontare in modo differente una situazione che potrebbe essere affrontata analogicamente.

4Queste invarianti saranno davvero tali? Varranno, ad esempio, per il progettare in architettura?

5Partiamo dalla prima invariante, la presenza di un soggetto. Intuitivamente, sembrerebbe ovvio che il soggetto sia un architetto, dato che si parla di progetto architettonico. Ma è davvero così? Anche altri soggetti possono progettare, ad esempio ingegneri e geometri: e ci sono maestri dell’architettura che non erano architetti, da Le Corbusier a Carlo Scarpa. E poi, quanti soggetti “fanno” un atto progettuale? Il committente, che per poter immaginare una operazione deve ovviamente aver “progettato” di costruire qualcosa? Colui che ha redatto il Piano Regolatore, che in fondo ha “progettato” le condizioni di quel costruire? O l’architetto incaricato? O ancora, chi nel suo studio effettivamente disegnerà, gestirà, curerà il progetto? Forse tutti loro: forse potremmo trovare infiniti soggetti che siano, in modo diverso, autori progettuali. L’invariante è verificata, ma fa intuire una complessità profonda.

6Lo stesso vale per la seconda invariante, la finalità. Perché, in effetti, le finalità sono molte, e si intrecciano, in un progetto di architettura. Consideriamo i soggetti di cui sopra: l’imprenditore avrà una finalità legata all’ottenimento di un guadagno; il regolatore mirerà a normalizzare le procedure e distribuire i diritti (secondo finalità, a loro volta, molteplici); e poi l’impresa, l’architetto e così via. Inoltre, le finalità coinvolgono l’agire altrui, non solo il proprio: ad esempio di un muratore che realizzi il muro disegnato da un architetto. Dunque, è molto meno chiaro il rapporto tra autore e fine: che, pure, esiste.

7Anche la terza invariante, l’elemento di novità che appare tanto ovvio, merita qualche approfondimento. Nella costruzione di un nuovo edificio, o infrastruttura, è tautologico: ma lo è anche qualora si restauri un edificio, che sarà infatti “rinnovato”; lo è nel caso di progetti virtuali, che spesso mostrano qualcosa di tanto nuovo da essere magari irrealizzabile; e lo è persino in quel caso, raro ma non impossibile, in cui il progetto proponga di non fare nulla, perché nel farlo costruirà un “nuovo” sguardo sull’oggetto del progetto. Certo, resteranno sempre miriadi di routine nella costruzione, ad esempio nelle lavorazioni tecniche (il cosiddetto “stato dell’arte”): starà al progetto stesso e ai suoi autori decidere se applicarle, se creare nuove singole routine, o ancora comporre routine esistenti in modo originale, in toni graduali di novità.

8Dunque, il progetto di architettura in effetti rispetta le invarianti che abbiamo definito, ma ha un grado di complessità tale da renderne difficile una definizione sbrigativa. Prendere in considerazione questa complessità significa guardare al progetto come a una mappa plurale, un insieme complesso in cui soggetti, finalità e riferimenti multipli sono tracciabili ma potenzialmente infiniti, ed emergono secondo gradualità diverse, come da un continente sommerso (Deregibus 2014: 179). L’architetto è solo uno dei naviganti, in questa mappa dai confini sfumati che, al tempo stesso, in modo formativo (Pareyson 1954: 18), con il suo proprio progettare, contribuirà a tracciare. Una sola cosa riunisce tutta questa mappa: l’architettura finale, quell’unico referente che costituisce, il punto da cui tutte le tracce partono e tutti i progetti singoli possono essere guardati in prospettiva. Vale la pena notare subito che la parola architettura qui diventa ambigua: perché il referente finale è un edificio, muto e definito (Moneo 1989). Chiamarlo “architettura” certo consente di ampliare l’ambito a progetti che non si occupano di edifici, ma in effetti ne impone una caratterizzazione qualitativa: un indizio che qualcosa sfugge alla logica, archeologica e processuale, della mappa delle tracce.

La natura del progettare - B

9Tra i termini più diffusi e pervasivi che compongono quel caotico brusio che ci accompagna come un sottofondo nella vita di tutti giorni, e a cui ognuno di noi volente o dolente partecipa a suo modo alimentando la corrente perpetua del senso comune, vi è senza ombra di dubbio quello di “progetto”. Dall’ambito professionale a quello privato l’esigenza di progettare qualcosa o se stessi sembra oggi essere l’unica modalità efficace di esistenza e autoriconoscimento. Si pensi, per fare solo qualche esempio, all’importanza assunta dalla progettazione quale strumento di governance e redistribuzione di risorse finanziarie in ambito politico-amministrativo a livello europeo oppure alla presunta necessità di rielaborare in termini progettuali la propria vicenda biografica e professionale come risposta più consona per un rapido reinserimento socio-lavorativo.

  • 2 “Progetto” in Abbagnano-Fornero (1998).

10Tuttavia, è curioso notare come la nozione di progetto non abbia quasi mai assunto un ruolo significativo nella storia della filosofia occidentale al punto che, sfogliando il dizionario di filosofia, essa si presenta quasi come un neologismo novecentesco. La definizione del lemma che troviamo si limita perlopiù al noto riferimento heideggeriano e al suo tratto esistenzialista, peraltro molto distante dalla consueta accezione data al termine nel linguaggio comune.2 Tale marginalità colpisce e forse indica qualcosa: a ben vedere, trattare in modo rigoroso la nozione di progetto è impresa ardua per il filosofo poiché l’oggetto di indagine appare immediatamente vago, i suoi rimandi e le sue parentele lessicali fanno riferimento a un immaginario ampio, difficile da tenere insieme.

  • 3 Ibidem.
  • 4 Cfr. Platone (Resp 509d-511e, 514a-517d) e Aristotele (Eth. Nic., VI, 4, 1139a 7-1140a 22). In part (...)

11La sensazione è quella di trovarsi al cospetto di un vero e proprio enigma epistemologico, dal momento che nel campo semantico del termine ritroviamo un’inestricabile promiscuità tra teoria e prassi. Se rileggiamo con più attenzione la canonica definizione ci accorgiamo che il suo significato oscilla tra una dimensione conoscitiva, «in generale l’anticipazione delle possibilità: cioè qualsiasi previsione, predizione», e una prettamente esecutiva, «predisposizione, piano, ordinamento […] nonché modo d’essere o d’agire che è proprio di chi fa ricorso a possibilità».3 Con questa ambivalenza l’atto del progettare sembra dunque esercitare una messa in discussione dell’organizzazione disciplinare classica fondata sulla disposizione gerarchica tra l’episteme, ovvero la conoscenza scientifica di carattere contemplativo capace di fornire una conoscenza profonda del cosmo, e l’universo delle technai, quella serie di abilità pratiche ed esperienziali utili al raggiungimento di un dato fine.4

12Più precisamente, il modo d’essere o d’agire progettuale si manifesta costitutivamente a partire dall’assenza di un supposto modello predeterminato di riferimento a cui si cerca di sopperire attraverso una performance in cui modellizzazione, applicazione tecnica e ricombinazione di circostanze empiriche e ideali risultano processi incistati gli uni negli altri senza soluzione di continuità. Il progettista contemporaneo non è dunque un contemplatore di idee come il geometra platonico – che dopotutto operando attraverso una rappresentazione sensibile delle forme (eidos) è comunque destinato a non poter superare il livello di conoscenza dianoetica – poiché la sua azione è mossa dal tentativo di produrre un effetto desiderato il quale, non essendo già disponibile, può prefigurarsi soltanto parzialmente, nella sua costitutiva incompletezza. In altri termini, il nostro bisogno di progettare una soluzione denota il presentarsi di un’incertezza che richiede attenzione: c’è qualcosa che non quadra, non sappiamo ancora perché e solo a fatica intuiamo una risposta.

13Questo significa che il conseguente tentativo di elaborare mezzi efficaci contribuirà nel contempo e indirettamente a designare i fini possibili desiderati, ovvero inedite configurazioni risolutive, collocando così l’azione progettuale nel mezzo della distinzione aristotelica tra poíesis e práxis. Il progetto dunque si delinea come una tensione proiettiva e propositiva il cui intento è allungare l’ombra del futuro sul presente al fine di rispondere a un bisogno ritenuto degno di attenzione ma la cui soddisfazione si presenta, dal punto di vista fattuale, come un’eventualità incerta a causa nell’ineliminabile oscurità che avvolge ciò che è ancora di là da venire.

14Alla luce di quanto detto, questa figura liminare diviene non soltanto sfuggente dal punto di vista epistemologico ma fortemente interlocutoria rispetto a una vasta gamma di concetti basilari della riflessione filosofica come verità, libertà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, i quali nella loro accezione consueta risultano improvvisamente inadeguati a coglierne la specificità. In effetti, se rimaniamo nell’alveo delle dicotomie classiche appena ricordate, il progetto o consiste nell’applicazione tecnico-meccanica di paradigmi, formulati da qualcuno o attingibili dal mondo, o produce liberamente nuova conoscenza contribuendo a porre le condizioni di possibilità del futuro processo di significazione attraverso nuove soluzioni.

15In entrambi i casi ci troveremo a doverne risolvere l’intrinseca duplicità, operando un processo di semplificazione dagli esiti se non propriamente contraddittori almeno contro-intuitivi. Nel primo caso dovremmo infatti negare al progettista autonomia e responsabilità dal momento che il suo sarebbe un sapere ignaro dei principi che lo guidano e lo rendono possibile. Egli agirebbe quindi sotto dettatura, quale mero esecutore incapace di elaborare soluzioni innovative. Nel secondo caso dovremmo invece impegnarci a chiarire la natura di questi nuovi significati elaborati in itinere, la cui genesi nega il carattere contemplativo della conoscenza rigorosa (epistemica) suggerendo una dimensione tipica del progetto anteriore e promiscua rispetto alla distinzione canonica tra teoria e prassi.

La legittimazione dell’agire progettuale - A

16La mappa degli elementi progettuali è varia e vasta: comprende soggetti anche molto diversi tra loro, e azioni distanti e magari non direttamente finalizzate alla costruzione dell’edificio. È soprattutto in continuo mutamento, magmaticamente, in ogni fase del progetto e anche oltre. Questa ontologica indeterminatezza – o meglio, impossibilità di determinare tutti gli elementi e i fattori della mappa – ha come effetto quello di falsificare qualsiasi ordine di priorità, qualsiasi gerarchia nella mappa. Le gerarchie stabilite da atti, ad esempio, potranno sempre essere sovvertite da fattori esterni, né si può essere certi degli effetti che fattori sconosciuti (l’imprevisto) avranno sull’effetto dell’azione dei soggetti: e questo significa che, in effetti, anche soggetti del tutto esterni – chi legga del progetto su un giornale, o chi ne scriva su un blog, ad esempio – influenzeranno il processo, compiendo azioni a tutti gli effetti progettuali, che saranno quindi nella mappa complessiva.

17Dunque, la mappa multidimensionale è in effetti più ampia del sistema documentale che la compone. Perché sebbene essa si formi gradualmente, con contributi documentabili e tracciabili, in quanto insieme complesso conterrà anche, in un’esplosione quasi frattalica, interpretazioni e riferimenti inespressi. Quindi, ogni qualvolta un soggetto inscriva qualcosa, lo farà secondo una serie di presupposti la cui condivisione è tuttalpiù sperata, ma ontologicamente impossibile.

18Pensiamo alla composizione di un brano musicale: un soggetto scrive una serie di segni – note, pause ecc. – appartenenti a un mondo convenzionale, producendo un documento. Ma il pezzo è quel documento, o altro? Uno Chopin o un Beethoven non annotavano se non in minima parte gli spartiti, affidandosi al condiviso “modo di suonare”. Eppure, da secoli, partendo già dai loro stessi allievi, si sono susseguite edizioni delle loro opere che mirano a capire quali fossero le loro effettive intenzioni (Ur-text). La storia dell’interpretazione musicale è la storia di quei campi di possibilità, ovvero dei campi di incertezza convenzionale. E se in poche righe di note esistono campi di libertà interpretativa così ampi da essere inesauriti dopo centinaia di anni, come si può pensare che non ve ne siano di molto più ampi in documenti complessi come i progetti architettonici? C’è una sola spiegazione: nella mappa – che per questo abbiamo definito multidimensionale – devono rientrare anche elementi diversi, come le buone, e le cattive intenzioni dei soggetti: perché quelle intenzioni possono tradursi in azioni che vanno al di là di quanto effettivamente documentabile, e possono dunque avere effetti.

  • 5 Cfr: Nesbitt (1996); Noever (1993); Jencks-Kropf (2006).

19Ma allora, a maggior ragione, cosa rende efficaci le azioni di progetto, e cosa distingue il progetto architettonico dell’architetto da quello del politico, del giornalista, del passante, del pensionato, del blogger? Storicamente, il ruolo dell’architetto era definire la forma dell’architettura in accordo con significati condivisi, condivisibili e riconoscibili socialmente, all’interno di quella gradualità progettuale fatta di pratiche e stilemi più evolutivi che rivoluzionari. La costruzione del valore dell’architettura si poggiava perciò su basi ragionevolmente solide. Ora invece, finita l’era delle grandi teorie dell’architettura, la costruzione del valore avviene puntualmente5, attraverso processi e racconti privi del sostegno di convenzioni sociali e quindi largamente opinabili (Deregibus 2018). Se infatti non vi sono significati condivisi, allora per l’architetto è ontologicamente impossibile considerare il progetto una risposta (cioè fare un progetto che risponde a un “mandato”). Certo, nel definire la forma l’architetto instaurerà una qualche relazione con gli altri elementi della mappa, ma il suo progetto avrà il carattere della proposta, nel migliore dei casi, o del soliloquio, nei peggiori. Mancando il terreno codificato della riconoscibilità degli stilemi, infatti, gli altri soggetti possono delegare la forma a colui che dovrebbe tradizionalmente averne competenza (l’architetto) oppure agire come se quella riconoscibilità codificata esistesse ancora, aprendo un dialogo: ciò che però deve essere chiaro, è che quel dialogo è sempre fatto in lingue diverse, non traducibili, perché il terreno comune convenzionale, e quindi la traduzione dei valori da sociali, economici, politici a formali non è più.

20Gli architetti hanno risposto a questa situazione di crisi decidendo che, se le grandi teorie sono impossibili, allora non serve provare a definirle. Così, gradualmente, alla teoria dell’architettura (architectural theory) si è contrapposta, e non affiancata, la teoria del progetto (design theory). Ma la conseguenza di ciò è più grave di quanto non sembri: per essere performativi, infatti, i soggetti coinvolti devono avere una riconoscibilità specifica che precede, ed è distinta, dalla loro capacità di interazione (Habermas 1983): come dire che l’architetto, nel momento in cui non ha la competenza necessaria a essere propositivo, perde il suo ruolo. E quindi, anche il diritto di discutere risultati su cui non ha voluto incidere. Il processo rischia allora di ridurre l’architetto, nell’incapacità di valori architettonici, al ruolo di mediatore o, peggio, ratificatore delle scelte altrui (Bauman 1987).

21Ma non bisogna farsi ingannare dalla leggerezza con cui le teorie dell’architettura sembrano esser state accantonate. La loro sopravvivenza viene ad esempio rivelata dalla critica dell’architettura, se non dalla sua proposta. Come si potrebbe fare critica di architettura se non esistesse qualche valore riconoscibile e condivisibile? Non certo sulla base dei valori interni allo specifico processo, altrimenti un eco-mostro sarebbe giustificato: la condanna all’eco-mostro deriva invece da una valutazione sulla base di parametri qualitativi – forma, inserimento nel contesto e così via – esterni ad esso, generalizzabili e, pertanto, teorizzabili. Dunque, o esiste un potere di critica che va oltre la mera espressione di un like, ma allora esisterà la possibilità di costruire una teoria architettonica: e gli architetti potranno allora affermare un proprio ruolo all’interno di un processo. Oppure, se tracciare questa teoria è impossibile, allora non si potrà nemmeno esprimere proposte legittimate da altro se non il proprio puro gusto: l’architetto non farà più azioni effettivamente progettuali, perché gli esiti saranno non valutabili.

  • 6 Giova fare un parallelismo con la musica: il fatto che non vi siano stili e correnti assolute non i (...)

22La nostra impressione è che, in effetti, fin troppi architetti parlino del processo proprio per evitare di parlare degli esiti, agendo però come se esistesse una forma di architettura giusta – quella preferita dall’architetto, ovviamente. E che quindi ogni teoria del progetto autentica sia ontologicamente una teoria dell’architettura: per capire l’efficacia del progettare dell’architetto, si dovrà quindi tenere in considerazione l’esistenza inevitabile, sebbene magari inespressa, di una teoria dell’architettura6.

La legittimazione dell’agire progettuale - B

23In quest’ottica potrebbe forse essere interpretato il crescente interesse intorno al problema della tecnica che da Heidegger a Simondon sta focalizzando l’attenzione di larga parte del dibattito filosofico contemporaneo. I problemi relativi alla ridefinizione del suo statuto epistemologico, derivanti dall’ormai insoddisfacente concezione del sapere tecnico come forma corrotta di conoscenza, definita da un telos eteronomo e ancorata all’ausilio della materia sensibile, si rivelano affini alle riflessioni concernenti il progetto. In modo simmetrico, anche la tecnica perde la sua dimensione puramente strumentale per assumere il ruolo di inedita via d’accesso a una più sottile comprensione del reale e del soggetto conoscente. Il suo carattere intermedio decostruisce la distinzione stessa tra naturale e artificiale, focalizzando l’attenzione su un’interpretazione dell’artefatto concepito ora come esito di un processo di comunicazione e adattamento piuttosto che realizzazione concreta di un modello astratto basata sulla netta distinzione tra oggetto e libero artefice. Questo slittamento è chiaro sin dalla prima elaborazione sistematica di una teoria della progettazione ad opera di Herbert Simon in Le scienze dell’artificiale:

24L’artefatto può essere visto come punto di incontro – «interfaccia», per usare un termine alla moda – tra un ambiente interno, cioè la materia e il modo in cui l’artefatto è costruito, e un ambiente «esterno», cioè le condizioni in cui esso opera. […] Si rilevi che questo modo di considerare gli artefatti può essere applicato altrettanto validamente a molte cose che non sono opera dell’uomo: a tutte le cose di cui si può dire che si sono «adattate» a una certa situazione; e in particolare agli esseri viventi che si sono sviluppati attraverso le forze dell’evoluzione organica (1988: 26).

25L’artificiale e il naturale divengono sempre più prossimi, accomunati dalla funzione, da una serie di obiettivi da raggiungere in relazione a un ambiente dato. Di conseguenza l’oggetto di studio proprio di chi si occupa di processi di progettazione sarà l’analisi del modo in cui viene conseguito questo adattamento. Non è trascurabile il fatto che questa riformulazione della relazione tra artefatto, tecnica e scienza della progettazione avvenga proprio alla vigilia della rivoluzione informatica e a uno stadio avanzato nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Lo stesso Simon precisa infatti che la sua nuova scienza della progettazione si rivolge in particolare a quella famiglia di artefatti che definisce “sistemi simbolici” ovvero:

sistemi che elaborano informazioni (information-processing) e che sono volti ad uno scopo (global-seeking), di solito inseriti o, meglio, incorporati in sistemi più ampi all’interno dei quali svolgono un servizio (Ivi: 42).

26Tuttavia, come fa notare Schön nel suo ormai classico Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, la proposta di Simon è ancora legata all’emulazione dei metodi di ottimizzazione sviluppati nella teoria statistica della decisione. Qui il problema della modellizzazione sopravvive nella categoria di «problema ben formulato» dove «i fini sono stati trasformati in ‘vincoli’ e ‘funzioni di utilità’; i mezzi, in ‘variabili di comando’; e le leggi, in ‘parametri ambientali’» (1993: 61). Diversamente, come sostiene l’autore, l’esigenza di progettazione trae origine proprio da situazioni problematiche difficili da districare che non hanno ancora raggiunto lo stadio di «buona formulazione». Al contrario:

L’impostazione del problema è un processo nel quale, in modo interattivo, designiamo gli oggetti dei quali ci occuperemo e strutturiamo il contesto all’interno del quale ci occuperemo di loro. […] Quando i fini sono definiti e chiari, allora la decisione di agire si presenta essa stessa come un problema strumentale. Ma quando i fini sono confusi e contraddittori, non c’è ancora alcun «problema» da risolvere (Ivi: 68).

27Partendo da queste considerazioni, Schön suggerisce di adottare un nuovo punto di vista per riflettere e implementare le nostre conoscenze sui processi di progettazione che chiama «riflessione nel corso dell’azione». Pur senza offrirne una formulazione teorica definitiva, l’autore si impegna in una descrizione analitica di tali processi riconoscendo una struttura interattiva e multilivello tra progressive focalizzazioni sugli esiti provvisori dell’azione, sull’azione stessa prefigurata come processo riuscito e sul conoscere intuitivo implicito nell’azione (Ivi: 82, 90-94). Il progettista sarebbe dunque coinvolto in una vera e propria conversazione tra sé e il suo oggetto, in una relazione biunivoca e paritaria che assume i tratti di un equilibrio riflessivo tra effetti retroattivi reciproci prodotti dal reiterarsi dell’interazione in una logica sistema-ambiente. Nell’azione progettuale infatti:

  • 7 Alla luce di tale conclusione va sottolineata un’eccessiva severità nei confronti di Simon che se n (...)

vi sono più variabili – possibili tipi di scelte, norme, e relazioni fra queste – che si possono rappresentare in un modello finito. In ragione di tale complessità, le azioni del progettista tendono, fortunatamente o sfortunatamente, a produrre conseguenze diverse rispetto a quelle desiderate. Quando questo accade, il progettista può tener conto delle modificazioni non intenzionali che ha prodotto nella situazione generando nuovi apprezzamenti e comprensioni e operando nuove scelte. Egli modella la situazione in conformità con il proprio iniziale apprezzamento di essa, la situazione «replica», ed egli risponde alla replica impertinente della situazione. […] In risposta alla replica della situazione, il progettista riflette nel corso dell’azione sulla costruzione del problema (Ivi: 103).7

28Quel che va sottolineato è che in tal modo l’abilità del progettista dipende direttamente dalla sua capacità di rinegoziare in maniera riflessiva i suoi stessi propositi in funzione degli stimoli che riceve e che con la sua stessa azione contribuisce a far emergere dal contesto. Tale scambio è costitutivamente incerto poiché include valori e resistenze di altri soggetti (e oggetti) che compongono l’ambiente in cui la sua azione si genera. È interessante constatare come la rinuncia a una visione unilaterale, indipendente dalla preminenza conferita di volta in volta al soggetto o all’oggetto, in favore dell’elaborazione di modelli in grado di descrivere gli effetti di un’interazione concepita ora come biunivoca, si riscontri anche nelle più recenti riflessioni sulla tecnica. Basti pensare al lavoro di André Leroi-Gourhan (1977) o Hans Blumenberg (2010 e 2014), in cui genesi dell’oggetto tecnico ed evoluzione cognitiva divengono due processi inestricabili e interdipendenti, o ancora, portando il discorso alle sue estreme conseguenze, alle riflessioni di John Dupré (2007) sulla problematica distinzione tra natura e cultura rispetto alle difficoltà riscontrate nel tentativo di dare una definizione della natura umana nell’ambito delle scienze naturali.

Inefficacia della modellizzazione. Verso un progettare strategico – A

29Se nella mappa del progetto devono essere incluse anche intenzioni, azioni e omissioni non documentabili, allora la sua ricostruzione non potrà mai essere completa. Ci sarà sempre qualcosa che sfugge, in ogni processo, a maggior ragione se complesso come la costruzione di un edificio: scelte immotivate, deviazioni irragionevoli, casualità.

  • 8 Cfr. ad esempio Cacciari (1981) e Vattimo (1982).

30Se quindi progettare, per un architetto, dovrebbe voler dire immaginare un edificio che abbia quelle qualità, inespresse ma comunque esistenti, che lo rendono in effetti una “architettura”, e agire con la finalità di renderne possibile la costruzione, come potrà l’architetto orientarsi in un processo tanto complesso? Ontologicamente, la sua capacità è insufficiente (Deregibus 2014: 126): sarà sempre stretto tra una conoscenza dei fenomeni per definizione parziale, e insieme nella continua necessità di usarli come materiali per il progetto (Paci 1963: 60). Non a caso, l’apparato documentale legato al progetto è esponenzialmente aumentato. Un progetto può contare ora centinaia di tavole, migliaia di pagine di relazioni, stime e prescrizioni: un’ipertrofia che cerca di specificare inequivocabilmente ogni dettaglio, in modo da andare oltre l’inespressa intenzione. Questa tendenza è il risultato di un lungo processo che ha caratterizzato tutta la storia europea, e che ha qualificato l’efficacia come la capacità di modellizzare il futuro all’interno di uno schema previsionale (Jullien 1996): il progetto architettonico non è mai sfuggito a questa logica8.

  • 9 Senza contare che il progetto è spesso riferito a un altro progetto (ad esempio di fase preliminare (...)

31L’aspetto più interessante dei modelli, tuttavia, è che non funzionano: non abbastanza, almeno, da essere efficaci negli ambiti sociali (Boudon 1984, Jullien 1996). Per questo servono manager, generali e, potremmo dire, architetti: perché il progetto è ontologicamente inefficace. In senso husserliano, se la rappresentazione è un essere di un non-essere (cioè è un modo d’essere di un fenomeno), e se il progetto di architettura configura lo stato futuro (cioè un modo d’essere in potenza) di un essere (cioè il luogo, o l’edificio), allora il progetto, come modello figurativo e testuale (cioè rappresentativo), è in effetti un non-essere di un modo d’essere potenziale di un essere (Deregibus 2014).9 Come si può pensare che un simile modello sia accurato? E come quindi potrebbe essere efficace?

32Non è stata ancora scritta una teoria di progetto che affronti compiutamente il tema del potenziale, di cui queste righe tracciano una prima bozza. Per tratteggiarne almeno qualche carattere, adotteremo quindi la semplificazione di considerare che nelle intenzioni, nelle capacità e nell’immaginario dell’architetto vi sia un edificio che, una volta costruito, sia un’opera di architettura, qualunque cosa questo possa significare. Come può un architetto attraversare efficacemente la mappa per arrivare lì? Per farlo, dovremo cambiare prospettiva sul progetto, e guardarlo in modo strategico.

33Infatti, come un burattinaio, che per muovere la marionetta in realtà muove i fili, così l’architetto per realizzare un edificio non lo costruisce, ma produce elaborati grafici e testuali e dialoga con committenti, tecnici, lavoratori. Ma la marionetta non risponde solo ai fili: si scontra con qualcosa d’inaspettato. Magari un’altra marionetta, cioè il risultato dell’agire progettuale di un altro soggetto; o un ostacolo sul palcoscenico, cioè un imprevisto che rende improvvisamente protagonista un attore fino a quel momento distante nella mappa. Così, le intenzioni e le azioni del progettista sono affiancate, contrastate, appoggiate, influenzate da altri soggetti, con le loro finalità: e l’incontro/scontro avviene tra le azioni da quelle intenzioni ispirate. Affinché lo spettacolo riesca, ogni burattinaio dovrà muovere i fili in base al potenziale del momento (Jullien 1996): cioè al modo in cui la situazione di tutte le marionette possa meglio svilupparsi per i suoi fini. In ogni momento, cioè, l’architetto deve agire strategicamente, capendo quali modi indiretti siano più efficaci al fine di indirizzare le altrui azioni verso la conclusione da lui desiderata del processo progettuale: e ciò significa, in effetti, indirizzare le azioni in modo da far convergere gli altrui interessi su valori inessenziali per il progetto, valorizzandoli senza che questo costituisca una mediazione.

34Facciamo qualche esempio. Nel progetto per un concorso, l’intero apparato di documenti che si produce non ha, né deve avere, alcun valore di verità. Lo scopo del progetto è cioè convincere la giuria dell’intenzione progettuale in potenza: e per questo bisogna sfruttare al massimo l’impossibilità delle tavole di concorso (cioè del documento) di essere esaustive, e gestirle strategicamente in modo da indurre sensazioni concordanti con le intenzioni del progettista. Che questo comprenda, ad esempio, il falsare anche notevolmente qualche elemento, è del tutto legittimo: non perché “il fine giustifichi i mezzi”, ma perché della mappa di mappe è visibile solo qualche traccia. Dunque il potenziale della situazione è enormemente ampio, e sfruttabile in senso strategico.

35Oppure, poniamo che l’architetto si scontri con l’impresa su un aspetto realizzativo: essendovi un contratto (cioè un documento), la soluzione dello scontro sembrerebbe ovvia, che avvenga attraverso uno scontro o un accordo. Ma le conseguenze di scontro o accordo potrebbero essere infelici: ritardi, o danni mediati tra le parti. C’è però una possibilità alternativa: l’architetto, che avendo concepito l’edificio dal punto di vista architettonico è in possesso delle intenzioni non documentabili di progetto, può agire prendendo in considerazione il potenziale: ad esempio lasciando che l’impresa “vinca” la disputa, se questo non mina gli elementi di qualità del risultato potenziale atteso, guadagnando a livello di contrattazione un credito da spendere in altre occasioni; o, al contrario, essendo in grado di spiegare all’impresa perché quel punto non sia contrattabile, offrendo magari altre modifiche inessenziali, finora magari nemmeno considerate ma che costituiscono un desiderio di modifica inespresso (non documentabile, ma presente sulla mappa potenziale).

36In effetti, questi esempi sono solo la punta dell’iceberg. Un agire strategico basato sulla lettura e sfruttamento del potenziale non sarebbe mai giunto – idealmente parlando – al secondo esempio. Poiché infatti un processo progettuale è continuo, l’architetto ha la possibilità di creare e gestire il progetto già predisponendolo in modo da creare situazioni di potenziale: agendo in ogni fase del processo, in continuo adattamento ai valori proposti dagli altri soggetti e quindi in continuo riposizionamento del proprio agire. Un agire di questo tipo è guardato con sospetto (Habermas 1983: 66): e questo perché storicamente si attribuisce all’efficacia come sfruttamento del potenziale un carattere negativo – è la Metis di Ulisse, cioè l’opportunismo. Ma in effetti, esso non impedisce il principio di universalizzazione e l’assunzione di responsabilità: nulla in sostanza obbliga a renderlo un mero esercizio di autorialità. E questo implica, sempre e di nuovo, una fortissima questione etica, in cui le intenzioni – quali che siano – vanno misurate sui risultati, secondo un principio di responsabilità (Deregibus 2014: 225).

37Certo, che il progetto sia efficace non garantisce che il risultato sia di qualità: ma un agire strategico basato sul potenziale non può che massimizzare l’ipotesi di qualità presente nelle intenzioni di progetto dei soggetti coinvolti.

Inefficacia della modellizzazione. Verso un progettare strategico – B

  • 10 Cfr. Ferraris (2017: 34-40).

38Se dunque la nozione di progetto finisce per mettere in dubbio la canonica distinzione tra dominio epistemologico e dominio ontologico, rimarcando la mobilità di tale dicotomia coadiuvata anche da una concezione della tecnica intesa come competenza in grado di determinare il collasso tra finalità interna e finalità esterna,10 resta da chiedersi in quale modo sia ancora possibile pensare a una qualche forma di libertà nell’azione progettuale e, aspetto questo decisivo, a una qualche forma di normatività dell’azione progettuale.

39Del resto, se viene meno la possibilità di distinguere nettamente tra dimensione teorica, a cui si deve la definizione di un telos, e dimensione pratica, necessaria alla sua realizzazione, sembra rimanga spazio solo per lo sperimentalismo assoluto o per il crudo determinismo. Il progetto è improvvisazione o dettatura? Di fatto la radicalità delle due alternative mal si addice a una performance che per sua stessa natura si genera da un’incertezza sentita e suggerita da una situazione presente. In un certo senso potremmo dire che attraverso il progettare si mette in atto, per mezzo della messa in forma tecnico-materiale, un processo conoscitivo sul caso e al contempo su se stessi.

  • 11 Cfr. Putnam (2012).

40Forse per queste ragioni risulta oggi più che mai difficile attribuire legittimità a norme vincolanti, quelle che una volta venivano etichettate come “stile” o “canone”, la cui giustificazione sembra impossibile alla luce della struttura ibrida e dinamica che l’attività stessa della progettazione possiede. Significativa a questo proposito è la presenza del termine possibilità in entrambe le accezioni della definizione di progetto da cui siamo partiti. Se il progetto consiste nel confronto con una vasta gamma, seppur finita, di alternative percorribili, per noi accessibili solo a partire dalla situazione presente, allora esso ci stimola a prendere sul serio la storia, intesa come archivio di soluzioni utilizzate, tentate o fallite e ci permette di rendere esplicito il nesso che intercorre tra normatività e contingenza empirica. Come fa notare Veca nel capitolo dedicato all’utopia del suo ultimo saggio dal titolo Il senso della possibilità (2018: 77-127), rielaborando alcune posizioni di Amartya Sen e Hilary Putnam11 rispetto al complesso rapporto tra fatti e valori:

la normatività e le sue ragioni di lungo termine ricevono una luce diversa, se le iscriviamo nello spazio delle modalità […]. Questa osservazione chiama in causa la genesi e le trasformazioni nel tempo delle nostre credenze normative che sono sensibili ai fatti o agli stati di cose e non alla struttura delle credenze e dei principi normativi che […] non sono sensibili ai fatti, ma si basano su principi indipendenti dai fatti e non ad essi sensibili (2018: 116).

41La normatività dunque si fonda su quelle circostanze empiriche mutevoli e su quei processi contingenti che ci accade di affrontare nella nostra vita e nei confronti dei quali dobbiamo elaborare risposte il più possibile adeguate. In questi casi il nostro obiettivo non è quello di fornire soluzioni esatte o giuste in senso assoluto piuttosto, più realisticamente, ci appelliamo alla modesta virtù della giustezza, poiché riconosciamo la priorità dell’attuale e il suo carattere tipico: la contingenza.

42Quando stabiliamo necessità lo facciamo innanzitutto per rispondere a situazioni problematiche, non per definire un modello ultimo e universale che richiederebbe un impegno troppo gravoso rispetto alle pretese provenienti dalle circostanze. Del resto, l’infinita interpretazione necessaria per individuare risposte definitive non si addice alle urgenze dell’esperienza quotidiana. A partire da ciò mettiamo in atto «processi di avvaloramento di fatti, circostanze, istituzioni e pratiche di cui siamo eredi nel tempo», senza che questi siano totalmente dipendenti dalla dimensione pratica stricto sensu, «dopo tutto, nella famiglia wittgensteiniana delle pratiche possiamo individuare la pratica della critica delle pratiche» (2018: 116). In altri termini i nostri valori, le nostre necessità, sono stati, prima di cristallizzarsi, proposte risolutive in circostanze empiriche e storiche che nel momento della loro formulazione consistevano nell’enigmatico presente di qualcuno.

43Essere consapevoli di ciò in modo riflessivo, in coerenza con le posizioni di Schön sul progetto, significa rendersi conto che «il carattere necessario che contraddistingue le ragioni di cui siamo contingentemente eredi […], vale sino a prova contraria» (Ivi: 117); questo sia nel senso della critica nei confronti di quell’insieme di valori che ci portiamo dietro dal passato sia, e questo è il punto decisivo, rispetto alle proposte di avvaloramento che saremo noi stessi a elaborare per il futuro.

44In questo senso risulta sfumata la distinzione tra progetto-prodotto e progetto-azione.

45Stabilire la “fine” di un processo di progettazione è un atto che ha innanzitutto una valenza normativa: è quell’atto attraverso cui viene interrotta la ricerca di soluzioni alla situazione problematica poiché si ritiene che quella individuata sia soddisfacente alla luce delle condizioni date e secondo il punto di vista di colui o coloro che sono investiti di questa responsabilità. In questo consiste la peculiare capacità di “costruire valore” nel mondo propria del progettista, un’abilità che richiede soprattutto tempismo nella definizione di interruzioni che produrranno deviazioni in un processo destinato, nonostante ciò, a proseguire sì ma in modo diverso. Mettere la parola “fine” in questo senso non significa definire una necessità ultima ma una necessità condizionata, soggetta alle trasformazioni che investono sia le condizioni in cui l’interruzione è stata stabilita sia coloro che saranno chiamati a rivalutare quella proposta nel futuro.

46Non si danno porti franchi, vallate inaccessibili o regni neutrali, ma esistono solo molteplici punti d’appoggio provvisori: alcuni appaiono stabili e duraturi, altri sembrano bisognosi di essere puntellati in qualche modo, altri ancora sono sul punto di crollare e molti stanno per essere completati da alcuni di noi. In questo perenne avvicendamento non si può far altro che “stare al gioco” «prendendo sul serio», come sostiene ancora Veca riprendendo le posizioni di Weber, «i casi di costruzione e insorgenza riuscita di controesempi in più di un dominio sociale nella storia alle nostre spalle» (Ivi: 119). Entra qui in gioco la nozione di libertà che si configura in modo nuovo, come possibilità di scelta tra una serie di alternative il cui effetto sarà la creazione di condizioni inedite da cui deriveranno nuove scelte tra ulteriori possibilità di adattamento e così via.

47Il progettista, in un certo senso, non fa che commentare il mondo attuale attraverso la comparazione con un mondo possibile che lui stesso propone per il futuro a partire dal presente, per mezzo di ricombinazioni di materiali, idee, soluzioni e strategie che consulta nell’archivio del passato e per ciò stesso di cui diviene al contempo già un erede. Erede di quei punti d’appoggio, per continuare con la nostra metafora, che il suo agire contribuisce a realizzare e che si sono rivelati necessari per le risposte che sono riusciti a fornire a problemi urgenti, fino a prova contraria.

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Note

1 L’autore non presuppone però una dimensione “autoriale”: cioè in cui si vuole la riconoscibilità, la “firma” dell’autore nel risultato. Per questo, l’esistenza dell’autore può essere usata anche in contesti molto diversi: nell’argomento teleologico a supporto dell’esistenza di Dio, da San Tommaso in poi, si può parlare di progetto divino proprio perché ogni progetto richiede un autore – in questo caso appunto Dio (Swinburne 2004). E il soggetto autore del progetto può essere un’entità anche indeterminata, ad esempio nel campo dei software: il progetto diventa un carattere, più che un oggetto determinato (Dawkins 1986). In altre parole, la dimostrazione dell’assenza del soggetto-autore può avvenire solo attraverso la dimostrazione che esiste un altro soggetto-autore più credibile.

2 “Progetto” in Abbagnano-Fornero (1998).

3 Ibidem.

4 Cfr. Platone (Resp 509d-511e, 514a-517d) e Aristotele (Eth. Nic., VI, 4, 1139a 7-1140a 22). In particolare sul complesso rapporto tra techne ed episteme in Platone cfr. Cambiano (1991).

5 Cfr: Nesbitt (1996); Noever (1993); Jencks-Kropf (2006).

6 Giova fare un parallelismo con la musica: il fatto che non vi siano stili e correnti assolute non impedisce che esista la teoria musicale, né la teoria dell’armonia, né la teoria della composizione – che potremmo assimilare, in diversi modi, alla teoria dell’architettura e alla teoria del progetto.

7 Alla luce di tale conclusione va sottolineata un’eccessiva severità nei confronti di Simon che se non altro intravede le questioni sollevate in più momenti della sua argomentazione prefigurandone le possibili conseguenze con grande lucidità. Per esempio, nelle sue riflessioni in merito al «processo come determinante dello stile» o all’importanza della «selettività» nei «sistemi gerarchici» e «simbolici», in cui sottolinea il problema dell’autoriflessione nel processo di progettazione, ma soprattutto nell’analisi dei «processi adattivi di retroazione», cfr. Simon (1988: 162-163, 207-219 e 186-187).

8 Cfr. ad esempio Cacciari (1981) e Vattimo (1982).

9 Senza contare che il progetto è spesso riferito a un altro progetto (ad esempio di fase preliminare), non direttamente a un fenomeno.

10 Cfr. Ferraris (2017: 34-40).

11 Cfr. Putnam (2012).

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano, «Il filo e la marionetta»Rivista di estetica, 71 | 2019, 183-203.

Notizia bibliografica digitale

Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano, «Il filo e la marionetta»Rivista di estetica [Online], 71 | 2019, online dal 01 août 2019, consultato il 02 octobre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/estetica/6406; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/estetica.6406

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