- 1 Si veda, a questo proposito Griffero 2010, volume importante nel quadro di una fenomenologia dell’ (...)
1La nozione di aura è ambigua e complessa. In questa ambiguità non va dimenticato che i significati all’interno della quale si determina sono assolutamente ossimorici: da un lato è un alone incorporeo, quasi un’atmosfera di mistero1 che circonda alcuni oggetti, inondandoli di ciò che i romantici chiamavano Stimmung. Dall’altro, tuttavia, è un concetto corporeo, che può essere definito sul piano neurologico, legato a precise patologie.
2L’aura incarna tuttavia, pur in modo non sempre codificabile, anche una sorta di atmosfera metafisica che connette il mondo sensibile e quello “spirituale”. Tale connessione, nell’ambito del pensiero filosofico, che tende a mettere in relazione visibile e invisibile, corporeo e incorporeo, è un orizzonte nel cui contesto si inserisce la questione del simbolico. L’aura, dunque, in un percorso che è dichiaratamente non benjaminiano, viene qui intesa non come un orizzonte magico che la tecnica uccide, né in quanto generica traccia, più o meno parapsicologica, bensì come processo intenzionale inseparabile dalla genesi del simbolico, dalla concretezza dell’esperienza corporea. Un processo che di conseguenza è sempre vivo nel nostro rapporto con il mondo, con quegli oggetti che, con le loro intrinseche qualità, “stimolano” in noi una genesi di senso esperienziale.
- 2 Gadamer 1986: 35.
- 3 Ivi: 37.
- 4 Ivi: 39.
3Interrogarsi sulle immagini simboliche e comunicative significa cercare di comprendere come nel nostro mondo circostante esistano enti complessi e stratificati nei quali la memoria, il ricordo, la percezione che abbiamo del mondo mantengono in vita un’esistenza spirituale, o una “aura”, su cui si fonda la capacità espressiva di costruire forme, quelle forme essenzialmente temporali che si esibiscono nella vita delle scienze e delle arti. I simboli possiedono un’aura – o un’aura è l’atmosfera che circonda quel che viene chiamato simbolo – perché rinviano a un’esperienza che si rinnova attraverso le forme, da costruire, da interpretare, da descrivere, da tradurre in sempre nuove immagini. In questo senso, un oggetto auratico non può avere le caratteristiche dell’allegoria, un segno che, dopo Goethe, indica «un complesso di significati che deve già essere conosciuto in precedenza»2, bensì è, come il simbolo, un senso che innova, che «non rimanda soltanto al significato, quanto piuttosto lo fa essere presente: esso rappresenta il significato»3, in un contesto in cui “rappresentazione” non è banalmente contrapposta a “presenza”, in sé integrando la duplicità e le stratificazioni dell’intero processo del “farsi segno”. In questo modo si affaccia quello che è il punto centrale, attraverso il quale forse si comprende che la forma artistica, non più di altre forme, ma con particolare forza emblematica, ha valore “auratico”, espressivo e simbolico, perché, attraverso forme particolari, non riproduce qualcosa che già conosciamo, come accade nei segni fotografici che sono le foto tessera sui nostri documenti di identità, utili soltanto per il “riconoscimento”, per un’identità formale, bensì producono la rappresentazione di qualcosa e la offrono sensibilmente, esibiscono in forme le differenze. Come ben scrive Gadamer: «la rappresentazione simbolica che è opera dell’arte non ha alcun bisogno di una precisa dipendenza da cose già date in precedenza», in quanto indica un compito, che è quello di «imparare ad ascoltare ciò che vuole parlare»4. L’aura è così l’atmosfera simbolica che, in quanto gioco del tempo e della memoria, permette la descrizione di un intero che non è autoreferenziale, ma ha in sé una profonda forza morfogenetica.
4Il nucleo teorico del discorso può forse essere espresso in modo sintetico. Si vuole evitare, in primo luogo, che un’indagine sul significato auratico dei processi simbolici si trasformi in storia della cultura, spiegazione teorica di eventi storici, raffinata indagine di immagini particolari, rottura epocale che inaugura nuove filosofie della storia. Di conseguenza è necessario sottolineare che se i simboli hanno un senso che induce intorno a loro un alone di “sacralità”, ciò accade perché essi sono evidenze (storiche, culturali, estetiche) che, ancor prima di una definizione storica o storico-culturale, hanno una caratteristica che sul piano metodologico attira un’attenzione descrittiva: il loro senso non si esaurisce al primo sguardo, a una definizione, a una cultura o a un linguaggio. Questa sorta di “attesa” (percettiva, culturale, motivazionale) che circonda la presenza di alcuni oggetti del nostro mondo circostante, rinviando al di là della loro fisicità ontologica, è ciò che potremmo chiamare “aura”. Sono queste caratteristiche intrinseche che alcuni oggetti manifestano alla nostra esperienza a richiedere interpretazioni, sguardi stratificati, sinergie linguistiche, dimensioni diacroniche e sincroniche intrecciate: la “tematizzazione” implica un’indagine sul significato e il valore, in cui si mostri il senso dialogico ed espressivo dell’evidenza descritta. Le evidenze non possono sempre essere ridotte a “fatti”, insegnando che il senso si esplicita non limitando il proprio sguardo al fattuale, non ritenendo una spiegazione come “conclusiva”, una “intenzionalizzazione” come “definitiva”. L’aura è quell’atmosfera che rinnova l’interrogazione, cercando di connettere rappresentazione e concetto, evidenza e nascondimento, identità e differenza, senso e immagine.
5Se si volesse, nel quadro della tradizione fenomenologica, tradurre questo nome in un concetto, si dovrebbe ricorrere a ciò che l’ultimo Husserl, e dopo di lui Merleau-Ponty, chiamano intenzionalità fungente, quasi una intenzionalità simbolica che indica la necessità di un’indagine descrittiva sugli oggetti del nostro mondo della vita che sempre si rinnova, vivendo di “temi” e sempre superandoli. Conoscere non significa necessariamente “spiegare”, costruire teorie deduttive, bensì chiarificare l’idea nei suoi elementi costitutivi, cioè «comprendere il senso ideale dei nessi specifici nei quali si documenta l’obbiettività della conoscenza»5.
- 6 Ivi: 67, § 22.
- 7 Husserl 1995: 170.
- 8 Costa 1999: 141.
6Indagare l’aura come atmosfera simbolica non significa dunque “spiegarla”, bensì chiarificare suo tramite un’idea di forma e di rappresentazione. In questo modo descrittivo si coglie, ed è la prima evidenza essenziale, che il simbolo, come racconta il suo stesso etimo, e la storia che ne è alla base, è un intero, nel senso che comporta una “unificazione di parti”. L’aura è ciò che raccoglie un insieme di nessi che costituiscono un intero il cui senso non si esplicita al primo sguardo: processo di unificazione che genera «rapporti di fondazione»6, dal momento che un mero “essere insieme” non basta a costituire un intero temporale, né un simbolo. Perché ciò accada, l’unità della intentio deve cogliere nessi concreti ed esperienziali tra le parti, legami associativi fondati nella natura stessa dei contenuti, nelle loro qualità. Come scrive Husserl, «la fenomenologia dell’associazione è, per così dire, una prosecuzione a un più alto livello della teoria della costituzione originaria del tempo»7. Il simbolo è quell’esperienza che è alla base della costituzione associativa di un intero come trama trascendentale dell’esperienza stessa: fa comprendere che i nessi associativi non sono soltanto «dei fatti causali e privi di regole, ma eventi soggetti a una legalità che può essere portata alla luce, e delle strutture che possono essere esibite fenomenologicamente»8. In questa direzione ogni intero, e ancora una volta il simbolo ne è modello, mostrando la sua essenza temporale, rinvia oltre sé, oltre la mera sensazione, costruendo sia delle “attese” che vanno “riempite” sia delle connessioni costitutive tra gli istanti. L’aura, come già si è accennato, è questa “attesa” esperienziale.
7Il mondo si presenta senza dubbio, al primo sguardo, come una serie di discontinuità, di differenze, di conflitti: ma il compito della conoscenza – ed è qui la sua radice simbolica, “riunificatrice” – è quello di costituire, tramite le operazioni dell’esperienza, la percezione, la rimemorazione, la memoria, l’immaginazione, una trama stratificata, ma all’interno di una forma unitaria, di rimandi associativi fondati nei contenuti stessi, che si “ridestano” attraverso i nostri atti.
- 9 L’empatia (Einfühlung) ha un ruolo importante nella costituzione fenomenologica dell’alterità e de (...)
8Sul piano storico non è dunque necessario, quando si discute sull’aura, operare una scelta, che ridurrebbe l’indagine a un esercizio di filosofia della cultura, tra una visione del simbolico, sull’asse che da Goethe va verso Schelling e il Romantico, come universale veritativo e quella “gnoseologica” inaugurata da Kant, che lo vede come esibizione di un senso complesso, allusivo, stratificato e, infine, quella benjaminiana (o deleuziana, secondo alcuni warburghiana) che ne sottolinea la perdita conoscitiva nella traccia, nel disorganico, nella rovina, per evidenziarne il ruolo di emergenza, di sintomo, di allegoria. Si ritiene piuttosto, convinti in ciò di seguire la lezione di Goethe, e dello stesso Cassirer, che tutti questi modi di manifestazione storica del simbolico siano “esperimenti”, modi associativi di un senso di cui si vuole cogliere il generale significato di esperienza stratificata e complessa dove il conflitto tra le parti è comunque finalizzato a mostrare il senso genetico di un percorso conoscitivo dove il senso deriva dalla capacità di trovare nuovi modi, radicati nei contenuti stessi, per associare parti differenti. Un’esperienza che non è qui, come vuole Benjamin (e Wittgenstein), a-intenzionale, bensì si radica, con tutta la forza dell’empatia che la costituisce9, nell’intenzionalizzazione intersoggettiva di materiali, di esperimenti che vanno “ridestati” esibendone i molteplici nessi: le tracce, le differenze, hanno un senso solo se inserite in una trama. Altrimenti sono esercizi empirici che nella loro eventuale raffinatezza mostrano soltanto un senso contingente e transeunte.
- 10 Merleau-Ponty 2007: 191.
- 11 Ivi: 223.
- 12 Ivi: 270.
9Non si tratta, dunque, di opporre segno e immagine, simbolo e allegoria, universale e particolare, tempo e spazio, forza e forma, sintomo e sintesi, intero e parte, identità e differenza, bensì di comprendere, descrivendoli, i processi dialogici che mostrano quelle funzioni che permettono di accedere al senso complesso del nostro mondo circostante, delle sue forme e delle loro genesi. Merleau-Ponty osserva che è questa concezione in cui l’identità è un processo che si rinnova, in cui le differenze non sono mai con essa in un rapporto dialettico, pacificatorio, a essere Stiftung, fondazione, intesa tuttavia non come istante messianico, bensì in quanto sistema di indici temporali (che è, a rigore, un ulteriore modo per definire descrittivamente l’aura) Tempo, quindi, come «modello di matrici simboliche»10. Si può discutere se tali matrici siano o meno “apertura all’essere”: ma si può cogliere in tale “essere” il senso stratificato dell’esperienza, appunto il paradigma simbolico di un intero sistema di indici temporali. Per cui, aggiunge, «ogni quadro, ogni azione, ogni impresa umana è dunque una cristallizzazione del tempo, una cifra della trascendenza»11. Questa cifra non è una traccia perché in essa il tempo non si ferma ai limiti del visibile, cogliendo invece come autentico problema messo in evidenza dalla morfogenesi simbolica quello di costruire un’aura, «l’Urstiftung simultanea di tempo e spazio», che «fa sì che ci sia un paesaggio storico e una iscrizione quasi geografica della storia»: il simbolo mette in gioco, con le sue reti temporali, ed è l’autentico nucleo della relazione simbolica tra identità e differenza, i temi fondamentali della sedimentazione e della riattivazione12. Sedimentazione riattivazione sono i processi che permettono, attraverso i segni e le immagini, di cercare i sensi auratici delle cose del mondo: ciò che il tempo ha sedimentato, il tempo stesso può e deve riattivare, modificando i suoi indici, riempiendo le “attese percettive”.
10Simbolo, dunque, come interrogazione sul senso delle cose, delle funzioni conoscitive, sulle possibilità degli sguardi, sulle esperienze e sui modi in cui la loro stratificazione è rappresentata. Simbolo come “gioco” che non si riduce a scambi tra segni linguistici e contingenti forme di vita, bensì illustra una strada che apre a una fondazione, alla ricerca delle sue stesse condizioni di possibilità. Ricerca, dunque, che non è ermeneutica, non sfuma nel misticismo e nei suoi misteri messianici e neppure, d’altra parte, riduce i processi alla storia, sia essa dei fatti, dei frammenti, delle idee, della percezione. Simbolo, invece, come processo, funzione, formazione, come sapere precategoriale che induce a interrogare le forme, e che diviene sapere epistemologico che tali forme costruisce, che rende possibile sia il concetto stesso di forma sia quell’atmosfera auratica a partire dalla quale si genera l’interrogazione che su di essa sempre si rinnova.
11La Stiftung, la fondazione, non è un ente immutabile, né un télos universale, bensì il segno della fecondità della presenza, che l’aura attesta in quanto radicata nella cosa stessa: appunto, del suo carattere non frammentario, ma del legame associativo che connette un ente finito a chi mette in atto i processi per conoscerlo, inserendolo all’interno di un progetto sintetico che evidenzia la storicità passiva del dato, e il suo senso memorativo, quello, scrive Merleau-Ponty, «dei prodotti della cultura che continuano a valere dopo la loro apparizione e aprono un campo di ricerche in cui rivivono perpetuamente»13.
12I simboli, nella loro contingenza, sono dunque un fenomeno estatico, che pone sulla scena nuclei visibili da pensare in un’estasi temporale capace di esaltarne, cioè evidenziarne per lo sguardo, la temporalità, permettendo di determinarne il senso dell’estetico in una rappresentazione che lo mostra ed esibisce, ponendolo tuttavia, al tempo stesso, nel regno dell’instabile, del fluttuante, dell’incerto. È in un’irrealtà che non è il nulla dell’immagine sartriana, né la mera immagine priva di presenza, né la fantasia errabonda, né la traccia dell’istante temporale, bensì il senso eidetico del reale stesso, in cui il mondo appare come “fenomeno”: «la rappresentazione simbolica del tutto universale in mezzo alle cose – scrive Fink – non può essere una cosa o un atto dell’uomo reali in modo massiccio; piuttosto il mondo può solo risplendere in se stesso, se penetra nella misteriosa ambiguità del gioco, nella sua reale irrealtà»14.
- 15 Merleau-Ponty 1967: 96.
13Descrivere i percorsi auratici del simbolo significa allora chiarificare questo processo, reperendo quelle che si potrebbero chiamare le “forme nobili della memoria”, scavando nei sensi stratificati delle cose, che non si accontentano delle tracce disperse nella casualità della storia, rovine sulle quali restaurare ideologiche filosofie della storia, ma traggono da esse un percorso costruttivo e fondativo di una permanenza del senso. Il simbolo artistico, cioè l’espressività simbolica dell’arte, è un evento che assume una forma paradigmatica perché è un “avvento”, cioè non è un ente chiuso nella sua differenza e compiuto una volta per tutte, ma, come scrive Merleau-Ponty, un orizzonte in genesi che «va al di là della sua mera presenza, e in questo è anticipatamente alleato, o complice, con tutti gli altri tentativi di espressione»15.
14Quale prima conclusione si può dunque affermare che vi è nella natura un potere dell’invisibile, ed è chiamato potere simbolico: l’oggetto auratico è quel fenomeno che si offre come allusione all’invisibile, attestando che la percezione non è mai la verità esclusiva delle cose, come non è l’essenza profonda della vita della coscienza. La fruizione del mondo si gioca su piani che la rappresentazione percettiva non esaurisce, sfiorando l’invisibile su due campi, uno che riguarda l’essere dell’oggetto e l’altro che si richiama alla sua apprensione immanente. L’arte, come emblematica ontologia regionale di tali fenomeni auratici, sceglie in apparenza la strada della visibilità, che denota la volontà di privilegiare il valore cognitivo del visibile al senso eidetico dell’invisibile. D’altra parte, mantiene la consapevolezza esperienziale che il visibile si nutre di invisibile, di un significato metafisico cui non cessa di alludere.
- 16 Si veda a questo proposito l’importante opera di Nicolai Hartmann, a partire da Hartmann 1921.
15Metafisica è qui scoperta di un territorio problematico e aporetico16 che non può essere risolto senza residui: problemi che sono imposti “dalle cose stesse” e di fronte ai quali la conoscenza “trascende se stessa”, dal momento che riconosce che tali problemi le vengono imposti e che, di conseguenza, non potendo né rifiutarli né risolverli, deve rimanere in permanenza con loro.
16Un pensiero metafisico prende così avvio non da questioni generali, ma coglie il nucleo della fondazione di un senso, o di una dimensione veritativa, a partire da un’evidenza empirica, da un “corpo”, da una “presenza” spazio-temporale, che apre il tema del “riferimento”: da ciò si deduce che la realtà esperienziale è occasione per cogliere i modi attraverso i quali l’oggetto intuito diviene “pensato”, introducendo le questioni della “rappresentazione” e del rapporto tra “categoriale” e “precategoriale”, ribadendo che il senso dell’esperienza dei corpi non è solo all’interno di un contesto riflessivo e intellettuale. La discussione sul senso della metafisica ha un valore conoscitivo che conduce in prima istanza sui rapporti “fondanti” tra rappresentazione, sensibile e soprasensibile, ovvero per analizzare i legami veritativi che si instaurano tra a priori e a posteriori: si tratta di un orizzonte o di un’aura in cui è in gioco il senso stesso della giustificazione epistemica che il soggetto intende dare del mondo, degli enti corporei che lo costituiscono e del loro valore di conoscenza.
17La metafisica da rigettare è quella che “spacca in due” il rapporto conoscitivo con il nostro mondo circostante, mentre l’istanza metafisica da recuperare è quella non diabolica, quella che unifica, portatrice di un’esigenza simbolica, dove, come si sottolineava all’avvio, l’aura è sia forza spirituale sia alone fisico. È un’esigenza di riunificare natura e mondo psichico, corpo visibile e corpo invisibile, di mediare tra razionalità e sensibilità, tra epistéme e dóxa: la scissione va superata attraverso una riproposizione del senso simbolico della metafisica al di là delle sue formulazioni sistematiche e definitorie.
- 17 Si veda Formaggio 1981.
18Indagando gli oggetti che stimolano la nostra interrogazione al di là del visibile, quali sono o sono state le opere d’arte, ciò che gli uomini hanno così chiamato17, non si mira dunque a determinarne il carattere fondativo e assoluto, bensì la loro capacità di evidenziare i poteri simbolici dell’estetico, cioè quell’allusività, quella possibilità intrinseca ai corpi, ai materiali sensibili, che ne esibiscono le qualità secondarie o, come è stato detto, “terziarie”. Simbolica è “l’atmosfera metafisica” che circonda alcuni orizzonti di esperienza oggettuale: l’arte è il deittico di questa funzione, che mette in gioco il potere del corpo, della sensibilità, l’aspetto cognitivo – le “ragioni” – dell’affettivo, del sentimento, del vago e dell’incerto, evidenziando così, ed è un motivo essenziale, che il senso intrinseco delle cose, e degli strati che in esse è possibile “imparare a vedere”, è sempre in relazione a un’intersoggettività corporea, affettiva, che riconosce, qualificandole, le proprietà auratiche del mondo della vita.
19La logica aristotelica, ed entro certi limiti anche il formalismo di quella kantiana, si è limitata a indagare la correlazione analitica tra essere ed essere vero, senza comprendere che il giudicare vero è «un giudicare che trova conferma nell’evidenza», offrendo un’oggettualità «che si dà al soggetto esperiente in un’esperienza, o comunque in un afferramento o intuizione vissuta, e che si determina nel giudicare evidenze»18. La logica deve dunque scoprire il senso intenzionale e, con esso, la capacità di giudicare evidenze nel senso veritativo profondo, radicato in ciò che i corpi sono per noi.
20Non tutti i corpi hanno un’aura, che quindi, come già si accennava, è elemento di un’esperienza che può essere riconosciuta attraverso un processo descrittivo. In uno scritto del 1943, Riflessioni semplici sul corpo, Valéry propone una fenomenologia di questo diagramma, contestando l’esistenza di una sola forma corporea, identica a se stessa anche là dove il corpo raggiunge il punto più alto della gerarchia cosale divenendo “corpo umano”. Esistono infatti, sostiene, almeno tre corpi. Il primo corpo è quello istantaneo e immediato – è il “mio” corpo; il secondo è quello esterno che si autorappresenta e che rappresenta, un corpo narcisistico (è il corpo, diremmo oggi, della moda, della pubblicità – il corpo che si riconosce); il terzo corpo, infine, evidentemente modellato su letture cartesiane, è un corpo che ha esistenza solo nel pensiero, un corpo che è unità meccanica di parti, anche di parti che non vediamo, ma che evidentemente “funzionano” se il corpo ha una forma e se, soprattutto, è in grado di mantenerla senza dare segni, se non temporalmente dilatati, di decomposizione. Queste forme, che pur tra loro convivono (riesco a sorridere e a riconoscermi – secondo corpo – anche se ho mal di denti – primo corpo – e se – terzo corpo – ciò comporta un aumento della mia velocità di sedimentazione), certo non esauriscono l’esteticità formale del corpo stesso: a essi si deve aggiungere quel che Valéry chiama “quarto corpo”, definito tramite un’espressione ossimorica, cioè come “corpo reale” e “corpo immaginario”. Corpo dotato di “aura”, punto in cui si incontrano realtà e immaginazione, un “non so che”, un “qualche cosa” che pure deve esistere, sulla cui forma si può dire soltanto che è (come afferma Valéry) “un oggetto inconoscibile”. Questa esistente Inesistenza è il piano paradossale (inconoscibile e indefinibile) in cui la metafisica – e la forma estetico-sensibile del corpo – incontrano il modo di incarnazione dell’arte, attribuendole un’aura.
- 19 Deleuze 1995: 103.
- 20 Ivi: 168.
21Se il quarto corpo potrebbe essere chiamato il “corpo auratico” è dunque in quanto manifesta una possibilità dell’estetico, un suo fondo ontologico, come avrebbe detto Merleau-Ponty, o, per usare invece un’espressione di Deleuze una «potenza più profonda e quasi inaccessibile», in cui l’unità del ritmo corporeo solo va cercata perché è là che «il ritmo stesso affonda nel caos, nella notte, e dove le differenze di livello sono perpetuamente mischiate con violenza»19. Comunque si voglia definirle, o che si intenda dare loro o meno una consistenza ontologica, queste forze corporee oscure da cui deriva l’aura dell’arte, ma non solo dell’arte, e di conseguenza di tutti gli orizzonti di senso che generano un’interrogazione simbolica, sono in primo luogo tratti manuali: «questi segni manuali, quasi ciechi, stanno dunque a testimoniare l’intrusione di un altro mondo nel mondo visivo della figurazione»20.
22In sintesi, l’arte non offre il corpo di una forma, bensì, con parole simili a quelle di Valéry, un’aura come diagramma operativo, una forza che «non rappresenta nient’altro che il proprio movimento, e fa coagulare elementi apparentemente arbitrari in un unico getto continuo»21. Siamo di fronte a un’Icona che è pura sensazione, a una presenza, a un “fatto”, che non è storia o rappresentazione, che si svolge di fronte a un occhio che è nell’insieme disorganico dei sensi e non il simbolo dell’unità organica del corpo.
23I modelli con cui questo diagramma si presenta, esplicitando la propria forza di esperienza, possono essere molteplici, come molteplici sono i significati dell’aura. Sono tuttavia tutti modi per leggere il frantumarsi o il rinnovarsi di una metafisica del corpo che l’arte, o le espressioni simboliche, nelle loro variabili forme in divenire, ha storicamente incarnato. L’elemento comune, eidetico, che supera i particolari, che non ferma il tempo, bensì inserisce le forme nel divenire della storia, vuole soltanto ribadire il punto da cui si è preso avvio, manifestando il carattere ossimorico – e metafisico – di quell’aura, di quel quarto corpo che l’arte presenta e che costituisce la sua “aura”.
24Le arti, assumendo in modo nuovo un’antica esigenza metafisica, pongono di fronte a “enti”: enti che hanno la comune caratteristica di “farci pensare”, secondo la definizione kantiana del simbolo, a partire dalla loro stessa esteticità, dagli strati di qualità che in essi si articolano. Un approccio filosofico ai mondi corporei e figurali delle forme non le vede come un’ontologia regionale da risolvere nella descrizione, ma neppure come apertura all’Essere o grimaldello decostruttivo. I suoi “oggetti” esibiscono immagini, rappresentazioni, forme che sono in grado di mostrare la molteplicità simbolica dell’estetico, cioè la non riducibilità della sua logica a operazioni costitutive. L’esperienza presenta “cose”, che hanno specifiche strutture di senso: è sul senso generale di tale cosalità che ci si interroga, non sul rapporto con l’essere, bensì sul manifestarsi, loro tramite, di un senso intuitivo, che può essere descritto muovendosi in quel mondo diagrammatico del senso che si è chiamato precategoriale.
25L’assenza di unità, la tensione, la differenza del precategoriale che le forme possono manifestare sono la loro capacità simbolica di intuire un movimento temporale complesso e variegato a partire da una precisa porzione spaziale, che al tempo stesso è e non è tempo e che dunque porta in sé una differenza non ontologizzabile. L’aura che avvolge con le sue atmosfere il corpo delle forme simboliche allude dunque a un precategoriale, all’insieme di processi fungenti che la rendono simbolo non “di” qualcosa (sarebbe altrimenti racconto o metafora), ma di una genesi estetica che, nel suo costruire un orizzonte spaziale, si articola attraverso serie temporali e modi apprensionali differenziati, motivati nella cultura e nella storia. La forma da afferrare è sempre “per” un corpo, che non si limita alla distanza dello sguardo, che vive l’opera proprio, per usare l’espressione di Deleuze, come un “diagramma”, in cui dunque l’organicità è solo un orizzonte di possibilità all’interno di un percorso in cui vivono anche le anse dell’oscurità e dell’anonimo – le inesistenze che legano immaginario e reale.
26Non si vuole dunque, con una fenomenologia dell’aura, fondare il visibile sull’invisibile, o viceversa, bensì coglierne i sensi relazionali (intenzionali). Kant, come spiega nelle ultime pagine del Sogno del visionario, ritiene che la relazione nasca da orizzonti diversi, cioè facenti capo a differenti facoltà, che non hanno tutte un valore cognitivo. Seguendo il metodo kantiano, cioè un metodo critico che vede il sapere come risultato di un’attività razionale, si può così instaurare una nuova via, al di là di dicotomie astratte. Se infatti è indubbio che non ha più senso parlare di una metafisica che fondi il senso del pensiero su verità di ragione – che appartengono solo all’ambito della logica formale – essa può invece costruirsi attraverso le modalità descrittive di quelle che Leibniz chiama verità di fatto. Il principio di ragion sufficiente cerca ragioni in tutti i passaggi della nostra esperienza del reale: la nostra stessa esperienza reale e possibile è, sempre di nuovo, un “cercare ragioni”. È qui, dunque, sul piano delle verità di fatto e delle ragioni intrinseche ai corpi come diagrammi spaziali nel tempo, come organismi multisensoriali, come allusioni all’Essere, che la nostra esperienza sensibile afferra la possibilità di restaurare un piano di ricerca metafisica dove l’invisibile, l’aura, non è l’astratto, bensì il possibile che si rapporta all’effettuale e al necessario.
27In questo senso si mette in atto una fenomenologia della ragione che ha nei corpi il suo riferimento primario. Quel che la fenomenologia vuole instaurare, sin dalle Ricerche logiche husserliane, è una metafisica non delle ontologie formali – e delle verità analitiche che ne fondano il senso – bensì delle ontologie materiali e delle verità sintetiche, cioè appunto verità di fatto esperienziali, che sono alla loro base. Una metafisica che è dunque fondata sulla relazione intenzionale tra mondo della vita e attività trascendentale che sempre di nuovo lo tematizza.
28Individuare uno “spirito”, una “aura”, nelle produzioni della cultura (il gusto, le leggi, il mito ecc.) o della natura indica una medesima intenzione in cui l’evidenza empirica, naturale o storica, mira a determinare non una verità quotidiana, vincolata all’abitudine, bensì «una verità identica e valida per tutti»22. Da qui, di conseguenza, la necessità di non limitare il nesso tra evidenza empirica e giudizio razionale all’occasionalità, più o meno regolata, di un’esperienza fenomenica, bensì di trovare un logos, un fondamento che colga, nella ricerca, un nesso stabile tra l’esperienza e il giudizio. L’impianto kantiano, pur con i suoi limiti, serve a questo scopo fondamentale: individuare un fondamento che non sia empirico, ontologico, metafisico, cioè sottratto, nella sua intrinseca temporalità, ai vincoli di uno sguardo al tempo stesso sensibile e giudicante, permettendo invece di cogliere sia il senso generale dello strutturarsi in forme di un “intero” fenomenico sia il rinnovarsi di tale senso a fronte di un’interrogazione che a sua volta si rinnova.
29In questo processo non deve però andare perduta la presenza di una forza originaria, che è quella che spinge a indagare il nostro mondo della vita, l’organicità della natura e gli intrecci della cultura: si chiami questa forza aura, atmosfera, mito, stupore o intenzionalità fungente, essa è ciò che sorge “davanti all’infinità della verità dell’essere”, ed è qualcosa dove sempre la risposta diviene domanda, «un rispondere che genera quella domanda che non ha cessato di muovere e inquietare la storia dell’Occidente, e, forse, di guidarla»23. Non lasciare che l’orizzonte del mondo sia soltanto presenza o fatto è ciò che permette di instaurare il potere razionale dello stupore, del mito, dell’interrogazione, di un’intenzionalità che si rinnova senza disperdersi in giochi autoreferenziali.
30Si afferra così il potere della variazione, la funzione dell’immaginazione e della sua capacità associativa, si coglie la possibilità di uno sguardo metafisico che sia esigenza di porre domande sui limiti e non risposte su certezze predeterminate o su frammenti perduti: la ragione è stimolo e funzione per la ricerca, non uno strumento di dominio, il cui svolgersi tra i fenomeni non costruisce un apparato di regole astratte, bensì descrive i modi essenziali in cui le cose sono, in sé e per noi, in tutti i loro legami, affinità, differenze, connessioni che sempre di nuovo attestano l’infinito simbolico che attraversa e disegna il mondo della nostra vita. Scoprire queste affinità elettive, che sono in noi come nel mondo della natura, è ciò che si compie nella costruzione degli interi per farli divenire forme dotate di senso simbolico, di forza prospettica e formativa.
31L’evidenza empirica, l’intuizione sensibile, sono il punto di avvio di una riflessione conoscitiva che, senza questa base, sarebbe soltanto, per dirla con Kant, cieca e vuota. Questa affermazione può condurre alla duplice e speculare conclusione che non vi è nulla al di là del fenomeno e dei suoi modi presentativi oppure, all’opposto, che l’evidenza, per trovare il suo senso, deve trascendersi, cercando fuori di sé orizzonti fondativi. Nella proposta di cui si è tentato un percorso si è scelta una soluzione diversa: la presenza empirica, l’evidenza intuitiva hanno in sé il proprio senso – e la propria fondazione – ma essi derivano dalla varietà del loro apparire, dalla molteplicità di atteggiamenti che tali variazioni generano, dalle possibilità intrinseche ai modi con cui le parti possono associarsi in un intero. Ciò significa che vi è sempre, nel darsi delle cose, un angolo cieco da esplorare, un invisibile radicato nel visibile, un piano di “inevidenza” da indagare, cercandone i nessi, le qualità, i modi, le possibilità: la fondazione è un processo di interrogazione del dato, ed è ciò che apre il campo del pensiero e della ragione, che è capacità di “unificare”, di costruire interi simbolici, di cogliere tra le parti quei rapporti che esprimono il significato profondo delle cose del mondo.
- 24 Ivi: 17.
- 25 Ivi: 19.
- 26 Husserl 1968b: 255.
- 27 Vedi ancora Costa 1999: 128.
32La filosofia non è elogio dell’oscuro, bensì «nel suo tendere alla chiarezza, ha coscienza della strutturale impossibilità di un sapere concluso»24: che è poi il senso stesso del processo che mostra la struttura simbolica del pensiero e del nesso formativo tra la sensibilità e la ragione, che ne esibisce l’intima essenza temporale, quella che fa scrivere a Husserl, in un manoscritto del 1933, che «l’esperienza del mondo nella sua universalità è una universale sintesi dell’associazione»25. In questo processo temporale, e intenzionale, l’evidenza non è un “feticcio teoretico”, né un mero segno di una pratica, né un atto parcellare, bensì un modo di offrirsi delle cose dove l’insieme non è soltanto una somma, presentandosi invece come «un unico senso, in cui i sensi sono inclusi ma secondo un senso»26. La filosofia è esercizio di uno sguardo progressivo, che cerca connessioni temporali, che costruisce interi organici, che non persegue una finalità astratta, ma osserva e descrive come le cose appaiono: è un testimone che mira a conoscere, sapendo che, perché ciò accada, non vanno costruite ipotesi astratte e trascendenti, bensì ci si deve muovere all’interno della sfera del puro guardare27.
33In questa sfera, in cui si incontrano sensibilità e ragione, si comprende che bisogna variare lo sguardo per vedere la molteplicità di connessioni possibili che le cose suggeriscono, sfuggendo alla disattenzione della ripetitività, alla tracotanza dei paradigmi sempre uguali a se stessi e alle loro retoriche, alla superficialità della convinzione che i sensi parcellari non si fondano simbolicamente nell’unità genetica e metamorfica di un senso. Indagare una fenomenologia dell’aura significa cercare – nel tempo, negli atti intenzionali che ne costituiscono le trame, i flussi, i ricordi, i punti e i nuclei simbolici – le affinità elettive che legano tra loro i fenomeni, nella drammatica certezza che esse possono sfuggire e che, come ricorda Valéry, il caso è l’orizzonte nascosto della necessità; e che, una volta trovate, queste affinità misteriose possono anche concludersi nel dissidio, senza avere come risultato finale la pace e la quiete del sentire e del pensare.
- 28 Kant 1995. 103.
- 29 Ivi: 103.
- 30 Ivi: 160.
34Se è chiaro il compito generale e problematico – sviluppare le indagini fondative sui vari strati dell’essere a partire dalla radicalità di un’interrogazione del mondo, dei livelli corporei che lo costituiscono – è altrettanto evidente che questo atteggiamento impone sia presupposti di metodo sia consapevolezza che la varietà di senso del nostro mondo circostante richiede di adattarsi a esso, seguendone anse e prospettive. Husserl, ma anche Merleau-Ponty, al di là delle critiche di Deleuze, sa che i corpi non si risolvono in modo pacificato in un “essere” che ne eternizza il senso: il metodo che bisogna mettere in atto per comprenderne le tensioni temporali che spingono all’invisibile è quello di una “ontologia indiretta” che in sé manifesta la direzione del pensiero critico. Direzione che conduce, vero modo per comprendere i significati del “quarto corpo” e della sua aura, alla relazione simbolica tra sentire e pensare, cogliendo nel “metodo simbolico” l’interrogazione trascendentale che caratterizza la forza conoscitiva del mondo della vita. Esplicitare questo metodo – e il senso descrittivo che evidenzia – è la strada di una “metafisica del corpo”. «Io non so – scrive Kant – se vi siano spiriti, anzi, ciò che è più ancora, non so neppure che cosa significhi la parola spirito»28, dal momento che conosco solo il concetto di corpo, visibile e impenetrabile. Superare questi confini corporei è un’istanza metafisica “superflua”, che intralcia il vero scopo della scienza, quello di «determinare i confini a essa posti dalla natura della ragione umana»29. D’altra parte, se accetta di ridefinire il proprio compito – determinazione di confini che segnano un limite – la metafisica torna a essere ciò che dovrebbe, cioè «la compagna della saggezza»30.
35Il tormento del moderno che attraversa la filosofia sin dal Settecento, e che ereditiamo, come cioè recuperare la metafisica – il mistero dell’invisibile – senza che vada perduto il valore fondante per il pensiero critico di una distruzione della metafisica stessa, si risolve dunque disegnando percorsi fenomenologici capaci di descrivere nessi e mediazioni in virtù dei quali dei corpi si colgono livelli e modi di apparizione, che giungono sino alle loro proprietà simboliche e auratiche, analizzandone via via qualità primarie, secondarie e terziarie. L’aura non è qui soltanto un’espressione retorica, né la sua traduzione in concetto estetico, ma la capacità di comprendere il quarto corpo, il senso di una metafisica del corpo, che è al tempo stesso profonda sostanza concettuale, animazione emotiva e possibilità di intuire la loro tormentata unione.