1L’estetica classica - quella di Kant, e di Greenberg che considera la bellezza come un misto di piacere, disinteresse, contemplazione e universalità - ha scarsa applicazione nell’ambito dell’arte contemporanea. Questo non vuol dire non vi trovi applicazione l’estetica intesa in un senso più ampio. Qualità come la tetraggine, la rozzezza, la lucentezza ecc. si collocano all’interno dell’ampio raggio delle qualità estetiche che nel contesto contemporaneo hanno rilevanza, così come molte altre qualità per le quali non esistono dei termini precisi. J.L. Austin e la Scuola di Oxford cominciarono l’esplorazione di questo tipo di predicati estetici non tradizionali, ma tale esplorazione ebbe fine una volta che la definizione dell’arte divenne la preoccupazione principale all’interno del dibattito analitico. Il mio saggio mostra come le qualità estetiche di qualsiasi tipo possano trovare applicazione quando sono interne al significato dell’opera. Definendo l’arte come «significato incorporato», traccio un parallelo fra questo concetto e la nozione kantiana di «idee estetiche» e mostro come, insieme, esse determinino il modo in cui l’estetica possa adattarsi perfettamente al concetto di arte, sia essa l’arte tradizionale o quella contemporanea.
2La traduttrice ungherese di molti miei scritti sulla teoria dell’arte mi ha recentemente spedito il catalogo dell’opera di una giovane artista del loro paese, Ágnes Eperjesi. La traduttrice - Eszter Babarczy - è un critico brillante, così la cosa migliore che posso fare è citare una parte della sua lettera in cui spiega le ragioni per le quali avrei trovato interessante l’opera di Eperjesi:
[Àgnes Eperjesi] ha tratto ispirazione dai suoi scritti e ha notato come le nozioni di “trasfigurazione” e di “luogo comune” da lei elaborate si applichino ai propri lavori. Quello di Àgnes Eperjesi è un percorso lungo e di notevole interesse, che parte dalla fotografia sperimentale per approdare a un’impresa davvero unica: collezionare contenitori di normali prodotti domestici, usando l’umile linguaggio segnico proprio dei lavori domestici e riproponendo queste creazioni come oggetti belli e dotati di una forte carica ironica.
3Prodotti come le lavastoviglie, gli aspirapolvere - ma anche la biancheria intima - sono stati pensati, con tutta probabilità, per essere esportati in tutti i paesi del mondo, il che comporta una loro adattabilità a stili di vita che tenderanno perciò a essere simili da ogni parte. Per questo motivo le immagini che vengono utilizzate devono appartenere al linguaggio segnico globalizzato e universale, così da essere comprensibili a consumatori che non parlano la stessa lingua. I segni indicano al consumatore ciò che deve sapere sul prodotto appena acquistato - per esempio, nel caso di un paio di mutande, quale sia il fronte e quale il retro. In molti casi, anche se non in tutti, vengono utilizzati degli appositi pittogrammi detti anche isotìpi (isotypes) - acronimo di «International System of Typographic Picture Education» - ovvero dei segnali particolari inventati nel 1936 dal positivista logico Otto Neurath, probabilmente influenzato dalla cosiddetta «teoria raffigurativa» del linguaggio di Wittgenstein. Neurath ha anticipato la globalizzazione affermando che «il metodo visuale diventa la base per una vita culturale comune e per un comune rapporto culturale»1. Basti pensare per esempio alla segnaletica internazionale, che fornisce indicazioni stradali anche a quei guidatori che non sono in grado di leggere la lingua dei paesi in cui stanno viaggiando, oppure a come essa ci consenta di muoverci agevolmente all’interno degli aeroporti stranieri. Gli isotìpi sono uno di quei rari contributi di carattere pratico che la filosofia moderna ha donato al genere umano. Quando questi pittogrammi sono riutilizzati - o trasfigurati - all’interno delle opere d’arte, la loro intrinseca universalità è elevata a immagine della società in cui i prodotti sono utilizzati.
4Non seguirei completamente Babarczy nel definire belle le opere di Eperjesi e, in verità, non saprei come descriverle da un punto di vista estetico. Ma sono certamente in grado di osservare come, nella trasfigurazione dell’isotìpo in opera d’arte, abbia luogo un interessante capovolgimento della famosa distinzione proposta da Walter Benjamin: l’arte della riproducibilità tecnica ha acquisito, attraverso la trasfigurazione, un’aura e, in virtù di questa, le immagini acquistano un interesse estetico che precedentemente non possedevano. Proprio in quanto arte guardiamo queste immagini con occhio critico notandone le qualità estetiche per quello che sono. Il fatto di sapere che un determinato oggetto è considerato arte a tutti gli effetti può far supporre che esso debba anche essere bello. O meglio, usiamo questa nozione standard di riconoscimento estetico riguardo a questi oggetti - termine che difficilmente useremmo per caratterizzare i pittogrammi su cui essi si basano. Il termine “bello” potrebbe essere semplicemente un omaggio fatto all’arte in quanto arte più che un’effettiva descrizione dell’arte.
5L’obiettivo della comunicazione transculturale è quello di eliminare le caratteristiche proprie delle differenze etniche - le persone non sono raffigurate né bianche, né nere, né rosse, né tanto meno gialle - preferendo piuttosto delle silhouette umane astratte che appaiano “moderne”. Ma «apparire moderno» è una caratterizzazione di tipo estetico o stilistico? Facendo propria una certa avversione per l’ornamento, il design moderno si è diretto verso una semplificazione stilistica che ha naturalmente influenzato anche la pittografia moderna. Questo non spiega per quale motivo i pittogrammi isotopici siano stilizzati in questo modo - essi assecondano piuttosto certi imperativi globalizzanti - così «apparire moderno» è un façon de parler. Ma in ogni caso e comunque lo descriviamo, il pittogramma ha seguito una particolare trasformazione estetica nel corso della propria trasfigurazione artistica. L’apporto di carattere estetico di Eperjesi alle immagini che contraddistinguono il lavoro quotidiano non è affatto diverso dalle trasformazioni delle Polaroid in ritratti operate da Andy Warhol.
6Descrivere l’opera come “ironica” come fa Eszter Babarczy è corretto, ma questo è possibile in virtù dei titoli inseriti da Eperjesi - o forse si tratta di didascalie - piuttosto che in virtù delle immagini stesse: le copertine del The New Yorker Magazine hanno dei titoli, mentre le vignette sono corredate di didascalie. In un modo o nell’altro i titoli e le didascalie esprimono un pensiero che le immagini da sole non possono esprimere. Eperjesi ha spesso selezionato le proprie immagini con lo scopo di usarle per comunicare il modo in cui le donne nell’Ungheria contemporanea percepiscano se stesse, e cosa pensino del lavoro domestico per il quale il prodotto indicato dall’immagine è destinato - di solito, infatti, sono le donne a fare uso di tali prodotti. Una delle sue immagini mostra un uomo, una donna e una bambina in bicicletta. È difficile capire a quale prodotto corrisponda l’immagine, per quanto potrei supporre si riferisca a un genere di cose che ha a che fare con la sfera più intima della vita di una donna. L’immagine sembra ritrarre una donna che conduce una vita pienamente attiva grazie al prodotto in questione. Qualunque sia il suo scopo retorico, Eperjesi inserisce la seguente didascalia: «Il mio nuovo compagno sembra prendersi cura di mia figlia, spero che non sia tutta apparenza».
Fig. 1
7La cosa è interessante perché la donna è evidentemente una madre single alla ricerca di una nuova relazione. L’ironia deriva dal fatto che nonostante le donne abbiano raggiunto un alto grado di emancipazione nella società contemporanea, restano in una posizione di svantaggio rispetto all’uomo, che si trovino in Ungheria, in America, o nell’Europa occidentale. Sono quelle, infatti, a cui solitamente sono delegati i lavori domestici e le stesse che sperano di non essere, per gli uomini, soltanto degli oggetti sessuali.
8L’ironia va ben oltre la portata degli isotìpi. Le tre figure potrebbero rappresentare dopo tutto soltanto una famiglia. È interessante notare come la maggior parte delle donne vesta abiti occidentali, cosa diventata piuttosto isotipica: immagino che l’isotìpo sulla porta delle toilette per signora, raffigurato con una gonna corta svasata, possa essere riconosciuto in ogni aeroporto del mondo anche da donne che indossano il burkha. In ogni caso i titoli/didascalie sono stati tradotti, come ha fatto l’artista, dall’ungherese nella lingua del paese in cui sono stati presentati - per esempio in inglese nel catalogo che ho visto io. La stessa lingua inglese, per quanto sia diffusa, non è isotipica, e anche se venisse utilizzata universalmente come lo fu un tempo il latino, esisterebbe sempre una distinzione fra figure e parole, il che significa che, mentre gli isotipi potrebbero convalidare la teoria raffigurativa del linguaggio, lo farebbero in un modo che nulla avrebbe a che fare con i linguaggi naturali, siano essi scritti o parlati. La semantica degli enunciati di un linguaggio naturale differisce dalla semantica di un enunciato usato in modo raffigurativo, come avviene nelle citazioni. Ma anche le citazioni devono essere tradotte.
9Sebbene potremmo soffermarci a lungo sulla semantica artistica delle immagini di Eperjesi, il motivo per cui ho voluto utilizzare il suo lavoro ha a che fare con la sua estrema contemporaneità, con il modo in cui illustra la struttura pluralistica che è venuta sempre più definendo la produzione artistica contemporanea, specialmente dal 1960, quando gli artisti per primi iniziarono a esplorare la possibilità dell’utilizzo dell’immaginario popolare. Mi sono già soffermato sulla questione delle loro qualità estetiche indeterminate, ma vorrei approfondire questo tema in relazione ai problemi che il pluralismo artistico ha costituito per la teoria estetica, soprattutto per quella kantiana e che ha occupato quasi l’intero dibattito estetico fino al decennio in cui il pluralismo è diventato l’idea guida dell’arte. Con la qualifica di “kantiana” intendo l’espressione di quella concezione secondo la quale l’eccellenza artistica è tutt’uno con l’eccellenza estetica, che a sua volta è intesa come un piacere distinto da quello della gratificazione sensibile ed è vista in stretta connessione con un ideale di contemplazione disinteressata. Essa concerne ciò che gli studiosi classici hanno chiamato “gusto”: le caratteristiche principali di questa teoria sono esposte nella parte della Critica del giudizio intitolata “Analitica del bello”, un testo fondamentale per l’estetica moderna e importante, almeno in America, nel pensiero e nell’attività critica di Clement Greenberg.
10L’interesse iniziale di Kant era rivolto al bello naturale che è abbastanza facile da mettere in relazione con le arti visive - arti decorative a parte che erano invece apprezzate nei termini di «bello libero» - intese o come accurate rappresentazioni del bello naturale, oppure come rappresentazioni abbellite di oggetti naturali, che nella realtà belli non erano affatto. Per quale motivo produrre immagini di soggetti imperfetti o esteticamente repellenti? Per ciò che posso dire, Greenberg non ha avuto interessi di questo tipo, e la sua attenzione era più che altro rivolta alla pittura astratta che poteva essere trattata in termini di «bellezza libera». Questo secondo Greenberg aveva il vantaggio di poter trattare come astratta, quindi come oggetto di analisi formali, anche l’arte figurale. Greenberg, cioè, concepiva la pittura nei termini di ciò che potremmo definire «estetica del medium», dal momento che l’eccellenza del pittore è determinata da ciò che appartiene alle proprietà essenziali del medium, ossia, sempre secondo Greenberg, dalle relazioni fra le semplici forme, prescindendo da ciò che esse possano significare.
11Il valore estetico è ciò che queste forme comunicano alla visione percettiva in cui ogni concetto viene messo fuori gioco. Lo stesso Kant ha parlato del piacere dato da un oggetto indipendentemente da ogni concetto. Per Greenberg contava soltanto l’occhio del critico al di là della conoscenza storica che questo poteva possedere, una conoscenza, quindi, che come tale doveva essere messa tra parentesi. Il compito dell’artista era di eliminare dalla pittura qualsiasi cosa non fosse rivolta all’occhio critico. Lo scopo era produrre la bellezza pura per il diletto della contemplazione.
12L’impatto dell’estetica modernista di Greenberg nei confronti dei cosiddetti «professionisti dell’arte» negli Stati Uniti è stato straordinario. Ciò che sorprende è come il pluralismo sia venuto alla ribalta proprio quando gli estimatori di Greenberg detenevano tutto il potere e l’autorità nel mondo dell’arte, almeno nel settore dell’arte visiva contemporanea. Ma per ragioni che richiedono una spiegazione storica che non sono in grado di dare, l’estetica Kant-Greenberg ha cominciato a perdere terreno verso la fine degli anni Cinquanta diventando indifendibile proprio quando Greenberg pubblicava la sua teoria più importante nel saggio del I960, Modernist Painting. L’imperativo di fondo a cui, nel 1961, Robert Rauschenberg alludeva nel catalogo della mostra «Sixteen Americans» presso il moma, era di eliminare il confine tra arte e vita (Kant invece avrebbe parlato di eliminazione del confine fra arte e realtà posto che sia l’arte sia la realtà siano belle). Nella propria pratica artistica, che si è concretizzata in una totale disobbedienza nei confronti degli imperativi del medium, Rauschenberg si è preso la libertà di fare arte a partire da qualsiasi oggetto - calze, pigiami, bottiglie di Coca Cola, pneumatici, animali impagliati - praticamente “tutto”. La purezza del medium diventava così obsoleta proprio quando veniva affermata.
13Tuttavia, con la fine del Modernismo negli anni Sessanta, l’estetica non diventava irrilevante, ma certamente scompariva quasi quel tipo di qualità estetica presupposta nella concezione di Kant-Greenberg, facendo posto a ciò che potrebbe essere considerato un pluralismo delle modalità estetiche. Esiste, per esempio, un’estetica rauschenberghiana che è quasi l’opposto del tipo di eccellenza estetica che Kant e Greenberg avevano dato per scontata. È l’estetica del grunge e del disordine, come risulta chiaro nell’opera Bed di Rauschenberg, in cui l’artista sparge vernice sopra le coperte e le lenzuola di cui è fatta materialmente l’opera. Rauschenberg applica il colore, così come veniva fatto dai pittori dell’Espressionismo astratto, sopra un oggetto di uso domestico, un oggetto che, invece, generalmente va tenuto pulito e in ordine, proprio come accade in un ospedale, nelle caserme militari, o nelle stanze da letto rassettate da quelle che Matisse una volta definì le «zie di paese». Il grunge è l’estetica del disordine, sbandierata dagli adolescenti ribelli, e non vi è dubbio che un gusto di questo tipo possa essere sviluppato e addirittura sfruttato dalla vendita ai ragazzi - tutti intenti a fare proprio uno stile di affettata sciattezza - di jeans sdruciti, di t-shirt di cattivo gusto e di felpe sportive.
14L’ambizione principale di Kant era di combattere quello che potremmo definire il «pluralismo del gusto», ossia quell’idea comune, e piuttosto cinica, secondo la quale il bello sta nella testa degli osservatori e le differenze di gusto sono da attribuirsi alle differenze che intercorrono tra le loro menti. Giustamente Kant si impegnava a mostrare come la bellezza sia e debba essere univoca, identica per ogni persona. Questa era una forma di colonialismo estetico: l’idea cioè che le cosiddette società primitive fossero semplicemente, in fatto di gusto, esteticamente arretrate. Tale colonialismo estetico rappresentava il sostrato teorico delle concezioni che attribuivano una supremazia al gusto occidentale, quella che sarebbe poi stata l’antropologia vittoriana. Greenberg, d’altra parte, riteneva che le proprie convinzioni fossero sorrette dalla Critica del giudizio di Kant, che spesso citava come il più grande libro sull’arte mai scritto. In realtà, potrebbe valere anche il contrario: il grande successo delle opinioni critiche di Greenberg potrebbero aver conferito una certa validità alle formulazioni, altrimenti eccessivamente astratte, di Kant, formulazioni che avrebbero poi trovato una sorprendente conferma nella produzione pittorica soltanto intuibile nel suo secolo.
15Sono due, in particolare, le tesi di Kant che supportano la teoria critica di Greenberg, teoria che ha poi caratterizzato gli atteggiamenti estetici predominanti della New York School. In primo luogo vale l’argomento di Kant secondo il quale i giudizi sul bello non sono giudizi di tipo concettuale e, secondo, che tali giudizi sono validi universalmente, nel senso che non sono in alcun modo semplicemente dei giudizi individuali. Raramente Greenberg ha parlato di bello. Il suo interesse era focalizzato su ciò che chiamava la “qualità” nell’arte, che significava che le sue idee non potevano facilmente estendersi all’estetica della natura, che invece sarebbe stata di interesse centrale per Kant. Nel 1961 scriveva che «la qualità nell’arte non può mai essere accertata né provata dalla logica o dalla discussione». Le uniche regole in quest’area le fornisce l’esperienza e - diciamo così - l’esperienza dell’esperienza2. L’idea di Greenberg è così essenzialmente la stessa di Hume, ossia che la qualità nell’arte è ciò che i critici giudicano buono in modo concorde.
16A Greenberg interessava Kant perché poteva spiegare come fosse possibile dirsi nel giusto o nell’errore in questioni di merito estetico. Per giudicare correttamente o meno l’arte, non riteneva si dovesse essere a conoscenza di quel genere di cose di cui si occupa la storia dell’arte. Credeva effettivamente al fatto che il modernismo avesse dischiuso la possibilità di apprezzare «ogni genere di arte esotica che non poteva essere apprezzata cent’anni fa, sia questa l’arte dell’antico Egitto, quella persiana, dell’estremo oriente, barbarica o primitiva»3. Ciò che quindi rende l’arte buona arte, non ha nulla a che vedere con le circostanze storiche. Una volta aveva asserito che, sebbene conoscesse poco l’arte africana, sarebbe stato comunque in grado di selezionare in modo abbastanza sicuro, alfinterno di un insieme di lavori, i due o i tre migliori. Questi lavori, infatti, non dovevano essere i lavori migliori secondo i criteri degli Africani, dal momento che gli Africani erano guidati da credenze che poco avevano a che fare con le qualità estetiche che aveva in mente Greenberg. C’è poco da dire di fronte a un pezzo di buona arte, se non un “Wow!” di ammirazione. Ma questo non significava affatto che si stava semplicemente dando sfogo a sentimenti, come i filosofi positivisti contemporanei di Greenberg avrebbero detto, mossi dall’idea che il discorso estetico non fosse affatto di tipo cognitivo. Che il discorso sull’arte fosse d’altra parte non concettuale, è suggerito dal metodo usato da Greenberg: tenere gli occhi chiusi e aprirli soltanto una volta che ci si trovi di fronte all’opera da giudicare. Ciò che invade immediatamente la vista, come un lampo accecante e prima che la mente abbia il tempo di elaborare qualsiasi contenuto utilizzando associazioni esterne, è ciò su cui propriamente si basa l’esperienza estetica.
17L’«estetica fatta in casa» di Greenberg era confermata dal suo effettivo successo nell’individuare il merito estetico, un caso fra tutti nel celebrare Jackson Pollock in un periodo in cui molti critici avevano ancora delle riserve nei confronti dell’arte astratta. Tra questi c’erano i critici dell’arte tradizionale dei maggiori quotidiani newyorkesi: John Canaday del New York Times e Emily Genauer del New York Herald-Tribune. «Non hanno alcun diritto di pronunciarsi sull’arte astratta perché non hanno mai sentito la necessità di farne sufficiente esperienza. Nessuno può arrogarsi il diritto di essere preso sul serio se non possiede un’esperienza che gli consenta di stabilire, riguardo all’arte astratta, ciò che è buono e ciò che non lo è»4. Nel novero di quei critici c’era anche il critico europeo David Sylvester, che era tuttavia d’accordo con Greenberg riguardo all’eccellenza di Pollock. Greenberg era «il più accreditato intellettuale di New York» - come riportato nel 1949 dal magazine Life - che ha reso celebre Pollock. Il suo giudizio ha avuto una così ampia risonanza da essere considerato quasi una prova scientifica del valore di Pollock. Tale risonanza gli ha conferito autorità immensa ed enorme influenza nel mondo defl’arte.
- 5 Austin 1956-7 (tr. it. 176).
18Se Greenberg e (in modo più scusabile) Kant si sono sbagliati, è stato nel non riconoscere che esiste un insieme pressoché illimitato di qualità estetiche, venuto alla luce quando i filosofi del linguaggio si sono occupati del vocabolario dell’estetica, quasi nello stesso periodo in cui Greenberg dominava la scena del dibattito critico in America. Sto pensando in modo particolare a un obiter dictum di J.L. Austin: «Quanto sarebbe auspicabile che un lavoro sul campo di questo genere fosse intrapreso presto anche, per esempio, in estetica: se solo potessimo dimenticare per un momento il bello e scendere invece al delicato e al malinconico»5. Austin dice questo nell’importante saggio del 1956, Una giustificazione per le scuse, descrivendo il proprio lavoro filosofico come una fenomenologia linguistica. Questo significava in particolare individuare le regole che governano la pratica linguistica - «Cosa diciamo quando», per usare uno slogan della filosofia del linguaggio ordinario - e alcune interessanti scoperte in questo senso erano state fatte da studiosi come Frank Sibley, che tentò di dimostrare come i predicati dell’estetica non fossero governati da regole. Sarebbe stato interessante vedere se questo criterio vale per le nozioni estetiche intese come classi - a partire da “bello”, “aggraziato”, “rozzo”, “trasandato” - e qualora non lo sia, vedere se, di criteri, ne esistano veramente. Ma la fenomenologia linguistica non è sopravvissuta alla morte di Austin nel I960 - anno in cui veniva pubblicato Modernist Painting di Greenberg. Anzi, rispetto alla filosofia dell’arte, nel decennio successivo l’estetica è retrocessa, a cominciare - mi tocca dirlo - con la pubblicazione nel 1964 del mio saggio The Artworld, ispirato dalla Pop Art e in minor grado dal Minimalismo. Con i lavori di Richard Wollheim e soprattutto con quello di George Dickie, poi, l’obbietdvo principale del dibattito filosofico diventava la definizione dell’arte, tema che proprio da allora è al centro della filosofia analitica dell’arte.
19È interessante notare come l’estetica giocasse un ruolo secondario in quella ricerca collettiva, come del resto un ruolo secondario avevano le qualità estetiche nella produzione artistica avanzata e nella critica del mondo dell’arte sempre più globalizzato: negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma anche in Germania, in Italia, in Francia, in Spagna, in Giappone e infine in tutti i posti in cui si faceva arte, fino ai nostri giorni. Gli artisti importanti da un punto di vista filosofico erano prevalentemente Duchamp e Warhol, Eva Hesse, i Minimalisti e i Concettualisti, nelle cui opere, appunto, l’estetica era un elemento del tutto trascurabile. E dal momento in cui la definizione dell’arte si è occupata dei ready-made e dei Brillo Box, opere nelle quali le qualità estetiche erano al più marginali, si è posto il problema se l’estetica avesse realmente qualcosa a che fare con l’arte. E questo era un cambiamento rivoluzionario, dato che fin dalle origini appariva evidente come il piacere estetico fosse il fine principale dell’arte.
20Ero piuttosto perplesso sull’importanza dell’estetica per l’arte. Nel mio lavoro principale nel campo della filosofia dell’arte, The Transfiguration of the Commonplace, esponevo quelle che ritenevo essere le due condizioni necessarie di una definizione filosofica dell’arte: il fatto che l’arte si riferisce a qualcosa e che quindi possiede un significato, e che un’opera d’arte incorpora il suo significato, che è ciò di cui si occupa la critica d’arte. Ho condensato tutto questo definendo le opere d’arte «significati incorporati». Nel mio ultimo libro, The Abuse of Beauty, ho voluto in parte dare credito alla scoperta di Austin secondo la quale l’estetica sarebbe più ampia di ciò che tradizionalmente si è pensato e mi sono domandato se non esista forse una terza condizione necessaria della definizione, cioè che un’opera d’arte, per essere tale, deve possedere una qualche qualità estetica - se non il bello, allora diciamo anche il grunge. E se non il grunge allora qualcos’altro. E ho chiuso il libro con una nota scettica riguardo al fatto che l’arte abbia effettivamente bisogno di una qualità estetica. Però ho fatto una distinzione che vale la pena sottolineare, la differenza fra bellezza interna ed esterna, ossia, generalizzando, fra un α interno e un α esterno, dove α sta per qualsiasi predicato estetico appropriato.
- 6 Dobke e Walther 2003: 64.
21Ecco cosa intendo per bellezza interna. Il bello di un’opera d’arte è interno quando contribuisce al significato dell’opera. Ho proposto molti esempi a riguardo partendo dall’arte contemporanea, tra cui Elegy for the Spanish Republic di Robert Motherwell e Vietnam Veterans Memorial di Maya Lin. Ma un esempio molto riuscito l’ho proposto in un saggio successivo, parlando di come Jacques Louis David fa uso del bello, raffigurando, in Marat Assassiné, il bellissimo corpo di Marat che sembra appena sceso dalla Croce. La bellezza di Marat è la bellezza di Gesù: il significato del dipinto consiste proprio nel Gesù/Marat che muore per il fruitore, il quale è obbligato a riconoscere il significato del sacrificio a partire dai propri imperativi. Se il bello non è interno ad un’opera d’arte, esso è, strettamente parlando, senza senso, il che significa in termini kantiani «bello libero» e mera decorazione. In breve il mio sforzo era di rompere con l’estetica della forma di Kant-Greenberg e di sviluppare invece un’estetica del significato. E qui che è possibile riconoscere l’applicazione della distinzione interno/esterno attraverso il vasto dominio delle qualità estetiche sul quale Austin e gli studiosi del linguaggio ordinario attiravano l’attenzione all’inizio degli anni Cinquanta. Passiamo adesso al grunge. In alcuni artisti - Dieter Roth è un buon esempio - il significato del grunge è proprio quello di produrre opere antiestetiche, cioè “antibelle”. Quando Roth vide la mostra del 1962 di Jean Tinguely a Basilea, quella fu per lui un’esperienza di conversione. «Tutto era così malmesso, rovinato e incredibilmente rumoroso», disse in seguito. «Fui realmente scioccato. Si trattava di un mondo talmente distante dal mio Costruttivismo da apparirmi un paradiso perduto»6. Da qual momento in avanti la ricerca di Roth fu in un certo senso il tentativo di riprodurre un paradiso infantile perduto, fatto di detriti, rumori e odori malsani. Da un’estetica kantiana era passato a un’estetica antikantiana. Proprio come Duchamp, che realizzava i suoi ready-made con l’obiettivo che il loro grado di interesse estetico dovesse essere pari a zero, ovvero non dovevano suscitare né piacere né dispiacere visivo. Dalla prospettiva angusta dell’«analitica del bello» si trattava di opere non-estetiche, ma erano interamente estetiche invece a partire da quella prospettiva più ampia che stava prendendo piede negli anni Sessanta, quando rinsignificanza estetica si trasformava in una qualità estetica interna al significato dei ready-made e diventava essa stessa una questione di gusto, proprio allo stesso modo in cui il grunge veniva interpretato da Dieter Roth.
22Potremmo dire che anche nelle immagini ready-made che Agnes Eperjesi utilizza per le proprie opere esiste un elemento estetico. Non è facile descrivere tale elemento, ma è abbastanza facile riconoscerlo, ed è dovuto probabilmente alle contingenze del design che a sua volta obbedisce alla necessità di produrre immagini che siano leggibili e comprensibili in tutto il mondo. Prendiamo un esempio più familiare. Esiste un elemento estetico facilmente riconoscibile anche nelle immagini grossolane delle comuni pubblicità che Andy Warhol utilizzava, nell’aprile del 1961, nella mostra tenuta fra le vetrine del negozio Bonwit Teller sulla 57th strada. Erano quel genere di pubblicità spazzatura e fastidiosa che viene stampata su volantini da quattro soldi e che reclamizza cure per l’acne, per la calvizie, per la timidezza. È l’estetica degli «annunci spazzatura in bianco e nero» il cui scopo è quello di rendere salienti le imperfezioni che motivano le persone all’acquisto dei prodotti pubblicizzati. Ma quell’elemento estetico è interno ai lavori di Warhol, proprio come accade per le opere di Agnes Eperjesi. I lavori di entrambi gli artisti mostrano le loro origini e da esse traggono il loro significato, sebbene ciò non ne esaurisca l’intero significato.
- 7 Molto probabilmente, qui Danto fa riferimento al passo de Lo Scettico in cui Hume afferma: «il be (...)
- 8 Hume 1742 (tr. it. 354)
23Il risultato di questa escursione è che la risposta alla domanda sulla sopravvivenza dell’estetica nell’era del pluralismo è «sì e no». È “no” se ci riferiamo all’estetica del gusto alla Kant-Greenberg e alla contemplazione disinteressata. È “sì” se facciamo riferimento, invece, al modo in cui differenti qualità estetiche, molte delle quali antitetiche al gusto nell’accezione di Kant e Greenberg, sono interne al significato di opere d’arte intese come significati incorporati. In breve, l’età del pluralismo ha aperto i nostri occhi alla pluralità delle qualità estetiche, in un senso molto più ampio rispetto a ciò che l’estetica tradizionale fosse in grado di riconoscere. Aggiungerei, inoltre, che ognuna di queste qualità estetiche è oggettiva allo stesso modo in cui Kant pensava lo fosse la bellezza. L’estetica è nella mente del fruitore, ma solo nella misura in cui lo sono le qualità sensibili, proprio come diceva Hume che scrisse «il bello esiste nella mente»7. Ma questo non distingue in nessun modo il bello da qualsiasi altra qualità, dal momento che «i gusti e i colori, e tutte le altre qualità sensibili, non si trovano nei corpi, ma soltanto nei sensi»8.
Il caso è lo stesso per il bello e il brutto, per la virtù e il vizio. Questa dottrina tuttavia, non toglie più alla realtà di queste ultime qualità, di quanto tolga alla realtà delle prime; [...] Se si ammette che i colori risiedono soltanto negli occhi, i tintori e i pittori saranno forse per questo meno considerati e stimati? V’è nei sensi e nei sentimenti degli uomini una sufficiente uniformità per far di tutte queste qualità degli oggetti dell’arte e del ragionamento e per far in modo che esse abbiano il massimo influsso sulla vita e sul comportamento9.
- 10 Kant 1790 (tr. it. 319)
- 11 Ibidem.
- 12 Ibidem.
24Giunti a questo punto però, devo fare alcune ammende a Kant, il cui pensiero sull’opera d’arte prende una direzione assai diversa in uno degli ultimi e brillanti paragrafi della terza Critica, ovvero il paragrafo 49, intitolato «Delle facoltà dell’animo che costituiscono il genio». Qui Kant introduce il suo concetto di idee estetiche. Il Kant della sezione 49 non è il Kant dell’estetica kantiana che è basata pressoché interamente sull’«Analitica del bello». Devo a Kant, e a me stesso, la possibilità di mostrare come le mie idee siano vicine alle sue in questa parte del libro, la cui stessa esistenza sottolinea come Kant stesse registrando i profondi cambiamenti della cultura illuministica che l’età del romanticismo stava sviluppando al proprio interno. Kant ha sicuramente intuito che il bello non può essere l’unico elemento dell’arte: «Di certi prodotti da cui ci si attende che dovrebbero manifestarsi, almeno in parte, come arte bella, si dice che sono senza spirito, benché non si trovi in essi nulla da biasimare per ciò che riguarda il gusto»10. Con “spirito” Kant intende «il principio vivificante dell’animo»11. E tale principio, aggiunge, «non è altro se non la facoltà di esibizione di idee estetiche»12. Kant in questo caso è alla ricerca di un tipo di facoltà che spieghi una differenza, quando la differenza - diciamo pure così - è realmente ontologica. Una «idea estetica» è in fin dei conti un’idea che è stata incorporata in modo sensibile, se qualifichiamo “estetico” nel senso usato da Baumgarten, cioè per indicare la sfera della sensibilità. Ciò che è sbalorditivo è che Kant si è imbattuto in qualcosa che è allo stesso tempo intellettuale e sensibile, dal momento che attraverso i sensi cogliamo un significato piuttosto che più semplicemente un colore, un gusto, o un suono.
- 13 Ivi: 325.
- 14 Ivi: 323.
25Kant prende come esempio una delle poesie francesi di Federico il Grande, esempio sul quale passeremmo velocemente supponendo come Kant stia parlando in questo caso nelle vesti di un cortigiano, magari adulando il monarca, quando invece, di fatto, la poesia presa in esame, qualunque siano le sue qualità reali, fa qualcosa che la poesia fa spesso: significa una cosa dicendone un’altra. Il re nella poesia parla «di andarsene dalla vita senza lamenti» attraverso l’immagine di un bellissimo giorno d’estate che termina serenamente13. Si tratta di un uso piuttosto comune in poesia che, contrariamente a ciò che sembra pensare Kant, nulla ha a che fare con il genio. «L’idea estetica» è semplicemente quella di un significato dato attraverso un altro, come nell’ironia o nella metafora. Comprendiamo come il poeta — in questo caso il sovrano di Kant — parli del trascorrere del giorno per parlare, in realtà, del procedere della vita. E un pensiero meraviglioso che non ha nulla a che fare con la bellezza delle parole. L’esempio della poesia viene proposto subito dopo due esempi che riguardano le arti visive: Giove è rappresentato come un’aquila che stringe un fulmine fra gli artigli e Giunone come un pavone — in realtà un pavone maschio con una coda dal magnifico piumaggio. Il fatto che un fulmine non possa essere solitamente afferrato rappresenta in maniera vivida il potere di Giove: un essere capace di farlo, infatti, deve possedere un potere straordinario. Ma l’immagine suggerisce qualcosa di più del fatto che Giove è onnipotente. Mostrare l’idea del potere in maniera estetica, cioè appunto attraverso un’immagine, «fornisce [all’immaginazione] l’occasione di diffondersi su una quantità di rappresentazioni affini, le quali fanno pensare più di quanto si possa esprimere in un concetto mediante parole»14.
- 15 Ivi: 329.
- 16 La citazione di Goya è contenuta in Tomlinson 1992 [N.d.T.; tr. it. di A.L.].
26È a proposito delle “idee estetiche” che Kant parla di “spirito” e della «forza dell’immaginazione nella sua libertà da ogni direttiva imposta da regole e tuttavia come dotata di un fine in vista dell’esibizione del concetto dato»15. Tutto questo era già nell’aria negli anni Novanta del Settecento quando pubblicava la sua terza Critica. Nel 1792, per esempio, Francisco Goya proponeva una serie di riforme per l’Accademia Reale di San Fernando, in cui al tempo occupava un ruolo di primo piano. La sua idea guida, ossia che in pittura non ci sono regole da seguire — No hay reglas en la pintura — doveva sembrare del tutto incompatibile con il concetto stesso di accademia. Da questo seguiva, in particolare, che non è possibile basare la pratica della pittura sul canone della scultura greca, o su qualsiasi altro insieme di paradigmi. Il suo testo terminava con un appello ad assecondare il “genio” degli studenti affinché «essi possano creare in piena libertà senza reprimerlo, usando i loro strumenti per allontanarsi dalla tendenza di emulare questo o quello stile di pittura»16. Da un punto di vista storico il testo di Goya definisce uno spostamento dal Neoclassicismo che ha contrassegnato il suo primo periodo di produzione al Romanticismo della sua produzione matura, ma esprime anche riguardo all’arte una profonda verità. In senso stretto richiede all’arte una profonda originalità e questo non è qualcosa che possa essere insegnato.
27Le idee estetiche non hanno più molto a che fare con l’estetica del gusto e sono ciò che manca del tutto dalla proposta di Greenberg, il quale soltanto raramente ha parlato di significato in riferimento alla qualità artistica. In un certo senso l’estetica che si applica alla bellezza fisica e naturale ha poco a che fare con l’arte, bellezza che ai tempi di Goya era imitata nelle accademie producendo calchi di ciò che sembrava il paradigma della bellezza classica.
- 17 La citazione è contenuta in Goya, Diario de Madrid, che l’autore riporta tradotta in lingua ingle (...)
- 18 Ibidem.
28Di tutto questo c’è molto nel suo capolavoro, I capricci. Comunque li si voglia caratterizzare, essi non sono certo delle celebrazioni dell’idea del bello. “Capriccio” incorpora proprio l’idea dello spirito, ma sposterei l’attenzione alla presentazione di quest’opera da parte di Goya pubblicata nel Diario de Madrid, là dove Goya attribuisce alla pintura il diritto di critica dell’errore e del vizio umano, «nonostante tale diritto di critica venga in genere attribuito soltanto alla letteratura»17. Se no hay reglas en la pintura, non esistono regole contro la possibilità della pittura di «tenere uno specchio rivolto verso le molteplici fobie e follie che si trovano in ogni società civilizzata»18. Greenberg avrebbe rifiutato tutto questo come qualcosa che non ha davvero nulla a che fare in senso essenziale con l’arte plastica. Nella terminologia di Greenberg e in generale nel vocabolario Formalista, “letterario” era un termine che indicava propriamente rifiuto critico.
29La mia idea è che la relazione fra estetica e arte sia stata sempre esterna e contingente tanto che l’avvento del pluralismo non ha cambiato nulla a riguardo. Ma la teoria dell’arte come significato incorporato — o come «presentazione estetica delle idee» — rende evidente come le qualità estetiche possano contribuire al significato del lavoro che le incorpora. Sono convinto che questo sia ciò che Hegel ha intuito quando sosteneva, all’inizio delle lezioni sull’estetica, che la bellezza artistica è “superiore” alla bellezza naturale. E superiore perché la bellezza naturale è priva di significato — cosa che Kant non avrebbe potuto accettare dal momento che a suo parere il bello naturale è un simbolo di moralità e ci mostra come il mondo non sia indifferente alle nostre speranze. Come ha recentemente affermato il filosofo Fred Rush, secondo Kant il bello ha una sorta di significato teologale. Ritrarre il bello naturale, come nelle immense tele dell’Hudson River School, era un tentativo di catturare questo genere di significato. Ma la presenza del bello in quei lavori è interna alla loro bellezza in quanto arte. Si può accettare tutto questo senza credere un solo momento che la stessa natura sia un messaggio divino offerto per mezzo di montagne e immense cascate.
30Le opere del 1961 di Andy Warhol di cui ho parlato comunicano delle idee estetiche, sebbene posseggano, come qualità estetiche, ciò che è proprio soltanto delle pubblicità spazzatura. Ci mostrano le piccole imperfezioni della carne e promettono cure da pochi dollari per il corpo, o per i capelli e, così facendo, promettono amore e la felicità. Ciò che Àgnes Eperjesi ha scoperto nelle confezioni usa e getta dei prodotti sono i ritratti della società in cui questi prodotti sono utilizzati. Sono dei ritratti immediati, o meglio dei ready-made personalizzati con un tocco malinconico. Sotto l’immagine di quella che sembra una sposa velata — che potrebbe di fatto essere semplicemente una donna con un fazzoletto — scrive: «Ogni tanto qualcosa mi finisce negli occhi. Così posso dare sfogo ai miei sentimenti». Un’immagine innocente e persino dolce di una donna con un fazzoletto viene trasformata in una rappresentazione psicologica delle sensibilità soffocate, una nota sulla capacità di reprimere per apparire.
Fig. 2