1Negli ultimi anni si parla pressoché quotidianamente di “differenze” o “caratteristiche” culturali. Queste espressioni vengono spesso impiegate in contesti prefilosofici senza una chiara esplicazione del loro riferimento. Uno sguardo più attento può tuttavia rilevare che il semplice aggettivo “culturale” prescrive delle condizioni di verità aggiuntive alle proposizioni che lo contengono. Così, ad esempio:
(1) la simmetria è un criterio culturale di bellezza classica greca
è un enunciato vero non soltanto se la simmetria è un criterio di bellezza, ma anche se essa è un criterio di bellezza limitatamente a - o specificatamente per - la cultura classica greca. Questa ulteriore condizione di verità è indicativa di qualcosa nel mondo che, rendendo questa o quella proposizione vera o falsa, fa valere inderogabilmente le sue pretese esistenziali. Coloro che hanno condotto studi e ricerche in materia di ellenismo, avendo acquisito una conoscenza accurata della civiltà greca, potranno riconoscere se una sua qualche determinazione ontica renda (1) vera o (eventualmente) falsa. Questa conoscenza permette poi di riscontrare la verità di proposizioni ad (1) affini, ovvero la verità di proposizioni che sono rivolte ad aspetti particolari di quella cultura. Quante più determinazioni della cultura greca si conosceranno, tanto più estesa sarà la conoscenza che se ne avrà. Sulla base di questo principio si possono trovare risposte a domande che interessano la civiltà greca in quanto tale, ad esempio: da quali fenomeni viene identificata? Quali fasi di sviluppo ha attraversato? Che collocazione spaziale e temporale ha avuto? Va notato che i quesiti appena posti non debbono limitarsi a questo o a quel bacino culturale. Infatti, sostituendo la cultura richiamata e i suoi rispettivi fenomeni, si possono formulare domande riguardanti qualsiasi civiltà: con quali fenomeni a, b ,c... coincide la cultura Φ? Quali fasi ha attraversato la cultura Φ? E via di seguito. Le risposte a queste domande potranno essere elaborate dai vari studiosi di settore; l’ellenista sarà competente per la civilizzazione ellenica nella sua evoluzione, il sinologo per quella cinese ecc.
- 1 nel seguito l’aggettivo “ontico” verrà utilizzato (come sinonimo di “oggettuale”) per riferirsi a d (...)
2La possibilità di indagare direttamente questo tipo di entità apre la strada alla formulazione di domande di natura astratta che non vertono più solamente su qualche singolo nucleo culturale e che costituiscono l’interesse di questo lavoro. Domande quali: a che specie di oggettualità vanno ricondotte le culture? Che tipo di proprietà è la relatività ad una cultura? Quali oggettualità sono relative ad una cultura e quale rapporto lega tali oggettualità e la cultura in quanto tale? Dal momento che queste domande concernono la struttura oggettuale di una specie di entità, esse palesano una matrice eminentemente ontologica1. Di conseguenza, una eventuale risposta può venir elaborata solo da una indagine ontologica che si concentri principalmente su tutte quelle proprietà, generali e necessarie, senza le quali le oggettualità stesse non potrebbero essere le oggettualità che sono. Si tratta cioè di evidenziare le note essenziali di una entità: ad esempio, è essenziale al colore essere esteso e, se un colore non fosse esteso, non sarebbe un colore ma un assurdo ontologico. Dal momento che siffatte determinazioni pertengono a tutte le culture in quanto tali, lo studio di questa o quella civiltà concreta esistita (o esistente) storicamente non avrà rilevanza dirimente per questa indagine (anche se questo, certo, non esime la teoria che verrà presentata da un raffronto coi fatti empirici ai fini di assicurarne la validità). L’indagine viene pertanto sorretta dall’idea che i fenomeni culturali possono essere analizzati senza riferimento alla loro caratterizzazione individuale e quindi senza riferimento alla loro concretezza storica, visto che è possibile rilevare note invarianti e non particolari indicative di strutture necessarie e generali. Descrivere alcune di queste strutture costituisce lo scopo della presente ricerca, il cui contesto teorico (nonché ispirazione esplicita) è rappresentato dal sistema categoriale sviluppato dalla fenomenologia realista ed in particolar modo dal filosofo tedesco Adolf Reinach (1883-1917).
- 2 Relativamente a Reinach, cfr. 1911b: 109-124.
- 3 Cfr. Reinach 1913: 147-138 (tr. it. 11-26).
- 4 Ad onor del vero, Reinach relativizza il legame di obbligazione e pretesa con il realizzatore del (...)
- 5 Searle 1996: 7-14. Per quanto felice, l’espressione comporta però un fraintendimento: se l’ontolo (...)
3Tale sistema pone come fondamentale la dicotomia categoriale tra oggetti e stati di cose2. Le prime oggettualità possono essere considerate come delle sostanze (portatori atomici di proprietà; ad es. una rosa), mentre le seconde sono o stati di cose predicativi (l’unità molecolare di un oggetto con una proprietà; ad es. Tessere-rosso di una rosa) o relazioni (l’unità molecolare di più oggetti con una proprietà; ad es. la similarità tra due rose, ovvero, l’essere simile di una rosa con una seconda rosa). La scoperta che tali categorie ontologiche esibiscono delle sottospecie contraddistinte da una struttura sociale costituisce un merito da accreditare in toto alla riflessione di Reinach. Questa scoperta va giudicata infatti come una completa novità nel paradigma ontologico stabilito a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento da filosofi quali Alexius Meinong (1853-1920), Edmund Husserl (1859-1938) ed altri. Per illustrarla, si può adoperare il caso esemplare della promessa (che è un atto intenzionale e quindi un oggetto psichico), la quale ha una struttura sociale in quanto richiede di essere appresa da un destinatario a cui l’atto deve venir manifestato esternamente3. Inoltre, le relazioni di obbligazione (da parte del promittente) e di pretesa (da parte del promissario), che vengono sostanziate tramite la realizzazione efficace di un atto di promessa, possono essere dette “sociali” poiché la loro sussistenza temporale dipende dall’esistenza di persone nonché dai loro atti sociali e dalle loro azioni4. Un’azione che soddisfi una promessa annichila tanto l’obbligazione del promittente quanto la pretesa del promissario. L’attributo della socialità può allora essere ascritto a queste oggettualità (promessa, obbligazione, pretesa), dal momento che esse non potrebbero essere senza l’esistenza di persone e, a potiori, senza l’esistenza di un contesto socialmente articolato (ad esempio senza una qualche sorta di linguaggio). Si può pertanto affermare che il merito di Reinach non consiste tanto nell’aver incluso queste oggettualità in un inventario ontologico più o meno completo, giacché è indubbio che tali entità fossero inquadrate (implicitamente o esplicitamente, poco importa) in inventari ontologicamente altrettanto ricchi, già elaborati da altri autori (come, ad esempio, nel caso del sistema meinonghiano). Piuttosto, il vero risultato della riflessione reinachiana sta in una rubricazione più accurata delle stesse che si basa sulla loro rispettiva essenza sociale, la quale — questa sì — è stata descritta da Reinach per la prima volta con meticolosa chiarezza. In effetti, anche se Reinach non ha mai promosso questa espressione, tramite le sue scoperte egli ha delineato il progetto di una “enorme, invisibile ontologia” sociale, come verrà in seguito chiamata da John Searle5, inaugurando così un indirizzo di studi il cui scopo sarà occuparsi puntualmente di tutte quelle oggettualità esemplificative della proprietà di essere sociale.
4Assumendo come premesse i risultati della riflessione reinachiana, risulta possibile dare una collocazione disciplinare alla indagine che qui verrà svolta e riservare così un capitolo della ontologia sociale allo studio della relatività ad una cultura di alcune oggettualità: tutti gli oggetti culturali sono oggetti sociali, ma non tutti gli oggetti sociali sono oggetti culturali. Diritti, obbligazioni e pretese, il baratto, gli appuntamenti, il potere politico ecc. non sono di per sé oggettualità culturali, ma schiettamente sociali, necessarie all’edificazione di una forma di socialità qualsiasi. Il loro modo di generazione (tramite corrispondenti atti sociali) può all’occasione declinarsi culturalmente, pur non ostentandone la necessità. Altre oggettualità, invece, sono essenzialmente culturali: il capitello ionico, il trimetro giambico o l’ideale di paideia sono oggetti relati per necessità ad una cultura, visto che la loro esistenza sarebbe impossibile da concepire senza l’esistenza di quella. E pertanto possibile rendere tema primario di una specifica ontologia della cultura tutte quelle oggettualità che o sono modificabili culturalmente ovvero sono intrinsecamente culturali, mettendo così in luce le proprietà che rendono una qualche oggettualità sociale una oggettualità relativa ad una cultura. L’approfondimento di questo ultimo punto permetterà infine di elaborare risposte a quelle domande di natura astratta che sopra sono state poste attorno a culture in generale.
- 6 Cfr. Reinach 1906: 335-338; 1913: 153, nota 1 (tr. it. 20, nota 3).
- 7 Reinach non si addentra in questo sviluppo della sua argomentazione, eppure, se si considerassero (...)
5Definito in questo modo, non si può negare che il progetto di una ontologia culturale assuma fin da subito contorni piuttosto vasti, con la conseguenza che, per garantire almeno una sua parziale realizzazione, in questa sede si dovrà circoscrivere l’oggetto di analisi e focalizzare l’attenzione su un singolo aspetto della relatività culturale. Sono infatti rinvenibili almeno due forme secondo le quali una oggettualità può essere qualificata come relativa ad una cultura. La prima concerne le sue predicazioni di essere, la seconda le sue predicazioni di dover essere. La seconda, in particolare, fonda la sua esistenza in oggetti astratti ed in particolare in valori (etici, estetici, dianoetici ecc.). Evidentemente esistono valori che si ritrovano in una cultura piuttosto che in un’altra. Ad esempio:
(2) la monogamia è un valore culturale (ovvero: la monogamia è un valore relativo ad una cultura Φ)
è un enunciato vero se, limitatamente alla cultura Φ, la monogamia è un valore. Ora, stando all’ontologia reinachiana, ogni valore implica la sussistenza di stati di cose deontici come la correttezza o la scorrettezza morale6; da ciò risulta che è moralmente corretta l’esistenza dell’oggetto che ha valore morale e moralmente scorretta è la sua non-esistenza (si tenga presente che, per Reinach, l’esistenza e la non-esistenza di un oggetto sono stati di cose). Viceversa, è moralmente scorretta l’esistenza di un oggetto che ha disvalore morale ed è moralmente corretta la sua non-esistenza. Ne consegue che si può parafrasare (2) in:
(2*) l’esistenza di monogami è moralmente corretta per la cultura Φ
e mettere così in evidenza la predicazione deontica che in (2) rimane implicita7.
- 8 una ulteriore, terza forma di relatività culturale, che resterà anch’essa ai margini della trattazi (...)
6A questa forma di relatività ad una cultura, che riguarda specificamente valori, se ne aggiunge (almeno) un’altra8, facilmente individuabile, che non implica (o non implica necessariamente) predicazioni deontiche, ma soltanto predicazioni ontiche. In questo caso, i portatori di relatività culturale non sono più oggetti astratti come i valori, ma oggetti concreti. Una grande classe di oggetti concreti relativi a culture sono gli artefatti; ad esempio, l’enunciato:
(3) il tempio Nanzenji a Kyoto è un’opera d’arte giapponese (ovvero: esso è un oggetto relativo alla cultura giapponese)
asserisce la relatività ad una cultura di un artefatto (in questo caso: il tempio Nanzenji a Kyoto). Nel seguito sarà affrontata unicamente questa seconda forma di relatività culturale, concentrando l’interesse soltanto verso i predicati ontici degli oggetti relativi a culture, senza considerare la loro dimensione deontica. Uno degli intenti sarà dimostrare, da un lato, che una gran parte dei risultati di azioni o di atti sociali possono assumere una forma relativa ad una cultura e, dall’altro, chiarire in che modo ciò sia possibile.
7Per precisare questa seconda forma di relatività culturale sarà indispensabile far ricorso alla struttura di un atto intenzionale ed in particolare al ruolo svolto dal cosiddetto “contenuto” di un vissuto intenzionale. Sebbene la terminologia tecnica vari a seconda degli autori che si considerano (qui, pur modulando l’argomentazione su suggerimenti reinachiani, non viene avanzata alcuna pretesa di conformità storico-filosofica), è innegabile che, a prescindere da tale divergenza terminologica, uno dei tratti più salienti della fenomenologia realista consista nel fatto che essa pone al centro delle sue indagini il primato della intenzionalità. Sul piano descrittivo-psicologico, accreditare questo assunto non equivale a sostenere che l’estensione di ciò che è psichico debba coincidere con l’intenzionale, giacché non tutto lo psichico si caratterizza come intenzionale (si pensi agli stati di angoscia che propriamente non sono rivolti a nessun correlato specifico). Piuttosto, sottolineare tale primato significa, per un verso, rilevare che l’accesso al mondo da parte di una soggettività non può prescindere dal riferimento intenzionale, e, per l’altro, ciò si traduce, ai fini di questo lavoro, in un approccio di natura primariamente descrittiva alla soluzione di problemi ontologici. Si parte dunque dalla descrizione della modalità di accesso ad una oggettualità per poi enuclearne i suoi attributi ontici.
- 9 Cfr. Künne 1983: 19-43.
- 10 A differenza dei termini singolari, i termini generali (astratti o concreti), ovvero i predicati, p (...)
8Si può riassumere il modello descrittivo-psicologico di un vissuto intenzionale in questo modo: l’intenzionalità di un vissuto psichico corrisponde alla sua direzione verso un correlato oggettuale, un atto è intenzionale in quanto mira ad un correlato oggettuale. Un primo, superficiale sguardo introspettivo può già riconoscere un florilegio di siffatti vissuti: io giudico qualcosa, mi rappresento qualcosa, prometto qualcosa, voglio qualcosa ecc. Come si è visto, tutti i possibili correlati oggettuali di atti intenzionali possono essere ricondotti, secondo l’ontologia presa a riferimento, a due categorie distinte: correlati sono oggetti o stati di cose. Per semplificare, si può dire che tutti quei vissuti che possono essere espressi linguisticamente con termini singolari (astratti o concreti)9 — il caso paradigmatico è la rappresentazione — mirano ad oggetti (astratti o concreti)10. Esprimendosi con un vocabolario semantico: i termini singolari si riferiscono ad oggetti. Tutti quei vissuti, invece, che si devono strutturare sintatticamente (in primo luogo il giudizio) mirano a stati di cose, ovvero: gli enunciati (ed in particolare gli enunciati assertivi) si riferiscono a stati di cose. La realizzazione del riferimento intenzionale richiede poi, a fianco dell’atto e del suo correlato, un elemento mediano, psichico, che consente all’atto l’accesso alla oggettualità a cui esso punta. Si può chiarire come ciò sia possibile (illustrando così anche i motivi a favore del riconoscimento del contenuto nel modello del vissuto) non appena si spieghino le funzioni che esso assolve. Queste sono sostanzialmente due: una prima funzione può essere detta “formale”, in quanto rimane identica in ogni vissuto, ed una seconda funzione può essere denominata “materiale” poiché si differenzia a seconda degli atti cui il contenuto inerisce. I contenuti di atti di specie diversa assolveranno quindi tutti la stessa funzione formale, mentre quella materiale differirà a seconda del tipo di vissuto.
9La funzione formale prescinde quindi dalla specificazione del vissuto o del suo correlato oggettuale e dipende unicamente dalla essenza generale di un vissuto intenzionale qualsiasi. Si è già visto che ogni atto si dirige verso un correlato oggettuale. Per quanto riguarda i correlati, ad essi viene ascritta una variabilità pressoché infinita — questi, se sono stati di cose, possono sussistere o meno e, se sono oggetti, possono esistere (idealmente o realmente) o meno. Essi trascendono poi sempre l’atto, nell’unico senso non univoco del termine per il quale essi non costituiscono una componente concreta dell’atto stesso. Ad esempio, se percepisco una rosa o se penso ad un numero, né la rosa né il numero trovano posto nella mia coscienza: non è sezionando il vissuto psichico che si troverà il suo correlato oggettuale. Storicamente, la messa in luce di questo dato mette al riparo la fenomenologia da ogni possibile fraintendimento psicologista: grazie ad esso non è più possibile misconoscere lo statuto del correlato oggettuale ascrivendogli (esplicitamente o meno) connotati psichici. Nel contempo, tale dato costituisce il motivo principale per il riconoscimento del contenuto nella struttura del vissuto: nel momento in cui si definisce il correlato dell’atto come trascendente, si è costretti a introdurre un elemento terzo che corrisponda a tale correlato. Il vissuto afferrante una oggettualità a si dovrà infatti differenziare dal vissuto della stessa specie afferrante una oggettualità b; è immediatamente evidente che la rappresentazione di un tavolo è diversa dalla rappresentazione di una sedia (al posto di rappresentazione si sarebbe potuto indicare qualsiasi altro vissuto intenzionale con il suo correlato specifico: giudicare, volere, promettere ecc.). Eppure, dal momento che gli atti afferranti sono della stessa specie (sono delle rappresentazioni) ed entrambi sono presenti nella (e alla) coscienza, si pone la domanda su quale elemento li differenzi. Le due oggettualità afferrate (il tavolo e la sedia) non possono svolgere questa funzione, visto che entrambe trascendono l’atto e non possono pertanto dirimere un vissuto psichico da un altro. Un ulteriore elemento deve quindi posizionarsi nel vissuto e differenziare così la prima dalla seconda occorrenza psichica, in modo tale che il contenuto della prima rappresentazione differisca dal contenuto della seconda e differenzi il primo dal secondo vissuto. Va individuato quindi un elemento — il contenuto di un vissuto intenzionale — che, corrispondendo al correlato oggettuale dell’atto, vari o resti costante a seconda del variare o del rimaner costante di quello e che, costituendo poi una parte costitutiva (non-indipendente) e concreta dell’intero vissuto, permetta all’atto di centrare intenzionalmente proprio l’oggettualità a cui mira.
10Riassunta così la prima funzione del contenuto, è ora possibile descrivere i suoi vari ruoli attinenti ai tipi specifici di vissuto e, nella fattispecie, a tre dei vissuti più caratterizzanti rispetto allo scopo di questo lavoro: la rappresentazione, il pensiero e l’azione intenzionale. Mentre i primi due sono vissuti ampiamente descritti dalla fenomenologia realista, per quanto riguarda tanto l’intenzione quanto l’azione ad essa collegata verrà qui proposta una descrizione circostanziata rispetto agli obiettivi da perseguire.
- 11 Reinach 191 lb: 105.
- 12 Ed anche se lo squadernassi, avendo cosi di fronte ad un tempo sia la prima che la quarta di cope (...)
11Con il termine “rappresentazione” si indica un genere unitario di vissuti recettivi, capaci di dirigersi unicamente verso oggetti quali loro correlati intenzionali. Questi possono essere astratti o concreti, esistenti temporalmente o atemporalmente. Ad essi la rappresentazione richiede di essere sempre in qualche modo presenti all’atto. Tale vissuto si contraddistingue, infatti, per una invalicabile dimensione prospettica, sicché rappresentare qualcosa equivale a rappresentarlo sempre secondo una certa prospettiva. Tale presenza è tuttavia solo parziale: solo una parte dell’oggetto si dà all’atto come presente, il resto rimane adombrato e la sua presenza rimane preclusa all’afferramento. Così, per fare un esempio tratto dalla percezione sensibile11, quando volgo lo sguardo al libro chiuso che ho di fronte, mi è intuitivamente data solo la prima e non la quarta di copertina12. Nonostante ciò, la rappresentazione si dirige verso l’intero libro: è l’intero libro ad essere rappresentato, esso (e non semplicemente la prima di copertina) è l’oggetto della rappresentazione. Questo riferimento risulta possibile grazie alla funzione di rappresentanza assolta dal contenuto della rappresentazione. Il contenuto rappresentazionale si contraddistingue infatti per un più o un meno di materiale intuitivo che gli è veicolato dalla presenza dell’oggetto. Una maggiore/minore quantità di materiale intuitivo indica una maggiore/minore presenza fenomenica dell’oggetto rappresentato. Tale riempimento intuitivo sta per (opera in rappresentanza di) quella parte dell’oggetto che non è intuitivamente data, che non è presente all’atto. Certo, questo non esclude che io non possa avere una delusione nel momento in cui, prendendo in mano il libro di cui vedo solo la prima di copertina, mi accorga che si tratti solo di una struttura vuota e non di un libro (come capita ogni tanto con i finti libri usati a mo’ di soprammobili in Ikea). Mentre l’esito della rappresentanza è contingente (può avere successo o deludere), è necessario (ovvero, è essenziale per il vissuto rappresentazionale) che il riempimento intuitivo dell’atto assolva a tale funzione rappresentante. E infatti per il tramite della rappresentanza che il riferimento intenzionale della rappresentazione si realizza, permettendo così all’atto di accedere all’intero oggetto, incluse le sue parti non intuitivamente presenti. Va tuttavia posta attenzione al fatto che questa descrizione non si può applicare alle cosiddette “rappresentazioni concettuali”, che si verificano quando viene rappresentato qualcosa in quanto qualcosa (un fiore a in quanto rosa, un artefatto b in quanto sedia ecc.). A dispetto del loro nome, infatti, tali vissuti non sono rappresentazioni, bensì apprensioni di stati di cose. Apprendere un individuo a in quanto Y non significa altro che apprendere l’essere-Y di a e le leggi psicologico-descrittive che regolano il vissuto di apprensione di uno stato di cose non coincidono con quelle della rappresentazione fin qui esposte.
- 13 Si badi che differente è il caso della convinzione che può accompagnare o meno il pensare. Quella (...)
12A differenza di quello rappresentazionale, il contenuto del vissuto di pensiero non ha alcun grado di intuizione: infatti, qualcosa viene (in senso disgiuntivo) o pensato oppure non pensato. Non si pensa qualcosa con maggiore o minore chiarezza, perché il pensare non contempla gradi di intuizione e di adombramento. Di conseguenza, al correlato non è richiesto di essere presente in nessun modo: né alla immaginazione, né alla ripresentazione o alla percezione ecc. Certo, il pensiero può essere accompagnato da una rappresentazione ed acquisire così indirettamente una intuizione, ma questo non è preteso, né va presupposto per la realizzazione del vissuto13 (tanto più che alcuni oggetti escludono a priori la possibilità di venir rappresentati: si prenda, ad esempio, il riferimento di “√- 2”). Per questo motivo, il contenuto di pensiero non assolve alcuna funzione rappresentante, bensì una funzione logico-semantica. La specificità di questo vissuto risiede nel fatto che il suo contenuto assurge ad idealità: pur rimanendo identico il correlato, esso è pensato sempre secondo diverse modalità. Pensando al pianeta Venere, esso può essere afferrato come stella della sera, come stella del mattino, come secondo pianeta del sistema solare ecc. Queste modalità, tramite le quali il pianeta Venere è appunto pensato, sono entità intensionali, astratte, non prive però di una connessione con i contenuti psichici di pensiero. Le prime hanno una trama tutta ideale e sono dei tipi, i secondi sono elementi reali (in quanto parti di vissuti psichici concreti), che possono essere considerati quali occorrenze di quei tipi. Chiunque pensi a Venere, quindi, ha un proprio privato contenuto psichico, il quale però è occorrenza di un tipo ideale intersoggettivamente accessibile che corrisponde alla modalità tramite la quale Venere viene pensato. Grazie a questa funzione semantica, viene assicurata la comunicazione tra individui diversi: persone differenti, pur avendo contenuti psichici differenti, riescono a comprendersi a vicenda grazie alla relazione che tali contenuti intrattengono con il tipo ideale (con questo oggetto ideale). Infine, poiché il pensare è un vissuto necessariamente rivestito linguisticamente, che deve cioè sempre realizzarsi con il supporto di simboli linguistici, la posizione fin qui descritta ha delle chiare ricadute semantiche: una espressione linguistica assume tanto un significato quanto un riferimento. Enunciati hanno proposizioni come significati e stati di cose come riferimenti, termini singolari hanno oggetti come riferimenti e pensieri nominali come significati.
13Come il pensiero, anche le azioni intenzionali sono vissuti attivi e spontanei. Se si fa intenzionalmente una passeggiata, allora si è attivi in un senso primario: da un lato, sussiste l’intenzione di fare qualcosa e, nella fattispecie, l’intenzione di fare una passeggiata, dall’altro si sta facendo qualcosa, si passeggia. In merito all’intenzione è quindi innegabile ascriverle un suo proprio correlato oggettuale: ciò che si ha intenzione di realizzare (che, peraltro, al momento della mera intenzione non sussiste ancora). Pertanto, in quanto atto intenzionale, l’intenzione richiede un contenuto. A differenza però dei vissuti precedenti, inquadrabili in un contesto meramente cognitivo, l’intenzione tende alla messa in essere del proprio correlato e mira così ad una modifica del mondo; agire intenzionalmente significa allora sostanziare il correlato di una intenzione. In questo contesto, il contenuto assolve un ruolo nuovamente diverso tanto rispetto al contenuto del pensare quanto rispetto a quello del rappresentare. Il modo con cui l’intenzione intende il proprio correlato possiede infatti una importanza decisiva ai fini dell’azione da compiere. Posso aver intenzione di fare una passeggiata lunga o corta, a passo veloce o a passo lento ecc. Tanto più il risultato dell’azione corrisponde alla modalità con cui si intendeva realizzare quel dato risultato, tanto più il contenuto è soddisfatto. Esso può allora essere caratterizzato in termini di gradi di “soddisfacimento”: il contenuto è più o meno soddisfatto, a seconda che il prodotto dell’azione corrisponda in modo più o meno fedele al correlato dell’intenzione, vale a dire, a ciò che si aveva intenzione di fare.
- 14 Per una descrizione all’interno di un paradigma intenzionale, cfr. Searle 1983: 79-111.
- 15 Quale profilo ontico possieda il riferimento di questo significato (sia esso un evento o un artef (...)
14Sebbene la definizione esatta del contenuto di una intenzione comporti una descrizione più approfondita, si può evidenziare come esso esibisca una struttura proposizionale in quanto si riferisce ad uno stato di cose comprendente sia l’azione intesa sia il soggetto dell’azione stessa14. Una intenzione si dirige infatti sempre verso l’azione di Y-are e verso un agente x (di solito colui che intende Y-are). In quanto composto proposizionalmente, il contenuto di una intenzione ha poi anche uno statuto ontico astratto e può essere considerato come un significato: si ritrova quindi la dicotomia, già ravvisata per il vissuto di pensiero, tra occorrenza reale del contenuto e sua esistenza tipica. Tale statuto può essere ulteriormente illustrato dalla esistenza di azioni collettive, dove gli agenti condividono il medesimo contenuto, individualizzato però in occorrenze psichiche diverse. Dirimente per questa analisi è tuttavia il fatto che - a prescindere dalle sue ulteriori determinazioni - tale proposizione dovrà contare tra i suoi componenti il significato di un termine che si riferisca a ciò che si intende realizzare15. Inoltre, ciò che viene messo in essere costituisce un necessario fattore per la soddisfazione del contenuto. In conclusione, si può così generalizzare: un’azione (intenzionale) è la realizzazione di una intenzione e i prodotti dell’azione sono ciò che l’azione sostanzia. Se si ha l’intenzione di agire, allora si ha anche un contenuto (occorrenza concreta di un tipo ideale), il quale si riferisce alla oggettualità da mettere in essere per il tramite di una (eventuale) azione che realizzi tale contenuto. A seconda della fedeltà del prodotto al suo contenuto, quest’ultimo può essere qualificato come più o meno efficace.
- 16 La descrizione seguente si riferisce unicamente a gruppi sociali composti da esseri umani, senza (...)
15Alla luce della descrizione dei vissuti intenzionali appena condotta, risulta ora possibile procedere all’analisi degli oggetti culturali. A questo riguardo, si ritiene opportuno utilizzare una strategia che si sviluppi “dal basso”. Dapprima verranno descritti gli oggetti culturali secondo alcune loro determinazioni ontiche — queste verranno esposte lungo due diverse linee di ricerca: la prima tematizza la produzione di tali artefatti, la seconda il modo di afferramento degli stessi. In seguito si elaboreranno alcune risposte alle domande di partenza attorno ad una cultura in generale e alla sua struttura oggettuale. L’intera analisi si basa su una premessa che, se da un lato non appare bisognosa di ulteriori chiarimenti, dall’altro mostra l’estrema ramificazione dell’ontologia sociale e delle sue tematiche: non esiste cultura senza un gruppo sociale, ovvero, qualsiasi cultura è sempre la cultura di un gruppo sociale. Questa premessa comporta che solo gruppi sociali (e non individui singolarmente presi) producono cultura16. Ora, quali sono i nessi ontici che giustificano una tale affermazione? La risposta va cercata nel fatto che l’uomo non agisce in modo schiettamente indeterminato, bensì agisce, fa, sempre secondo modalità specifiche che possono essere valide per un intero gruppo sociale.
16Un esempio può illustrare questa affermazione teorica. Ammettiamo che io abbia l’intenzione di costruirmi una casa. Questa intenzione si riferisce per il tramite di un complesso contenuto proposizionale, oltre che ad entità ulteriori (come allo stesso costruttore della casa - in questo caso la mia persona - e allo stato di cose di costruire la casa), anche alla casa da costruire in quanto tale. E interessante notare che questo oggetto non è inteso in modo completamente indeterminato, bensì come portatore di talune proprietà. La casa da costruire è insomma intesa in un certo modo, ovvero, il contenuto dell’intenzione supporta particolari caratteristiche (Merkmale) che determinano come la casa vada costruita. Alcune di queste caratteristiche sono essenziali: una casa deve possedere date proprietà (Eigenschajten) per essere una casa - ad esempio deve rispettare determinati parametri abitativi. Altre caratteristiche sono invece contingenti: non si vuole infatti costruire schiettamente una casa, bensì una casa così e così qualificata (comoda, calda, funzionale ecc.). Dal momento che una medesima caratteristica può essere soddisfatta nei modi più disparati, il modo in cui la casa costruita soddisfa le caratteristiche del contenuto non deve essere necessariamente predefinito nelle caratteristiche stesse del contenuto. Una molteplicità di fattori può infatti influenzarne le modalità di soddisfazione. Sicuramente a parte subjecti il gusto personale o le capacità tecniche di costruzione rappresentano fattori determinanti per il soddisfacimento del contenuto: alcune persone preferiranno le porte scorrevoli, altre le porte a libro, altre ancora non amano affatto le porte; inoltre, alcuni architetti sono più capaci di altri nell’organizzare lo spazio abitativo. Ancora — e questa volta a parte objecti — un importante ruolo verrà giocato da ulteriori fattori, come ad esempio le condizioni ambientali (la planimetria del suolo, il clima ecc.) o i materiali che si hanno a disposizione: anche questi sanciscono infatti le proprietà finali dell’artefatto. Le stesse caratteristiche del contenuto possono insomma essere soddisfatte in modo diverso al variare dei fattori che si sono rilevati. A seconda di come le proprietà della casa costruita corrispondono alle caratteristiche del contenuto, il contenuto dell’intenzione potrà essere qualificato come più o meno soddisfatto. La costituzione ontica dell’artefatto alla fine della sua messa in essere dipende quindi dai nessi di soddisfazione tra contenuto dell’intenzione ed artefatto: se si ha un contenuto con tali e tal altre caratteristiche e se questo contenuto viene soddisfatto in questo e quel modo, allora si ha un artefatto con queste e quelle proprietà.
17Il contenuto dell’intenzione è, come si è detto, occorrenza di una proposizione ideale che, come tale, è costituita da significati. Se si comprende il significato del termine “casa” in un modo particolare, ovvero, se il significato di questo termine viene arricchito da caratteristiche particolari, allora la casa costruita deve ostentare determinate proprietà per soddisfare le caratteristiche particolari del contenuto. Il significato può essere infatti compreso in modo tale da prescrivere determinate modalità di soddisfazione (e, magari, escluderne delle altre). Se si arricchisce il significato di “casa” con caratteristiche ulteriori e lo si determina come una casa di legno, fredda in inverno, ma fresca in estate, con una pavimentazione in stuoie di paglia e pareti scorrevoli in carta, allora questa casa dovrà possedere queste proprietà per corrispondere al contenuto così qualificato. Si sarebbe avuto un diverso contenuto se questo significato fosse stato determinato, ad esempio, come una tenda che si possa montare e smontare in breve tempo, senza ingombranti parti solide e leggera da trasportare. Si intravede qui il primo decisivo punto dell’analisi: se la modalità con cui il significato si presenta nel vissuto ha soltanto rilevanza privata, allora si ha a che fare con una circostanza puramente soggettiva. E possibile infatti che un individuo possa intendere un artefatto a sempre secondo direttive tutte personali, magari elaborate in modo estremamente preciso. Oltre a questa eventualità se ne può rilevare però un’altra. Se infatti il significato A con cui si intende a viene compreso secondo una modalità che rimane identica e costante in tutti i vissuti non soltanto di un singolo, bensì di un intero dato gruppo di persone, allora questo modo di comprendere il significato non ha più validità soltanto individuale: un intero gruppo sociale infatti penserà o intenderà qualcosa sempre secondo quella modalità. In questo caso il modo con cui si comprende il significato A corrisponderà — limitatamente a quel gruppo sociale - ad un significato ulteriore A* che può venir considerato come un componente della cultura di quel dato gruppo di persone. Se infatti il significato non viene compreso così e così soltanto da un singolo individuo, ma un intero gruppo di persone coglie lo stesso significato A sempre con quelle particolari caratteristiche, allora A* (il significato A arricchito culturalmente) contribuisce a formare il bacino culturale di quel gruppo sociale. Si possono denominare i significati arricchiti di caratteristiche particolari e costituenti la cultura (ad esempio: il significato dell’espressione “casa giapponese”) anche significati “di ordine superiore”, poiché essi poggiano necessariamente su significati di ordine inferiore. Significati di ordine inferiore (ad esempio “casa”) non possiedono caratteristiche particolari (meno che quelle essenziali per la realizzazione dell’artefatto) e non prescrivono, pertanto, come il contenuto debba essere soddisfatto.
- 17 Come si è visto, un discorso a parte va fatto per i significati inerenti a credenze specifiche pe (...)
- 18 I nessi di implicazione di questo significato non si esauriscono ovviamente in questa breve descr (...)
18Una conseguenza di questa posizione è che le culture possono essere descritte - secondo una prima accezione - come unità complesse di significati: come somme articolate di significati di ordine superiore. A questo riguardo, occorre sottolineare due punti. Il primo è che i significati in questione devono essere significati possibili di intenzioni. Non qualsiasi significato può infatti costituire in questo medesimo senso una cultura, ma soltanto i significati che si riferiscono a prodotti di azioni possibili17. Il secondo è che queste somme di significati sono, appunto, articolate, e pertanto non corrispondono a meri aggregati. Il significato di “casa giapponese” può implicare, ad esempio, quello di “tokonoma” che si riferisce ad un elemento architettonico tradizionale (una specie di alcova rialzata ed adornata, presente di solito nella sala di ricevimento delle abitazioni)18. Del pari, il significato di “trimetro giambico” può essere implicato in quello di “componimento poetico greco”. Spetterà nuovamente ai vari studiosi di settore rilevare queste connessioni tra significati: come e quando si sono sviluppate, quali variazioni hanno subito nel corso del tempo ecc. Significati di livello superiore trovano normalmente un posto comodo nelle lingue naturali, le quali dispongono sempre di corrette e precise espressioni linguistiche per esprimerli. Questi significati sono spesso traducibili solo con difficoltà e/o con perifrasi in un’altra lingua naturale e le espressioni corrispondenti, una volta tradotte, perdono il senso di ovvietà dal quale sono caratterizzate nel loro contesto linguistico-naturale originario (un esempio è proprio la descrizione del tokonoma offerta poco sopra in italiano). Che un contenuto possa assurgere ad una forma di idealità valida anche solo per un numero limitato di coscienze non significa quindi che, quando uno stesso significato viene corroborato con caratteristiche particolari, la sua comprensione sia ristretta esclusivamente a questo o a quel gruppo sociale. Seppur coi limiti di una traduzione in una lingua naturale differente, sarà infatti sempre possibile dare una definizione più o meno accurata di un significato culturale. Segue poi dalle premesse illustrate che, a fianco dei significati di ordine superiore, esistono anche significati di ordine nullo che sono transculturali: essi sono necessari alla realizzazione del vissuto in quanto tale e quindi sono da esso presupposti, quale che sia l’appartenenza culturale del realizzatore del vissuto stesso.
19Se si comprende schiettamente il significato in quanto tale, senza ulteriori caratteristiche, allora si ha un significato di livello infimo. Se invece il significato viene compreso sempre da parte di un gruppo sociale insieme a caratteristiche determinate, allora si ha un significato di ordine superiore. Si può anche esprimere questa posizione affermando che i significati di ordine superiore sono i modi con cui i significati di ordine inferiore vengono costantemente compresi da determinati gruppi di persone. Si badi che non si intende affermare che i significati di ordine inferiore diventino così a loro volta correlati oggettuali, il cui afferramento rinvii poi ad una modalità propria, ma solo che la comprensione di essi (il loro averne coscienza) è implicata dalla comprensione di un significato di ordine superiore. Colui che pensa o intende una casa in un contesto culturale, la pensa o intende sempre per il tramite di un significato di ordine superiore (che implica quello di ordine inferiore). E possibile quindi generalizzare: una cultura è un significato che corrisponde all’insieme di tutti i modi con cui i significati di ordine inferiore vengono compresi all’interno di un definito gruppo di persone. Essere attivo all’interno di un determinato bacino culturale equivale quindi al fatto che la struttura del vissuto intenzionale, quando questo si attiva verso un suo correlato, presuppone oltre ad un significato di ordine inferiore, anche uno di ordine superiore. Inoltre, poiché la struttura atto-contenuto-correlato è uno schema generale valido per ogni vissuto intenzionale, si giunge al risultato che i vissuti più disparati possono realizzarsi secondo specifiche modalità culturali. Se si “fa” una casa o un qualsiasi altro artefatto, allora la si può sempre “fare” con specifici connotati culturali. Se si “dice” (nel senso performativo del termine: comunicare, promettere, scommettere, domandare ecc.) qualcosa, allora anche questo vissuto può realizzarsi secondo modalità culturali. Quello che però vale qui per gli atti sociali e per le azioni non vale ovviamente per i vissuti cognitivi di “adattamento” (come, ad esempio, la rappresentazione o il giudizio), per i quali non ha senso parlare di una modalità culturale di realizzazione.
20Finora è stato analizzato come un oggetto culturale (relativo ad una cultura) concreto venga prodotto e come un significato culturale vada presupposto in questo processo: si può ora passare a descrivere in che modo se ne ha apprensione. Poiché le culture - in quanto somme di significati culturali - sono dipendenti da gruppi sociali, gli oggetti culturali reali dovranno limitarsi ai prodotti di azioni messe in essere dai membri componenti di questi gruppi e per il tramite di quei significati culturali. Il termine “prodotto” viene lasciato volutamente vago ed indefinito, dal momento che con esso viene fatto riferimento ad un vasto spettro di oggettualità prodotte da azioni; così, ad esempio, eventi individuali come un discorso o un gioco, o anche qualsiasi artefatto possono essere considerati come prodotti umani. Si può quindi sostenere che le culture non vivono, per così dire, una vita soltanto astratta, ma sono anche “incarnate”, prendono cioè un corpo proprio in prodotti umani. Ora, come si può riconoscere se un oggetto è un oggetto culturale? Questo sapere non può dipendere unicamente da un puro atto di percezione (rappresentazione percettiva). La percezione non rileva infatti nulla del carattere specificamente culturale di una entità, limitandosi soltanto alle qualità secondarie e primarie dell’oggetto. Si ritiene pertanto che solo un atto più complesso, un atto apprendente di natura concettuale, possa procurare siffatto sapere. In altre parole, si acquisisce una tale conoscenza solo quando un oggetto viene afferrato nel suo specifico aspetto culturale in quanto oggetto relativo ad una data cultura. L’atto afferrante può così essere individuato come l’apprensione di uno stato di cose. Si afferra l’oggetto in quanto relativo alla sua rispettiva cultura (ovvero, si apprende lo stato di cose: essere relativo alla cultura Φ di un oggetto a), così che — per tornare all’esempio precedente — si afferra una casa in quanto oggetto relativo ad una data cultura. Tale apprensione presuppone quindi una certa padronanza di quella cultura ed esclude che si possa riconoscere un qualche oggetto a in quanto relativo ad una cultura Φ se non si ha la minima cognizione di cosa sia Φ (questo tuttavia non equivale a sostenere che si devono conoscere tutte le determinazioni di una cultura per riconoscere un fenomeno appartenente a quella cultura). Inoltre, se si analizza la struttura ontica di tale fatto (il fatto che un oggetto a è relativo ad una cultura Φ), si può constatare che esso non comprende fra i propri costituenti alcuna entità intensionale, tanto è vero che l’atto di apprensione, nel dirigersi verso il suo correlato, non implica il riferimento al significato di un termine (in altre parole, nell’apprendere quel fatto non viene presupposta alcuna forma di supposizione formale). Da ciò consegue che la cultura Φ, in quanto costituente di quello stato di cose, non rientra nella categoria dei significati e, soprattutto, che la descrizione precedentemente condotta, secondo cui le culture possono essere determinate come somme articolate di significati, possiede un valore solo parziale: descrivere queste oggettualità come entità di natura unicamente semantica sarebbe, metaforicamente parlando, descrivere solo una faccia della medaglia.
- 19 Ritornando alla tavola categoriale reinachiana, concetti sono oggetti generali, generalità (Allge (...)
- 20 Parimenti, una cultura Ω sarà (parzialmente) definita dalla (a lei inerente) relatività culturale (...)
21All’inizio del lavoro si è evidenziato che diversi sono i tipi di oggetti (astratti, concreti ecc.) che possono essere relativi ad una cultura: non tutti gli oggetti relativi alla cultura Φ sono, quindi, oggetti concreti. Possiamo però affermare, alla luce dell’analisi condotta, che tutti gli oggetti concreti relativi a Φ sono oggetti prodotti culturalmente, vale a dire, sono oggetti la cui produzione implica significati validi specificamente all’interno di un dato gruppo sociale. Pertanto, da un lato, la classe degli oggetti così prodotti costituisce una sottoclasse di tutti gli oggetti relativi a Φ e, dall’altro, l’appartenenza a quella classe dipende dalla ostensione, da parte di un oggetto concreto, della proprietà di essere stato prodotto mediante un vissuto così modificato: solo un oggetto prodotto in tal modo è un oggetto culturale (concreto). Come gli oggetti culturali concreti delimitano soltanto una belasse di tutti gli oggetti relativi a Φ (altre sottoclassi comprendono gli oggetti astratti e gli oggetti di credenze), così la relatività ad una cultura Φ non si esaurisce nella relatività propria di oggetti concreti, dal momento che solo l’analisi delle altre due forme di relatività (afferenti a credenze e ad oggetti astratti) riuscirà a stabilirne una definizione completa. Ora, a prescindere dalla sua precedente determinazione in quanto significato, la cultura Φ può essere descritta anche in quanto concetto: un concetto è un oggetto generale19 (ad esempio: il concetto di leone) costituito da una classe di oggetti (i leoni individuali) e da una essenza che determina ciò che questi oggetti sono, ovvero, dall’insieme di tutte le proprietà che questi oggetti devono ostendere per essere la specie di oggetti che sono (per semplificare: un leone, per essere leone, deve essere un felino con la criniera ecc.). In questo senso, la cultura Φ delimita la classe di tutti gli oggetti che le sono relativi (questa, a sua volta, comprende una sottoclasse composta unicamente dai prodotti culturali concreti): Φ si risolve e si riassume in tale classe generale. Inoltre, Φ possiede una essenza costituita da quella particolare relatività che contraddistingue Φ rispetto alle altre culture Ψ, Ω ecc.: ogni cultura possiede una sua identità esclusiva che la distingue da altre civiltà e che si esplica in una relatività a lei propria (la quale, a sua volta, modella la struttura degli oggetti relativi a Φ). Si potrebbe obbiettare che porre come essenza di Φ la relatività propria a Φ comporta una definizione circolare di Φ. Eppure, anche se qui si è trattato solo di una delle tre forme di questa proprietà (lasciando aperto il compito di definire le altre), rispettivamente alla relatività culturale di oggetti concreti, il definiendum non rientra nel definiens: questa forma di relatività è stata infatti ricondotta (senza far alcun riferimento alla cultura stessa) alla proprietà di essere prodotto tramite un vissuto che implica un significato valido specificamente all’interno di un dato gruppo sociale. Si può allora affermare che, limitatamente all’indagine qui condotta, una cultura Φ è un concetto definito (parzialmente) dalla relatività culturale di oggetti concreti, ovvero, dall’esser prodotto mediante un vissuto implicante un significato valido specificamente all’interno di quel dato gruppo sociale e che la sua (sotto-)classe è costituita da tutti gli oggetti concreti così prodotti20.
22Possono ora venir messe in relazione le due accezioni con cui si determina “cultura”: si è già rilevato un primo senso di questo termine secondo il quale le culture sono somme articolate di significati di ordine superiore. In quanto somma di significati, la cultura è poi un significato unitario, categorematico, che corrisponde ad un oggetto di riferimento: l’espressione “civiltà classica greca” possiede un significato che, da un lato, è costituito dalla somma di tutti i significati di ordine superiore utilizzati da quel gruppo sociale, dall’altro, esso, proprio in quanto significato, deve riferirsi a qualcosa. Referenze di culture in quanto significati sono allora concetti generali di culture le cui classi sono (parzialmente) costituite da prodotti culturali concreti. Tali oggetti sono sussunti sotto quel concetto nella misura in cui essi sono stati sostanziati grazie ad azioni che presuppongono significati culturali (ovvero validi per quel gruppo sociale) — questa è infatti la determinazione essenziale che rende certi prodotti umani degli oggetti relativi a quella cultura. Inoltre, come si è visto, i significati di ordine superiore hanno validità solo in riferimento a determinati gruppi sociali — senza l’esistenza di questi gruppi sociali non esisterebbero nemmeno culture. Risalta quindi come le culture (sia in quanto significati che in quanto concetti) siano oggetti sociali ad un tempo temporali ed astratti, che si differenziano da altre oggettualità sociali come le promesse o le obbligazioni, in quanto (tra gli altri motivi) la loro esistenza non dipende da singole persone, bensì da interi gruppi sociali. Dal momento che culture (nei due sensi sopra specificati) richiedono tali complessi sociali come loro condizione esistenziale, essi sono oggetti dipendenti: scompaiono con lo scomparire dei loro fondamenti.
- 21 Questo ruolo rilevante per la costruzione di realtà sociale viene rilevato anche da Ferraris (200 (...)
- 22 A questo riguardo, cfr. la recente ricerca di Sheehy 2006.
23Concludendo, si può sottolineare una certa priorità che la relatività culturale assume nei meccanismi di produzione della realtà sociale. Infatti, insieme agli oggetti sociali reali come gli artefatti o gli eventi sociali, se si considerano altre classi di oggettualità quali gli stati di cose sociali (ad es. le relazioni sociali), le istituzioni e gli oggetti da esse dipendenti (ad es. le funzioni di ruolo) si nota che esse possiedono sempre la possibilità (e in taluni casi la necessità) di declinarsi culturalmente. Gruppi sociali sono quindi essenziali per la produzione di realtà sociale, sia perché determinati oggetti possono essere prodotti solo da gruppi sociali e non da singoli individui (tramite, quindi, azioni collettive), sia perché qualsiasi prodotto sociale può assumere determinate modalità culturali, le quali - a loro volta - dipenderanno in ultima analisi da un gruppo sociale fondante21. Questo risultato appare quindi vincolato alla messa in luce del concetto di gruppo sociale e rimanda pertanto ad una corrispondente, ulteriore indagine ontologica22.