1Nel primo discorso della sua Storia naturale (“Sulla maniera di studiare la storia naturale”) del 1749, evocando la moltitudine prodigiosa degli oggetti naturali, Buffon scriveva:
[…] ché ci vuole una specie di forza geniale e di coraggio spirituale a trovarsi faccia a faccia con la natura colta nella folla delle sue innumerevoli produzioni, senza rimanerne sorpresi, credendo anzi di essere capaci di riconoscerle e paragonarle, così come quello di amarle è un particolare gusto ben più profondo di quello che si prefigge quale ultimo scopo, l’oggetto particolare. E si può dire che l’amore per lo studio della natura presupponga nello spirito due qualità in apparenza opposte: i vasti orizzonti di un genio ardente che abbraccia con un sol colpo d’occhio tutto, e le minute osservazioni di chi non si interessa che a un solo aspetto della natura.1
2Con queste parole, Buffon poneva i termini della sfida, attualissima, che costituisce lo studio della diversità del mondo vivente: farne l’inventario, costruirne una comprensione globale.
- 2 Darwin 1959: 121 tr. it.
3L’oggetto stesso della storia naturale, nel momento in cui si costituì come scienza moderna nel xviii secolo, che fosse alla maniera di Buffon o a quella di Linneo, era la diversità, allora intesa essenzialmente come diversità tra le specie. Darwin aprì un campo nuovo, prendendo in considerazione anche le variazioni individuali in seno a una medesima specie che vive allo stato selvatico: «Nessuno pensa che tutti gli individui della stessa specie siano proprio usciti dallo stesso stampo. Queste differenze individuali assumono per noi la massima importanza perché sono spesso ereditarie, come tutti sapranno, e perché forniscono il materiale su cui la selezione può agire»2.
4Troviamo qui, in poche parole fondamentali, ciò che permetterà la costruzione di una comprensione globale della diversità del vivente, base e conseguenza della dinamica dell’evoluzione: dalla genetica all’ecologia, attraverso svariati altri domini, la biologia del xx secolo non cesserà d’esplorare il paradosso della vita, una e diversa.
- 3 Wilson and Peter (eds.)1988.
5Il termine “BioDiversity” viene inventato nel 1985, per intitolare una conferenza che avrebbe avuto luogo a Washington l’anno successivo. Il libro frutto di questo incontro, apparso nel 1988 con il titolo Biodiversity3, sdogana il neologismo, che si diffonde più rapidamente di qualunque specie invasiva, dapprima nell’ambito della conservazione della natura e negli ambienti scientifici, poi nel mondo politico-mediatico, a seguito dell’adozione della Convenzione sulla diversità biologica a Rio de Janeiro, nel 1992. Viene a questo punto naturale chiedersi se – posto che la diversità del mondo vivente è da sempre il soggetto della storia naturale – l’irruzione del neologismo abbia aperto un nuovo dominio, diventando il catalizzatore di un nuovo approccio scientifico al mondo vivente; o se, invece, il termine “biodiversità” non sia stato nient’altro che una parola d’ordine usata dagli scienziati per allertare il mondo politico e ottenerne stanziamenti economici. Non è pretesa di questo saggio fornire una risposta esaustiva a questa domanda, che richiederebbe ricerche interdisciplinari complesse. Il mio obiettivo è invece di contribuire alla risposta sotto un solo angolo visuale, portando alla luce quelli che erano gli interrogativi sulla diversità delle specie sui quali i ricercatori si confrontavano prima dell’invenzione della biodiversità. Mi sembra che si tratti di un campo di ricerca ampio e potenzialmente fruttuoso, sul quale il presente lavoro non può aprire che uno spiraglio. Tuttavia, non mi sono limitato a questo approccio retrospettivo. In maniera altrettanto preliminare, ho tentato di identificare che cosa, nelle ricerche post-biodiversità, rappresenterebbe degli interrogativi autenticamente nuovi e che cosa, invece, non sarebbe altro che il prosieguo delle ricerche pre-biodiversità.
6Dal punto di vista metodologico, ho considerato come spartiacque tra pre- e post- la pubblicazione, nel 1988, dell’opera Biodiversity – più che la conferenza del 1986. In concreto, ho raccolto un corpus di pubblicazioni anteriori al 1989 limitandomi a quelle nell’ambito dell’ecologia, dato che è nel quadro di questa disciplina che sono state affrontare le questioni relative alla definizione e al significato della diversità delle comunità di organismi viventi. Sostanzialmente, questo corpus, chiaramente non esaustivo, è limitato a pubblicazioni comparse a partire dagli anni Cinquanta, epoca durante la quale queste questioni hanno cominciato a stimolare un’intensa ricerca. Per le pubblicazioni successive al 1988, ho selezionato un certo numero di articoli che illustrano ricerche, riflessioni e dibattiti generati dall’immissione sul mercato della parola “biodiversità”, così da gettare le basi di una comparazione con le ricerche precedenti.
7Cento anni dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie, dove Darwin mostra tutta l’importanza delle variazioni, George Evelyn Hutchinson, in un brillante articolo dal titolo: Homage to Santa Rosalia. Or Why There Are So Many Kinds of Animals (1958) getta le fondamenta di quella che si potrebbe chiamare “ecologia della diversificazione”, fornendo chiavi di lettura più che mai pertinenti per apprezzare portata e limiti delle ricerche pre- e post- biodiversità.
8Per prima cosa, Hutchinson colloca la questione alla scala del funzionamento trofico delle comunità locali, mostrando che una catena alimentare non può, di per sé, offrire una grande diversità di specie, a causa delle dispersioni di energia da una tappa a quella seguente. Inoltre, spiega che il gioco della selezione naturale può condurre alla riduzione di una catena alimentare, nel caso in cui la selezione accresca l’efficacia di un predatore il quale, eliminate le sue prede dirette, deve trasferire la predazione sulle specie di cui queste ultime si nutrivano. La domanda iniziale (perché vi siano così tante specie animali) si trasforma allora nella domanda su che cosa sia a determinare il numero delle catene alimentari in una comunità. Hutchinson constata innanzitutto che la «straordinaria diversità della fauna terrestre, che è decisamente maggiore di quella della fauna marina, è evidentemente dovuta alla diversità offerta dalle piante terrestri». Questa prima spiegazione, certamente sensata, non è, ciononostante, soddisfacente, dal momento che non fa che trasferire il problema alla scala dei vegetali. «Perché ci sono così tanti tipi di piante?»; Hutchinson, zoologo, pone l’interrogativo, ma non l’affronta, nella speranza che un ragionamento di ordine generale si applichi anche alle piante, dal momento che «fanno parte del sistema generale delle comunità».
- 4 La complessità delle reti trofiche era già stata sottolineata – ricorda Hutchinson – da più autori: (...)
- 5 MacArthur 1955.
9La riflessione entra allora in una seconda fase. Hutchinson ricorda che le comunità biologiche non sono costituite di catene indipendenti, ma di reti trofiche, food webs, strutturate in maniera tale che ogni individuo di un certo livello in una di esse può disporre di tutte le specie dei livelli inferiori, in qualità di risorse alimentari. In altre parole, le specie di un medesimo livello costituiscono cibo alternativo per un predatore4; c’è qui, in nuce, il concetto di ridondanza funzionale delle specie, destinato ad acquistare una grande importanza, come vedremo. Hutchinson fa poi riferimento a un articolo teorico di Robert MacArthur5, che offrirebbe «una prova formale del fatto che la stabilità di una comunità aumenta man mano che il numero dei legami nella sua rete trofica cresce». Si tratta dell’idea paradigmatica che la stabilità di una comunità sia funzione della sua complessità in termini di interazioni trofiche, cioè di diversità. Nel suo articolo, MacArthur formula inoltre l’idea che la stabilità «permette alle comunità individuali di sopravvivere a detrimento delle comunità meno stabili». Su queste basi, Hutchinson asserisce:
Così, la teoria ecologica moderna risponde alla nostra domanda iniziale almeno in parte, affermando che c’è una grande diversità di organismi perché le comunità costituite di numerosi organismi diversificati hanno una maggiore capacità di persistere rispetto alle comunità costituite di un minor numero d’organismi diversificati.
10Questa frase segna precisamente il momento di un avanzamento teorico fondamentale: la diversità di una comunità biologica condizionerebbe la sua capacità di persistenza, la sua capacità di durare nel tempo.
11Hutchinson passa poi a considerare i fattori esterni suscettibili di controllare il livello di diversità delle comunità animali: la produttività, che condiziona la quantità di materia vivente elaborata dai vegetali e condivisibile tra gli animali fitofagi, la dimensione dello spazio disponibile, la minore o maggiore complessità della vegetazione, dalla quale dipende il numero di nicchie ecologiche, e infine la struttura a mosaico dell’area, concludendo che:
la ragione per la quale c’è un così grande numero di specie animali risiede in parte nel fatto che un’organizzazione trofica complessa è più stabile di una meno complessa, e che alcuni limiti sono imposti dalla tendenza delle catene alimentari a ridursi o a mescolarsi, da fattori fisici sfavorevoli, dallo spazio, dal grado di sottigliezza che la suddivisione delle nicchie può raggiungere, e da quelle caratteristiche del mosaico ambientale che permettono una maggior diversità di piccole specie che di grandi specie affini.
12Fino a questo punto, la visione di Hutchinson si colloca nel quadro dell’ecologia funzionale, legando diversità e stabilità. Ma, nella sua discussione, Hutchinson va ben più lontano, quando scrive:
Come l’evoluzione adattativa sotto l’effetto della selezione naturale è meno agevole in una piccola popolazione di una specie che in una popolazione più numerosa, dato che il pool totale di variabilità genetica è inevitabilmente minore, così è probabile che un gruppo comprendente molte specie diversificate sarà in grado di cogliere nuove opportunità di evoluzione più facilmente rispetto a un gruppo non diversificato.
13La sua riflessione si iscrive qui in una dimensione pienamente evoluzionistica, di cui si trova un abbozzo in Arthur G. Tansley il quale, nell’articolo del 1935 in cui inventò il concetto di ecosistema, aveva scritto: «C’è in realtà una sorta di selezione naturale dei sistemi al loro inizio, e quelli che possono raggiungere l’equilibro più stabile sopravvivono più a lungo».
14Hutchinson ha così enunciato un principio teorico fondamentale, secondo il quale una maggior diversità in specie conferisce alle comunità una maggior capacità di adattarsi a nuovi contesti. Ciononostante, questo approccio evoluzionista non ha segnato in maniera significativa le ricerche sulla diversità che si sono sviluppate nel corso dei tre decenni successivi. Queste si sono di fatto limitate a due grandi orientamenti, presenti nell’articolo di MacArthur del 1955. Da un lato, si è cercato di quantificare la diversità delle comunità biologiche, dall’altro, si è esplorata la natura delle relazioni tra diversità, complessità e stabilità. All’analisi di questi due orientamenti sono dedicate, rispettivamente, le due prossime sezioni.
- 6 Cfr. anche Gosselin 2014.
- 7 Shannon 1948; Shannon, Weaver 1949.
15L’ecologia si è rapidamente costituita come una scienza naturalista che sviluppa analisi quantitative, in particolare nello studio del funzionamento trofico degli ecosistemi. Come sottolineato da Jean-Paul Deléage (1991), l’articolo di Raymond L. Lindeman The Trophic-dynamic Aspect of Ecology del 1942 segna il raggiungimento della maturità del paradigma dell’ecologia quantitativa, il cui obiettivo principale è la misurazione dei flussi di energia che attraversano le reti trofiche. Si tratta di misurare non solo le biomasse (o i loro equivalenti energetici), ma anche la produttività, vale a dire l’elaborazione della biomassa da parte delle differenti specie che compongono un ecosistema durante un arco di tempo determinato (generalmente un anno). Odum, in Fundamentals of Ecology (1953), aveva enunciato il principio secondo il quale, in una comunità biologica, la quantità di diverse strade che l’energia può scegliere percorrendo la rete trofica è una misura della stabilità della comunità. Per esprimere questa quantità di strade, MacArthur elaborò una funzione di cui sottolineava la somiglianza con la funzione di Shannon e Weaver7 (comunemente detta “indice di Shannon”), da loro concepita nel quadro della teoria dell’informazione. Per MacArthur, questo indice era una misura della diversità e della stabilità, poiché il principio di Odum legava direttamente la stabilità alla diversità delle vie di circolazione dell’energia. Tuttavia, secondo MacArthur, la stabilità in oggetto non era legata direttamente al numero di specie; o, più precisamente, una stessa stabilità poteva essere ottenuta da strutture trofiche differenti: un gran numero di specie con un ridotto numero di prede, o un piccolo numero di specie con un’ampia varietà di prede. Si tratta di una difficoltà che si rivelerà ricorrente: una specie non si riduce a un numero all’interno di un computo, e il concetto di diversità abbraccia realtà che possono essere profondamente diverse in termini di organizzazione delle comunità.
16Anche senza considerare le caratteristiche biologiche ed ecologiche di ciascuna specie, che determinano il suo particolare ruolo nella rete trofica, i ricercatori si trovano di primo acchito a doversi confrontare col fatto che la diversità di una comunità non è legata solo al maggiore o minore numero di specie che la compongono, ma anche alle loro abbondanze relative: una comunità largamente dominata da una specie è meno diversa di una in cui le specie sono tutte ugualmente abbondanti. Per “misurare” la diversità bisogna dunque al tempo stesso stabilire il numero di specie e stimare il numero – o la proporzione – degli organismi individuali che le compongono. Il numero totale di questi ultimi, osservati o raccolti, dipende evidentemente dall’efficacia dei metodi di osservazione o di campionamento. È dunque chiaro che la determinazione del numero delle specie è legata allo sforzo di campionamento, espresso nei tempi di osservazione o in numero di individui raccolti: il rilevamento di una specie estremamente rara presuppone uno sforzo estremamente elevato. Inoltre, la stima delle frequenze pone dei problemi complessi per quanto riguarda la precisione dei metodi di conteggio e gli eventuali bias che questi comportano, senza parlare della rappresentatività di una misurazione effettuata in un momento dato rispetto alle eventuali variazioni di abbondanza nell’arco delle stagioni… La misurazione della diversità si annuncia dunque come una questione complicata.
- 8 In generale, dato che due comunità con lo stesso numero di specie possono avere diversità different (...)
17Senza che i problemi concreti di ordine metodologico siano stati risolti, si è assistito a un rapido sviluppo dei lavori teorici, miranti a definire matematicamente indici che esprimano la diversità di una comunità biologica. Nel 1943, la pubblicazione di Ronald A. Fisher, Alexander S. Corbet e Carrington B. Williams segna l’origine di quest’orientamento, caratterizzato dal desiderio di dar conto della diversità sia per mezzo di un indice che permetta di calcolarne il valore numerico, sia per mezzo di modelli di distribuzione d’abbondanza che rappresentino, in forma di “diagrammi rango-frequenza” il numero di specie, in seno a una comunità, in funzione del numero degli organismi individuali per specie. La tabella 1 raggruppa alcuni tra i lavori più significativi pubblicati a partire dagli anni Quaranta fino alla metà degli anni Ottanta. Alcuni propongono indici e modelli, la cui minore o maggiore rilevanza viene discussa dagli altri8.
18Allo stesso tempo, un certo scetticismo stava emergendo. Nel 1966, dopo aver ricordato che «sono state proposte misurazioni sofisticate per tenere in conto il contributo delle specie in funzione delle loro abbondanze relative», Eric R. Pianka constata che le abbondanze sono difficili da misurare e possono variare nel corso dei periodi di studio; conclude affermando che «in numerose circostanze l’indice più semplice, il numero delle specie presenti, può essere la più utile misura della diversità locale o regionale. Questo indice accorda il medesimo peso alle specie rare e a quelle comuni, e costituisce la logica misura della diversità nelle situazioni in cui vi siano molte specie rare, ma presenti in maniera regolare»9. Qualche anno più tardi, nel 1971, Stuart H. Hurlbert faceva una constatazione più radicale:
Gli ecologi delle comunità hanno consacrato enormi sforzi per raffinare questi indici da un punto di vista matematico e statistico, per calcolare la diversità delle diverse collezioni di organismi, e per mettere in correlazione la diversità con altre variabili. Questi sforzi son stati fatti talvolta a detrimento di approcci più sostanziali all’ecologia delle comunità. L’espressione “diversità specifica” è stata definita in modo così vario e disparato che a oggi non vuole dire nulla più di “qualcosa che ha a che fare con la struttura delle comunità”; la diversità specifica è diventata un non-concetto10.
19L’anno successivo, MacArthur, peraltro uno dei primissimi ad aver proposto un indice, suggeriva di eliminare la parola “diversità” dal vocabolario ecologico. Dal momento che gli ecologi avevano perso molto tempo in polemiche per stabilire quale degli indici fosse il migliore, il termine era diventato più dannoso che utile11.
Tabella 1. Pubblicazioni principali, antecedenti al 1989, che trattano della misura della diversità specifica (talvolta chiamata “diversità ecologica”)
Anno
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Titolo
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Autori e riferimento
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1943
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The relation between the number of species and the number of individuals in a random sample of an animal population
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R.A. Fisher, A.S. Corbet & C.B. Williams, “J. Anim. Ecology”, 12, 42-58.
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1948
|
The commonness and rarity of species
|
F.W. Preston, “Ecology”, 29, 254-283.
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1949
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Measurement of diversity
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E.H. Simpson, “Nature”, 163, 688.
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1953
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The population frequencies of species and the estimation of population parameters
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I.J. Good, “Biometrika”, 40, 237-264.
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1955
|
Fluctuations of animal populations, and a measure of community stability
|
R.H. MacArthur, “Ecology”, 36, 533-536.
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1958
|
Information theory in ecology
|
R. Margalef, “General Systems”, 3, 36-71.
|
1960
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On the relative abundance of species
|
R.H. MacArthur, “Am. Natur.”, 94, 25-36.
|
1962
|
The canonical distribution of commonness and rarity: Part I; Part II
|
F.W. Preston, “Ecology”, 43, 185-215; 410-432.
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1964
|
A table for calculating the “equitability” component of species diversity
|
M. Lloyd & R.J. Ghelardi, “J. Anim. Ecology”, 33, 217-225.
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1964
|
A comparison of some species-individuals diversity indices applied to samples of field insects
|
E.P. Menhinick, “Ecology”, 45, 859-861.
|
1966
|
The use of Information theory in the study of the diversity of biological populations
|
E.C. Pielou, “Proceedings of the Fifth Berkeley Symposium on Mathematical Statistics and Probability”, 4, 163-177.
|
1966
|
Shannon’s formula as a measure of specific diversity: its use and misuse
|
E.C. Pielou, “Am. Natur.”, 100, 463-465.
|
1966
|
The measurement of diversity on different types of biological collections
|
E.C. Pielou, “J. Theor. Biol.”, 13, 131-144.
|
1967
|
An index of diversity and the relation of certain concepts to diversity
|
R.P. McIntosh, “Ecology”, 48, 392-404.
|
1969
|
Some aspects of species diversity models
|
L.L. Eberhardt, “Ecology”, 50, 503-505.
|
1969
|
An introduction to mathematical ecology
|
E.C. Pielou, New York, John Wiley & Sons.
|
1970
|
Diversity of planktonic Foraminifera in deep-sea sediments
|
W.H. Berger & F.L. Parker, “Science”, 168, 1345-1347.
|
1972
|
Evolution and measurement of species diversity
|
R.H. Whittaker, “Taxon”, 21, 213-251.
|
1973
|
Diversity: a sampling study
|
E.W. Fager, “Am. Natur.”, 106, 293-310.
|
1973
|
Diversity and evenness: a unifying notation and its consequences
|
M.O. Hill, “Ecology”, 54, 427-432.
|
1974
|
The measurement of species diversity
|
R.K. Peet, “Ann. Rev. Ecol. Syst.”, 5, 285-307.
|
1974
|
The statistics of relative abundance and diversity
|
D.J. Webb, “J. Theor. Biol.”, 43, 277-292.
|
1974
|
Ecologia
|
R. Margalef, Barcelona, Ediciones Omega.
|
1975
|
Patterns of species abundance and diversity
|
R.M. May, in M.L. Cody & J.M. Diamond (Eds.), Ecology and Evolution of Communities, Belknap Press, Harvard University Press, 81-120.
|
1975
|
Ecological Diversity
|
E.C. Pielou, New York, Wiley-Interscience.
|
1975
|
Relative Diversity Indices
|
R.K. Peet, “Ecology”, 56, 496-498.
|
1977
|
Mathematical Ecology
|
E.C. Pielou, 2d. ed., New York, John Wiley & Sons.
|
1982
|
Diversity as a concept and its measurement
|
G.P. Patil & C. Taillie, “J. Am.Stat. Ass.”, 77, 548-561.
|
1982
|
Diversity and dissimilarity coefficients – A unified approach
|
C.R. Rao, “Theor. Pop. Biol.”, 21, 24-43.
|
1984
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On the relationship between abundance and distribution of species.
|
J.H. Brown, “Am. Natur.”, 124, 255-279.
|
1988
|
Ecological diversity and its measurement
|
A.E. Magurran, Princeton, Princeton University Press.
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20Può sembrar paradossale voler esprimere per mezzo di un semplice numero una realtà dalle molteplici dimensioni. Nella sua Storia dell’ecologia12, Deléage constatava senza dubbio la fragilità degli indici di diversità ma, in più, si interrogava sulla difficoltà di cogliere una natura indicibilmente complessa:
La pluralità degli indici di diversità […] è il riflesso della diversità degli oggetti di studio degli ecologi, ma anche di una certa confusione teorica. Di recente si sono mostrate le sensibilità estreme e completamente divergenti di quattordici di questi indici a un’infima differenza tra due popolazioni A e B di mille individui. Dovremmo dunque, seguendo S.H. Hurlbert, considerare la diversità come un “non-concetto”, o invece dovremmo ammettere che questa confusione corrisponde a uno stato transitorio della conoscenza scientifica destinato a essere superato da una teoria più generale? Questa confusione appartiene ai nostri modelli, o è il prodotto dell’immensa complessità della natura?
21Ispirandosi al libro di Odum, MacArthur incentrava il suo articolo del 1955 sul concetto di stabilità delle comunità biologiche e sulla dipendenza della stabilità dalla diversità specifica. Proponeva la seguente definizione di stabilità:
In certe comunità, l’abbondanza di specie tende a restare all’incirca costante, mentre in altre le abbondanze variano considerevolmente. Siamo inclini a riconoscere le prime come stabili, le seconde come instabili. Ciononostante, questo concetto deve essere precisato. Supponiamo che per una qualunque ragione, una specie presenti un’abbondanza anormale. Diremo che la comunità è instabile se in conseguenza le abbondanze delle altre specie cambiano in maniera importante. Meno questa abbondanza anormale ha effetto sulle altre specie, più la comunità è stabile.
22Al termine del ragionamento condotto per proporre un indice di stabilità, MacArthur sottolineava, in una prospettiva evoluzionista che ricordava quella di Tansley, il legame tra stabilità e ricchezza specifica: «Là dove non c’è che un piccolo numero di specie […] la stabilità è difficile, se non impossibile, da ottenere. […] Là dove vi sia un gran numero di specie, la stabilità può essere ottenuta». MacArthur enunciava così quella che sarebbe divenuta per molti un’evidenza, e per altri un’intuizione difficile da provare.
23La tabella 2 raccoglie lavori che illustrano la ricchezza delle ricerche su quella che sarà chiamata “l’ipotesi diversità-stabilità”.
Tabella 2. Selezione di pubblicazioni, anteriori al 1989, sulle relazioni tra diversità specifica, complessità e stabilità delle comunità ecologiche
Anno
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Titolo
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Autori e riferimento
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1964
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Comments on fluctuations of animal populations and measures of community stability
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K.E.F. Watt, “Can. Entomol.”, 96, 1434-1442.
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1965
|
On the relation between the productivity, biomass, diversity, and stability of a community
|
E.G. Leigh, jr., “Proc. Nat. Acad. Sci.”, 53, 777-783.
|
1966
|
Food web complexity and species diversity
|
R.T. Paine, “Am. Natur.”, 100, 65-75.
|
1968
|
The relationship between species diversity and stability: an experimental approach with protozoa and bacteria
|
N.G. Hairston et al., “Ecology”, 49, 1091-1101.
|
1969
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A note on trophic complexity and community stability
|
R.T. Paine, “Am. Natur.”, 103, 91-93.
|
1969
|
The meaning of stability
|
R.C. Lewontin, in “Brookhaven Symp. Biol.”, 22, 13-24.
|
1969
|
Diversity and stability: a practical proposal and a model of interdependence
|
R. Margalef, in “Brookhaven Symp. Biol.”, 22, 25-37.
|
1970
|
Evolution of diversity, efficiency and community stability
|
O.L. Loucks, “Am. Zool.”, 10, 17-25.
|
1971
|
Stability in multi-species community models
|
R.M. May, “Math. Biosci.”, 12, 59-79.
|
1972
|
Spatial heterogeneity, stability and diversity in ecosystems
|
F.E. Smith, “Trans. Conn. Acad. Arts Sci.”, 44, 309-335.
|
1972
|
Will a large complex system be stable?
|
R.M. May, “Nature”, 238, 413-414.
|
1973
|
Community structure and stability in constant environments
|
D. Futuyma, “Am. Natur.”, 107, 443-446.
|
1973
|
Stability and Complexity in Model Ecosystems
|
R.M. May, Princeton, Princeton University Press.
|
1975
|
Diversity, stability and maturity in natural ecosystems
|
G.H. Orians, in W.H. van Dobben & R.H. Lowe-McConnell, (Eds.), Unifying concepts in ecology, The Hague, Junk, 139-150.
|
1975
|
Diversity, stability and maturity in natural ecosystems
|
R. Margalef, in W.H. Van Dobben & R.H. Lowe-McConnell, (Eds.), Unifying concepts in ecology, The Hague, Junk, 151-160.
|
1975
|
Stability in ecosystems: some comments
|
R.M. May, “J. Theor. Biol.”, 51, 161-168.
|
1978
|
Stability and diversity of ecological communities
|
S.J. MacNaughton, “Nature”, 274, 251-253.
|
1978
|
Complexity and stability
|
N. MacDonald, “Nature”, 276, 117-118.
|
1979
|
Complexity, stability and self-organization in natural communities
|
R.E. Ulanowicz, “Oecologia” (Berl.), 43, 295-298.
|
1979
|
Complexity and stability: another look at MacArthur’s original hypothesis
|
S.L. Pimm, “Oikos”, 33, 351-357.
|
1980
|
Functional complexity and ecosystem stability.
|
P. Van Voris et al., “Ecology”, 61, 1352-1360.
|
1983
|
Complexity, diversity, and stability: a reconciliation of theoretical and empirical results
|
A.W. King & S.L. Pimm, “Am. Natur.”, 122, 229-239.
|
1983
|
Community assembly and food web stability
|
W.M. Post & S.L. Pimm, “Math. Biosci.”, 64, 169-192.
|
1984
|
The complexity and stability of ecosystems
|
S.L. Pimm, “Nature”, 307, 321-326.
|
1988
|
Biological diversity in the context of ecosystem structure and function
|
B.B. Simpson, “Biology International”, 17, 15-17.
|
24Dieci anni dopo MacArthur, Egbert G. Leigh jr., in un lavoro dalla dimensione fortemente matematica presentato alla National Academy of Science da Hutchinson, dimostrava che la stabilità di una comunità (intesa come la rarità di eventi di esplosione o di caduta demografica drastica delle singole specie che la compongono) è massimizzata dalla massimizzazione del numero di legami nella rete trofica della comunità; e che in una comunità con la struttura trofica il più stabile possibile, la stabilità aumenta al diminuire della produttività o all’aumentare della biomassa e, sotto certe condizioni, la stabilità aumenta all’aumentare del numero delle specie13. Le equazioni messe a punto da Leigh jr. evidenziavano i legami complessi tra stabilità, produttività, biomassa, numero di specie e numero di legami trofici per specie; in particolare, Leigh jr. era arrivato a concludere che l’aumento del numero di specie senza un aumento dei legami trofici non si traduceva in un aumento della stabilità.
25A seguito di esperienze condotte in ambiente marino, che consistevano nel comparare l’evoluzione delle comunità di specie in competizione per lo spazio a seconda che i predatori di queste specie venissero eliminati oppure no, Robert T. Paine (1966, vedi tabella 2) avanzava la conclusione che «su scala locale, la diversità delle specie animali è legata al numero dei predatori e alla loro efficacia nell’impedire che una specie sola monopolizzi una risorsa importante ma limitata». Il lavoro di Paine è divenuto rapidamente celebre, ma è rimasto uno dei rari approcci sperimentali di modalità concrete delle relazioni tra complessità e diversità. All’altra estremità dello spettro di ricerche, simulazioni al computer hanno permesso di testare l’ipotesi secondo la quale sistemi più complessi (dunque più diversi) sarebbero più stabili. Queste ricerche, dovute principalmente a Robert M. May e pubblicate tra il 1971 e il 1975 (tabella 2), hanno mostrato che i sistemi complessi sarebbero meno stabili dei sistemi più semplici, contrariamente all’intuizione corrente.
26Nel 1975, un’importante sintesi critica sulla “teoria” delle relazioni tra diversità e stabilità viene pubblicata da Daniel Goodman. Le sue conclusioni sono radicali. Al di là della condanna dell’indice di Shannon, il cui significato biologico era secondo lui oscuro, Goodman osservava che gli studi empirici che si riteneva testassero l’ipotesi di una relazione tra diversità e stabilità erano tutti ambigui per ragioni metodologiche intrinseche, e che i modelli informatici non banali disponibili generavano risultati che andavano contro l’ipotesi. Sottolineava inoltre che l’abbondante letteratura matematica a sostegno dell’ipotesi era fondata su presupposti poco realistici e su approssimazioni matematiche inammissibili. Infine, faceva notare che tutti questi approcci trascuravano le capacità intrinseche di stabilizzazione presenti alla scala degli individui e delle popolazioni, che le formulazioni teoriche dell’ipotesi non avevano legami necessari con una legge scientifica certa, e che i loro presupposti non si iscrivevano in una prospettiva evoluzionista. E concludeva dichiarando «senza fondamento» la credenza secondo la quale comunità più diversificate sarebbero più stabili.
- 14 Rispetto, cioè, agli atti curati da Woodwell, Smith (1969).
27A dispetto di quest’analisi severa, punti di vista differenti hanno continuato a venire espressi. Tra questi, l’analisi di Samuel J. McNaughton (1977) è particolarmente interessante. Constatando che nei Proceedings of the First International Congress of Ecology pubblicati nel 1974 i punti di vista sulla relazione diversità-stabilità erano molto più diversificati rispetto al 196914, dove invece la relazione era oggetto di un ampio consenso, McNaughton avanzava l’idea che questo cambiamento si fosse prodotto nell’intervallo che separava i due avvenimenti a seguito dell’utilizzo di modelli rigorosi, come quello di May, che suggerivano ipotesi diverse, mentre un numero troppo esiguo di test empirici era stato realizzato. Appoggiandosi in particolare sui propri studi sul campo, McNaughton concludeva, in piena contraddizione con Goodman, che i dati sulle relazioni tra diversità e stabilità nelle comunità vegetali «indicano che il modello informale tradizionale è considerevolmente più robusto dei modelli matematici recenti, “più rigorosi”».
- 15 Si vedano, per esempio, Huston 1979; Colwell 1979; Brown 1981.
28Articoli i cui titoli associavano diversità, complessità e stabilità si susseguirono ancora fino almeno agli anni Ottanta, difendendo posizioni talvolta opposte. Ciononostante, vennero fatti alcuni tentativi rivolti a proporre approcci e teorie generali, senza che tuttavia si approdasse a una visione coerentemente convincente15.
- 16 Blandin 2009; 2010.
- 17 Uicn, Unep, Wwf 1980.
- 18 Soulé and Wilcox 1980. Cf. Meine, Soulé and Noss 2006.
29“Il simposio di Washington sulla ‘BioDiversity’ ”aveva come obiettivo principale quello di allertare sulla perdita massiccia di specie vegetali e animali generata dalla crescita della popolazione umana e dall’impatto della sua attività sugli ambienti naturali. Inoltre, si trattava di riflettere sui valori della biodiversità e sui mezzi per conservarla. In questo, il simposio non aveva nulla di rivoluzionario. Al contrario, si iscriveva nella lunga tradizione della conservazione della natura16. La conservazione della diversità genetica, della diversità delle specie domestiche e selvatiche e degli ecosistemi faceva esplicitamente parte degli obiettivi della Strategia mondiale della conservazione pubblicata nel 1980 dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Uicn), il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) e il Wwf – e redatta in collaborazione con la Fao e l’Unesco17. Nel 1981, in Conservation and Evolution, Otto H. Frankel e Michael E. Soulé avevano sottolineato l’importanza della conservazione della diversità, in particolare genetica. Prima, nel 1980, Soulé e Wilcox avevano pubblicato gli atti di un convegno tenutosi nel 1978, considerato l’atto di nascita della biologia della conservazione18, scienza della rarità e della diversità, secondo la visione sviluppata nel 1986 in un’opera curata sempre da Soulé. Questa nuova disciplina non mostrava tuttavia che pochi legami con le ricerche ecologiche sulla diversità specifica e la questione della stabilità. Frankel e Soulé, per esempio, ne parlano pochissimo, non citando che gli “immancabili” Hutchinson (1959), Paine (1966), MacArthur (1972) e May (1973).
- 19 Reid and Miller 1989.
- 20 McNeely et al. 1990.
30Poco dopo la pubblicazione di Biodiversity di Wilson e Peter, opere sulla conservazione della biodiversità furono pubblicate sotto l’egida di organismi internazionali. Nel 1989, il World Resources Institute pubblica un documento sulle basi scientifiche della conservazione della biodiversità19, e nel 1990, la Banca Mondiale, il World Resources Institute, l’Uicn, Conservation International, e il Wwf statunitense pubblicano Conserving the world’s biological diversity20. Anche qui, pochi i riferimenti ai lavori ecologici precedenti. La preoccupazione è più quella di definire delle direzioni pragmatiche per la conservazione della biodiversità – che si tratti della definizione di priorità o della concezione di piani d’azione – che non quella di discutere la definizione della diversità e i rapporti tra biodiversità e stabilità degli ecosistemi. Gli autori si collocano nell’ottica della preparazione di una convenzione internazionale, nella cui elaborazione il mondo della conservazione si impegna particolarmente. Questa convenzione sarà firmata nel 1992 alla conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro. Poco prima, il World Resources Institute, l’Uicn, e l’Unep avevano pubblicato Global Biodiversity Strategy, opera destinata a fornire una base per azioni concrete in attesa dell’entrata in vigore della convenzione.
- 21 Di Castri and Younès 1990.
- 22 Solbrig (ed.) 1991.
31In questo periodo, sotto l’egida dell’International Union of Biological Sciences (Iubs), dello Scientific Committee on Problems of the Environment e dell’Unesco, alcuni scienziati lavorano all’elaborazione di un programma di cooperazione internazionale. A partire dal 1990, a cura di Francesco di Castri (Unesco) e Talal Younès (Iubs), vengono proposti alcuni primi orientamenti, incentrati sulle relazioni tra biodiversità e funzionamento degli ecosistemi21. Nel 1991, viene organizzato un convegno internazionale a Harvard Forest, negli Stati Uniti22. La sfida è lanciata:
Tutti i partecipanti hanno riconosciuto che la nostra conoscenza di quale sia il contributo della diversità al funzionamento dei sistemi biologici è ancora inadeguata. La perdita di biodiversità è difficile da percepire e da quantificare, dato che è difficile distinguere i cambiamenti naturali da quelli provocati dall’uomo. Inoltre, per la maggior parte della superficie del globo, non abbiamo misure di base in rapporto alle quali sarebbe possibile valutare i cambiamenti osservati. Questo problema è equivalente al problema di identificare il cambiamento climatico dovuto alle attività umane. Di conseguenza, nessuna previsione affidabile può essere effettuata, a oggi, circa il modo in cui i sistemi biologici risponderanno ai cambiamenti di origine antropica. Ciononostante, ne sappiamo abbastanza per poter dire, in maniera qualitativa, che la risposta più verosimile sarà un incremento della fragilità degli ecosistemi. Sembra anche che gestioni appropriate necessitino di una conoscenza più precisa del funzionamento degli ecosistemi. Pensiamo che, dati i grandi avanzamenti effettuati negli ultimi cinquant’anni nella comprensione dei meccanismi molecolari del funzionamento cellulare, sia tempo di cominciare uno studio serio del ruolo della biodiversità nei sistemi biologici. I cambiamenti attesi, di origine umana, dell’uso delle terre e del clima, impongono tali studi.
- 23 Rispettivamente, Pimm 1984 e Simpson 1988.
32L’articolazione con le ricerche ecologiche anteriori è netta, nel programma del convegno, per quanto concerne la questione della misura della diversità specifica: nove dei trentun lavori della tabella 1 sono citati nel documento tratto dal convegno di Harvard Forest. Per contro, la questione della relazione tra biodiversità e funzionamento degli ecosistemi si è sostituita alla questione della relazione diversità-stabilità: se si esclude l’articolo di Pimm su “Nature”, nessuno dei lavori della tabella 2 viene citato, a eccezione di quello di Simpson23, che giustamente solleva il problema del legame tra diversità, struttura e funzionamento degli ecosistemi, e pone l’accento sulla nozione di ridondanza funzionale.
33Di fatto, il progetto elaborato con il convegno di Harvard Forest accorda un’importanza centrale alla questione della ridondanza, introducendo una distinzione a prima vista molto sottile: distingue cioè la diversità delle funzioni compiute da diversi “tipi funzionali” in seno a un ecosistema dalla diversità delle specie appartenenti a un medesimo tipo funzionale, dunque in principio funzionalmente ridondanti. Da qui l’ipotesi:
Sembra ragionevole supporre che un ecosistema nel quale una ricchezza specifica elevata risulti dall’esistenza di numerosi tipi funzionali diversi, ma che, all’interno di ciascun tipo, non presenti che poche specie funzionalmente analoghe, risponda a una perturbazione o un cambiamento ambientale, per esempio, diversamente da un ecosistema che comprende relativamente pochi tipi funzionali ma nel quale la ricchezza specifica elevata risulti dall’esistenza di un gran numero di analoghi funzionali all’interno di ciascun tipo.
34Questa distinzione ha condotto a evidenziare la “diversità funzionale”, cioè la diversità delle funzioni compiute all’interno di un ecosistema, come una dimensione della biodiversità distinta dalla ricchezza specifica.
35Nel 1991, Solbrig24 aveva sottolineato che ancora non si aveva una risposta alla questione chiave: «Fino a che punto due specie che coesistono in una comunità possono essere simili?». La tabella 3 fornisce un campione delle pubblicazioni, successive al 1989, sulla ridondanza funzionale.
- 25 Gitay, Wilson and Lee 1996.
- 26 Naem 1998.
- 27 Ghilarov 2000.
36Il concetto di ridondanza funzionale ha dato luogo a non poche controversie tra chi lo considera privo di reale interesse25 e chi invece lo difende26. Nel 2000, Alexei M. Ghilarov scrive che la ridondanza tra specie è semplicemente impossibile, dato che ciascuna specie occupa un posto unico nel sistema di cui fa parte27. Ma si può davvero risolvere così la questione? Dieci anni dopo, sulla base di numerosi lavori empirici, Blain D. Griffen e i suoi coautori mostrano che, al contrario, la ridondanza delle specie non è una mera fantasia, e affermano che fornendo a questo concetto una dimensione predittiva sarebbe possibile legare più solidamente le pratiche di conservazione ai concetti dell’ecologia.
Tabella 3. Campione di saggi, successivi al 1989, sulla ridondanza funzionale tra specie
Anno
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Titolo
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Autori e riferimento
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1992
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Biodiversity and ecological redundancy
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B. Walker, “Conservation Biology”, 6, 18-23.
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1993
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Redundancy in ecosystems
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J.H. Lawton & V.K. Brown, In: E.D. Schulze & H.A. Mooney, (Eds.), Biodiversity and Ecosystem Function, New York, Springer, 255-268.
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1994
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Species diversity: functional diversity and functional redundancy in fynbos communities
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R.M. Cowling et al., “South African Journal of Science”, 90, 333-337.
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1996
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Species redundancy: a redundant concept?
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H. Gitay et al., “J. Ecol.”, 84: 121-124.
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1997
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Species redundancy versus non-redundancy: is it worth further discussion?
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A.M. Ghilarov, “Zh. Obshch. Biol.”, 58, 100-105.
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1998
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Quantifying structural redundancy in ecological communities
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K.R. Clarke & R.M. Warwick, “Oecologia”, 113, 278-289.
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1998
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Species redundancy and ecosystem reliability
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S. Naeem, “Conservation Biology,” 12, 39-45.
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2000
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Ecosystem functioning and intrinsic value of biodiversity
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A.M. Ghilarov, “Oikos”, 90, 408-412.
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2001
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Grazer diversity, functional redundancy, and productivity in seagrass beds: an experimental test
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J.E. Duffy et al., “Ecology”, 82, 2417-2434.
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2001
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Species functional redundancy, random extinction and the stability of ecosystems
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C.R. Fonseca & G. Ganade, “Ecology”, 89, 118-125.
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2002
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Functional redundancy in ecology and conservation
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J.S. Rosenfeld, “Oikos”, 98, 156-162.
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2003
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Limited functional redundancy in high diversity systems: resilience and ecosystem function on coral reefs
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D.R. Bellwood et al., “Ecology Letters”, 6, 281-285.
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2004
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Does functional redundancy exist?
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M. Loreau, “Oikos”, 104, 604-611.
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2004
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Functional redundancy supports biodiversity and ecosystem function in a closed and constant environment
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D.L. Wohl et al., “Ecology”, 85, 1534-1540
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2007
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Rare species, habitat diversity and functional redundancy in marine benthos
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K.E. Ellingsen et al., “J. Sea Res.”, 58, 291-301.
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2010
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Moving species redundancy toward a more predictive framework
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B.D. Griffen et al., Eco-DAS VIII Chapter 3, 30-46.
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37Il convegno internazionale di Harvard Forest aveva elaborato un insieme di ipotesi da testare per chiarire le relazioni tra ridondanza funzionale, diversità specifica, e stabilità delle comunità e degli ecosistemi28. Temi che, se si esclude la ridondanza funzionale, prima del 1989 avevano dato luogo a numerose ricerche e restavano pertanto di primaria importanza, benché l’accento venisse posto con forza sulla dimensione funzionale.
38Nel 2005, un gruppo internazionale di ricercatori, coordinato da David U. Hooper, pubblica un articolo per presentare gli elementi sui quali era stato raggiunto un consenso circa gli effetti della biodiversità sul funzionamento degli ecosistemi. Questa sintesi dà un’idea delle ricerche che si sono sviluppate dopo il 1988. Poco interesse viene accordato dagli autori alla quantificazione della biodiversità nel senso in cui la si intendeva prima del 1989 con l’elaborazione degli indici matematici. Eppure, la questione della misurazione della biodiversità era stata di nuovo affrontata, tra il 1988 e il 2005, da una serie di pubblicazioni, di cui la tabella 4 fornisce alcuni esempi.
39Il consenso, per Hooper e colleghi, sarebbe stato raggiunto in particolare su due certezze: primo, che «certe proprietà degli ecosistemi non sono sensibili alla perdita delle specie dato che (a) gli ecosistemi possono avere specie molteplici che svolgono ruoli funzionali simili, (b) certe specie non possono che contribuire relativamente poco alle proprietà degli ecosistemi, o (c) le proprietà possono essere controllate innanzitutto per mezzo di condizioni dell’ambiente abiotico»; secondo, che «per assicurare un rifornimento stabile di beni e servizi ecosistemici sono necessarie tante più specie quanto più la variabilità spaziale e temporale aumenta, cosa che evidentemente ha luogo quando si considerino periodi di tempo più lunghi e aree più vaste».
40Mi sembra importante che la ridondanza funzionale sia di fatto riconosciuta come una proprietà che permette di rimediare alla perdita di certe specie. Per contro, il gruppo di ricercatori sembra ammettere che certe specie possano in qualche modo non servire a niente, il che indebolisce l’idea che più il contesto varia, più è necessario che vi siano specie differenti perché gli ecosistemi producano i beni e i servizi che ci si attende da loro. D’altronde, Hooper e colleghi considerano anche come certo il fatto che specie rare possano fortemente influenzare il percorso dei flussi di energia e di materia in seno a un ecosistema (l’antica intuizione che una più grande ricchezza di specie renderebbe più probabile la persistenza del funzionamento degli ecosistemi si sarebbe così trasformata in certezza, almeno ai loro occhi).
Tabella 4. Qualche saggio, successivo al 1988, che tratta della quantificazione della biodiversità. (*Articoli citati da Hooper et al. 2005)
Anno
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Titolo
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Autori e riferimento
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1994
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Biodiversity: measurement and estimation
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D.L. Hawksworth, (Ed.), “Phil. Trans. Roy. Soc.”, London B, 345, 1-136.
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1996*
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Biodiversity: a biology of numbers and differences
|
K.J. Gaston, (Ed.), Oxford, UK, Blackwell.
|
2000
|
Getting the measure of biodiversity
|
A. Purvis & A. Hector, “Nature”, 405, 212-219.
|
2002
|
Bridging the gap between ecological indices and measures of biodiversity with Shannon’s entropy: comments to Izsák and Papp.
|
C. Ricotta, “Ecological Modelling”, 152, 1-3.
|
2004
|
Measuring Biological Diversity
|
A.E. Magurran, Malden, MA, Blackwell Publishing.
|
2004
|
A recipe for unconventional evenness measures
|
C. Ricotta, “Acta Biotheor.”, 52, 95-104.
|
2006
|
An assessment of the dependence of evenness indices on species richness
|
F. Gosselin, “J. Theor. Biol.”, 242, 591-597.
|
2006
|
Entropy and diversity
|
L. Jost, “Oikos”, 113, 363-375.
|
41Il consenso si sarebbe anche raggiunto, per Hooper e colleghi, sulla verisimiglianza di alcune proposte. Una prima sottolinea che certi assemblaggi di specie che utilizzano le risorse dell’ambiente in maniera complementare possono accrescere il tasso medio di produttività di un ecosistema e la sua capacità di ritenzione dei nutrienti. Una seconda, curiosamente, indebolisce le certezze appena riportate, dato che gli autori si dicono solamente «fiduciosi» rispetto all’idea che «l’esistenza di una gamma di specie che risponde in modo diverso a diverse perturbazioni ambientali possa permettere la stabilizzazione dei processi ecosistemici in risposta a perturbazioni e variazioni delle condizioni abiotiche».
42Gli autori sottolineano poi l’importanza che sarà rivestita dalla risoluzione delle relazioni tra la diversità tassonomica, la diversità funzionale e la struttura delle comunità per l’identificazione dei meccanismi per mezzo dei quali la biodiversità ha degli effetti sul funzionamento degli ecosistemi. E, infatti, la questione delle relazioni tra diversità, complessità, stabilità e resilienza rimane totalmente aperta29, pur essendo al centro di numerose pubblicazioni successive al 1988 (tabella 5).
Tabella 5. Esempi di pubblicazioni successive al 1988 sulle relazioni tra diversità, complessità, stabilità e resilienza. (*Articoli citati da Hooper et al. 2005)
Anno
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Titolo
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Autori e riferimento
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1989
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The stability of ecosystems
|
T. Hogg et al., “Proc. R. Soc. Lond.” Ser. B. Biol. Sci., 237, 43-51.
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1991*
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Stability increases with diversity in plant communities: empirical evidence from the 1988 Yellowstone drought
|
D.A. Frank. & S.J. McNaughton, “Oikos”, 62, 360-362.
|
1994
|
Pivotal assumptions determining the relationship between stability and complexity: an analytical synthesis of the stability-complexity debate
|
D. Haydon, “Am. Natur.”, 144, 14-29.
|
1994*
|
Biodiversity and stability in grasslands
|
D. Tilman & J.A. Downing, “Nature”, 367, 363-365.
|
1994*
|
Does diversity beget stability?
|
T.J. Givnish, “Nature”, 371, 113-114.
|
1996*
|
Biodiversity: population versus ecosystem stability
|
D. Tilman, “Ecology”, 77, 350-363.
|
1998*
|
The statistical inevitability of stability-diversity relationships in community ecology
|
D.F. Doak et al., “Am. Natur.”, 151, 264-276.
|
1998*
|
Diversity-stability relationships: statistical inevitability or ecological consequence?
|
D. Tilman et al., “Am. Natur.”, 151, 277-282.
|
1998*
|
Ecological resilience, biodiversity, and scale
|
G. Peterson et al., “Ecosystems”, 1, 6-18.
|
1999*
|
Ecological diversity and resilience of Mediterranean vegetation to disturbance
|
S. Lavorel, “Diversity and Distributions”, 5, 1-2.
|
2000
|
The diversity-stability debate
|
K.S. McCann, “Nature”, 405, 228-233.
|
2000*
|
Trophic-dynamic considerations in relating species diversity to ecosystem resilience
|
K.H. Johnson, “Biological Reviews”, 75, 347-376.
|
2002
|
Examining the effects of species richness on community stability: an assembly model approach
|
C.C. Wilmers et al., “Oikos”, 92, 363-367.
|
- 30 Cfr. Hooper et al. 2005.
43Parallelamente, vengono pubblicati lavori che affrontano direttamente la questione dell’effetto di una minore o maggiore biodiversità (nel senso di ricchezza specifica) sul funzionamento degli ecosistemi, in particolare sulla loro produttività, con studi concreti sul campo30; eppure, le polemiche non sono mancate, in particolare a proposito dei protocolli sperimentali.
44Che cos’è la biodiversità, o diversità biologica? Le definizioni non mancano. Eccone tre. La prima è quella proposta dal programma internazionale Diversitas:
- 31 Documento non datato di presentazione del programma Diversitas, Paris, Iubs, Unesco, Scope.
La diversità biologica, o, in breve, biodiversità, è la varietà della vita sulla Terra. La biodiversità è ovunque: ingloba la varietà alla scala del mondo, dei geni, delle specie, degli ecosistemi e dei paesaggi, dalla cima delle montagne alle profondità degli oceani31.
45Si deve la seconda a Edward O. Wilson, in occasione della Conferenza internazionale di Parigi “Biodiversità, scienza e governance”, nel gennaio del 2005:
La diversità biologica – o biodiversità – è la totalità di tutte le variazioni di tutti gli organismi. Essa comprende tre livelli di organizzazione biologica. Se si parte dalla cima per arrivare alla base della scala, questi livelli sono innanzitutto gli ecosistemi, come le foreste, i laghi, i fondali marini, poi le specie, per esempio gli abeti norvegesi o gli orsi bruni dei Pirenei. Infine, alla base, la varietà dei geni che determinano i tratti delle specie32.
46Al termine della conferenza di Parigi, gli scienziati, presieduti da Michel Loreau, offrono una definizione molto più dettagliata:
- 33 Déclaration de Paris sur la biodiversité, 28 janvier 2005, in Barbault et Le Duc 2005: 304-306.
La Terra ospita una straordinaria diversità biologica, che include non solo i milioni di specie che abitano il nostro pianeta, ma anche la diversità dei loro geni, delle loro fisiologie e comportamenti, la moltitudine delle loro interazioni ecologiche e con l’ambiente fisico, e la varietà degli ecosistemi complessi che esse costituiscono. Questa biodiversità, che è il prodotto di più di tre miliardi di anni di evoluzione, costituisce un patrimonio naturale e una risorsa dalla quale l’umanità dipende in molti modi33.
47In sintesi, la biodiversità è la vita. Le cose però non stanno esattamente così per Christian Lévêque, ricercatore all’Institut de recherches pour le développement (Ird), il quale nel 2010 scrive:
- 34 L’originale francese usa l’espressione “auberge espagnole”, intraducibile in italiano [N. d. T.]. L (...)
“Biodiversità” è un termine valigia. Ciascuno vi proietta le sue rappresentazioni della natura in funzione del proprio milieu culturale e del suo vissuto, ma anche in relazione alle proprie aspettative e ai propri interessi immediati. Non sorprenderà allora che la “biodiversità” sia diventata così popolare, dato che ciascuno ci può trovare ciò che vi ha messo dentro!34.
48C’è in qualche modo una variabilità culturale della biodiversità, che si declinerebbe in categorie gerarchizzate, dalla comunità internazionale fino alla varietà delle rappresentazioni individuali. In quindici anni, il «guscio vuoto dentro il quale ciascuno mette ciò che vuole»35 di Jacques Blondel si sarebbe trasformato in valigia che ciascuno riempie a modo suo. Ciononostante, gli sforzi per individuare e chiarire il significato della parola non sono mancati, come testimoniano le pubblicazioni raccolte nella tabella 6, selezionate a titolo di esempio.
Tabella 6. Alla ricerca di una definizione di biodiversità
Anno
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Titolo
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Autori e riferimento
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1996
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What does “biodiversity” mean – scientific problem or convenient myth?
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A.M. Ghilarov, “Trends Ecol. Evol.”, 11, 304-306.
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1996
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Defining biodiversity
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D.C. DeLong Jr., “Wildlife Society Bulletin”, 24, 738-749.
|
1996
|
The Idea of Biodiversity: Philosophies of Paradise
|
D. Takacs, Baltimore, The Johns Hopkins University Press.
|
2002
|
Defining “Biodiversity”; Assessing Biodiversity
|
S. Sarkar, “The Monist”, 85, 131-155.
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2005
|
Species diversity or biodiversity?
|
A.J. Hamilton, “Journal of Environmental Management”, 75, 89-92.
|
2007
|
From ecological diversity to biodiversity
|
S. Sarkar, in D. Hull & M. Ruse, (Eds.), Cambridge Companion to the Philosophy of Biology, Cambridge, MA, Cambridge University Press.
|
2008
|
What is Biodiversity?
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J. Maclaurin & K. Sterelny, Chicago, The University of Chicago Press.
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49In cinquant’anni, dalla pubblicazione di MacArthur (1955) alla Dichiarazione di Parigi (2005), la diversità è passata dall’essere una caratteristica delle comunità biologiche (gli assemblaggi di specie che formano la parte vivente – o “biocenosi” – degli ecosistemi), a una ipostasi della natura36, diventando indefinibile quanto la natura stessa. La concezione “pre-biodiversità” della diversità era limitata alla ricchezza in specie alla scala delle biocenosi, combinata con le loro abbondanze relative. Si trattava dunque di una caratteristica complessa che si è cercato di quantificare in maniera precisa, facendo riferimento a teorie, e in particolare alla teoria dell’informazione: un processo intrinsecamente scientifico. Dato che gli approcci erano svariati, Stuart Hulbert poteva giocare a fare il provocatore affermando che la diversità era un non-concetto, e così proporre la sua propria idea. Bisogna però riconoscere che gli ecologi tentavano di rappresentare matematicamente una caratteristica delle biocenosi che poteva dar luogo a misure concrete, sul campo. L’invenzione della biodiversità, da questo punto di vista, non ha apportato alcun avanzamento. Al contrario. C’è di fatto un abisso tra la biodiversità “esaustivamente definita” e le ricerche in cui ci si limita prudentemente a considerare la ricchezza specifica come una caratteristica accessibile e di cui si spera di misurare l’effetto valutandone le variazioni su certe caratteristiche di funzionamento degli ecosistemi, secondo il consenso descritto nel 2005 da Hooper e colleghi.
50Prima del 1989, la diversità specifica era, se non assimilata, quanto meno strettamente legata alla nozione di complessità. Questa seconda nozione cerca di rendere conto dell’organizzazione delle reti trofiche: una rete che coinvolge numerose specie è più complessa di una meno ricca, ma – a ugual numero di specie – una rete è tanto più complessa quanto più ciascuna specie interagisce con un maggior numero d’altre specie. In questo contesto, è stato possibile considerare i flussi di energia che transitano da ogni specie come più importanti, per la caratterizzazione delle comunità, rispetto al numero di specie. Infatti, se si considerano gli approcci iniziali di Odum e di MacArthur, è la diversità delle vie di circolazione dell’energia la caratteristica fondamentale, e la diversità specifica non è che un mezzo per descriverla. Era qui annunciato quell’approccio funzionale che non verrà intrapreso seriamente che a partire degli anni Novanta.
- 37 Rispettivamente, Mikkelson 1997 e Grimm, Wissel 1997.
51L’idea che una maggior diversità di vie di circolazione garantisca meglio la permanenza del funzionamento di una comunità, in caso di perturbazione, rispetto a una minor diversità, ha rappresentato l’orizzonte teorico della maggioranza dei ricercatori prebiodiversità. Contestata, difesa, l’ipotesi diversità / complessità-stabilità, espressione raffinata dell’idea popolare secondo cui è meglio non mettere tutte le proprie uova in un solo paniere, è tutt’oggi presente, in maniera più o meno esplicita, nei lavori postbiodiversità. Prima del 1989, erano stati fatti sforzi, prima di tutti da MacArthur e Leigh jr., per fornire una definizione precisa, cioè matematicamente formalizzabile, della stabilità. Ciononostante, la confusione non ha cessato di regnare. Nel 1997 apparvero due articoli dai titoli espliciti: Metodi e metafore in ecologia delle comunità: il problema di definire la stabilità e Babele, o le discussioni sulla stabilità ecologica: un inventario e un’analisi della terminologia e una guida per evitare la confusione37. Gli autori del secondo articolo avevano elencato 163 definizioni per 70 diversi concetti di stabilità. Poco dopo, nel 2000, su “Nature”, Kevin S. McCann aveva sottolineato la diversità concettuale che il termine “stabilità” ricomprende, senza tuttavia preoccuparsi della diversità semantica del termine “diversità”, che egli utilizzava implicitamente nel senso della ricchezza specifica. Sia quel che sia, concludeva il suo articolo costatando che «in uno sguardo d’insieme, i recenti avanzamenti indicano che ci si può attendere, in media, che la diversità sia fonte di stabilità per l’ecosistema», e sottolineava che ciò era in sintonia con le idee delle grandi figure che furono Odum, Elton e MacArthur. Se si ammette che la conclusione di McCann sia fondata, una tappa importante è stata conseguita dopo l’analisi critica di Goodman nel 1975: le idee dei pionieri erano corrette!
- 38 Blandin, Barbault, Lecordier 1977
52La ridondanza funzionale, necessariamente legata all’idea che la diversità condizioni la stabilità, è divenuta soggetto “attivo” solo dopo il 1988, e non si può ritenere che la causa diretta sia la “nascita” della biodiversità. Nondimeno, la dinamica provocata da questo termine in certi ambienti scientifici, ponendo l’accento sulle possibili relazioni tra la diversità delle specie di un ecosistema e le sue caratteristiche funzionali, ha effettivamente permesso che la questione della ridondanza passasse in primo piano. Eppure, la produzione di dati empirici che mettano in evidenza l’esistenza di specie funzionalmente ridondanti sembra ancora molto limitata; pare che non si vada molto al di là di formulazioni ipotetiche. Ho ricordato poco sopra l’articolo di Blain D. Griffen, pubblicato nel 2010, che auspicava che si arrivasse a fornire al concetto di ridondanza una capacità predittiva. Il concetto non è dunque progredito dopo che, insieme a Robert Barbault e Charles Lecordier, scrivevo che il mantenimento di un ecosistema funzionale era possibile a dispetto della scomparsa di specie importanti, se esistevano specie “di ricambio”38. La nozione di ridondanza, è vero, è stata criticata, prendendo a pretesto che ciascuna specie occupa una nicchia ecologica unica, idea fondata sul principio secondo il quale due specie non possono occupare una stessa nicchia all’interno di un ecosistema, e dunque non possono assolvere le medesime funzioni. Eppure, dal punto di vista di un predatore, due specie di prede sono “funzionalmente ridondanti”! La questione dovrebbe essere riformulata almeno nei termini del grado di sostituibilità tra due o più specie in rapporto a una funzione precisa. Ma ci troviamo qui al cuore di un problema essenziale: come definire, riconoscere ciò che costituisce l’identità irriducibile di ciascuna specie, e al tempo stesso tentare di classificare le specie in “tipi funzionali”? Il problema non è un problema scientifico. Vi sono implicazioni etiche, perché a essere in gioco è la questione del valore intrinseco di ciascuna specie e del suo “valore di sostituzione”, valore che sarebbe tanto più elevato quanto più una specie sia in grado di rimpiazzarne altre.
53L’irruzione del termine “biodiversità” si è accompagnata, ed è questo l’avanzamento principale in materia di ricerca ecologica, allo sviluppo della problematica “biodiversità-funzionalità”, che ha largamente rimpiazzato la problematica “diversità-stabilità”. Questo nuovo orientamento, pur riducendo la biodiversità essenzialmente alla ricchezza specifica, conferisce un valore euristico non solo al concetto di ridondanza, ma anche a quello di complementarietà funzionale. Questo secondo concetto, tuttavia, non è certo meno delicato da discernere della ridondanza, e tale difficoltà si traduce in difficoltà di realizzazione e di interpretazione di sperimentazioni che mirino, per esempio, a comparare la produttività degli assemblaggi di specie in funzione del loro numero.
- 39 Di Castri and Younès 1996.
54In linea generale, i concetti mobilitati per comprendere i possibili ruoli della diversità come caratteristica dei sistemi biologici sono stati e continuano a essere insufficientemente precisi, perché si tratta di sistemi multipli, strutturati in gerarchie che non è semplice comprendere se siano proprie dei sistemi medesimi, o se invece risultino dalla diversità delle nostre scale di osservazione; e perché si iscrivono in storie evolutive che obbligano a distinguere, articolandoli, il tempo breve e il lungo termine. Francesco di Castri e Talal Younès, nel loro testo introduttivo agli atti del forum internazionale Biodiversity, Science and Development (Parigi, 1994)39, hanno insistito sulla necessità di afferrare la molteplicità delle scale spaziali e temporali, insieme all’organizzazione gerarchica del vivente. È evidente che ritroviamo qui, tradotta nel linguaggio contemporaneo, quella sfida epistemologica fondamentale che a suo modo aveva lanciato Buffon, affermando che per comprendere la moltitudine delle produzioni della natura occorreva al tempo stesso poterle abbracciare con un colpo d’occhio e dedicarsi all’analisi laboriosa di ciascuna, considerata singolarmente.
55Tenere in conto il fattore temporale obbliga a iscriversi risolutamente in una prospettiva evoluzionistica: il mondo vivente è in uno stato di diversità ereditato dalla lunga storia della diversificazione – la diversità ne è la memoria, erosa – e si impegna, in ciascun istante, in una nuova storia. La vita non perdurerà a meno che i sistemi viventi, a qualsivoglia scala di organizzazione, non si rivelino adattabili a contesti inesorabilmente mutevoli. La biodiversità, non in quanto ipostasi della natura, ma come proprietà dei sistemi viventi, deve dunque essere intesa come memoria dell’evoluzione e come condizione di una adattabilità duratura e sostenibile della biosfera40. La nozione stessa di adattabilità, tuttavia, già presente nell’articolo di Hutchinson, non è affatto scontata, e l’idea di derivazione darwiniana secondo la quale un sistema con una grande diversità avrebbe una capacità di adattamento maggiore rispetto a un sistema meno diversificato fa parte della stessa famiglia di intuizioni di cui fa parte l’ipotesi diversità-stabilità. E sarà anche più difficile da mettere alla prova, dato che bisogna assumere la prospettiva del lungo termine. Eppure, sarebbe chiaramente irragionevole non tentare di comprendere le proprietà strutturali e funzionali dei sistemi viventi suscettibili di assicurare la loro capacità di adattamento nel tempo.
56McCann, al termine della sua analisi del dibattito diversità-stabilità, traeva una conclusione sulla conservazione: «Se vogliamo preservare un ecosistema e le specie che lo compongono, allora è meglio agire come se ciascuna specie fosse sacra». Hutchinson, alla fine della sua riflessione sulla ricchezza in specie del nostro pianeta, parla del tempo in cui «l’uomo ha cominciato a ridurre la diversità a causa di una tendenza, in rapida crescita, a provocare l’estinzione di specie ritenute indesiderabili, spesso senza discernimento». E alla fine – concludeva – «possiamo sperare in un parziale ribaltamento di questo processo, nel momento in cui l’uomo diventerà cosciente del valore della diversità in senso economico non meno che estetico e scientifico».
- 41 La decisione di creare l’Ipbes è stata presa nel 2010. Questa piattaforma è concepita come un’inter (...)
57In poco più di cinque decenni di ricerche attive, la nostra comprensione del significato profondo della diversità del mondo vivente non è progredita che di poco. Eppure, la «forza geniale» invocata da Buffon senza dubbio non manca alla comunità scientifica. Forse, come suggeriva Deléage, i nostri mezzi concettuali non sono, nonostante ciò, all’altezza dell’immensa complessità della natura. Sia quel che sia, la scienza non ci ha ancora fornito dei motivi “razionali” per i quali dovremmo preservare la biodiversità, e molto ci si aspetta dalla Piattaforma Intergovernativa sulla Biodiversità e i Servizi Ecosistemici (Ipbes)41.
- 42 Una prima versione, più estesa, di questo saggio è stata pubblicata in E. Casetta et J. Delord (dir (...)
58In poco più di cinque decenni, la biodiversità non ha cessato di diminuire. L’importanza di agire affinché la dimensione etica dell’avvenire della biodiversità sia compresa da sempre più persone – le quali potranno così decidere in maniera più responsabile – è dunque difficilmente sottostimabile42.