Perché le opere architettoniche hanno nomi e non titoli?
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1Dapprima due indizi. Il primo: si può affermare che le due domande “Come si chiama il libro che stai leggendo?” e “Come si intitola il libro che stai leggendo?” siano immediatamente comprensibili ed equivalenti. Difficilmente però un parlante sente come equivalenti le domande “Come si chiama quell’edificio?” e “Come si intitola quell’edificio?”. Mentre la prima domanda è chiarissima, la seconda susciterà un’ulteriore domanda di chiarimento: “Che cosa intendi per titolo dell’edificio?”. Per un comune parlante titolo e nome di un libro sono la stessa cosa, nel senso che nominiamo un libro mediante il suo titolo. Disorienta invece parlare di titolo di un edificio; chi lo fa non sembra usare la lingua in modo corretto. Il secondo indizio: mentre sappiamo di dover scrivere “Il giardino dei Finzi Contini” o “Guernica” in corsivo, non useremo il corsivo per la “Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole”. Tutt’al più – ma non è necessario – scriveremo “Chiesa” maiuscolo, perché stiamo designando una particolare chiesa. Questi due indizi ci mostrano che, mentre riteniamo che nomi e titoli di libri siano la stessa cosa, non siamo disposti, nelle nostre pratiche linguistiche e nelle convenzioni grafiche, ad accettare i nomi delle opere architettoniche come titoli. Perché? Si tratta solo di una convenzione – e dunque nulla vieta che potremmo, d’ora in poi, chiamare titoli i nomi degli edifici – o ci sono altre ragioni? In questo articolo cercherò di portare qualche ragione che dia un senso alla resistenza dei parlanti di pensare ai nomi degli edifici come titoli. In altri termini, sosterrò la tesi che non solo per ragioni di pura convenzione le opere architettoniche, a differenza delle opere letterarie e di quelle scultoree e pittoriche, non hanno (o non hanno finora avuto, visto che qualcosa sta cambiando) titoli, bensì nomi. La questione preliminare diventa a questo punto: è possibile distinguere teoricamente i nomi dai titoli?
1. Designazione
- 1 G. Genette, Seuils, Paris, Seuil, 1987, p. 63.
- 2 G. Vasari, Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ (...)
- 3 E.H. Gombrich, Image and Word in Twentieth-Century Art, «Word & Image», I, 3, 1985, p. 213.
2È noto che neppure le opere letterarie hanno sempre avuto un titolo o un apparato titolatorio come noi oggi lo conosciamo. I manoscritti antichi nominavano l’autore e ciò di cui l’opera parlava spesso all’inizio o alla fine come parte dell’opera, e Genette ci ricorda che «il frontespizio non appare che negli anni 1475-1480»1. Ben più tarda è l’apparizione del titolo nelle opere pittoriche o scultoree. Nelle Vite di Vasari (1550), l’affresco cui diamo il titolo di Disputa del Sacramento è identificato così: «Fece in un’altra parete un cielo con Cristo e la Nostra Donna, nugole con Dio Padre, che sopra tutti manda lo Spirito Santo a un numero infinito di santi che tutti scrivono la Messa; e sopra l’Ostia, che è sullo altare, disputano. Fra i quali sono i quattro Dottori della Chiesa, e intorno hanno infiniti santi. Èvvi Domenico, Francesco, Tomaso d’Aquino, Buonaventura, Scoto, Nicolò de Lira, Dante, fra’ Girolamo da Ferrara e tutti i teologi cristiani et infiniti ritratti di naturale; et in aria sono quattro fanciulli che tengono aperti gli Evangeli»2. Seppure la titolazione di opere pittoriche è precedente, Gombrich nota che «la relazione tra immagini e parole, tra opere d’arte e loro intestazioni o titoli, ha conosciuto molti cambiamenti nella storia dell’arte, ma solo nel ventesimo secolo è davvero divenuta un problema»3.
- 4 Inferno, XXXIII, vv. 22-23.
- 5 L.H. Hoek, La marque du titre. Dispositifs sémiotiques d’une pratique textuelle, La Haye-Paris-New (...)
- 6 Genette, Seuils cit., pp. 73-77.
3Come detto, per poter difendere la tesi che le opere architettoniche non hanno titoli ma nomi, è necessario poter distinguere teoricamente tra nome e titolo. Non sembra essere semplice. Il “titulus” è infatti in primo luogo un cartello o un’etichetta apposta a cose o persone, e anche in italiano “titolo” poteva essere usato nel significato di “nome, denominazione”, come nell’episodio dantesco di Ugolino: «dentro de la muda | la qual per me ha il titol de la fame»4. Leo Hoek definisce il titolo come «l’insieme dei segni linguistici (parole, frasi, perfino testi) che possono comparire in cima a un testo per designarlo, per identificarlo, per indicarne il contenuto globale e per attrarre il pubblico cui si mira»5. Ma Genette, nell’analisi forse ancora più classica sui titoli, critica che le tre funzioni identificate da Hoek – «designazione, indicazione del contenuto, seduzione del pubblico» – siano tutte necessarie; solo la designazione è per lui «obbligatoria, le altre due sono facoltative e supplementari», di esse si «potrebbe a rigore fare a meno». In breve, «il titolo […] è il “nome” del libro, e come tale serve a nominarlo, ossia a designarlo il più precisamente possibile e senza troppi rischi di confusione»6. Il titolo, così definito, è una specie del genere nomi: è nulla più che il nome dei libri o, in genere, dei testi. Pertanto, nome sta a cose come titolo sta a testi. In tal modo, però, la distinzione tra nome e titolo è puramente convenzionale, non c’è nessun necessario tratto concettuale che il titolo aggiunge al nome.
4La nozione di titolo può allora essere allargata considerevolmente. Mi basta infatti considerare – come pure si fa, più o meno legittimamente – testi non solo i messaggi verbali, ma anche opere pittoriche, scultoree, musicali e naturalmente opere architettoniche, per affermare che tutte hanno o possono o anzi debbono avere un titolo, in quanto testi che vanno identificati. Così, oggi, indipendentemente dal modo e dal tempo in cui tali nomi sono nati, potremmo legittimamente considerare “Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole” un titolo, e così pure titoli saranno, che so, la “Rotonda” di Palladio, la “Maison Carrée”, la “casa del Girasole” di Luigi Moretti, la “Torre Velasca”, la “Villa Savoye”, il “Partenone” e il “Vittoriano”. E potremmo senza tema continuare: testo è anche una piazza, un paesaggio o una città; ergo, titoli sono pure “il sistema delle Piazze” a Gibellina, l’“Oltrepò pavese”, “Roma”, “Ferrara” e “Palmanova”.
5Ma, anche senza considerare edifici e città come testi, nessuna ragione teorica può impedire ai parlanti di decidere che tutti i nomi degli artefatti sono titoli. Se la designazione è la nota essenziale tanto dei nomi quanto dei titoli, l’estensione di “titolo” può essere allargata a piacimento, fino a far, perché no, coincidere “titolo” con “nome”.
6Una volta aperta questa diga, avremmo però svuotato la nozione di titolo di ogni interesse teorico. Se il titolo è solo il nome di alcune cose – libri, testi letterari, testi tout court, artefatti – o, più precisamente, se la funzione denotativa è la sola necessaria e sufficiente per un titolo, sarà possibile distinguere i nomi dai titoli per la loro estensione ma non per l’intensione. Saremmo legittimati a chiamare titoli i nomi delle opere architettoniche.
2. Interpretazione
- 7 U. Eco, Postille a «Il nome della rosa». 1983, in Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 200147, p. (...)
- 8 J. Levinson, Titles, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», XLIV, 1, 1985, pp. 29-39.
7Il titolo instaura con il suo oggetto una peculiare relazione, che non è di sola denotazione. È stato affermato più volte: il titolo è un atto ermeneutico, un microtesto che interpreta un altro testo o un artefatto. Per tutti Umberto Eco: «Un titolo è purtroppo [sul “purtroppo” ritornerò tra poco] già una chiave interpretativa»7. Tutte le tipologie di titoli discusse da Genette (titoli tematici, rematici, connotazioni) e Levinson8 sono in fondo tipologie dei modi in cui un titolo interpreta il testo o l’opera cui si riferisce. Come atto interpretativo, il titolo sembrerebbe offrirci una differenza specifica rispetto al nome puramente denotativo. Se fosse questa la differenza pertinente tra nome e titolo, non potremmo però dire che le opere architettoniche non hanno titoli. Prendiamo per esempio la “Chiesa di Bagsværd” di Jørn Utzon. Il nome serve non solo a identificare senza ambiguità un particolare edificio e a situarlo in un luogo nel mondo (Bagsværd, a nord di Copenaghen), ma ci dice anche qualcosa del suo contenuto: è una chiesa e non un edificio industriale, come da lontano pure potrebbe apparire. Ci dice per giunta che non è una chiesa cattolica, perché non è intitolata ad alcun santo. In questo senso “Chiesa di Bagsværd” potrebbe essere benissimo un titolo rematico, per riprendere la classificazione di Genette: ci informa di che tipo di edificio si tratta.
8Tuttavia, a ben vedere, la dimensione interpretativa del titolo non solo non ci permette di escludere i nomi delle opere architettoniche dai titoli, non ci permette neppure di distinguere i nomi dai titoli. Quando i genitori, o chi per loro, danno un nome a un bambino, lo “interpretano” con quel nome sulla base, per esempio, dell’idea che hanno di lui, delle attese che si sono fatti, dei ricordi che evoca o di tradizioni che vogliono preservare. Per non parlare dei soprannomi o dei nomignoli che si danno a persone, oggetti o luoghi: anch’essi possono essere tematici, rematici o connotativi.
9Come la via denotativa, anche la via ermeneutica non ci permette di distinguere intensivamente tra nome e titolo, né ci può impedire di considerare i nomi degli edifici titoli.
3. Interpretazione artistica
- 9 A.C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, a c. di S. Velotti, Roma-Bari, (...)
- 10 Ivi, p. 178.
- 11 John Fisher non sembra invece disposto a sposare la tesi di Danto: «Non tutte le opere d’arte hanno (...)
10Il particolare status del titolo rispetto al nome, e dunque la differenza tra l’interpretazione del nome e quella del titolo (entrambi come genitivi soggettivi), si ha solo nel momento in cui facciamo il salto che fa Arthur Danto: il titolo non esprime semplicemente un’interpretazione di ciò cui si riferisce, ma esprime un’interpretazione artistica. Meglio, questa frase va spezzata in due momenti. Il primo: un artefatto o un prodotto si distingue da un’opera d’arte perché il prodotto rappresenta o interpreta il proprio contenuto semplicemente; l’opera d’arte lo rappresenta in modo artistico9. Vale a dire, l’opera d’arte dà sempre un’interpretazione seconda della semplice interpretazione di un contenuto: essa «afferm[a] qualcosa a proposito del modo in cui quel contenuto viene presentato»10. Danto fa l’esempio di due articoli indistinguibili che raccontano un evento di cronaca. L’uno riferirà solo il fatto, l’altro (l’opera d’arte) userà il modo giornalistico di riferire il fatto per esprimere qualcosa a proposito del modo giornalistico di riferire i fatti. È questo il tratto distintivo dell’opera d’arte, il suo essere sempre a-proposito-di, l’aboutness. Il secondo momento di cui si compone la tesi in apertura di paragrafo è: il nome esprime il fatto che il prodotto semplicemente rappresenta; il titolo che l’opera d’arte rappresenta artisticamente, esso esprime dunque l’artisticità della rappresentazione. Tale artisticità talvolta si esprime essenzialmente nel titolo (come nell’esempio immaginato da Danto degli indistinguibili quadri rossi), talvolta si esprime in modo meramente ausiliario in esso; ma il titolo è comunque una spia, un sintomo del fatto che una rappresentazione ha ambizione artistica. In altri termini, il titolo è il rappresentante del tratto pertinente dell’opera d’arte, l’aboutness. Per i fini di questo articolo non è importante addentrarci oltre nella discussione e nella valutazione dell’aboutness. Ci basta qui aver trovato una nuova proposta per quella differenza intensiva che cercavamo tra nome e titolo. Nelle prime due vie era impossibile distinguere tra nome e titolo: entrambi avevano una funzione denotativa e interpretativa. Ora c’è qualcosa che il nome non può fare: dar voce all’artisticità di un’interpretazione. Di qui lo slogan dantiano: le cose hanno nomi, le opere d’arte titoli. Mettiamo da parte pure il fatto che ci sono scritti – per esempio questo che state leggendo – che hanno un titolo ma non sono, ahimè, un’opera d’arte. Qui ci interessa la tesi che le opere d’arte debbano – e dunque sempre possano – avere un titolo11.
11Ora che sembra abbiamo trovato il modo, o un modo, di distinguere un titolo da un nome proviamo ad applicarlo alle opere architettoniche. Hanno un titolo o un nome? Seguendo la distinzione appena fatta la risposta dovrebbe essere: possono avere entrambi. Se si tratta di meri artefatti edilizi dovranno accontentarsi di un nome, se sono opere d’arte potranno ottenere l’onore di un titolo. Non mi pare però che le cose stiano così.
12Tranne che in alcune eccezioni recenti che discuterò più avanti, non ritengo che per le opere architettoniche, anche quelle che siamo disposti ad accettare come opere d’arte, si possa parlare di titoli. Le opere architettoniche, inclusi i capolavori, hanno nomi o soprannomi allo stesso modo delle località, dei paesi, con una operazione battesimale che ora si perde nella coscienza linguistica comune, ora è opera del committente o del proprietario. Non c’è alcuna differenza di statuto tra “Villa Savoye” e “Villa La Fatigaccia”, il nome della villa di un mio ex-vicino nella campagna romana (chiamata così probabilmente con riferimento al sudore che è costata), benché la prima sia un capolavoro dell’architettura del Novecento e la seconda l’abitazione di dubbio gusto di un professionista in pensione. Voglio dire: le due ville sono nominate senza alcun riguardo alla loro ambizione di essere opere d’arte; i loro nomi non sono spie o sintomi di ambizione artistica. Anche quando un tratto geometrico serve per designare un’opera, “la Rotonda”, o la “Maison Carrée”, non mi pare che quest’operazione sia differente dal modo in cui migliaia di località o edifici senza ambizioni artistiche sono nominati prendendo spunto da una loro caratteristica, non solo geometrica (per es. la cosiddetta piazza Quadrata a Roma, ma anche, che so, capo Spartivento in Calabria o spiaggia Lunga sul Gargano). Certamente chiamare la villa di Palladio “la Rotonda” presuppone un’operazione riflessiva e interpretativa, ma essa non è in alcun modo differente dalla nascita dei soprannomi con cui già i bambini si chiamano o si prendono in giro in una classe delle elementari. A meno che non si sostenga che in tutti i nomi o nomignoli si cela una potenziale interpretazione artistica, in quanto sono frutto di una qualche capacità riflessiva o creativa che guarda all’oggetto da nominare come se fosse un’opera d’arte. Ma allora, di nuovo, avremmo minato anche questa differenza specifica tra nomi e titoli e torneremmo all’impossibilità di distinguerli teoricamente.
13Volendo preservare la differenza tra interpretazione e interpretazione artistica anche per le opere architettoniche, si potrebbe obiettare: va bene, “la Rotonda” non è un titolo, e le opere d’arte architettoniche di fatto esistenti non hanno, tutte o quasi, un titolo; però potrebbero averlo. Non mi pare sia neppure questo il caso. Potremmo pensare a una chiesa o una moschea o alla sede di un parlamento o perfino a un museo con un titolo? Ritorno all’esempio della chiesa di Bagsværd, che senz’altro i più sono disposti a chiamare un’opera d’arte. Utzon ha scritto di essersi lasciato ispirare dalle forme delle nuvole sul mare nei cieli danesi e di aver voluto riprendere quelle forme nel disegnare le volte curvilinee della chiesa, come se lo spazio sacro fosse all’aperto sotto il cielo. Poniamo che per questo avesse dato il titolo di “Le nuvole” o “Paesaggio nordico” a questa sua opera d’arte. Se lo avesse fatto, perché non potremmo mai trovare la dicitura “Jørn Utzon, Le nuvole, 1973-76” oppure “Paesaggio nordico, 1973-76”, come didascalia di una foto della chiesa? Che cosa ci trattiene dal considerare questo esempio come verisimile? È solo timore reverenziale verso uno spazio che alcuni utenti considerano come sacro oppure è una resistenza che ha una più profonda portata teorica? E perché non avremmo invece problema ad accettare Paesaggio nordico come titolo di una fotografia dell’interno della chiesa? Insomma: dobbiamo concludere che non solo un’opera d’arte come la chiesa di Bagsværd ha un nome e non un titolo, ma neppure potremmo immaginare un titolo senza essere fraintesi o considerati come eccentrici. Forse tra trenta o cinquant’anni non sarà più così, oggi dobbiamo però rassegnarci al fatto che un tempio cristiano che sia un’opera d’arte non può avere un titolo.
14Le opere d’arte architettoniche sembrano metterci in un caso speculare ma opposto a quelli immaginati da Danto: i suoi esempi sono quelli di oggetti indistinguibili (le scatole Brillo, gli immaginari quadrati rossi) che sono distinti solo grazie a come vengono nominati o intitolati; in architettura abbiamo nomi indistinguibili che ora nominano meri manufatti, ora nominano opere d’arte. Pensiamo alle centinaia di chiese di San Giovanni Battista esistenti in Italia: hanno tutte lo stesso nome, ma alcune sono opere d’arte, altre potrebbero essere dei garage consacrati e – ci si passi il termine – intitolati a San Giovanni Battista.
- 12 A meno che, come visto, non si sostenga che ogni atto di nominare è un’interpretazione artistica di (...)
15Ci troviamo in una singolare aporia: distinguendo intensivamente tra nome e titolo, la via dantiana sembra essere l’unica che rende la questione del titolo interessante teoricamente e non un gioco di convenzioni nominalistiche12, ma le opere d’arte architettoniche offrono un controesempio per tale teoria. Se seguiamo le prime due vie, è indifferente chiamare nomi o titoli le parole con cui designiamo manufatti architettonici, basta metterci d’accordo. Se seguiamo la via dantiana, siamo in grado di affermare, seguendo il senso comune, che le opere architettoniche hanno nomi e non titoli. Tuttavia siamo posti di fronte all’alternativa: o escludere che le opere architettoniche possano essere opere d’arte (non possono avere che nomi) o invalidare la teoria che ci ha permesso di distinguere nomi da titoli (se vogliamo continuare a considerare alcune opere architettoniche opere d’arte).
4. Artista
- 13 Levinson, Titles cit., p. 33.
- 14 Eco, Postille cit., p. 509.
- 15 Ibidem.
16C’è un aspetto ulteriore e decisivo che va sottolineato nella differenza tra nomi e titoli: il rapporto all’autore. Lo fotografa Levinson: «I soli titoli di cui mi occupo sono i veri titoli: quelli dati da un artista grosso modo al momento della creazione o costituzione dell’opera. […] etichette affisse a un’opera da un agente differente dall’artista possono essere divertenti, o chiarificanti, o ispirare altri modi di approccio, ma non possono pretendere di determinare il significato artistico come i titoli bona fide»13. Questo esprimeva anche il “purtroppo” di Umberto Eco nella citazione precedente. Eco scrive che «l’autore non deve interpretare»; anzi, per essere sicuri che ciò non avvenga «l’autore dovrebbe morire dopo aver scritto»14. «Ma uno dei principali ostacoli alla realizzazione di questo virtuoso proposito [il non interpretare, non il dover morire] è proprio il fatto che un romanzo deve avere un titolo»15. Di qui il “purtroppo”: dando un titolo un autore ha purtroppo già sempre interpretato. Con il che Eco sottintende che il legittimo artefice del titolo del romanzo o dell’opera è l’autore. In altri termini, nella questione del titolo abbiamo una sorta di triangolo semiotico: opera-titolo-autore. Ciò non vuol dire che non ci possa essere chi fa le veci dell’autore, un editore o un curatore, per esempio, se, come per Kafka, l’autore davvero tiene fede al proposito di morire prima di aver apposto il titolo. Nel titolo l’autore compie il primo atto ermeneutico.
- 16 Danto, La trasfigurazione del banale cit., p. 200.
- 17 Ivi, pp. 201-254.
- 18 S. Velotti, Introduzione a Danto, La trasfigurazione del banale cit., p. XIX.
- 19 Danto, La trasfigurazione del banale cit., pp. 3-10.
17Si potrebbe però obiettare che l’autore non ha alcun titolo per esprimere, nel titolo, un’interpretazione che abbia uno statuto peculiare rispetto ad altre interpretazioni. Levinson non motiva perché i titoli non dati dall’artista non siano veri titoli; per Eco la questione che l’interpretazione data dal titolo abbia uno statuto superiore alle altre interpretazioni non si pone neppure: il titolo sembra, per l’autore, un male necessario. Danto è il solo che ci possa mostrare il motivo di questa profonda solidarietà tra autore e titolo, dunque perché l’interpretazione dell’autore è non solo la prima temporalmente, ma è prima ontologicamente: essa può essere decisiva nello stabilire se l’artefatto è un’opera d’arte. Scrive Danto: «È come se un’opera d’arte fosse un’esteriorizzazione della coscienza dell’artista, e quindi è come se con un’opera d’arte vedessimo non semplicemente quel che l’artista ha visto, ma il suo stesso modo di vedere»16. Del modo di vedere il mondo, dello «stile»17 dell’artista è proprio il titolo dell’opera a essere la coagulazione. Il titolo è il luogo esemplare dove comprendere le intenzioni dell’artista. Se, come scrive Stefano Velotti, «secondo Danto, i significati dell’opera rintracciabili nel processo di interpretazione che la costituisce come opera d’arte devono corrispondere il più possibile alle intenzioni dell’artista»18, è il titolo, come interpretazione ontologicamente prima dell’artista, a governare le interpretazioni successive. In apertura de La trasfigurazione del banale, l’aspirazione degli indistinguibili quadrati rossi a essere considerati opere d’arte si risolve in una battaglia di titoli (Israeliti che attraversano il Mar Rosso, Lo stato d’animo di Kierkegaard, Piazza Rossa, Quadrato rosso, Nirvana, Tovaglia rossa, Senza titolo)19, perché Danto presuppone che le intenzioni dell’artista, e dunque il suo modo di vedere il mondo, debbono passare attraverso la cruna del titolo. È il titolo apposto dall’artista a permettere che un oggetto ininterpretabile artisticamente lo diventi, rendendo visibile uno «stile» che altrimenti potrebbe risultare invisibile. Teoricamente, titolo e autore stanno e cadono insieme. Vale a dire, la rilevanza teorica del titolo (come interpretazione artistica) rispetto al nome (come semplice interpretazione) è indissociabile dal ruolo dato all’artista in quanto autore del titolo. Ancor più, è nell’artista la sorgente del peculiare ruolo che il titolo ha, o dovrebbe avere, rispetto al nome.
- 20 G.W.F. Hegel, Estetica, a c. di N. Merker con intr. di S. Givone, Torino, Einaudi, 1997, vol. I, pp (...)
18In tal modo, la rilevanza teorica del titolo è figlia del nostro tempo: un tempo, inaugurato dal romanticismo, in cui l’attenzione si sposta sempre di più dall’opera all’autore, dall’arte all’artista. Hegel è stato forse il primo a rendersene conto nella sua analisi dell’ironia romantica come genialità: l’opera, come ogni cosa sensibile, diventa vana di fronte a ciò che davvero conta: la soggettività assoluta dell’artista20.
5. Finalmente titoli
19Se quest’interpretazione è plausibile, possiamo affermare che solo ora l’architettura o, meglio, gli architetti stanno diventando maturi per apporre titoli. Quest’evoluzione ha molteplici volti, di cui do qualche esempio.
- 21 F. Purini, Architettura e costruzione, in A. De Capua, M. Mannino, E. Rocca (a c. di), Arte Scienza (...)
- 22 Ivi, p. 92.
- 23 Ivi, rispettivamente p. 86 e 88.
20Uno può essere rappresentato dall’opera progettuale e teorica di Franco Purini che ha teorizzato il primato del progetto, inteso come disegno e rappresentazione, sul costruire. Di contro al progetto come grembo di infinite possibilità, l’opera finita segna una «caduta», una «diminuzione semantica», uno «scarto» che la rende «cosa»21. «In fondo la vera Rotonda non è quella che sorge su un dosso dei Monti Berici ma quella che da una pagina del trattato palladiano continua in silenzio a generare altre architetture»22. Comparando il pittore all’architetto, Purini sostiene che per il primo «l’intenzionalità progettuale si esprime direttamente nel farsi dell’opera stessa»; per il secondo, invece, tale intenzionalità si esprime non nell’opera costruita ma nel «disegno come matrice dell’edificio e nello stesso tempo come destino del manufatto stesso»23. Che è come dire: in architettura è il disegno – che precede e segue il manufatto – e non l’opera costruita a poter elevare la pretesa di essere opera d’arte, proprio grazie alla sua rispondenza all’intenzionalità progettuale dell’architetto.
- 24 Se ne vedano alcuni nel capitolo Il disegno in F. Purini, Le opere, gli scritti, la critica, Milano (...)
- 25 Si veda per es. M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Torino, Einaudi, 2002, pp. (...)
- 26 Cfr. http://www.calatrava.com/main.htm [link non raggungibile 06/05/2017](marzo 2009).
21Utilizzando queste tesi per il nostro percorso, il progetto architettonico e non il costruito sarà il luogo dove l’artista architetto esprimerà le sue intenzioni, la sua interpretazione artistica e il suo «stile», in termini dantiani. Il progetto potrà allora avere legittimamente titoli; il manufatto costruito, ormai cosa, nomi. Difatti, Purini è tra gli architetti che intitolano di più. I suoi disegni architettonici, talvolta inanellati in cicli come raccolte di poesie, portano tutti veri titoli24. Si potrebbe obiettare che non sono architettura, bensì, appunto, disegni; ma nell’autocomprensione di Purini e nella valutazione della critica25 sono architettura disegnata, non disegni architettonici. Anche tra le opere costruite, l’edificio per uffici Kubo a Ravenna di Purini e Laura Thermes è quanto di più vicino a un titolo si possa immaginare. “Kubo”, titolo e non nome, deve spingere l’osservatore a vedere nell’edificio, à rebours, la traccia del progetto, dunque a vedere l’edificio come se fosse un progetto. In tal modo, Purini apre così la strada alla possibilità che le opere architettoniche abbiano davvero titoli. Da questa prospettiva, non sarebbe più un’impossibilità per la chiesa di Bagsværd la didascalia “Jørn Utzon, Le nuvole, 1973-76”. Anche qui, come in pittura, il titolo sarebbe anzi necessario affinché l’osservatore possa leggere nell’opera-cosa il progetto-opera d’arte, e nel progetto l’intenzione dell’artista. E Purini non è isolato in questa via. Anche il Turning o Twisting Torso di Calatrava a Malmö sembra essere quasi un titolo. E lo diventa non tanto per il rapporto tra nome e opera, quanto per il rapporto tra opera e un’altra opera, d’arte questa volta. Nel suo sito, Calatrava scrive che l’edificio è «based in form on the sculpture Twisting Torso», scultura dello stesso Calatrava del 199126. Di nuovo, nella cosa la traccia dell’opera d’arte.
- 27 Cfr. http://www.big.dk/ (marzo 2009).
- 28 Cfr. http://www.jdsarchitects.com/ (marzo 2009).
22Un’altra via è quella di Bjarke Ingels e Julien De Smedt – prima insieme nello studio Plot, poi ciascuno per sé rispettivamente in BIG (Bjarke Ingels Group)27 e JDS (Julien De Smedt Architects)28 – che danno a tutti i loro progetti, realizzati o no, un codice e un’icona. Una delle loro opere più note viene così presentata nel sito di BIG: «Code: VM / Project: 230 Dwellings in Ørestad, PLOT = BIG + JDS», e poi continua con «Type», «Size», «Client» ecc. Di fatto, siamo di fronte a un frontespizio con titolo “VM”, sottotitolo “230 Dwellings in Ørestad”, e autore “PLOT = BIG + JDS”. Il titolo è scelto accuratamente: non rimanda solo alla forma dei due edifici. Ma è proprio “VM” e non per esempio “MV” o “WΛ”, perché “VM” in danese sta per “verdensmesterskab”, “campionati del mondo”, “mondiali”. Così chi vi abita non pensa di stare in appartamenti di edilizia popolare bensì in una “casa campione del mondo” o “da campioni del mondo”. Ancora un esempio, un blocco di 640 appartamenti a Copenaghen che sarà completato nel 2009: «Code: BH / Project: BIG House». Qui perfino la designazione tipologica è sparita dal sottotitolo, che invece celebra la grandezza del progetto, “Grande Casa”, il suo autore, “la Casa del B.I.G.”, e per metonimia la grandezza del suo autore, “Bjarke Ingels è proprio un grande”, e del suo abitante, “tutto sommato anch’io che ci abito sono un grande”. A sua volta, il codice-titolo sembra ingenuamente ripetere le iniziali del progetto, ma “bh” in danese, e in tedesco, con un’abbreviazione che ha sostituito la parola per esteso, significa “reggiseno”, come ci ricorda la forma della pianta dell’edificio. Questo incrocio di associazioni, sottintesi, moltiplicazioni semantiche è proprio non dei nomi, bensì dei titoli bona fide.
- 29 Cfr. http://www.m2.dk/ (marzo 2009).
23Restiamo in Danimarca per il passo successivo. Un’impresa di costruzioni, M2, offre da qualche anno case su ordinazione disegnate da sei tra i più famosi architetti danesi29. In partenza, l’idea era che, se solo architetti di grido coordinati da un’impresa fossero riusciti a mettere le mani su una minima parte del mercato di progettazione e costruzione di case unifamiliari – il sogno di ogni danese –, l’affare sarebbe stato gigantesco. Il cliente riceve un catalogo con una serie di progetti di case e il loro prezzo per metro quadro, e può scegliere quella che desidera farsi costruire, con un sovrapprezzo per ogni optional o modifica al modello base. Il costo della casa firmata è naturalmente molto inferiore che se si fosse rivolto direttamente allo studio. Il successo è stato enorme e l’impresa è cresciuta in pochi anni a venti dipendenti solo per il reparto vendite, progettazione e amministrazione, escludendo tutti gli studi e le aziende partner. Ciascuna casa ha un nome: Wrap House, CutCut House, KipUp House, Butterfly House, Zip House, Sinus House, e così via. Qui si ha qualcosa che è al tempo stesso un titolo, un nome di un oggetto di design – ancora virtuale – e un nome di prodotto quasi fosse un catalogo Ikea. È un titolo perché il nome esprime l’idea di casa dell’architetto che l’ha disegnata, ma è anche il nome di un prodotto che deve funzionare per accendere l’attenzione del cliente – difficilmente troveremo una Death House.
- 30 E. Rocca, Presentazione, in Id. (a c. di), Estetica e architettura, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 2 (...)
- 31 Sulle quali si vedano G. Lo Ricco e S. Micheli, Lo spettacolo dell’architettura. Profilo dell’archi (...)
24Pur nella loro enorme differenza, i tre esempi sono tutti facce di un mutato rapporto autore-opera, di quello spostamento di attenzione dall’opera all’autore che, abbiamo visto, è il presupposto perché si possa cominciare a parlare di veri titoli anche in architettura. Il sorgere di titoli è allora un altro aspetto della discussione contemporanea sul rapporto tra architettura e opera d’arte, e in particolare di quella che vorrei chiamare la volgarizzazione del mito moderno del genio nella figura dell’architetto30. L’architettura, tra le arti, è l’ultima a compiere lo spostamento concettuale dall’opera all’artista, ma lo porta al parossismo – le archistar docent31.
6. Nomi, infine
- 32 S. Giedion, Spazio, tempo ed architettura. La nascita di una nuova tradizione, a c. di E. e M. Labò (...)
25È diventata una vulgata che l’architettura si sia avvicinata alla scultura e, quindi, all’opera d’arte, e che questo fenomeno costituisca la vera novità dell’ultimo ventennio. Questo farsi scultura indurrebbe l’architettura a dimenticare i bisogni umani a favore di un’architettura inutile o utile a soli fini commerciali. Il caso inaggirabile è sempre il museo Guggenheim a Bilbao di Gehry. Tuttavia l’avvicinamento tra scultura e architettura non è un fenomeno così nuovo: Sigfried Giedion ne aveva già parlato all’inizio degli anni sessanta come una tendenza dell’architettura del dopoguerra. Di più, per Giedion questo evento non costituiva una frattura, bensì era uno sviluppo coerente con la rivoluzione spaziale dell’architettura del primo Novecento, quando, dopo duemila anni in cui essa era stata modellazione dello spazio cavo interno, l’architettura scopre di essere gioco tra volumi che «emanano spazio». Ancora di più, in tal modo per Giedion essa torna in parte ai suoi inizi, ai Sumeri, all’Egitto, alla Grecia, quando architettura significava far nascere lo spazio «dal gioco reciproco fra i volumi»32, ma al tempo stesso rinnova questi inizi perché non dimentica la questione dello spazio cavo. Quasi un secolo e mezzo prima di Giedion, Hegel aveva fatto piazza pulita dell’immarcescibile discussione se l’architettura nasca con la grotta o con la capanna, sostenendo che essa sorge come gigantesca – e inutile – scultura simbolica. Insomma, la novità degli ultimi vent’anni è vecchia di migliaia di anni ed è per Giedion, dopo duemila anni, il primo e positivo evento rivoluzionario in architettura, che dà inizio alla terza concezione dello spazio nella storia di quest’arte. Un evento, a suo giudizio, gravido di magnifiche potenzialità.
- 33 Giedion, Spazio, tempo ed architettura cit., p. XXVII, trad. modificata.
- 34 S. Giedion, Space, Time and Architecture. The Growth of a New Tradition, Cambridge (Mass.), Harvard (...)
26Il pericolo per lui non era dunque affatto l’affratellamento di scultura e architettura, quanto uno dei modi di declinarlo: «un tipo di architettura da playboy, cioè un’architettura trattata come i playboys trattano la vita, passando da una sensazione all’altra e stancandosi immediatamente di tutto»33. Il ritorno a un’architettura scultorea «degenera in un pericoloso passatempo quando è un mero andare a caccia di forme: playboy architecture»34. Ripeto, il problema non è il dialogo che l’architettura intesse con la pittura e la scultura, anzi, l’architettura ha toccato i suoi vertici quando questo dialogo è stato paritario e fruttuoso; il problema è quando la ricerca della forma diventa un passatempo, in cui l’unica via per fuggire la noia (e l’insuccesso) è l’escogitazione di una nuova sbalorditiva forma. In tal modo, Giedion riconosce che il punto dolente è nel rapporto tra autore e opera, nel rapporto tra l’architetto playboy, cacciatore-creatore infinito di forme, e le forme che nascono e muoiono per la sola relazione con la soggettività che ha dato loro la luce.
- 35 Sulla categoria di estetismo applicata a parte dell’architettura contemporanea si veda P. D’Angelo, (...)
- 36 P. D’Angelo, Breviario di architettura, a c. di C. Olmo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 94- (...)
- 37 D’Angelo, Breviario di architettura cit., p. 45.
- 38 «Se noi imprigioniamo l’architettura nel concetto di “stile”, diamo via libera alle concezioni form (...)
- 39 Su un’architettura per un altro che non sia l’utente, si veda J. Derrida, L’architettura e l’altro, (...)
- 40 Cfr. Giedion, Breviario di architettura cit., p. 45.
27Questo estetismo architettonico35 è per Giedion una delle facce della frattura contemporanea tra pensiero e sentire: il sentire non riesce a stare al passo delle ininterrotte rivoluzioni tecnologiche. Ciò significa che nella playboy architecture dell’estetismo sono proprio i «valori estetici» a essere negletti, meglio: i «bisogni del sentire» vengono ignorati36. Qui c’è il contributo più importante di Giedion: estetica non significa caccia di forme o esercizi di stile, bensì porsi la domanda sui bisogni del sentire. Ogni grande architettura ha risposto e continua a rispondere, oltre che ai cosiddetti bisogni primari, ai bisogni del pensiero e ai bisogni del sentire di un determinato tempo, bisogni che sono anonimi, che sono «le forze sotterranee di cui si nutre ogni epoca»37. Pertanto, l’alternativa è tra l’architetto playboy, a caccia di sempre nuove avventure di forme e di svolte di stile38, e il tentativo di entrare in contatto con gli anonimi bisogni del pensiero e del sentire di una società. L’attenzione, allora, è spostata dall’autore e le sue intenzioni stilistiche ai bisogni del pensiero e del sentire di quelli che impropriamente chiamiamo utenti39. Si può aggiungere: questi bisogni del sentire non saranno mai semplicemente dati in un’epoca e semplicemente disponibili per un architetto, il cui compito sarebbe allora solo quello di lusingarli40, ma saranno provocati e interrogati dalla grande opera di architettura.
- 41 Ch. Batteux, Le Belle Arti ricondotte ad unico principio, a c. di E. Migliorini, Palermo, Aesthetic (...)
- 42 Cfr. Rocca, Presentazione, in Estetica e architettura cit., pp. 7-26.
28A metà del Settecento, Charles Batteux scriveva che l’architettura «meriterebb[e] dei rimproveri se vi comparisse il fine di piacere. […] Non è uno spettacolo quello che [le] si chiede, è un servizio». Pertanto, in essa anche «la piacevolezza [deve] prend[ere] il carattere della necessità stessa: tutto deve apparire per il bisogno»41. Potrebbe apparire una definizione un po’ puritana e bacchettona. Cessa di esserlo se proviamo a riformularla nei termini teorici di Danto: il piacere estetico, per esempio, per una scuola è suscitato dall’interpretazione seconda o artistica che un architetto offre a proposito del modo in cui la funzione è presentata. Batteux dice, sì, che questa interpretazione artistica non può diventare il fine principale dell’opera (e dunque mai la chiesa di Bagsværd potrà intitolarsi Le nuvole), ma afferma soprattutto che la stessa interpretazione artistica, al pari della funzione prima dell’edificio, è per il bisogno di chi usa quello spazio. Il bisogno di interpretazione artistica è un bisogno del sentire e, come tale, parte dei bisogni di chi vive; forse, andando oltre Batteux, è quel bisogno grazie al quale chi vive uno spazio può riflettere e interrogarsi sui propri bisogni42.
29Torniamo per l’ultima volta a i nomi e ai titoli. Abbiamo visto che la distinzione tra nomi e titoli potrebbe essere solo convenzionale e come tale non interessante teoricamente. Questo vale se i titoli servono solo per designare un’opera (1) e per interpretarla (2). Soltanto nel titolo come rappresentante dell’interpretazione artistica dell’opera (3) data dal suo autore (4) abbiamo trovato la vera sorgente della distinzione tra nome e titolo. Grazie al legame artista-titolo possiamo dire che i titoli stanno sorgendo per la prima volta, ultima tra le arti, in architettura (5). Ma la resistenza, finora, dell’architettura ai titoli può insegnarci qualcosa (6). Proprio per il multiforme rapporto con chi le vive, più che con chi le ha progettate, le opere di architettura non hanno avuto e non hanno che nomi. E forse per questo è bene che continuino a non avere che nomi. Nomi che nascono e si modificano in relazione agli anonimi bisogni di menzionare, di distinguere, di localizzare, di caratterizzare, di ricordare, di criticare, di canzonare e, infine, di sentire chi le vive. Anche se sono opere d’arte.
Note
1 G. Genette, Seuils, Paris, Seuil, 1987, p. 63.
2 G. Vasari, Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ nostri tempi. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino. Firenze 1550, Torino, Einaudi, 1991, vol. II, p. 619.
3 E.H. Gombrich, Image and Word in Twentieth-Century Art, «Word & Image», I, 3, 1985, p. 213.
4 Inferno, XXXIII, vv. 22-23.
5 L.H. Hoek, La marque du titre. Dispositifs sémiotiques d’une pratique textuelle, La Haye-Paris-New York, Mouton, 1981, p. 17.
6 Genette, Seuils cit., pp. 73-77.
7 U. Eco, Postille a «Il nome della rosa». 1983, in Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 200147, p. 507.
8 J. Levinson, Titles, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», XLIV, 1, 1985, pp. 29-39.
9 A.C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, a c. di S. Velotti, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 164-200.
10 Ivi, p. 178.
11 John Fisher non sembra invece disposto a sposare la tesi di Danto: «Non tutte le opere d’arte hanno titoli. Non tutte le opere d’arte hanno bisogno di avere titoli» (J. Fisher, Entitling, «Critical Inquiry», XI, 2, 1984, p. 298).
12 A meno che, come visto, non si sostenga che ogni atto di nominare è un’interpretazione artistica di un oggetto visto come se fosse un’opera d’arte.
13 Levinson, Titles cit., p. 33.
14 Eco, Postille cit., p. 509.
15 Ibidem.
16 Danto, La trasfigurazione del banale cit., p. 200.
17 Ivi, pp. 201-254.
18 S. Velotti, Introduzione a Danto, La trasfigurazione del banale cit., p. XIX.
19 Danto, La trasfigurazione del banale cit., pp. 3-10.
20 G.W.F. Hegel, Estetica, a c. di N. Merker con intr. di S. Givone, Torino, Einaudi, 1997, vol. I, pp. 75-81. Appare così un altro aspetto dell’hegelismo di Danto, ben prima de La destituzione filosofica dell’arte (ed. it. a c. di T. Andina, Palermo, Aesthetica, 2008).
21 F. Purini, Architettura e costruzione, in A. De Capua, M. Mannino, E. Rocca (a c. di), Arte Scienza Tecnica del Costruire, Roma, Gangemi, 2008, pp. 85-86.
22 Ivi, p. 92.
23 Ivi, rispettivamente p. 86 e 88.
24 Se ne vedano alcuni nel capitolo Il disegno in F. Purini, Le opere, gli scritti, la critica, Milano, Electa, 2000, pp. 38-97. Tra i tanti cito due titoli di opere del 1991: Ciò che resta del mobile orientale dopo l’invasione della ragione e Ciò che rimane del mobile orientale dopo l’assalto del sogno (ivi, p. 86).
25 Si veda per es. M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Torino, Einaudi, 2002, pp. 174-177.
26 Cfr. http://www.calatrava.com/main.htm [link non raggungibile 06/05/2017](marzo 2009).
27 Cfr. http://www.big.dk/ (marzo 2009).
28 Cfr. http://www.jdsarchitects.com/ (marzo 2009).
29 Cfr. http://www.m2.dk/ (marzo 2009).
30 E. Rocca, Presentazione, in Id. (a c. di), Estetica e architettura, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 21-22.
31 Sulle quali si vedano G. Lo Ricco e S. Micheli, Lo spettacolo dell’architettura. Profilo dell’archistar©, Milano, Bruno Mondadori, 2003, e il recente j’accuse di F. La Cecla, Contro l’architettura, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, il cui titolo andrebbe forse cambiato in Contro l’architetto.
32 S. Giedion, Spazio, tempo ed architettura. La nascita di una nuova tradizione, a c. di E. e M. Labò, Milano, Hoepli, 1965, pp. XXXVIII-XLVII. Cfr. anche S. Giedion, Architecture You and Me. The Diary of a Development, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1958, pp. 112-115.
33 Giedion, Spazio, tempo ed architettura cit., p. XXVII, trad. modificata.
34 S. Giedion, Space, Time and Architecture. The Growth of a New Tradition, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 19675, p. XLIV. Cito dalla quinta e ulteriormente aumentata edizione dell’opera; la traduzione italiana è invece fatta sulla terza (1954), con una prefazione del 1961.
35 Sulla categoria di estetismo applicata a parte dell’architettura contemporanea si veda P. D’Angelo, Estetismo, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 255-266.
36 P. D’Angelo, Breviario di architettura, a c. di C. Olmo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 94-95. La traduzione italiana ha «bisogni sentimentali». Preferisco tradurre «gefühlsmäßige Bedürfnisse» (Architektur und Gemeinschaft, Hamburg, Rowohlt, 1956, p. 47) con «bisogni del sentire».
37 D’Angelo, Breviario di architettura cit., p. 45.
38 «Se noi imprigioniamo l’architettura nel concetto di “stile”, diamo via libera alle concezioni formalistiche» (ivi, p. 154).
39 Su un’architettura per un altro che non sia l’utente, si veda J. Derrida, L’architettura e l’altro, in Rocca, Estetica e architettura cit., pp. 205-223. Il saggio è la traduzione di Point de folie - Maintenant l’architecture, in J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, Paris, Galilée, 1987, pp. 477-493.
40 Cfr. Giedion, Breviario di architettura cit., p. 45.
41 Ch. Batteux, Le Belle Arti ricondotte ad unico principio, a c. di E. Migliorini, Palermo, Aesthetica, 19902, p. 48.
42 Cfr. Rocca, Presentazione, in Estetica e architettura cit., pp. 7-26.
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Notizia bibliografica
Ettore Rocca, «Perché le opere architettoniche hanno nomi e non titoli?», Rivista di estetica, 40 | 2009, 57-69.
Notizia bibliografica digitale
Ettore Rocca, «Perché le opere architettoniche hanno nomi e non titoli?», Rivista di estetica [Online], 40 | 2009, online dal 30 novembre 2015, consultato il 29 avril 2025. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/estetica/1890; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/estetica.1890
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