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HomeNumeri65Law and the Faculty of JudgementDissidio, stasis e società dipolari

Law and the Faculty of Judgement

Dissidio, stasis e società dipolari

Carlo Grassi
p. 120-142

Abstract

Jean-François Lyotard s'interroga sulla forma delle organizzazioni sociali e ne identifica la problematica principale nell'eterogeneità che esse veicolano tra i differenti regimi di frasi: si sofferma, in particolare, sull'incompatibilità tra il regime della conoscenza e quello della libertà. A partire da tale riflessione, l'articolo esamina come le società attuali, multiculturali e globalizzate, siano chiamate oggi a compiere una scelta: abbracciare la sintesi dell'eterogeneo oppure rispettare e far rispettare la presenza inevitabile del dissidio. Nella prima occorrenza si corre il rischio di trasformare il diritto in succedaneo dell'ordalia e di accendere la guerra di tutti contro tutti. Nella seconda, invece, si sperimenta la costruzione d'interazioni di tipo dipolare le quali, pur non potendo garantire contro lo scatenamento smisurato della violenza, riescono potenzialmente ad arginarlo. Queste ultime, infatti, spostano la misura della sopravvivenza dall'esclusione delle ostilità alla loro elusione, dal rifiutare il conflitto all'addomesticarlo, dal rinunciare allo sforzo muscolare al calibrarlo.

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Testo integrale

Argomento

1Le società attuali, multiculturali e globalizzate, sono chiamate a compiere una scelta: non domani o un giorno a venire, ma oggi. Esse devono stabilire se cercare di unificare i discorsi eterogenei che provengono dalle differenti stratificazioni della vita sociale oppure rispettare e far rispettare la presenza inevitabile del dissidio. Credere di poter sopprimere l’eterogeneità, tentare cioè d’imporre un punto di vista su tutti gli altri, significa decidere di scoperchiare il vaso di Pandora: favorire e fomentare lo scatenamento incontrollato della violenza. Quando l’intellettuale pretende di far prevalere le proprie idee con la coercizione, quando il magistrato piuttosto che impegnarsi a decidere sui conflitti esige di spiegarli e pronuncia le sentenze non in base all’ordinamento giuridico ma a un’idea astratta di giustizia, allora le società si rinchiudono in se stesse e implodono generando come loro correlato specifico riti sacrificali e caos. Accettare il dissidio significa, al contrario, imbastire interazioni di tipo dipolare. Relazioni in cui la società si autosserva a partire dai rapporti e non dai soggetti, da quello che si fa e non da quello che si è: dallo schema di distribuzione delle diverse posizioni e non da un giudizio precedentemente stabilito sul benessere-malessere individuale di chi ne occupa una o un’altra. Benessere e malessere la cui definizione e valutazione riguardano solo parzialmente la sfera pubblica dei valori collettivamente condivisi in quanto sono riservati ai singoli individui implicati e alla loro specifica volontà di rivendicarne il controllo. Un’ottica dipolare nei rapporti giuridici accelera la depersonalizzazione e la disantropomorfizzazione del diritto: comporta che l’azione del giudicare non miri a comprendere gli attori e le cause latenti del conflitto, ma a esprimersi esclusivamente a proposito del litigio immediato. Contempla che i magistrati si impegnino a decidere sulle controversie e non a cercare di spiegarle. Per chiarire in che modo una società dipolare sostituisca l’opposizione esclusiva per contraddittorietà con quella inclusiva per contrarietà si fa ricorso alle figure del κοινός κόσμος [koinós kósmos], dell’ίδιος κόσμος [ídios kósmos] e del μικρός διάκοσμος [mikrós diákosmos]: traducendo in altro linguaggio la correlazione elaborata da Lyotard tra giudizio (punto di vista collettivo, sguardo che dona), intrattabilità (punto di vista individuale, sguardo che prende) e dissidio (linea di dispersione e d’interferenza tra le due prospettive precedenti). Si fa poi riferimento agli studi linguistici di Emile Benveniste e a quelli di antropologia giuridica di François Ost. Creando una griglia che articola l’ascissa io-tu con l’ordinata io-tu-egli, i lavori di questi due autori permettono di ampliare il tenore teoretico relativo al carattere dipolare del rapporto tra singolarità e gruppi, coscienza di sé e coscienza morale, arbitrio individuale e libertà attraverso la legge.

1. Págus, mikrós diákosmos, diakosmetiké téchne

2Jean-François Lyotard (1979: 78, 80, 85, 90-91) distingue tre forme paradigmatiche di organizzazione sociale. (i) La prima, ancorata all’ideale dell’autarchia, «che caratterizza il pensiero occidentale e che ritroviamo continuamente a livello politico», richiede una «stretta correlazione tra l’autonomia e l’autodeterminazione». All’interno di questo sistema «ognuno si dà da sé le sue proprie leggi» generalizzando le sue prerogative locali senza fare ricorso ad alcun’altra cauzione. (ii) La seconda fa perno sull’obbligazione, «valorizza il polo del destinatario del messaggio» e propone un quadro nel quale «nessun enunciatore è mai autonomo» giacché ogni «enunciatore è sempre al contrario qualcuno che è innanzitutto un destinatario e un destinato. Cioè qualcuno che, prima di essere l’enunciatore, di una prescrizione, è stato lui stesso ricettore di una prescrizione, di cui costituisce semplicemente il relais, e in tal modo è stato l’oggetto di una prescrizione». L’obbligazione prevede «tutto il contrario dell’autonomia, l’eteronomia». Quando, infatti, si ascolta un racconto, si è tenuti «a ri-raccontarlo, perché rifiutarsi di ri-raccontarlo vorrebbe dire che non lo si vuole condividere». In altri termini, quando «qualcuno mi parla, al contempo mi obbliga». Mi obbliga a cosa? «Mi obbliga a ri-raccontare». Non a restituire il dono al narratore stesso. «Non sono obbligato a renderglielo, non si tratta di questo, ma sono obbligato come un relais che non può conservare il suo carico, che è costretto a trasmetterlo». (iii) La «terza organizzazione (il polo del narrato)» è «popolare, propriamente pagana, “paesana” nel senso di pagana (e non l’inverso). Le genti del pagus (che non sono le genti del villaggio) sono delle genti le quali non raccontano che in quanto qualcosa è stato loro raccontato, e che sono esse stesse raccontate in ciò che raccontano».

3Questa prospettiva rimescola le carte e connette in modo inedito il rapporto tra obbligazione e autonomia con quello tra apertura e chiusura. In primo luogo, collega l’ideale di autosufficienza non con un sovrappiù di risorse, ma con l’ídios kósmos. Con un ordine personale, ristretto, chiuso: intimamente privato perché strettamente singolare e dunque difficilmente condivisibile. In secondo luogo, associa il sentimento del vincolo con il koinós kósmos, con lo spazio aperto della πολιτεία [politéia]: lì dove degli uomini, estranei e quasi sconosciuti l’uno all’altro, si riuniscono, si riconoscono in un’azione comune, nonostante la disuguaglianza e le differenze reciproche. E, in terzo luogo, lungi dal distaccare, isolare o contrapporre manicheisticamente monade psichica e insieme sociale, Eigenwelt e Mitwelt, lascia trasparire dalla loro risonanza un momento pagano di στάσις [stásis]: divergente accordo in correlazione con il quale ídios kósmos e koinós kósmos si completano escludendosi, si avvolgono vicendevolmente pur a prezzo di confutazione e contestazione reciproca.

4Parafrasando la teoria di Lyotard, si può dire che, kósmoi irriducibili l’uno all’altro, koinós, regime collettivo concernente la totalità ordinata, l’impersonale, la norma, l’universale; e ídios, sistema individuale della contingenza, fluente, instabile, disordinato, imprevedibile, si ritrovano insieme, emuli e antagonisti, ciascuno in prima linea sul pagus come fronte di battaglia.

5L’arena dell’incontro-scontro va descritta come un μικρός διάκοσμος [mikrós diákosmos]: ambito intermedio (diá-kósmos), zona d’influenza che esclude ogni relazione armoniosa e ben calibrata e mette in evidenza il loro concatenamento in termini di modulazione dissonante e smisurata. Che allestisce il campo magnetico dell’intervallo tra i due secondo un’espansione non circolare ma ellittica: attribuendogli una configurazione che, invece di possedere un centro intorno al quale gravitare, prevede due fuochi che la tengono costantemente in tensione. A un polo l’insieme delle frasi ammesse come plausibili nel pubblico dibattito; all’altro polo un termine d’intrattabilità, intransigenza, intransitabilità. Il primo circoscrive e assedia il secondo da tutti i lati, persino dal suo interno, ma è arginato dalla parzialità e dal partito preso dell’altro che retroagisce su di lui e non gli è mai totalmente riducibile.

6Istituendo un’interazione dipolare all’interno della quale le due estremità fungono da cariche di uguale intensità ma di segno opposto, il mikrós diákosmos designa un teatro di combattimento che le correla in quanto rivali e in cui viene a occupare la posizione di arbitro: uno spazio vettoriale che crea dei contorni di demarcazione instabili legando con una leggera interferenza i due μονομάχοι [monomáchoi] che sono incommensurabili perché non seguono lo stesso movimento né appartengono al medesimo regime. Induce, infatti, una debole forza d’inerzia che, senza alterarne il carattere di figure a se stanti, li attrae in un mosaico di ricorsività per il quale, di volta in volta, quando l’uno diventa rilevante come campo tematico di esperienza e spazio positivo, l’altro gioca il ruolo di cornice, spazio negativo e orizzonte di attesa, e viceversa: tensione di reciprocità nella quale non c’è più alcun prius o posterus.

7In base alla sua etimologia, diákosmos designa l’ordine al suo stadio primario di dispersione, dissociantesi dal cosmo e scompaginantesi al proprio interno. Il prefisso διά significa attraverso, mediante, tra, fra, e fa riferimento al sanscrito e dvi, due, tagliare, dividere, attraversare. Denota quindi un valore separativo tra due elementi: introduce un senso di diversione, distinzione, differenza, rivalità, stásis. In breve, come spiega Alexander Mourelatos (1970: 231), il rimando a diákosmos spinge a considerare «la convocazione di tutti i contrari» in modo tale che «il significato di ordine viene ribaltato in segregazione, divisione, scarto, conflitto. Il kósmos dei mortali è ora un campo di battaglia».

8Questa regione, secondo Lyotard (1983: 213), sia «a livello degli individui» sia «a livello degli Stati», rende kantianamente «“più aperti alle idee” in quanto costituisce la condizione che apre al pensiero degli incondizionati». Infatti, non avendo natura intrinseca, non essendo in grado cioè di essere funzionale a se stessa, ma sempre eteronoma, diretta a e da qualcos’altro, la cerniera di collisione-collusione tra ídios e koinós mette in gioco una strategia strumentale, si fa διακοσμητική τέχνη [diakosmetiké téchne]. Convertita in macchina, possente ma disciplinata, titanica ma sottomessa, ricusa la specularità soggettiva in favore di permutabilità ricorsiva e duplicità combinatoria, implicanti al contempo uguaglianza e diversità: orchestra un incontro con il non io, l’ignoto, l’inconoscibile e manda così in frantumi l’universo logico costruito per porsi al riparo. Consente pertanto di testare antinomie e ambiguità razionalmente irriducibili: di averne libero accesso nell’ambito dell’esperienza. Si tratta di una pratica o di un’occasione che infrange la simmetria dell’osservazione ed espone al rapporto reciproco di dualità e unità tra forma dialogica e antilogica. Con la conseguenza che, come scrive Lyotard (1983: 73, 190), ci si trova scaraventati contro il proprio ingombro, i propri margini, il proprio minimum sensibile, le proprie frasi discendenti da facoltà eterogenee, «frasi sottoposte a regimi o generi differenti»: contro il proprio essere disposti in un universo di frase, la propria stessa finitudine. «Una frase, che concatena, e che è da concatenare, rimane sempre un pagus, una zona di confini, in cui i generi di discorso entrano in conflitto sul modo di concatenamento. Guerra e commercio. È sul pagus che si fa la pax, il patto, è ancora sul pagus che la si disfa. Il vicus, l’home, lo Heim costituiscono una zona in cui il dissidio fra generi di discorso è sospeso. Pace “interiore”, pagata con dissidi perpetui ai bordi. (È la stessa disposizione per l’ego, l’autoidentíficazione)».

2. Lo statuto bicuspide del sé e il terzo istituito dello spazio pubblico

9Emile Benveniste (1958: 312. Cfr. anche Lyotard 1973: 23-24) sostiene che «la coscienza di sé è possibile solo per contrasto. Io non uso io se non rivolgendomi a qualcuno, che nella mia allocuzione è un tu. È questa condizione di dialogo che è costitutiva della persona, poiché prevede reciprocamente che io divenga tu nell’allocuzione di chi a sua volta si designa con io». Tale situazione dipende da una peculiare concordanza che abbina “la coppia io-tu”: «è possibile dunque definire tu la “persona non soggettiva”, di fronte alla “persona soggettiva” rappresentata da io; e queste due “persone” si giustappongono insieme alla forma della “non-persona” (egli)».

10Adottando questa prospettiva si può dire che la prima e la seconda persona del verbo compongono un ídios kósmos guidato da pulsioni singolarizzanti e assimilatrici mentre la terza abita il koinós kósmos delle intimazioni emananti dall’ambiente politico e sociale. Le prime due, infatti, continua Benveniste (1946: 276, 277), sono congiunte da una solidarietà del tutto esclusiva che non riguarda in alcun modo la terza: «io-tu possiede il demarcatore di persona, egli ne è privo». Sono vincolate da una corrispondenza reciproca «in quanto membri di una correlazione, la correlazione di personalità», rispetto alla quale egli è del tutto avulso. In quanto estraneo alla relazione io-tu, egli si configura specificamente come privo di referente, una “non-persona” a “referenza zero”: «la “terza persona” ha la caratteristica e funzione di rappresentare, dal punto di vista della forma stessa, un’invariante non personale, e nient’altro».

11Si riescono così a distinguere due fuochi di riferimento tra i quali affiora una piega, emerge un campo ellittico di curvatura. (i) Sulla prima focale di “correlazione di personalità” si situa un processo di commutabilità tra l’io-tu e il tu-io: condensamento di γένεσις [ghènesis] e φθορά [phthorá], generazione e corruzione, crescita e ripiegamento, fatticità dell’io e disparità del tu, unilateralità monistica e duplicità riflessa, cosalità dell’io che diventa tu del tu. Rapporto impossibile con il proprio doppio, i propri fantasmi: non coincidenza del sé con se stesso, processo di sdoppiamento (Entzweiung), amplificazione e demoltiplicazione del proprio nell’improprio. (ii) Sulla seconda focale, la serie sensus communis, spazio pubblico, riferimento comune a un’appartenenza condivisa, legame sociale, intersoggettività istituita prevede una sorta di ἀπάθεια [apátheia]: affrancamento dall’espansione cinesica soggettiva a beneficio di una forza attrattiva impersonale, che avviluppa gli omnes, e di una spinta repulsiva nei confronti delle singularitates considerate come forme degradate non integralmente distinte dall’animalità. Su questo capo, la logica della comunità, la sua vocazione al ben ordinato e armonizzato scartano come false apparenze e rigettano come dissennato tutto ciò che non s’integra nell’ordine compiuto di un mondo sensato. (iii) Un piano d’inflessione dipolare, relativo alla diakosmetiké téchne, apre una ferita nel cuore di entrambe le focali perché, correlando due serie eterogenee, da un lato, trattiene la prima dal trincerarsi nella propria autosufficienza; mentre, d’altro lato, rende discernibile una contraddittorietà non intelligibile al senso comune né al ragionamento ordinario.

  • 1 «Λέγω δε νόμον τον μεν ίδιον τον δε κοινόν» Légo de nómon ton men ídion, ton de koinón» (Aristotele (...)
  • 2 «Ίδιον μεν τον εκαστοις ώρισμενον προς εαυτούς» [Ídion men ton ekastois órismenon pros autoús] (Ari (...)
  • 3 «παρά πάσιν όμολογείσθαι δοκεί» [Pará pásin omologeísthai doxeí] (Aristotele, Ars rhetorica, I, 10, (...)

12Nella Retorica Aristotele utilizza l’intersezione di ídios e koinós per distinguere due aspetti del genere giudiziario: «definisco la legge sia particolare sia comune»1. Riferito al νόμος [nómos], a ciò che è stabilito, alle norme giuridiche, ídios riguarda la prerogativa di essere fissate «da ogni gruppo per i propri membri»2, mentre koinós rinvia al requisito per il quale «sembrano riconosciute da tutti»3. In questo caso, l’interferenza della diakosmetiké téchne su ídios e koinós, si riverbera sui modelli sociali, le forme di governo e le norme giuridiche che da questi discendono.

13Per spiegare quest’ultimo passaggio è necessario fare ricorso al sistema di “spazio ternario del triangolo giudiziario”, elaborato dal filosofo del diritto François Ost (2001: 132-133, 134), strutturato secondo «le differenti tappe dell’identità solipsista, dell’alterità, della pluralità e dell’egli normativo».

14Ost considera che soggettività e intersoggettività costituiscano il risultato di un processo sociale complesso. Il suo schema presuppone che, per potersi tradurre in poteri reali, «le “capacità” del soggetto esigano la mediazione dell’alterità»: reclamino che questi incorra nel rischio di mettere a repentaglio la propria incolumità affrontando senza timore lo sguardo altrui. Lo stadio solipsista, soliloquio, pretesa all’identità e all’autonomia, concresce con «il momento del tu». Situazione per la quale, «nel corpo a corpo o nel faccia a faccia», l’improvvisa e imprevista presenza di un tu «s’intromette tra il mondo e l’io» facendoli fuoriuscire dall’indifferenziazione: dandogli consistenza e identità. A questo punto, continua, il tu abbraccia e si lascia abbracciare dall’io, rimanendovi impigliato e dando vita a un noi, cioè a «un io a due»; oppure lo ignora, lo respinge e se ne scolla, determinando che «l’altro come tu (alterità)» si scinda e liberi l’accesso a «l’altro come terzo (pluralità)». Nella prima evenienza si è accolti nella coesistenza di pienezza e benessere: nel libero fluire dell’istante presente e nella sincronia del tenersi insieme. Nella seconda, grazie all’interposizione di un ostacolo, si entra nello spazio dell’esperienza e ci s’iscrive nella diacronia degli stati successivi relativi al mutamento. Rendendo effettivo il transito dall’alterità-identità alla pluralità, una tale differenziazione tra tu che ami e tu che giudichi dona un’inedita «profondità alla relazione duale»: apre la strada «alla terza persona, l’egli» e integra la mediazione riflessiva con «l’istanza terza (giudizio, ragione) dell’istituzione» che funge pure da «riferimento al terzo istituito dello spazio pubblico».

15La duplice orbita della “correlazione di personalità”, per cui l’io diventa tu del tu, rivela così l’interdipendenza dipolare dell’io-tu e l’irreversibilità entropica del tu-egli. Mette quindi in evidenza che la matrice del dover essere non è avulsa dal sé. Che, da un canto, le leggi fissate da ogni gruppo per i propri membri non provengono dalla ragione come ambito sopraindividuale né dall’indistinzione di un senso comune. Mentre, d’altro canto, queste stesse leggi cessano di essere legittime ed efficaci quando non sono più riconosciute come accettabili da una parte rilevante di chi dovrebbe osservarle. Il sé, infatti, non riguarda solo la terza persona in quanto “invariante non personale” ma, prendendo le fattezze del self, dell’ipse o dell’idem, si presenta anche come la forma riflessa di tutti i pronomi i quali, stando al posto di un nome, denotano una prospezione simultanea di genitivo soggettivo e oggettivo in quanto non reversibili né convertibili: un’eruzione che attualizza lo stesso sé senza mai esaurirne la dinamica. Questo sé, in altre parole, gode di uno statuto bicuspide. Insegue senza posa un punto di regresso dove invertire bruscamente la direzione del suo movimento in modo tale che, come spiega ancora Benveniste (1969: 255; cfr. anche Ernout-Meillet 1932: 664), da «idiotes, essere sociale circoscritto a se stesso», può mutare in «sodalis»: membro di un gruppo sociale. Giacché richiama «le due forme del se latino, divenute indipendenti: se riflesso, indicante “se stesso”, e se partitivo, sed, “ma”, marcante distinzione e opposizione». Il sé, si può concludere con Lyotard (1983: 91), «non è dunque attivo o passivo, è entrambe le cose, ma non è l’una e l’altra se non nella misura in cui, preso in un regime di frasi, obietta a se stesso una frase di un altro regime e va alla ricerca, se non della conciliazione, almeno delle regole del conflitto, in altre parole della sua unità sempre minacciata» e mai conchiusa. Ne consegue che per accedere allo statuto di soggetti responsabili non è indispensabile rinunciare alla solitudine e al capriccio solipsista dei sensi individuali: che la libertà soggettiva indeterminata non costituisce un pericolo per il piano dell’intersoggettività ma, piuttosto, è il sistema normativo a perdere ogni legittimità e a non essere più in grado di farsi rispettare quando non risulta più adeguato al sentire dei singoli individui.

3. La preuve diviene épreuve: il giudizio (Urteil) precipita nell’ordalia (Ordâl, Ordôl)

16Ciò a cui bisogna sopperire, protesta Lyotard (1982: 214, 222), è «l’assenza di un tribunale universale o di un giudizio definitivo davanti ai quali il regime della conoscenza e quello della libertà potrebbero essere, se non riconciliati, non lo saranno mai, almeno messi in prospettiva, ordinati, finalizzati secondo le loro differenze». Per compensare questa mancanza, lungi dal realizzare una giurisdizione della conoscenza credendo di poter appianare kantianamente (verglichen) il dissidio mediante la soddisfazione (Genugtuung) di tutti i contendenti, occorre sperimentare incessantemente la mossa del cavallo: consacrare la giusta rilevanza all’abisso beante dell’intervallo tra le serie eterogenee. È, infatti «a proposito di tale diversità che il giudizio deve esercitarsi. È quest’ultima che deve discernere e considerare. È il baratro esistente tra le frasi, la loro incommensurabilità, che deve riconoscere e far rispettare».

17È necessario, insomma, prosegue Lyotard (1982: 230; 1979: 83), operare una drastica «rottura con la filosofia hegeliana del diritto e, indirettamente, anche con un pensiero della mediazione che riconcilia, con l’idea kantiana della Zusammenstimmung». Non è infatti possibile né auspicabile mettere fine ai dissidi: «l’ideale della riflessione non è solo, come pensava Kant (in parte contro se stesso), trasformare i dissidi in litigi, sostituendo il pretorio al “campo di battaglia” e l’argomentazione agli idiomi». Oggi, nelle società attuali, multiculturali e globalizzate, «la responsabilità riflessiva deve anche discernere, rispettare e far rispettare i dissidi, stabilire l’incommensurabilità delle esigenze trascendentali proprie alle famiglie delle frasi eterogenee, e trovare infine altri linguaggi per ciò che non può esprimersi nei linguaggi esistenti».

18La questione che si pone è dunque quella del rapporto tra il regime della conoscenza e quello della libertà.

19Nel trattato Vita activa Hannah Arendt (1958: 86) scrive che «la realtà della sfera pubblica si fonda nella presenza simultanea di innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre, e per cui non può essere trovata né una misura comune né un comun denominatore. Infatti, sebbene il mondo comune sia il comune terreno d’incontro, quelli che vi sono presenti hanno in esso diverse posizioni, e la posizione di uno non può coincidere con quella di un altro, più di quanto lo possa la posizione di due oggetti. L’essere visto e l’essere udito dagli altri derivano la loro importanza dal fatto che ciascuno vede e ode da una diversa posizione. Questo è il significato della vita pubblica». Tra gli uomini, in altre parole, esiste un dissidio permanente. Essi osservano le cose da un punto di vista diverso, ognuno con la sua testa e il suo cuore, e cercare di metterli d’accordo è un’impresa disperata. Saranno d’accordo se e quando lo saranno.

20Cosa accade quando le strade dei dissidenti si incrociano?

21Il dissidio, che comporta odio e ostilità reciproci, li porterà a combattersi. Tuttavia, per potersi affrontare, non basta che si ripetano di pensarla in modo diverso; devono anche arrivare a identificare un oggetto a cui ancorare il conflitto. E, una volta accesa, la disputa potrebbe estendersi fino alla distruzione e dissoluzione dell’organizzazione sociale stessa. A ciò si oppone la legge, il cui compito è di limitare la violenza diffusa e garantire in tal modo il perdurare della società. Ma, per fare ciò, il diritto non deve assolutamente cercare d’impedire il dissidio perché più cerca di neutralizzarlo più lo fomenta. Quello che deve fare è semplicemente occuparsi della lite. Quando il tribunale regola una disputa, indebolisce le ragioni della contesa e consente di stemperarne l’inconciliabilità. Non interviene sull’antinomia recondita, ma solo sul contrasto esplicito: lascia la prima allo stato latente e fa in modo così che essa resti potenzialmente congelata. Poiché opera in ambiti parziali e a partire da una sfera parziale, infatti, il compito del giudice non è di tipo gnoseologico ma criteriologico e prasseologico: non consiste affatto nel comprendere le parti, ma nel dirimere praticamente le controversie trovando, all’interno del dettato della legge, la soluzione più efficace e meno sacrificale possibile.

22L’aspetto principale dell’azione del giudicare non riguarda pertanto l’ottenere una conoscenza minuziosa degli attori o delle cause latenti del conflitto, ma la possibilità di liberare la strada, di sciogliere le fissazioni e rendere possibile l’andare avanti: di disincagliare ciò che ostruisce la circolazione, occlude gli accessi, rallenta i flussi. Per questo motivo il giudizio deve esprimersi esclusivamente a proposito del litigio immediato e mai in rapporto alla molteplicità irretita in sé stessa dei suoi oscuri recessi che non sono mai pensabili al singolare e rispetto ai quali quindi non può apporre altro che un silenzio eloquente.

23Quella che presiede al ius dicere è dunque la ragione nel suo uso pratico, che non s’interessa ai contenuti ma alle procedure. È solo in quanto tale che può obbligare a rispettare la legge: il suo carattere prescrittivo si rivolge non a un soggetto particolare, ma alla prescrizione stessa. Ciò che rende sopportabile il vincolo all’osservanza delle leggi non è una promessa di giustizia, sempre vana, ma la correttezza formale dell’iter seguito dalla proposizione alla promulgazione che qualifica le norme e ne rende effettiva l’entrata in vigore. Al contrario, il pensiero nel suo uso speculativo, che procede per denotazioni, non può né deve obbligare, ma solo convincere, persuadere.

24Il dissidio fra speculazione e prescrizione riguarda il fossato incolmabile che unisce e separa principi etici, frasi teoretiche, leggi matematiche e fisiche, regole amministrative e norme giuridiche. Finché l’orbita in cui è iscritta la ragione speculativa investe la conoscenza e quella a cui è ancorata la pratica orienta l’azione, finché nella prima si adoperano unicamente le armi della persuasione e nella seconda solo quelle dell’obbligazione, le organizzazioni sociali conservano il loro carattere dipolare, si consolidano e perdurano nel tempo perché le linee di forza generate non interrompono il campo magnetico di polivalenza. Quando invece le due regioni si confondono, l’intellettuale vuole imporre il proprio punto di vista con la coercizione, il magistrato piuttosto che impegnarsi a decidere sui conflitti pretende di spiegarli e pronuncia le sentenze non in base all’ordinamento giuridico ma ad un’idea astratta di giustizia, allora le società si rinchiudono su se stesse e implodono: generando come loro correlato specifico riti sacrificali e terrorismo. Quando, infatti, i dissidi non possono dispiegarsi liberamente, una conflagrazione generalizzata erompe senza più remissione possibile.

  • 4 «Diese praktische Überzeugung oder dieser moralische Vernunftglaube ist oft fester als alles Wissen(...)
  • 5 «Hang zum passiven Gebrauch der Vernunft» (Kant 1800a: 118).

25Nella terza sezione del Canone della ragion pura (1781: 1152-1153, 1155-1157), secondo capitolo della Dottrina trascendentale del metodo, intitolata Von Meinen, Wissen und Glauben, Kant distingue tra opinare, sapere e credere. Sia l’opinione che il sapere e la fede riguardano un «ritenere vero» (Fürwahrhalten). Tuttavia, a differenza della prima, che è «insufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente», e del secondo, che è «sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente», la fede è descritta come «sufficiente solo soggettivamente» ma non oggettivamente. Si ritorna sul rapporto tra Meinen, Wissen und Glauben, nel capitolo nono dell’Introduzione alla Logica (1800b: 135, 130, 143) secondo il quale, fondata su delle ragioni unicamente soggettive, «questa convinzione pratica o questa fede morale razionale è spesso più solida di tutti gli altri saperi»4. Das Glauben, infatti, esercita un’influenza risolutiva sulla capacità di decidere e agire in quanto mette in moto una «propensione all’uso passivo della ragione»5 che conduce a un eccesso di autoreferenzialità: a un monologo con se stessi che, non prendendo in considerazione riflessivamente il punto di vista altrui, elide ogni intermediario e procede senza incontrare ostacoli all’esecuzione di qualunque proposito.

26Opinare, sapere e credere prevedono frasi a regime eterogeneo: il criterio che ne determina efficacia, estensione, sfera d’azione e perimetro di pertinenza, varia secondo la natura della legittimazione iscritta nel singolo ambito di competenza. Sono, cioè, frasi strutturate secondo un processo che si potrebbe definire adiabatico: un movimento di fluttuazione che lascia nessuno o pochi residui e in base al quale non è loro consentito contraddirsi reciprocamente perché non sono soggette a collisione possibile. Possono essere tutte vere allo stesso tempo: «possono persino – scrive Lyotard (1982: 234) – non avere per niente il vero come posta in gioco, e la loro sintesi, il risultato, può non essere oggetto di un concetto». L’idea stessa della loro commensurabilità appare totalmente inconcludente: quando però colui che opera «la sintesi pretende di amministrarne le prove, l’assurdità prepara il terrore».

27Questo il punto delicato: il giudizio che vuole ricomporre il dissidio risponde non all’appello della legge ma a quello del vitello d’oro.

28Coloro che mirano a unificare generi eterogenei sotto un unico regime si proiettano dunque in un monologo come quello della fede o dell’ideologia. Testimoniano, cioè, secondo le parole di Marcel Jouhandeau (1935: 108), «il gioco della vita, della loro attività vana, delle complessità successive dei loro stati d’animo, a me interdetti, che permettono loro di accostarsi all’assoluto, di giocare come assolutamente, di prendere quasi senza sosta, senza malessere e senza rimorsi, la vanità per la verità, il relativo per l’assoluto, il loro proprio assoluto». Entrano così in dissidio con tutti quelli che fanno lo stesso ma da una prospettiva diversa. In questo movimento qualcosa grida a proposito di un nome, una credenza, un’interpretazione che sa di essere di parte, e vuole scientemente esserlo; domanda di essere messa in frasi, richiede di essere comunicabile, riconoscibile dalle altre ideologie, e soffre del torto di non poterlo essere.

29Chi accetta la presenza inevitabile del dissidio sottoscrive, invece, l’assunto di Hannah Arendt (1961: 283) secondo la quale «il giudizio, dice Kant (1790: 938), è “valido per ogni singola persona” – für jedermann zu gelten – che giudica: non è valido per coloro che non giudicano, né per quelli che non sono implicati nello stesso spazio pubblico in cui gli oggetti del giudizio appaiono». E considera pertanto che, a differenza dell’autoreferenzialità implicita nelle fedi pratica o dottrinale, la facoltà del giudicare preveda la necessità di tenere conto dei punti di vista diversi di tutti coloro che direttamente o indirettamente sono coinvolti nella controversia.

30Certo, tutte le frasi, senza esclusione alcuna, comprese quindi anche quelle relative al giudicare, comportano, come sostiene Arendt, uno spazio pubblico locale: un piano di osservazione che prende in considerazione soltanto chi partecipa del loro determinato regime epistemologico. È possibile, tuttavia, limitarsi a procedere lungo l’unità-pluralità della propria coerenza particolare o cercare d’imporre i risultati ottenuti a sfere diverse ed eterogenee. Ciascuna delle opzioni è ipotizzabile. Solo che, avverte Lyotard (1983: 143, 148; cfr. anche Öffenberger 1990: 117-141; von Wright 1951a: 1-15. 1951b: 1-41), quando si rinuncia alla logica dell’alternatività, governata dal principio di non contraddizione, si abbandona parallelamente anche l’ideale della bivalenza, cioè il postulato per cui ogni proposizione o è vera o è falsa, per sostituirlo con il modello della contrarietà, i cui termini non sono mutuamente esclusivi. Si mira, in breve, all’arco di parabola di maggiore convergenza possibile tra ambiti che si confrontano senza volersi prevaricare reciprocamente. Mentre, al contrario, perseguire a tutti i costi la volontà di sintesi tra insiemi eterogenei significa ridurre al mutismo la pluralità dei regimi di frasi e, in fin dei conti, sopprimerla. Presume l’assunzione di un regimen per partem implicante un «accecamento» che «consiste nel mettersi al posto dell’altro, nel dire io al suo posto»: mobilita, così, «il ritorno del sacro con la sua Aufhebung sacrificale».

31Si tratta, dunque, di capire come nell’analisi delle forme sociali si debbano distinguere i rapporti di forza emergenti dalle strutturazioni in cui s’iscrivono. In modo tale da poter accordare la dovuta rilevanza sia al conflitto regolabile, dove le frasi sono traducibili, sia al dissidio insanabile, con i suoi eserghi inderivabili e non desumibili: sia al gioco degli interessi in lotta, sempre negoziabili, sia all’incompatibilità drastica dei codici simbolici, delle costellazioni semantiche e delle province di significato in dissonanza cognitiva non riconciliabile.

32Esistono, infatti, modi diversi di riflettere sulle cose e di ritenerle vere. Alcuni sono ubicabili sull’orbitale dell’ídioskósmos, altri maggiormente su quello del koinós kósmos. Nello spazio-tempo dell’eterogeneità non esiste una gerarchia assoluta che discrimina tra i differenti criteri. Sono tutti legittimi e ammissibili finché ognuno si attiene alla propria grammatica. Fino a quando, cioè, coloro i quali scelgono un parametro oppure un altro sono disposti a farsi carico delle frasi enunciate, sostenendo che le proprie concezioni sono più affidabili delle altre, ma senza esigere che l’angolo di visuale prescelto coincida con la natura intrinseca delle cose. Non reclamando, cioè, alcuna dispensa particolare che metta le proprie formulazioni al riparo da ogni critica e non pretendendo d’imporle a chi non le consideri valide o utili per il proprio modo di vedere.

33Fintantoché la coerenza di una frase segue il suo percorso, può presentare una maggiore o minore precipuità, ma rimane comunque valida e plausibile. Quando, al contrario, vuole farsi metanarrazione, quando vuole invadere lo spazio delle altre frasi e statuire su di loro, al posto loro, allora «prepara il terrore». Pretendere di sopprimere il dissidio, lungi dal frenarlo, lo inasprisce: «È proprio sperando di mettervi un termine, trasformando la guerra in processo e pronunciando un verdetto destinato a regolare il litigio, che un dissidio può essere dichiarato». Persino «riparare il danno può risvegliare il torto che si considera irreparabile. Il fine si elude così da solo, la pace permane uno stato armato» (Lyotard 1982: 230, 234).

34Quando, infatti, impugnato il criterio su cui una frase è incardinata, si tenta di applicarlo con la forza ad altre serie di frasi, e persino se lo si fa con la ragionevolezza, ricompare la barbarie, tornano strazi e supplizi: la preuve diviene épreuve, il giudizio (Urteil) precipita nell’ordalia (Ordâl, Ordôl), il riscontro si fa redde rationem, resa dei conti, Jüngste Gericht, giudizio universale. Al dominio della legge, si sostituisce la gelosia. «La vendetta rode attorno ai nomi. Non precede i processi, li segue. Non può invocare un diritto, che è sempre quello di un tribunale, unico e che vuole delle prove, dei nomi, delle misure. Ciò che grida vendetta, sono delle frasi che non possono dichiararsi, che hanno subito un torto perché non possono fare appello che a dei sentimenti»: a idiosincrasie, a «ragioni soggettive», a motivi partigiani, a interpretazioni non generalizzabili, a significati non condivisibili. Quando «l’autorità dell’idioma nel quale i casi sono stabiliti e regolati viene contestata», quando «vengono pretesi un altro idioma e un altro tribunale, che la parte avversa contesta e ricusa», allora «è la guerra civile del linguaggio con se stesso» (Lyotard 1982: 235-236): allora riappaiono i sacrifici.

4. Società dipolari e schematismo pragmatico

35Le verità parziali, che in altri frangenti appaiono in grado di esigere dei tributi, nelle società qui definite dipolari non riescono a far valere le loro pretese come diritti: non sono capaci di ottenere una credibilità così generalizzata da fungere da archimedische Punkt per tutte le diverse forme della vita sociale. Queste organizzazioni, infatti, non contemplano niente a cui si possa tenere in modo risolutivo, nulla a cui basterebbe attenersi. Prevedono rapporti sociali basati sulla molteplicità dei giochi linguistici i quali, a loro volta, logorano e depotenziano le tesi che ambiscono a legittimare estrinsecamente la validità dei saperi, in quanto mostrano l’inadeguatezza di tali tesi a garantire pluralità e porosità.

36Ma quando l’autorità non è più prerogativa di un soggetto che impone la sua forza dall’esterno, cos’è che certifica l’attendibilità della conoscenza? cosa ne avvalora il senso e ne indica la direzione? chi ne dirige la barra e governa il timone?

37Per rispondere bisogna ritornare alla discriminazione kantiana tra denotativo e prescrittivo, tra ontologia ed etica, tra fatto o significato e principio regolativo. Giacché è in base a tale ripartizione che si può indicare come tratto distintivo delle società a carattere dipolare «il principio per cui l’eterogeneità deve esser rispettata positivamente» (Lyotard 1986: 35) malgrado ciò irriti le differenti facoltà e ne precluda l’esercizio armonioso.

38Un sistema dipolare è, in effetti, un’organizzazione sociale che si autodescrive come un campo magnetico: un parallelogramma le cui intensità costituiscono linee di flusso in cui origine e termine si susseguono indefinitamente e, pertanto, conservano sempre una certa distanza che rende loro impossibile disgiungersi o unificarsi completamente. Quando, cioè, un magnete viene spezzato, se ne formano due nuovi con entrambi i poli magnetici: in natura non è stato mai trovato un polo magnetico isolato, un monopolo magnetico. In un sistema di tale costituzione, parti e controparti sono contrarie, ma non contraddittorie. Sono correlate non da una linea pomeriale, ma dal processo di un campo di forze: da una punteggiatura che di volta in volta ne fissa il perimetro di estensione e ne delimita l’arco cronologico di espansione. Sono «i passaggi che circoscrivono i domini di legittimità e non i domini che preesistono ai passaggi e li tollerano. Cos’altro facciamo, qui, se non navigare fra le isole per poter dichiarare paradossalmente che i loro regimi o i loro generi sono incommensurabili?» (Lyotard 1983: 172).

39Una società dipolare presuppone dunque che, in primo luogo, non si possa far ricorso ad alcuna sintesi in grado di mediare tra norma e descrizione: alcun pontaggio tra discorso e fatti, tra significato delle parole e cose allo stato libero e selvaggio. E che, in secondo luogo, non sovrastato da un’istanza che si pretende conciliatrice, l’intervallo tra gli uni e gli altri si costituisca come semplice relazione di forze. Per questo tipo di società non c’è ordinamento gerarchico tra play e game. Il gioco stesso vale come caso particolare. Dadi e regole sono gettati con un unico lancio. Sintesi e rivendicazioni di oggettività sono accettate solo tenendo conto dei loro limiti e delle loro ambivalenze.

40In un sistema dipolare la frattura tra generale e particolare si presenta tanto profonda da rivelarsi inutilizzabile per chi volesse installarvisi per imporsi sui contendenti. L’ambivalenza tra loro giunge tuttavia ad essere governata nel caso in cui, al posto di una filiazione genealogica, sia introdotto un altro tipo di giunzione imperniato sull’alleanza, in modo tale che il loro raccordo si manifesti sotto forma di un sodalizio federativo liberamente scelto. Libertà che riguarda sia la non subordinazione a una matrice originaria sia l’essere svincolati rispetto alle proprie parti. A questo punto, non più dipendenti da uno sfondo contestuale né da componenti derivate, gruppo e unità paiono guidati da una determinazione esattamente opposta: dalla propensione a produrre nuove relazioni e nuovi processi, a modellizzare e riorientare il complesso della loro affiliazione. In breve, dalla capacità di essere, non indici dell’insieme, ma fattori delle connessioni a esso relative: artefici di nuove inedite relazioni nelle serie in cui compaiono e in quelle a cui danno avvio. In questi termini, la presa in conto della dipolarità sostituisce lo schematismo trascendentale delle condizioni di possibilità con lo schematismo pragmatico dei processi di attualizzazione e delle linee di attualità per i quali l‘attualizzazione non può in alcun modo esaurire tutte le potenzialità ed è – casualmente, occasionalmente, ma incessantemente – trasmodata dalle linee di attualità e dalle invenzioni continue da esse realizzate. L’unità multipla, πλήθος είναι [pléthos eínai], della dipolarità consente, infatti, di rinunciare alla necessità di una priorità trascendentale dello spazio e del tempo rispetto alla densità, alla corposità delle serie io-tu e io-tu-egli incarnanti esse stesse la spazio-temporalità del concreto-di-pensiero e dell’essere-movimento.

41Si tratta di un collegamento tra parti nel quale può fungere da intermediario solo qualcosa che non coincide con esse e a esse non appartiene in alcun modo. Prodotta dal loro incontro e dalla loro separazione, questa componente ulteriore ha valore di sistema. In grado di agire con ampia autonomia, fa sì, cioè, che sia gli insiemi e le loro parti sia le parti tra di loro facciano sistema: in modo tale che non sia possibile concepire gli uni che servendosi delle altre. Ciò che è aggiunto al processo di correlazione degli insiemi tra di loro e con il mosaico delle forze che li compongono è una soglia. Elementi comuni, posti ès mèson, riguardanti tutti e nessuno, che, come scrive Maurice Merleau-Ponty (1956-1957: 166), consentono di distinguere un corpo dagli altri, e in tal modo di elaborarne il carattere di singolarità, non grazie a una perimetrazione esterna, ma a un bordo interno, «non per ciò che specificamente esclude, ma per quanto eminentemente include».

42Dar forma a dei limiti significa iscriverli su di un sostrato, configurarli come segni riconoscibili. Ma vuol dire anche attribuirgli un senso e un valore i quali, spesso, innescano un processo di alienazione in un tempo inteso come grandezza indipendente dalle condizioni date e in uno spazio che funge da conferitore d’identità. Processo che, in prima istanza, gode della propensione a conservare l’individuo solo a condizione di reprimerne l’individualità. E, in seconda istanza, tende a trasformare i confini in una bandiera: a mutarli nel bastione di una fortezza da espugnare a tutti i costi o dalla quale gettare olio bollente sugli altri, sui nemici. Nel caso in cui, dunque, i tracciati di demarcazione vengano incorporati in significati, investiti in simboli semanticamente attivi, incarnati in una forma materiale identificabile dagli attori sociali, si apre allora un varco dal quale inevitabilmente s’introduce lo scatenamento smisurato della violenza.

43È dalla presa in conto di ciò che sorge la teoria sociale, incardinata sulle nozioni di dipolarità, dissidio e stásis, per la quale una punteggiatura elementare subentra alla mediazione e un campo di forze dipolare alla sintesi dialettica (cfr. Whitehead 1927-28: 43-46, 239-240, 344-345; Abragam 1961: 170-215; Brush 1967: 883-893; Melandri 1968: 366-370; Deleuze 1968: 53-117; Loreaux 1997: 347-369).

44Costruire una puntuazione significa osservare la rete delle interazioni sociali nei termini di un campo magnetico le cui linee vettoriali, intervallate da una distanza data, non possono mai alienarsi l’una all’altra, divenire una, né emanciparsi l’una dall’altra, farsi completamente autonome. Come scrive Maurice Blanchot (1973: 57), «se è vero che c’è nella lingua cinese un carattere di scrittura indicante insieme “uomo” e “due”, è facile riconoscere nell’uomo colui che è sempre sé e l’altro»: la dipolarità della concordia discorde e della comunicazione-interruzione, mai aurorali, mai definitive. «Ma è meno facile, più importante forse, pensare “uomo”, cioè anche “due”, come lo scarto al quale manca l’unità, il salto dallo zero alla dualità, l’uno dandosi allora come l’interdetto, lo stato intermediario».

45È questo scarto che sugella dipolarmente l’alleanza Hermès-Hestia: «Hermès, l’esterno, l’apertura, la mobilità, il contatto con l’altro da sé»; «Hestia, l’interno, il chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano su se stesso» (Vernant 1963: 152). Esso fa sì che il soggetto, invece di annichilirsi nella simbiosi o nel conflitto estremo con la sua replica speculare, entri in una relazione in grado di mutare la lotta in gioco e l’antagonismo irriducibile in disputa amichevole.

46Le organizzazioni sociali di tipo dipolare invocano dunque il lucreziano (De rerum natura, V, 849-850: 315, 347) multa rebus concurrere in modo tale da istituirsi al contempo come congiunzioni e come congiunture: come concatenazione tensoriale dei singoli operatori e come aggregazione contingente di forze concorrenti in un parallelogramma costituito da più vettori. Prediligono la policronia all’armonia: non dialogo, ma incontro, τύχη [týche]. Si presentano come associazioni la cui durata è relativa al gradiente d’interdipendenza dei componenti, che risultano responsabili non solo ognuno di sé stesso e della propria collocazione, ma anche tutti insieme del tutto, senza istanze superiori, senza oneri sottostanti, liberi. Come denuncia Kant (1793b: 271; 1793a: 229) contro coloro che sostengono che «un certo popolo non è maturo per la libertà» (ein gewisses Volk ist zur Freiheit nicht reif). Se fosse così – continua – «la libertà non arriverà mai (die Freiheit nie eintreten) perché non si può diventare maturi per la libertà se prima non si è stati posti in essa» (denn man kann zu dieser nicht reifen, wenn man nicht zuvor in Freiheit gesetzt worden ist). Per concludere: «bisogna essere liberi per potersi servire convenientemente delle proprie forze nella libertà» (man muß frei sein, um sich seiner Kräfte in der Freiheit zweckmäßig bedienen zu können).

47In tale diversa condizione, insieme e parti non equivalgono a generatore e generato, naturans e naturatus. Nessuno dei due funge da potenza iniziale che prefigura e anticipa l’altro, lasciandolo divenire ciò che è già previsto essere, né gli fornisce un orizzonte che, sottraendosi man mano che si avanza verso di lui, risucchia e inghiotte nel proprio gorgo di finalità costituente. È il rapporto stesso tra loro che ne definisce campo d’intersezione e linea d’universo fisici, origine e orizzonte sociali, ἀρχή [arché] e τέλος [télos] etico-politici. L’interdipendenza dipolare, infatti, (i) non prevede la reintegrazione di un ordine originario; (ii) considera che la linea dell’orizzonte non est puncti evolutio; (iii) scorge in corpi e artefatti un’interazione e non un’identità; (iv) (un'identità; (iv) contempla)contempla pertanto che anche il dissidio costituisce una forma di correlazione rispettabile.

48Tuttavia, che i dipoli non risultino imprigionati nei processi di proiezione-introiezione o di razionalizzazione-regressione non vuol dire che il mondo fenomenico venga esautorato. Come scrive Georges Bataille (1930: 102-103): «a ciò che si può ben chiamare la materia, poiché esiste al di fuori di me e dell’idea, mi sottometto interamente e, in questo senso, non ammetto che la mia ragione diventi il limite di quello che ho detto perché, se procedessi così, la materia limitata della mia ragione prenderebbe subito il valore di un principio superiore (che questa ragione servile sarebbe incantata di stabilire al di sopra di lei, per poterne parlare come funzionario autorizzato)». In tali termini, tra realtà e pensiero, ontologia e noologia, πόρος [póros] e ἀπορία [aporía], cose del mondo e modo umano di selezionarne aspetti pertinenti alla sua forma di vita, la mente non funge da limite. Sono piuttosto il limite e la finitudine a torcersi, propagarsi, disperdersi: punteggiatura, spostamento-mutamento, interruzione, sospensiva e catalettica, chiamati processo body-mind. Sistema che, ostruito dalle stesse parti che lo compongono, le comprime ed è investito dal loro feedback provocando in tal modo una reazione a catena: un lavoro di produzione, ri-orientamento e modellizzazione di se stesso e delle sue componenti che dà vita a corpi, mondi, conformazioni inedite.

49Malgrado, dunque, non possa garantire contro lo scatenarsi smisurato della violenza, l’opzione dipolare riesce comunque a prospettare una salvaguardia. Descrivendo la relazione al contempo come arco e come freccia, come albero e come frutto, curvatura spazio-temporale che si piega in direzione d’irreversibilità, entropia, rischio, e apertura ad altre interdipendenze, indica che proprio il tentativo di proscrizione del circolo virtuoso-vizioso configura il piège che scatena la guerra di tutti contro tutti. Prova così a ingannare l’impulso alla rivalità mimetica: trasformando l’irriducibilità assoluta in reciproco riconoscimento in grado di ricomporre la mutua alternatività in competizione agonistica, in disputa amichevole. Trasmutando la lotta in gioco, l’urto violento in negoziazione pacifica: spostando la misura della propria sopravvivenza dall’esclusione delle ostilità alla loro elusione, dall’evitare il conflitto all’addomesticarlo, dal rinunciare allo sforzo muscolare al calibrarlo.

5. Arte della parola come scienza civile e linea d’intrattabilità

50Le società dipolari comportano relazioni sociali in cui, come suggerisce Lyotard (1980: 8-9; 1979: 78, 81), viene amplificata «la nostra sensibilità verso le differenze». A tali rapporti fanno riferimento i due versanti del “paganesimo”: i dipoli della referenza e della destinazione. Rispetto al profilo del soggetto artefice incontrastato di se stesso, nel campo di sperimentazione sociale e politica chiamato «paganesimo, c’è l’intuizione, l’idea opposta. Cioè l’idea che nessun enunciatore è mai autonomo» perché non può sottrarsi ai dipoli del referente e del ricevente in quanto il locutore è «qualcuno che è stato “parlato”», che «riceve un racconto nel quale è soggetto del racconto», e al contempo «colui al quale si è parlato».

  • 6 «Illa autem est civitas popularis (sic enim appellant) in qua in populo sunt omnia» (Cicerone, De r (...)
  • 7 «Res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus (...)

51Si può dunque dire che, all’interno della civitas popularis, entro la società nella quale la fonte di tutti i poteri risiede nel popolo6, la libertà degli individui è by the law e non from the law: non consiste affatto nel potere di fare il proprio comodo, ma nel diritto di muoversi senza impedimenti nello spazio delimitato dalle leggi. La subordinazione alla forza della legge e non a quella degli uomini indica, infatti, che il popolo costituisce l’unico soggetto idoneo a designare l’assemblea legislativa e a investirla di un mandato. È la sovranità popolare che legittima i governi e, quindi, la distinzione fra legislativo ed esecutivo implica la supremazia del primo sul secondo. Come insegna Cicerone (De re publica, I, XXV, 39: 199): «lo Stato (res publica) è la cosa del popolo (res populi, bene comune del popolo) e il popolo non è un qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in un modo qualunque, ma una moltitudine associata in base all’accordo di osservare la giustizia e alla comunanza d’interessi (coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus7. E, come espone limpidamente anche la Rhetorica ad Herennium (II, XIII, 19: 309), «lege ius est id, quod populi iussu sanctum est». Ius, in altre parole, non indica una legge qualsiasi, ma unicamente le norme sancite iussu populi, secondo il volere del popolo.

52La traccia di questo volere non costituisce però l’identità del popolo come una volontà di dominio: non costituisce il popolo stesso nella padronanza certa di un’identità determinata.

53Generato dal movimento incessante del raccontare e del ri-raccontare, dalla voce che lo reitera interminabilmente in parole sempre uguali, sempre diverse, e dall’ascolto che lo prolunga indefinitamente senza poterlo mai realmente identificare, riprodurre o riconoscere, il nome del popolo vive in tutti coloro che osservano il ius come un debito irremissibile che dissolve ogni rappresentazione perché non può essere ricomposto e unificato in una sintesi. Nel moto di andata e ritorno tra gli albori primordiali, anonimi e impersonali, a cui la presenza di tale popolo rinvia, e l’attualità decisa in comune in cui esso si prospetta al presente, il raccontare quello che esso è stato al suo avvenire che si profila rivela così che una parte di se stesso scaturisce dall’obbligazione medesima. Procede dal suo essere iscritto ancestralmente nella legge e da essa letteralmente marchiato in quanto superfetazione tra volontà particolaristica della consapevolezza e voce interiore della coscienza morale: tra presenza chiara di sé a se stesso, scintilla conscientiae, e con-scientia, sapere condiviso, tribunale della coscienza (syneidótos dikastêrion, syneidótos nomos). Risonanza magnetica tra la memoria del subjectum proprium e la riflessione che ne favorisce l’incontro con il subjectum commune: dipolarità tra limitatezza intellettiva dell’idiótes e limiti collettivi e condivisi del koinón (cfr. Ojakangas 2013: 40-55).

54Il populus e nessun altro che tutto il populus, cioè l’universitas civium che costituisce il vero dominus superiorem non recognoscens in quanto detiene una sovranità esclusiva e non derivata, incarna la fonte ultima dell’autorità legale per il semplice fatto che quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet: quello che tocca tutti, da tutti deve essere approvato. Ritroviamo così la definizione Ciceroniana di stato di diritto come sistema che garantisce i cittadini con l’uso di norme che si definiscono giuridiche perché precise nella loro descrizione e decise in comune. Quando nel De re publica (I, 32, 49: 208-209; VI, 13, 13: 392-393) ci si pone la domanda «quid est enim civitas nisi iuris societas?», che cosa è infatti una società se non la partecipazione a un diritto comune? La risposta data nel Somnium Scipionis è «concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur»: si chiamano società (civitates, politéia) le unioni e aggregazioni associate sulla base del diritto.

55Scoprendo la propria libertà come correlata con la legge e attraverso di essa con le norme sancite iussu populi, ognuno è posto al cospetto di altri come ponte/porta, come propria soglia: è votato alla dipolarità dei kósmoi ídios e koinós. Risulta quindi libero solo in quanto iscritto dipolarmente nella presenza degli altri: unicamente in virtù del fatto di porsi consapevolmente delle limitazioni e scegliere liberamente di non oltrepassarle. È in questo senso che si può dire con Lyotard (1979: 85-86, 98-99) che «la volontà non è mai libera e la libertà non è mai la prima. Che successivamente si possano dire altre cose, d’accordo, che successivamente ci sia volontà, d’accordo; ma questa volontà non si prende che sullo sfondo di un’obbligazione che è iniziale e che è molto più antica, molto più arcaica e che non è materia di legislazione, che non è stata decretata, che è letteralmente anonima». Questo significa che «si è presi in prima persona in una storia, non si può fuoriuscire dalla storia in cui si è per prendere una posizione metalinguistica e dominare l’insieme. Si è sempre immanenti a delle storie in corso di svolgimento, persino quando si sta raccontando una storia a un altro».

56Inabissate nella tessitura del racconto, le genti della società dipolare non si caratterizzano per le loro opere grandiose ma, piuttosto, per le trame ordinarie con cui si strutturano, i dipoli in cui incessantemente s’iscrivono. Il che consente di considerarle come enti e come entità: in quanto persone e, al contempo, in quanto margini i cui versanti fluttuano nel campo magnetico referente-destinatario. Lì dove «nessun discorso si presenta come autonomo ma al contrario sempre come un discorso ricevuto» la cui ripetizione «non fa che marcare la pulsazione πρότερον/ ὕστερον [próteron/hýsteron], uno due, uno due, che è la diade» (Lyotard 1979: 84). Oscillazione dipolare di sistole e diastole, arsi e tesi, apertura e chiusura, ποιήματα [poiémata] e παθήματα [pathémata], creazioni e passioni: che procede dal pagus, di cui accoglie l’eco e rielabora le tracce, e prosegue nel páthos, che la investe e con cui deve confrontarsi. Motilità sociale elementare, «emblema della vita indaffarata e ritmo sincopato della salute, ombra portata dalla condizione critica sull’esperienza, ciò che l’antropologia chiamerebbe complessione giudiziosa. Giudicare, che significa scavare un abisso tra le parti, analizzando il loro dissidio» (Lyotard 1979: 84). Costituzione dipolare che esclude qualsivoglia neutralità: l’essere neuter, né l’uno né l’altro, il porsi al di sopra delle parti la cui illusione introduce solo confusione, dubbi, incredulità. E affianca l’affermazione del libero arbitrio, forza motrice dell’idea stessa che si possa decidere della propria posizione in modo deliberato, svincolati da ogni rapporto, con la retroazione del servo arbitrio: in quanto, indicando lo spazio all’interno del quale ci si può muovere senza alcun impedimento, l’ordinamento giuridico espone la determinazione individuale ai suoi propri confini e la trasfigura.

57Le minacce degli uni e le ritorsioni degli altri incedono allo stesso modo, in alternanza sincro-diacronica. Non si può dire che i secondi reagiscano ai primi o viceversa. Sono perfettamente affiatati, giocano lo stesso gioco della sega a nastro, in cui ognuno è zimbello degli altri, e si dettano reciprocamente le condizioni. Rispettare e far rispettare la presenza inevitabile del dissidio richiedono, infatti, che gli antagonisti convertano congiuntamente l’impotenza della libertà senza regole in libertà secondo l’autorità impersonale del δεσπότης νόμος [despótes nómos]: convengano che, per umana e imperfetta che sia, la legge rappresenta l’affermazione della vita di fronte alla morte, della civiltà di fronte alla barbarie. Testimonino insieme «non soltanto che delle leggi sono state date, ma che è necessario che delle leggi ci siano». Che «c’è un gioco linguistico facente appello all’ordinare e all’essere obbligati», e che «bisogna giocarlo». Che, infine, «ciò che è importante in questo gioco linguistico è l’obbligazione come relazione pragmatica e non il suo contenuto» (Lyotard 1979: 141).

58Lex e nómos si affrancano così dall’orizzonte etico-politico che trova nel dissidio il pretesto per incoraggiare un potere arbitrario incondizionato e procedono in direzione del linguaggio prescrittivo-pragmatico del limite: inteso come «forza cristallizzata» che «filtra e circoscrive», include ed esclude, «secondo un certo numero di codici il cui insieme definisce il perimetro della cittadinanza» (Lyotard 1973: 55). Si emancipano, in altre parole, da un presupposto che si prospetta come autoistituente e approdano a un ordinamento suffragato dalla validità di legislazioni legalmente promulgate, nonché dal diritto di governare unicamente da parte di chi, traendo potere dalla legge, si sottomette alle sue disposizioni: si vincola, cioè, alla reciprocità del rapporto normativo fra coloro che governano e la popolazione di cui sono parte. Insieme di regole giuridiche e non giuridiche che costituiscono la pulsazione del potere politico e fungono da sua soglia dirimente. Sistema di direttive particolari che obbliga allo stesso modo chi amministra i pubblici poteri, i funzionari preposti e tutto il corpo sociale: gli universi cives ai quali l’ordinamento stesso è dipolarmente subordinato.

  • 8 Facendo derivare la nozione di legge (nómos) dal verbo νέμειν [nemein], che indica l’atto del suddi (...)

59Prendersi cura dei margini che uniscono e separano definisce quindi l’autorità della legge e ne attesta la liceità. Ciò che garantisce libertà e rispetto dei diritti è, infatti, l’accento posto sulla relazione dipolare tra libero e servo arbitrio: misura d’interferenza tra, da un canto, rivendicazione d’intransigenza e perseguimento solitario della propria unicità e, d’altro canto, piano relazionale della decisione politica e dell’obbligazione giuridica. Il che vuol dire che nelle società dipolari la strutturazione delle collettività non s’incardina unicamente sulle due focali di vis delectus ed aequitas: scelta ed equilibrio, volontà e responsabilità8. Ma, accanto a queste due, orbita ancora una possibilità ulteriore: una piega di dispersione diakosmica che schiva la sincronia del tenersi insieme e insegue delle zone di rifiuto e di leggerezza. Alla libertà di decisione [βουλή boulé] e ai vincoli che instaura, alla sovranità sottoposta all’assunzione di un obbligo, alla dipolarità tra i kósmoi ídios e koinós si affianca pertanto la linea d’ombra del mikrós diákosmos assicurante un perdurante diritto alla fuga e alla diversione: piccoli spazi di non comunicazione, d’interruzione, per sfuggire al controllo e alla sua oppressione.

60La legittimità dello stato di diritto è, in conclusione, inderogabilmente ancorata all’arte della parola come scienza civile: alla salvaguardia di pubblico dibattito e libera circolazione delle idee come possibilità di esprimersi e di prendere posizione. Presenza di spazi fisici e simbolici dove opinioni politiche differenti, punti di vista contrapposti, interessi divergenti e discordanti definizioni di realtà possono liberamente emergere, presentarsi, fronteggiarsi e rispondere delle posizioni assunte. Ma dove può anche insorgere una singolare curva di distrazione tesa non ad affrontare i rapporti di forza ma a evaderli: piuttosto che a carezzare o impugnare il principio di realtà, a eluderlo e depistarlo.

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Note

1 «Λέγω δε νόμον τον μεν ίδιον τον δε κοινόν» Légo de nómon ton men ídion, ton de koinón» (Aristotele, Ars rhetorica, I, 13, 1373b, 4: 62).

2 «Ίδιον μεν τον εκαστοις ώρισμενον προς εαυτούς» [Ídion men ton ekastois órismenon pros autoús] (Aristotele, Ars rhetorica, I, 13, 1373b, 4-5: 62-63).

3 «παρά πάσιν όμολογείσθαι δοκεί» [Pará pásin omologeísthai doxeí] (Aristotele, Ars rhetorica, I, 10, 1368b, 9: 48).

4 «Diese praktische Überzeugung oder dieser moralische Vernunftglaube ist oft fester als alles Wissen» (Kant 1800a: 110).

5 «Hang zum passiven Gebrauch der Vernunft» (Kant 1800a: 118).

6 «Illa autem est civitas popularis (sic enim appellant) in qua in populo sunt omnia» (Cicerone, De re publica, I, 26, 42: 200).

7 «Res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus» (Cicerone, De re publica, I, 25, 39: 198).

8 Facendo derivare la nozione di legge (nómos) dal verbo νέμειν [nemein], che indica l’atto del suddividere, dell’aggiudicare, nel De legibus (I, 6, 19: 428-429) Cicerone spiega che i Greci ne incardinano il senso a partire «dalla questione della distribuzione dovuta a ciascuno di ciò che gli appartiene». I Romani, continua, si comportano in modo diverso perché la fanno provenire da lego (eleggo, scelgo). Per questa ragione gli uni fanno riferimento all’equità (aequitas) e gli altri alla decisione (vis delectus) entrambi intrinsecamente connessi con la legge (proprium tamen utrumque legis est). «Graeco putant nomine (νόμον), a suum cuique tribuendo, appellatam; ego nostro a legendo. Nam ut illi aequitatis, sic nos delectus vim in lege ponimus, et proprium tamen utrumque legis est» (cfr. anche Pohlenz 1955: 166-167; Quaglioni 2002: 30; Schiavone 2005: 256).

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Carlo Grassi, «Dissidio, stasis e società dipolari»Rivista di estetica, 65 | 2017, 120-142.

Notizia bibliografica digitale

Carlo Grassi, «Dissidio, stasis e società dipolari»Rivista di estetica [Online], 65 | 2017, online dal 28 novembre 2017, consultato il 04 octobre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/estetica/2164; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/estetica.2164

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Carlo Grassi

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