1Rispondo di seguito ai commenti e alle obiezioni che così tanti colleghi hanno voluto fare alla teoria degli oggetti sociali contenuta nel mio libro Documentalità. “Hanno voluto” forse è una esagerazione. Magari non volevano più di tanto, e semplicemente hanno pensato di farmi un piacere; il che non fa che accrescere la mia riconoscenza. Molti temi di cui parlo in queste risposte sono stati sviluppati più ampiamente, e proprio grazie all’impulso che mi è venuto dalle osservazioni dei miei critici, in Anima e iPad (2011) e Manifesto del Nuovo Realismo (2012). Qui l’andamento delle repliche sarà invece, e per necessità, rapsodico. Seguirà alcuni fili conduttori principali, e alcuni argomenti ricorrenti nelle critiche. Con la consapevolezza del fatto che la rapsodia è incompiuta e le risposte sono incomplete non solo perché a rispondere in modo ordinato e completo ci sarebbe voluto un altro fascicolo della rivista, ma soprattutto perché in molti casi non ho saputo cosa rispondere, visto che le critiche hanno colto nel segno, e quindi hanno anche indicato il programma dei miei prossimi anni di lavoro, per l’appunto rispondere a così tante, e così motivate, obiezioni. Prima di incominciare devo però esprimere tutta la mia gratitudine a Jean-Maurice Monnoyer, che ha voluto dedicare un saggio troppo lusinghiero all’insieme del mio lavoro. Ma qui davvero ogni ringraziamento sarebbe insufficiente. Come diceva Vigny, «seul le silence est grand, tout le reste est faiblesse».
2Incominciamo con la questione del realismo, molto presente in Documentalità, e poi entrato in un ampio dibattito a partire dalla scorsa estate1. A giusto titolo Stefano Vaselli coglie il fatto che il realismo che propongo – e che ho chiamato “Nuovo Realismo” – si oppone diametralmente al New Historicism.
Uno storico e un filosofo della storia […] è realista, in sintesi, se crede nel fatto che la storicizzazione, lungi dall’aggiungere o togliere qualcosa all’oggetto storico e, di conseguenza, ai documenti a esso correlati, sia, al contrario, il processo meta-testimoniale (critico e/o euristico) in grado di far emergere (o comunque di trasmettere) i reali, oggettivi, connotati sociali e antropologici di quel fatto, di quell’evento e di quell’oggetto storico.
3Questo è il punto essenziale, senza il quale non ha nemmeno senso parlare di storia. Se qualcuno come Le Goff sostiene che i documenti sono costruiti, allora non c’è alcun interesse a leggere la storia invece che la favola, il logos invece che il mythos. Così appunto Le Goff citato da Vaselli:
- 2 J. Le Goff, nell’introduzione a Bloch (1993: x-xi, tr. it.).
Se lo storico non può lavorare senza testimonianze, queste testimonianze non diventano documenti se non per l’importanza che lo storico accorda loro e per il lavoro ch’egli attua su di esse. Propriamente parlando, non vi sono fonti […] i fatti non sono dei fenomeni oggettivi esistenti senza lo storico2.
4Dove evidentemente è presente la confusione tra ontologia ed epistemologia di cui parlo più avanti: è chiaro che epistemologicamente non ci sono fatti senza storici (o anche semplici testimoni) che li conoscano, ma questi devono essere ontologicamente indipendenti da chi li conosce, altrimenti si riducono a meri oggetti mentali, indistinguibili dalle fantasie. Sono perciò perfettamente d’accordo con il “postulato di inerzia causale tra fatti e documenti storici” (i documenti non creano i fatti) e con il “corollario di umiltà ontologica” (il documento da solo non è un evento storico, e può diventarlo solo se è riconosciuto come fatto). Come dire che l’ontologia, anche storica, non si produce in casa. (A proposito di fatti, mi permetto di segnalare a Vaselli che l’ex Presidente Berlusconi di figli ne ha cinque e non quattro). Non c’è nemmeno bisogno di elaborare delle teorie alternative, perché sostenere che la realtà è creata dai documenti non è una teoria, bensì la legittimazione di una pratica ideologica e falsificatoria. E da questo punto di vista Vaselli ha ragione nel dimostrare come la teoria della intenzionalità collettiva di Searle, se trasposta sul piano della storia, finisce per avallare potentemente proprio la visione postmoderna della costruzione sociale della verità (e non solo della realtà sociale). Revisionismo, negazionismo e postmodernismo sono fatti della stessa stoffa.
5Da questo punto di vista, le acute analisi di Michele Guerra sulla costruzione della immagine filmica rischiano di peccare di un eccesso di costruzionismo. È vero che per avere un documento è necessaria una forma istituzionale che valorizzi i documenti. Ma non si deve confondere ciò che crea un oggetto sociale e documentale (che può tranquillamente essere un film di famiglia) con l’attribuzione della categoria di “opera d’arte”, che è tutta un’altra cosa. Ora, è indiscutibile che lo statuto di film (ed eventualmente di opera d’arte) al girato di Threadwell viene indubbiamente dalla scelta e dal montaggio di Herzog (e non ultimo dal fatto che Herzog abbia scelto il titolo, Grizzly Man, che fa riferimento a Threadwell, che ha pagato carissima la sua passione per gli orsi). Ma questo non toglie che il girato di Threadwell fosse già un documento, e anche un oggetto sociale, nel senso che lui raccoglieva il materiale in vista di una pubblicazione. E pubblicazione significa anche chiamare gli amici la sera e fargli vedere il film delle proprie vacanze: si tratta già di un oggetto sociale – anche se non di un oggetto istituzionale, e probabilmente nemmeno di un capolavoro.
6La teoria del falso è sagacemente sviluppata da Alberto Voltolini con esempi ingegnosi. Il primo è quello di una canzone di O’ Sullivan che, per ipotesi, risorgesse tra molti secoli, e venisse interpretata in modo aberrante rispetto al suo autentico senso. Bene, mi sembra davvero un caso paradigmatico: noi sappiamo, o crediamo di sapere, il vero senso del testo di Sullivan. I nostri lontani eredi si sbaglieranno; non sapranno di sbagliarsi, ma sbaglieranno. Chissà quanti errori commettiamo in interpretazioni di cose passate, appunto come nell’esempio che fa Alberto delle statue dell’Isola di Pasqua: che cosa saranno state davvero? Va a capirlo. Tuttavia non mi è chiaro in che senso questi problemi epistemologici possano toccare l’evidenza ontologica secondo cui se non ci sono tracce della canzone di O’ Sullivan quella ha davvero cessato di esistere. Fino a prova contraria, ovviamente (e questo dimostra che nel mondo sociale ontologia ed epistemologia sono correlate) ma ha davvero cessato di esistere. Un altro esempio, che non riguarda il falso ma l’intenzionalità degli atti, è quello delle scimmie che si spulciano e della mia osteopata che mi cura; Alberto si chiede se siano atti iscritti. Indubbiamente, nella mia idea, lo sono (tra l’altro lo spulciarsi tra gli ominidi è considerato uno dei primi atti di socialità, il vero e proprio fondamento del legame sociale, ben prima di “nozze, tribunali e are”). Quanto alla mia osteopata, rilascia addirittura una ricevuta fiscale: più atto iscritto di così! Un terzo esempio riguarda la cornice che contorna un paesaggio in Nuova Zelanda. Alberto mi chiede: se dico che è un’opera, non introduco proprio l’intenzionalità che credevo di aver cacciato? No. Perché non è affatto necessario che tutti ritengano che si tratta di un’opera, basta che sia classificata come tale da qualche parte e in sede competente. Se per esempio quella cornice è classificata dalle belle arti neozelandesi come un’opera d’arte, avrà le stesse tutele della Gioconda, con un vincolo che vale anche per coloro che non la considerano un’opera d’arte (e del resto io stesso, che non sono affatto appassionatissimo della Gioconda, la considero un’opera d’arte essenzialmente perché l’ho imparato a scuola e so che è in un museo). Il bello della documentalità è che ci lascia liberi dalle, e nelle, intenzioni.
7Sulla questione del falso si esprime con molta chiarezza Venanzio Raspa e sottoscrivo interamente le sue parole:
Gli oggetti sociali che hanno valore in virtù della loro autenticità, perdono tale valore, se scopriamo che sono falsi; non sono più quello che credevamo che fossero. Una banconota falsa è, alla fine, come un falso amico o un diamante falso, che non sono un amico o, rispettivamente, un diamante. “Falso” è un attributo modificante, non semplicemente qualificante. […] La verità è una nozione semantica, la realtà una nozione ontologica. Un vero principe è semplicemente un principe, mentre un falso principe non è un principe. […] Gli oggetti falsi sono delle finzioni: sono qualcosa, ma non quella cosa che sembrano essere. È vero che usiamo il termine “banconota falsa”, ma solo perché continuiamo a vedere nell’oggetto l’intenzione del soggetto che l’ha prodotta e, inoltre, perché ci imbattiamo in un limite del linguaggio, o dell’utente che usa il linguaggio, il quale, non possedendo nomi per tutte le cose, si serve di nomi composti quali “banconota falsa” o “diamante falso”.
8Mario De Caro, discutendo di ontologia e di epistemologia, sostiene che se io vedo il sole che tramonta non vedo la stessa cosa che vedono un bambino e un castoro. Ora, su questo punto mi sento di dissentire. Certo che vedono la stessa cosa, altrimenti avremmo delle inconseguenze, per esempio che Tolomeo non avrebbe mai davvero visto il sole, e di qui si giungerebbe alla incommensurabilità fra teorie, ossia che Copernico si sarebbe riferito a un mondo diverso da quello di Tolomeo. In realtà, quando, in un quadro di teorie di riferimento diverse, si percepisce un oggetto, si percepisce il medesimo oggetto, e si aggiungono dei pensieri, come del resto è dimostrato chiaramente nelle contraddizioni tra vedere e pensare. Sia chi ha una illusione ottica senza saperlo, sia chi sa che si tratta di una illusione ottica, vede esattamente la stessa cosa. E questo è importantissimo proprio per la teoria della realtà e della scienza: non è un voler ridurre l’importanza delle teorie, ma, proprio al contrario, voler dare a esse il valore che meritano.
9In questa materia vorrei anche cercare di chiarire un punto rilevante giustamente sottolineato da Giulio Napoleoni. Il quale riconosce che per me Spazio e Tempo non sono sostanze (come in Kant) ma relazioni (come in Leibniz), ossia sono coordinate epistemologiche e non ontologiche. Tuttavia, notando che nella mia classificazione le relazioni sono oggetti ideali, trova sorprendente che Spazio e Tempo siano oggetti ideali, dunque non siano spaziotemporali. Capisco il punto, ma mi sembra che sia un po’ come stupirsi del fatto che 2 sia un numero e non due numeri: la mia idea del tempo non è temporale, la mia idea dello spazio non è spaziale, e la mia idea del formaggio non si mangia.
10Luca Illetterati è particolarmente generoso nella sua lettura, e gliene rendo grazie. Mi fa tuttavia notare che l’ontologia non è quello che c’è, ma è il discorso su quello che c’è. Dunque c’è sempre un residuo epistemologico nell’ontologia e un residuo ontologico nella epistemologia (per fortuna, direi, visto che di questo si dimenticavano proprio quei teorici, ed erano tantissimi e accreditati, che sostenevano che gli schemi concettuali si confrontano solo con altri schemi concettuali). Su questo però siamo perfettamente d’accordo. Io ho sempre sostenuto che l’ontologia non è mai senza epistemologia, proprio come non si può vivere senza sapere. Tuttavia, bisogna preservare il carattere di Inemendabilità del reale con cui si fa avanti l’ontologia. La quale può ben essere un concetto limite, o meglio un oggetto limite, che però non è l’oggetto trascendentale = X, il mansuetissimo noumeno di Kant che non dà fastidio a nessuno, mentre gli schemi concettuali celebrano i loro fasti. No, l’ontologia, l’oggetto inemendabile, ci resiste a tutto spiano, e la nostra esperienza quotidiana ce lo dimostra. Insomma. L’ontologia è un discorso, lo sappiamo. Ma è un discorso che deve marcare la differenza rispetto alla epistemologia, non insistere sulla continuità, che è lo sport preferito di filosofi anche molto reputati. È ovvio dunque che c’è una epistemologia che guida la mia ontologia, un qualche sapere, vero o anche meramente presunto, che sta alla base delle mie classificazioni. Però è proprio il carattere inemendabile del reale che può animare un po’ di decostruzioni che propongo sottotraccia nelle mie classificazioni. Per esempio, è vero che è un certo sapere di fine Settecento che propone la distinzione tra automa e vivente, e che dunque nel recepire questa differenziazione io eredito da quel sapere. Però è anche vero che mi impegno, contemporaneamente, nel decostruire quella differenziazione. Quanto al naturalismo, sono d’accordo con Luca. Il mio è realismo, che non coincide affatto con il naturalismo (proprio il caso di Searle, d’altra parte, insegna che il naturalismo può condurre al misticismo: da una parte gli atomi, dall’altra chissà come l’intenzionalità collettiva).
11Illetterati mi fa anche notare che, per meglio criticarla, riduco la tesi “non ci sono fatti, solo interpretazioni” alla sua caricatura. Vorrei però, a tal proposito, suggerire una riflessione. E se quella tesi consistesse essenzialmente nella sua caricatura? Se non avesse altro valore che non quello caricaturale? Perché: che significato può avere “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, se non quello di svuotare qualunque argomento e di trasformare il pensiero in una mascherata? Non dimentichiamoci che una parte importante del pensiero filosofico del secolo scorso è stata apertamente caricaturale, ed è avvenuto in filosofia ciò che è avvenuto nell’arte con Duchamp. Niente di male, ma è opportuno saperlo.
- 3 Derrida 1995: 22 tr. it.
12Poiché in Documentalità suggerisco di indebolire la portata della frase di Derrida “nulla esiste al di fuori del testo” limitandola agli oggetti sociali, appunto nella formula “nulla di sociale esiste al di fuori del testo”, appare naturale che alcuni interventi vertano su questa frase. Qui vorrei fare una premessa di carattere generale. La frase, in francese, suona “il n’y a pas de hors-texte”, e taluni osservano che, così stando le cose, la corretta traduzione sarebbe “non c’è fuori-testo”. D’accordo. Ma resta da capire che cosa significhi “non c’è fuori-testo”; una volta, dibattendo con Searle, Derrida ha detto che vuol dire “nulla esiste fuori di un contesto”, che è una frase molto diversa, e anche piuttosto banale: si può star certi che una frase di questo genere non avrebbe fatto carriera nel mondo filosofico, rappresentando la posizione di un ragionevole senso comune. Molto più interessante mi sembra invece una considerazione che Derrida svolge in Mal d’archivio, e che viene citata da Tiziana Serena che voglio ringraziare per il nuovo significato che ha saputo dare alla documentalità (con un arricchimento oggettivo del concetto) nell’ambito della fotografia e per le sue riflessioni sull’archivio. Ora, scrive Derrida «Niente archivio senza fuori […] non c’è archivio senza consegna in qualche luogo esterno che assicura la possibilità della memorizzazione, della ripetizione, della ri-produzione e della ri-stampa»3. Il passo è interessantissimo perché qui Derrida sta sostenendo che esiste qualcosa fuori del testo: “il y a hors-texte”, insomma, ossia (se vogliamo tradurre in quel modo strano) “c’è fuori-testo”. Sono passati quasi trent’anni dalla formulazione della frase nella Grammatologia (1967), e Derrida, diventato più saggio, ci ha ripensato, e non ha più voglia di scrivere frasi a effetto. O forse, ipotesi altrettanto legittima, non ci pensa neanche più, ha altro a cui pensare. Forse anche noi dovremmo pensare ad altro invece che difendere quella strana e non felicissima affermazione, tra le tantissime cose profonde, illuminanti e lucidissime che ha detto Derrida.
13Da questo punto di vista, c’è una osservazione che vorrei suggerire all’amico Francesco Vitale. Che la scrittura (come archiscrittura) sia la struttura generale dell’esperienza, è il risultato a cui ero giunto con Estetica razionale, il che mi portava allora a sottoscrivere, sia pure solo in senso epistemologico, la tesi secondo cui “nulla esiste al di fuori del testo”. Solo che poi mi ero reso conto che questa era una mezza verità, perché c’è qualcosa che incontriamo nell’esperienza e che per l’appunto riempie questa struttura, e che (diversamente da quello che sostengono Kant, e Derrida, e Ferraris nel 1997), esiste fuori del testo, altrimenti non c’è modo di distinguere tra il sogno e la realtà, e tra la magia e la scienza. Ed è anche per questo che continuo a insistere sulla necessità di distinguere, diversamente da Derrida, fra oggetti sociali, ideali e naturali, altrimenti siamo nella notte in cui tutte le mucche sono scure, e in cui si può sostenere (come ha fatto non Derrida ma Latour, poi ravvedutosi) che Ramsete non è potuto morire di tubercolosi perché il bacillo è stato scoperto solo nel 1882.
14Sono altresì profondamente grato a Bruno Moroncini per la lettura così accurata, letterariamente e filosoficamente impegnata, che mi offre. Per quanto riguarda la questione degli esemplari, come lui vede bene io sostengo che si tratta di un orizzonte che prende senso solo alla luce di una teoria del giudizio riflettente, cioè del giudizio che dal caso risale alla regola. Più complessa la questione del “nulla esiste fuori del testo”. Perché Moroncini sostiene che questa tesi può essere sottoscritta da Gadamer, che viene da Heidegger e da Dilthey; e non da Derrida, che viene da Husserl. La corretta interpretazione (in un senso derridiano) della frase “nulla esiste fuori del testo” va dunque considerata, propone Moroncini, come: «nessun contesto, nessun ordine di senso sopraggiunto, nessuna interpretazione possono modificare il testo». Lo prendo in parola. Visto che Gadamer non ha mai scritto “nulla esiste fuori del testo”, e visto che la frase è proprio e soltanto stata scritta da Derrida, allora la frase è indubbiamente da riferirsi a Derrida e non a Gadamer. E visto che Derrida (e non Gadamer) ha detto che “non c’è vero senso di un testo”, e visto che l’impegno di tutta la decostruzione per molti anni è consistito nel trovare sensi inusitati del testo, allora abbiamo a che fare con un Derrida/Hyde. Anche ammessa questa lectio difficilior o difficillima, faccio presente che per me l’aspetto rilevante di “nulla esiste fuori del testo” rispetto a “non ci sono fatti, solo interpretazioni” sta nel fatto che sembra far scomparire il mondo naturale nel mondo sociale. Visto che mi dice che non sosterrà mai che gli oggetti naturali sono dei testi, e che anzi i testi possiedono dei caratteri che li avvicinano agli oggetti naturali (osservazione giustissima), sono, sull’essenziale, totalmente d’accordo con lui.
15Tra la decostruzione che afferma che nulla esiste fuori del testo e il neoidealismo c’è una convergenza di fondo, e proprio questo è ciò che ci suggerisce Corrado Ocone nel suo testo. In cui peraltro mi rimprovera di “buttar via il bambino” insieme all’acqua sporca, cioè i meriti del trascendentalismo insieme alla critica della sua estremizzazione nel “non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Ora, io non credo che le cose siano andate così, perché la distinzione tra ontologia ed epistemologia, così come quella tra oggetti naturali e oggetti sociali, mi permette di recepire tranquillamente il trascendentalismo nella scienza (anche della natura, ovviamente) e nella società. Ciò detto, è ben possibile che a un certo punto l’idealismo possa a tal punto perdersi nell’oggetto da diventare oggettivismo, come suggerisce Ocone. Ma confesso che mi sembra un procedimento macchinoso e molto accademico, e comunque quasi un effetto collaterale, e probabilmente indesiderato, di una dottrina che si dichiara idealista. Comunque, per quel che mi riguarda, per trovare l’oggetto non devo consultare libri di filosofia, mi basta (come al resto del mondo) incontrare la resistenza e l’inemendabilità del reale.
- 4 Montesquieu 1748: xix, 4.
16C’è tuttavia un senso in cui si può recuperare il “nulla esiste al di fuori del testo”, ma lavorando molto sulla distinzione tra scrittura e archiscrittura. A questo proposito, mi limito a suggerire l’idea di “Spirito” in Montesquieu, come risultato di un gran numero di elementi naturali e culturali, che convergono a spiegare lo “spirito generale”. «Molte cose guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, le tradizioni, le usanze: donde si forma uno spirito generale che ne è il risultato»4. Ecco, qui forse potremmo dire “nulla esiste al di fuori del testo”, ma precisando che “testo” è un’ampia metafora. A questo proposito, vorrei rispondere a una obiezione di De Caro circa la mia tesi secondo cui la regola costitutiva degli oggetti sociali è “Oggetto = Atto iscritto”. De Caro fa notare che non si può dire che ciò che è iscritto nella mente delle persone sia realmente iscritto. In che senso, si chiede, una traccia mnestica sarebbe una iscrizione? Non si tratta di una tesi ad hoc? No – non credo, almeno – perché la metafora della mente come tabula, che attraversa l’intera storia della filosofia, non è certo stata elaborata per consentirmi di formulare una teoria ad hoc. E, inversamente, il fatto che le scritture esterne siano viste come promemoria, e che l’oblio abbia i medesimi effetti rovinosi sul mondo sociale, mi sembrano elementi più che sufficienti per dimostrare che non ho affatto dovuto elaborare una teoria ad hoc.
17Barry Smith osserva che tuttavia questa configurazione appare metaforica. In che modo queste iscrizioni costituirebbero un obbligo? E come si può rispondere a questo interrogativo cruciale? L’interrogativo è più che legittimo. Ci si può domandare quale sia l’origine della documentalità, ossia se ci sia qualcosa, e cosa, alla base delle iscrizioni in cui consiste la realtà sociale. La prospettiva della documentalità consente a mio avviso una risposta, che prende per l’appunto l’avvio dalla teoria che – dagli antichi ai moderni – concepisce la mente come una tabula su cui si depongono delle iscrizioni. In effetti, come argomento estesamente in Documentalità, i comportamenti sociali sono determinati da leggi, riti, norme, e le strutture sociali e l’educazione formano le nostre intenzioni. Immaginiamo un Arcirobinson che fosse il primo e l’ultimo uomo sulla faccia della terra. Potrebbe davvero essere roso dall’ambizione di diventare contrammiraglio, miliardario o poeta di corte? Certamente no, così come non potrebbe sensatamente aspirare a seguire le mode, oppure a collezionare figurine dei calciatori o nature morte. E se, per ipotesi, cercasse di fabbricarsi un documento, si impegnerebbe in una impresa impossibile, perché per fare un documento bisogna essere almeno in due, chi scrive e chi legge. In realtà, il nostro Arcirobinson non avrebbe nemmeno un linguaggio, e difficilmente si potrebbe dire che “pensa” nel senso corrente del termine. E sembrerebbe arduo sostenere che è orgoglioso, arrogante o innamorato, pressappoco per lo stesso motivo per cui sarebbe assurdo pretendere che abbia degli amici o dei nemici. Abbiamo così due circostanze che rivelano la struttura sociale della mente. Da una parte, la mente non può sorgere se non viene immersa in un bagno sociale, fatto di educazione, linguaggio, trasmissione e registrazione di comportamenti. Dall’altra, c’è l’enorme categoria degli oggetti sociali che non potrebbe esistere se non ci fossero soggetti che pensano che esistano. Piuttosto che disegnare un mondo a totale disposizione del soggetto, la sfera degli oggetti sociali ci rivela l’inconsistenza del solipsismo: che al mondo ci siano anche degli altri, oltre a noi, è provato proprio dall’esistenza di questi oggetti, che non avrebbero ragion d’essere in un mondo in cui ci fosse un solo soggetto. Se non fosse possibile tenere traccia non ci sarebbe mente. Ma senza la possibilità dell’iscrizione non ci sarebbero nemmeno gli oggetti sociali, che consistono per l’appunto nella registrazione di atti sociali, a partire da quello, fondamentale, della promessa. Ecco perché propongo di vedere l’intenzionalità (in quanto tratto distintivo del mentale) come un esito della documentalità. Il mentale, d’accordo con l’immagine della mente come tabula, è un supporto per iscrizioni (che nei termini della neurofisiologia contemporanea corrispondono alle scariche neuronali). Queste iscrizioni non sono pensiero e non lo richiedono, proprio come le operazioni dei computer non richiedono la conoscenza dell’aritmetica. E tuttavia il risultato di queste iscrizioni, procedendo nella complessità, è pensiero, esattamente come il risultato delle operazioni di un computer è un calcolo aritmetico. Nella intelligenza artificiale come in quella naturale si verifica un medesimo processo, per cui l’organizzazione precede e produce la comprensione, ed è in questo senso che affermo che la documentalità precede e produce l’intenzionalità.
18Con questo credo di poter abbozzare una risposta alle osservazioni di Francesco Berto. Come tutta la teoria della documentalità è il tentativo di illustrare in parole povere e con esempi banali la teoria di Derrida sulla scrittura, così per ciò che attiene alla teoria del significato si tratta di spiegare la teoria di Derrida sulla differenza. Che, come Berto ha il merito di sostenere, non è poi così distante dalla teoria del riferimento in Kripke (1972). In fondo, come lo spieghi che “acqua” significhi l’acqua? Semplicemente perché la si è chiamata così per generazioni, riferendosi con quel nome a quella cosa, perché ce l’hanno insegnato da bambini, perché sta scritto nel vocabolario e nell’abbecedario. Insomma, appunto perché sta scritto. Che non è in nulla diverso dalla teoria della différance, del differimento illustrata da Derrida, però sulla base della linguistica di Saussure. “Riferirsi a” significa sempre deferire a (una autorità precedente), e dunque anche differire, rinviare. Questo ha luogo in noi e fuori di noi, la mente e la cultura sono questo, e non mi sembra che ci sia niente di così straordinario (vorrei aggiungere che è interessante osservare che la teoria di Derrida e quella di Kripke risalgono grossomodo allo stesso giro d’anni, una conferenza del 1968 la prima, tre conferenze del 1970 la seconda).
19Se le cose stanno in questi termini, però, le mie posizioni (così come quelle del mio mandante) non sono così balzane, anzi “copernicane”, come sostiene l’amico Claudio La Rocca, che di rivoluzione copernicana ne ammette una sola, quella di Kant, o al massimo due, a voler contare anche Copernico. Gli apparirò anche inemendabile, cioè, come bonariamente suggerisce, cocciuto e incorreggibile, però davvero non riesco a vedere niente di male nel pensare che se non ci fosse la possibilità di produrre delle tracce, e tracce che si relazionino tra loro (si pensi per esempio al ritmo, o a una successione di tacche su un osso, insomma, a qualcosa di primitivissimo, tanto per capirci), difficilmente potrebbe darsi qualcosa come il segno. A meno che non si voglia sostenere che prima viene il segno, per esempio il logo della Coca Cola con tutti i suoi dettagli, e poi vengono le tracce. Come questo sistema di rimando sorga, poi, spero di averlo suggerito nelle ultimissime risposte, e del resto ci ritorno più avanti, parlando di Intenzionalità e Documentalità.
20Corre talvolta la falsa convinzione che il realismo (anche quello esposto in Documentalità) sia acquiescenza. Ho ampiamente risposto su questo punto nel terzo capitolo del mio Manifesto, e qui mi limito a repliche puntuali relative alla dimensione politica della documentalità. La documentalità, anche sotto questo profilo, è una alternativa alla intenzionalità collettiva, i cui problemi sono ben colti, in particolare, da un simposio dedicato a Documentalità (introdotto da Ivan Mosca e con i contributi di Raffaela Giovagnoli, Guido Seddone, Giuliano Torrengo apparsi su “Etica & Politica / Ethics & Politics”, 12, 2010, e qui riproposti, con integrazioni e modifiche). Voglio anzitutto ringraziare l’amico Pier Marrone che ha ospitati i contributi in quella sede, con una riconoscenza tanto più grande in quanto ne ha autorizzata la riproduzione qui e, come se non bastasse, ha accolto una proto-versione, una specie di sommario di “documentalità”, sulla sua rivista (Documentalità: ontologia del mondo sociale, in “Etica & Politica / Ethics & Politics”, 9, 2007: 240-329). E colgo l’occasione per ringraziare anche l’amica Simona Morini, che ha ospitato prime versioni di alcuni dei contributi qui raccolti sul sito “Rescogitans”.
21Incomincio discutendo le osservazioni di Guido Seddone. Pur non considerando né avendo mai considerato dei vaneggiamenti le teorie di Derrida, Wittgenstein, Rorty, Gadamer o Heidegger, non riesco a capire che cosa intenda Seddone quando sostiene che costituiscono (come se si trattasse di un fronte compatto) «un decisivo passo in avanti nel modo di intendere la verità, il linguaggio e la mente», passo in avanti che, prosegue Seddone, giustifica il fatto che questi autori abbiano «dovuto “buttare a mare” l’apparato metafisico e realista della tradizione in quanto riduttivo e limitante rispetto alla natura pragmatica e storica del sapere». Qui propriamente i problemi sono due. Il primo è se ci può essere un passo in avanti di qualche sorta nella scoperta della verità. Non sono sicuro che qualcosa del genere possa aver luogo, mentre è altamente auspicabile, mi pare, che si scoprano delle nuove verità, nel senso di aumentare il numero delle proposizioni vere. Ma questo, ovviamente, è tutto un altro paio di maniche. L’intrinseca problematicità dell’inventare una nuova nozione di verità si può spiegare con un semplice esempio. Immaginiamo che un coniuge chieda a un altro “è vero che mi tradisci?”. Se l’interrogato risponde “in che senso”, anche lo spirito più semplice capisce che non sta elaborando una nuova nozione di verità, o che pensa che esista più di una verità, ma che semplicemente è vero che ha tradito. E questo vale anche in faccende ben più serie: i revisionismi, prima di tutto, e poi la loro ovvia conseguenza, i negazionismi. Dire addio alla verità, o formarne di nuove (due cose che in buona sostanza si equivalgono) è l’ovvia premessa a questo genere di operazioni. O meglio la loro giustificazione ideologica. E la premessa alla conclusione di tutte le dottrine sulla prevalenza del contesto, della prassi o di quel che si vorrà: la ragione del più forte è sempre la migliore.
22Petar Bojanić a giusto titolo insiste sul ruolo dell’istituzione nella riflessione che da Husserl porta a Merleau-Ponty, a Ricoeur e a Derrida. Si tratta della genealogia che sta alla base di una idea come quella della grammatologia, e che ritengo di aver portato avanti a mia volta proprio attraverso l’appello alla documentalità. Gli sono dunque molto riconoscente per un contributo che ha il merito di illuminare le origini della mia riflessione sui documenti, che in effetti risalgono alla lettura, molti anni fa, della introduzione di Derrida alla Origine della geometria di Husserl (1962), là dove si fa notare che la stessa costituzione degli oggetti ideali sarebbe impossibile in assenza di scrittura. A ben vedere, tutto il mio lavoro, in questa direzione, è semplicemente consistito nel limitare la portata di questa affermazione, che per l’appunto non riguarda gli oggetti ideali e quelli naturali, ma i soli oggetti sociali.
23La mia riflessione sulla documentalità vuole anche essere una alternativa alla spiegazione della realtà sociale in termini di intenzionalità collettiva, di attività più o meno cooperativa. Come si spiega la strage della scorsa estate in Norvegia, per esempio? È ancora una forma di attività cooperativa? Questi problemi della intenzionalità collettiva, il suo irenismo (anche al di là della versione di Searle) si riconoscono bene nell’intervento di Raffaela Giovagnoli. Che sembra vedere il motivo di fondo della intenzionalità collettiva nella possibilità di un agire altruistico. Il che forse è anche vero. Ma se le cose stanno in questi termini dobbiamo rinunciare a considerare l’intenzionalità collettiva come base della realtà sociale, e piuttosto porla a fondamento (come sono personalmente convinto che si debba fare) di una teoria armoniosa ma irrealistica. Per esempio, l’attuale crisi economica, e i movimenti speculativi in atto, sembrano spiegarsi infinitamente meglio con una teoria della volontà di potenza (l’organismo economico preferisce distruggersi pur di affermare la propria potenza) che non con l’intenzionalità collettiva – che anzi in questo quadro ha una potenza esplicativa pari a zero.
24Come osserva giustamente Venanzio Raspa, Searle ha troppa tenerezza nei confronti delle cose del mondo, giacché ci presenta una società fatta interamente di concordia e di cooperazione. Il conflitto non è, purtroppo, una parentesi. Raspa invita a considerare l’esempio del confine proposto da Searle in La costruzione della realtà sociale (1995): prima è una barriera fisica, poi diventa una barriera simbolica. Sì, ma posto che quel confine sia stato messo da un colono che vuol procedere all’appropriazione del territorio e alla distruzione dei nativi, come dobbiamo giudicare tutto questo? E, prosegue Raspa, dobbiamo pensare che si tratta semplicemente di una forma di “cooperazione” (nel qual caso, sarebbe cooperazione alla distruzione reciproca o, più correttamente, all’autodistruzione)? E che razza di cooperazione c’è nei sans papiers o in coloro che hanno dovuto subire i referendum della Fiat nel 2010 e nel 2011? È non rendersi conto della dimensione intimamente conflittuale dell’esistenza, e questo lo dico non per esaltare il conflitto, ma per far notare che sino a che non lo si riconosce è molto difficile portare giustizia.
25Che ci si possa rovinare la vita per i documenti non è semplicemente un esperimento mentale. È una esperienza reale, che trova la sua più piena realizzazione e drammatizzazione nella storia filosofica (e per sua disgrazia vera) che viene raccontata da Ivo Kara-Pešić nel suo amichevole contributo. Che potrebbe essere un controesempio rispetto a quanto affermato, con rigore e umorismo, da Richard Davies, che ha la pazienza di esaminare tutti gli esempi di matrimonio che riporto nel libro, nonché uno che ho riferito oralmente durante una conferenza, e infine anche di proporre uno splendido controesempio di matrimonio tra un giocatore di cricket pakistano e una tennista indiana. La tesi di Richard è che il matrimonio non sia una buona idea, o almeno un buon esempio, per illustrare il ruolo dei documenti nella costruzione degli oggetti sociali. Perché, osserva Richard con una gran messe di argomenti, abbiamo una quantità di casi in cui può esserci matrimonio senza documenti. Ora, è evidente che il matrimonio è una istituzione che si manifesta in molti modi e che ovviamente risente della storicità caratteristica di qualunque istituzione. Se lo avevo privilegiato era perché si tratta di un esempio classico di performativo al centro della riflessione di Austin, che per l’appunto si concentrava sul potere fatale di un “sì” nel cambiare lo status di due persone, ma (come ha osservato Derrida) non considerava che tutta l’operazione sarebbe stata vana se non ci fossero state delle iscrizioni. Ovviamente ci possono essere controesempi, che mi guardo dal sottovalutare e che mi ripropongo di esaminare con maggior cura. In particolare, per ciò che attiene alla questione se un matrimonio di cui nessuno sa niente esista o meno. Richard sostiene che esisterebbe, e lo dimostra sostenendo che se ci fosse Alethina, una pillola che controbilancia gli effetti dell’Amnesina (il prodotto che provoca oblio nel mio argomento a favore della dipendenza del matrimonio dalla memoria), allora il matrimonio esisterebbe. Ma qui il punto è: esisterebbe o tornerebbe a esistere? Un oggetto sociale si caratterizza per i suoi effetti, e un matrimonio di cui nessuno sa niente non esiste in quanto non ha effetti. La situazione non mi sembra molto diversa da quella per cui uno storico trovasse un testamento del Medioevo, che non era stato conosciuto dagli eredi diretti perché era finito in una fessura del pavimento. Da quel documento lo storico potrebbe arguire i beni del testatore, ma il documento non ha avuto alcuna efficacia (la trasmissione ereditaria non c’è stata) perché all’epoca nessuno ne sapeva niente. Richard ricorda anche che io stesso propongo il caso di un matrimonio di cui tutti hanno perso memoria, e che tornerebbe a esistere se uno degli sposi inconsapevoli, o qualcuno che li conosce, ne trovasse il relativo certificato. Il che mi sembra dimostrare la stretta dipendenza del matrimonio dai documenti, almeno nella nostra cultura, e non la sua indipendenza, come sembra suggerire Richard. Per concludere, l’argomento più forte a favore della dipendenza del matrimonio dai documenti nella nostra cultura è l’esperienza, tutta e interamente burocratica, del divorzio. Se per annullare qualcosa ci vogliono così tante scartoffie, oso immaginare che quel qualcosa avesse molto a che fare, e non in modo accidentale, con le scartoffie.
26Il generosissimo e amichevole scritto di Alfredo Ferrarin ha obiezioni storiche e teoriche importanti. Tra le storiche, c’è quella per cui non è vero che Kant non si è occupato di oggetti sociali. Su questo punto, Alfredo ha perfettamente ragione: che Kant non si occupi di oggetti sociali è la convinzione di Searle, ma non tiene conto del fatto che Kant ha scritto, per esempio, l’Antropologia pragmatica e la Metafisica dei costumi. Io però in Documentalità mi limitavo a riportare l’asserzione di Searle all’inizio della Costruzione della realtà sociale e a osservare (lo ribadisco anche adesso) che Kant avrebbe dovuto applicare il trascendentale al mondo sociale e non al mondo naturale, come del resto era già stato asserito sin dai tempi di Dilthey. Alfredo obietterà che un trascendentale storico è un ferro ligneo, e io tornerò a dire che si tratta di un quasi-trascendentale, ed è proprio ciò che ho cercato di esprimere attraverso la nozione di “documentalità”: “non ridere ai funerali” è certo un precetto storico, ma questo non lo rende meno vincolante, e costitutivo di quella specifica forma di esperienza sociale che è il funerale.
27Alfredo poi mi rimprovera di escludere, attraverso il richiamo alla documentalità, l’immaginazione e la ragione, l’intenzionalità in senso nobile. Mi spiace di aver dato questa impressione in Documentalità, ma qui comunque si tocca il problema (che ho sviluppato in particolare in Anima e iPad), mentre in Documentalità era solo accennato, di che cosa venga prima, se le intenzioni o le iscrizioni. E l’idea che difendo è ovviamente che vengono prima le iscrizioni, d’accordo con l’ipotesi dell’archiscrittura. Abbiamo così due circostanze che rivelano la struttura sociale della mente. Da una parte, la mente non può sorgere se non viene immersa in un bagno sociale, fatto di educazione, linguaggio, trasmissione e registrazione di comportamenti. Dall’altra, l’enorme categoria degli oggetti sociali non potrebbe esistere se non ci fossero soggetti che pensano che esistano. Piuttosto che disegnare un mondo a totale disposizione del soggetto, la sfera degli oggetti sociali ci rivela l’inconsistenza del solipsismo: che al mondo ci siano anche degli altri, oltre a noi, è provato proprio dall’esistenza di questi oggetti, che non avrebbero ragion d’essere in un mondo in cui ci fosse un solo soggetto. Se non fosse possibile tenere traccia non ci sarebbe mente, e non a caso la mente è tradizionalmente rappresentata come una tabula rasa, come un supporto su cui si iscrivono impressioni e pensieri. Ma senza la possibilità dell’iscrizione non ci sarebbero nemmeno gli oggetti sociali, che consistono per l’appunto nella registrazione di atti sociali, a partire da quello, fondamentale, della promessa.
28Senza parlare dei casi – come quello analizzato da Davide Grasso – in cui apertamente l’intenzionalità è orientata dalla documentalità, anzi, può rivolgersi a essa come a un proprio scopo, come nella vicenda della ricostruzione della Sagrada Família dopo l’incendio che, nel 1936, non solo aveva distrutto la chiesa, ma anche la cripta in cui erano custoditi i piani preparatori, gli schizzi e i progetti. Si potrebbe senza difficoltà estendere questa circostanza a ogni interpretazione, dove con ogni evidenza l’intenzionalità si orienta verso la documentalità. Lo stesso potrebbe dirsi, a maggior ragione, per l’oggetto musicale cui dedica delle sottilissime analisi Alessandro Arbo: un oggetto che non consiste nei suoni, semplicemente, che sono eventi naturali, ma che trova la sua ragion d’essere in una iscrizione, che non è necessariamente una partitura, ma che è comunque una struttura di iterazione. Proprio l’apparente spontaneità di una jam session è la migliore dimostrazione del fatto che anche quella intenzionalità che si presenta come libera è preceduta da una iscrizione.
29Per quanto riguarda il contributo di Francesca De Vecchi, ci sono due punti su cui vorrei ribadire la mia posizione. Il primo è quello del realismo fenomenologico come platonismo sociale in Reinach. Francesca è convinta che non si tratti di platonismo (come io invece sostengo quando critico il “realismo forte”), e osserva che in Reinach «il contrasto tra diritto apriori e diritto positivo risiede nel fatto che le proposizioni del diritto positivo sono deroghe ovvero modificazioni rispetto alle proposizioni del diritto apriori». Ora, mi sembra che proprio questo sia una conferma palese del platonismo di Reinach, perché il rapporto tra il diritto apriori e il diritto positivo è esattamente quello che intercorre tra le idee e le cose del mondo in Platone: anche Platone sapeva benissimo che le cose del mondo rispecchiano soltanto le idee, ma ne sono appunto delle deroghe, delle riproduzioni imperfette, proprio come nessun triangolo disegnato sulla terra sarà mai così perfetto come l’idea di triangolo. Al di là della esegesi reinachiana, considero molto interessante l’idea di ipotizzare una intenzionalità sociale come distinta dalla intenzionalità collettiva e dalla intenzionalità individuale. Mi domando tuttavia se una simile intenzionalità non sia, per l’appunto, il risultato di una educazione (sappiamo infatti che ci sono contesti con maggiore o minore cooperazione sociale), e dunque non sia semplicemente un altro nome per quello che chiamo “documentalità”. Quello su cui invece non sono d’accordo con Francesca è la tesi secondo cui tra gli atti linguistici a cui si richiama Searle e gli atti iscritti a cui mi richiamo io non c’è una differenza di fondo. Non credo che sia così, perché Searle considera accessorio il ruolo della iscrizione (anche se lo presuppone), mentre io lo considero fondamentale: se non ci fosse memoria degli atti, gli oggetti svanirebbero. Per non dire poi del fatto che considerare gli atti sociali come atti linguistici non rende conto dei moltissimi atti (forse la maggioranza) che avvengono senza parole, dal cedere il passo allo stringere la mano, dal prendere soldi al bancomat al cliccare per autorizzare un pagamento.
30Quanto ho appena detto si ricollega alle considerazioni svolte a proposito dell’archiscrittura. Prendo lo spunto da una osservazione di Illetterati, che dichiara di non condividere l’idea che le iscrizioni precedano e producano lo spirito. «E questo non perché, si badi bene, io ritenga che invece lo spirito preceda e produca le intenzioni». Illetterati sostiene che «le iscrizioni sono di fatto esse stesse lo spirito […] lo spirito è qualcosa solo nella sua oggettivazione». Che è appunto la tesi di Hegel, che tuttavia non ci risponde alla domanda su dove fosse quello spirito prima di oggettivarsi. Se si dice che lo spirito si dà solo nella oggettivazione, allora o la tesi equivale alla mia, e cioè che la traccia precede e produce lo spirito con un effetto retrogrado, oppure equivale alla tesi secondo cui è lo spirito che produce la traccia, che è appunto l’idea dell’Homunculus, da cui peraltro Illetterati si vuole, a giusto titolo, distanziare. Mi sembra insomma che non ci sia una terza via. Un sistema di iscrizioni produce le intenzioni, all’azione segue il pensiero, è così strano? La regola della vita psichica sembra essere proprio questa, chi non si è mai trovato a scoprire le proprie intenzioni comunicandole ad altri? Ciò detto, ripeto, se si dice che spirito e traccia si danno assieme sembra una mediazione molto saggia e hegeliana, ma in effetti è un equilibrio instabile che deve evolvere o nello spiritualismo dell’Homunculus o nel materialismo della tabula.
31In fondo, come sottolinea Elisabetta Brizio, io faccio notare che la registrazione è assimilabile alla différance, al differimento, che diventa qualcosa di molto meno oscuro di quanto non appaia in Derrida. Non è poi così difficile immaginare che la registrazione, la documentalità, sia all’origine della coscienza e della intenzionalità. Se assumiamo che non c’è pensiero senza memoria (ed è proprio ciò che rende così detestabile lo spettro dell’Alzheimer), allora si capisce il meccanismo della documentalità come produttrice di intenzionalità. Supponi di avere un deposito A, una registrazione qualunque. Poi un deposito B, un’altra registrazione. Il fatto che siano registrate le pone in rapporto reciproco (e le differenzia), e permette a entrambe di sopravvivere nel tempo, di durare, di differirsi. Ecco i requisiti minimali della coscienza.
32Colgo l’occasione per dissipare un equivoco a proposito del circolo vizioso che, secondo Edoardo Fugali e altri commentatori, si creerebbe nel rapporto fra traccia e spirito. Poiché io asserisco che lo spirito è un risultato della traccia, e che c’è traccia solo per uno spirito che la contempla, alcuni ravvisano in questo una circolarità. Sarebbe, alla lettera, come trovare una circolarità tra il fatto che solo in una società in cui c’è il denaro si può essere speculatori, avari, parsimoniosi o disinteressati, e il fatto che il denaro esiste soltanto per gli uomini, e gli animali non sanno che farsene. In altri termini, lo spirito viene prima modellato dalle tracce che riceve dall’esterno, e poi diviene capace di riconoscere delle tracce.
33Giuliano Torrengo a giusto titolo fa notare – in un intervento per me illuminante – che Searle immagina che lo stesso tipo di dipendenza del sociale da pensieri individuali, che si trova in piccoli gruppi, verrebbe a trovarsi anche in gruppi complessi. In altri termini, Searle sembra incapace di render conto della differenza tra la democrazia diretta e la democrazia rappresentativa. È un punto che ho successivamente sviluppato in Anima e iPad, e che Torrengo propone di esaminare come la “deferenza” di cui parla Putnam (1975). Noi non abbiamo una dettagliata conoscenza del mondo sociale (altrimenti i sociologi e gli economisti sarebbero ancora più inutili). Dopotutto, Searle commette per la società lo stesso errore di Cartesio. Cartesio pensava che il cogito fosse la cosa più evidente, sottovalutando il fatto che il lavoro degli psicoanalisti non è di tutto riposo, e Searle sottovaluta l’intrasparenza, la deferenza e il seguire la regola ciecamente che costituiscono in effetti i caratteri essenziali del nostro stare nel mondo sociale. Torrengo sottolinea anche un secondo carattere del mondo sociale, la sua autonomia documentale o indipendenza procedurale. Il fatto che gli oggetti sociali dipendano da soggetti non significa che questi soggetti possano mutarne il corso con semplici atti di volontà. Se una partita finisce 2 a 0, non basterà che i tifosi della squadra perdente vogliano o per qualche motivo credano che è finita 0 a 2 per cambiare il risultato – e se ciò avviene si tratta con ogni evidenza di un imbroglio. Come nota giustamente Torrengo, «non è il contenuto delle effettive intenzioni dei partecipanti dell’atto sociale che sta alla base dell’oggetto sociale». Proprio per questo Searle non riesce a vedere la differenza tra una rivolta studentesca, o il momento in cui qualcuno perde prestigio in famiglia o in un salotto, e il momento in cui ha luogo una effettiva cessione di potere. Nel caso della documentalità, invece, è richiesta una collaborazione e una adesione molto più debole – prossima allo zero, se guardiamo la cosa con gli standard morali. Più o meno quella che viene richiesta per i contratti online, non letti e non compresi, eppure firmati dagli utenti perché hanno bisogno del servizio e compiono un atto di deferenza totale. E probabilmente, aggiungo, l’adesione documentale ha molto più a che fare con la mimesi, il conformismo sociale, il timore, il fondamento mistico dell’autorità – che non ciò che ci viene descritto con la visione ipercoscienzialistica della intenzionalità collettiva. Non si va avanti a colpi di coscienza e di intenzionalità, neppure nei gruppi parlamentari (rari sono i casi in cui si vota secondo coscienza, e sono espressamente codificati). Si deferisce ad autorità, regole e iscrizioni, spesso non comprese, esattamente come nelle preghiere in latino (la transustanziazione avviene anche se nessuno capisce niente) o nelle formule magiche. Poi, in taluni casi, rari, ha luogo la presa di coscienza, l’adesione o il rifiuto consapevole rispetto alle regole.
34Quanto ho detto a proposito della lettura di Torrengo mi permette di entrare in dialogo con le osservazioni di Alessandra Fussi, che, con garbo, e onorandomi di un lusinghiero e protratto paragone con Hobbes, suggerisce che io sia inumano, e che le mie intenzioni e sentimenti si riducano tutte alla scrittura. In effetti è proprio così, come ho cercato di chiarire parlando della genesi della intenzionalità nella documentalità, e la mia consolazione è di non essere da solo. A giusto titolo Alessandra osserva che la mia nozione fondamentale del sociale consiste nel controllo, e anche in questo caso credo che abbia visto bene: c’è un senso in cui si resta foucaultiani in eterno, e sono sicuro che Foucault ha agito molto, anche se non lo sapevo e non ci pensavo, nella mia formulazione di tutto il discorso sulla documentalità. Alessandra osserva anche che tuttavia, nel richiamo a Hobbes, manca la tridimensionalità del corpo, e la spada, come dire, ancora una volta, che nella mia descrizione del mondo sociale e della coscienza manca la vita. Ma non ne sono sicuro, proprio in forza del nesso tra intenzionalità e documentalità. Da una parte, la spada non è affatto assente, se è vero che ne uccide più la penna che la spada, ma soprattutto quello che credo sia particolarmente interessante nel mondo sociale è proprio il modo in cui i nostri sentimenti e i nostri comportamenti più autentici e radicali possano avere una origine documentale. Insomma, vale un po’ per tutti quello che Proust dice una volta di Swann, e cioè che non solo la forma, ma persino la sostanza, della sua esperienza, veniva da lui, da questo personaggio esemplare, così come (è successo a me ma immagino di non essere il solo) molto di quello che mi è accaduto nella vita è stato preparato, reso possibile e credibile, da cose viste o lette, cioè appunto dalla documentalità letteraria, senza parlare poi dell’immane peso pratico (e modellizzante) della documentalità burocratica.
35C’è un caso interessante di deferenza, come suggerisce Pietro Kobau nel suo intervento che propone una acuta valorizzazione di una teoria su cui negli ultimi anni c’è stato molto sospetto, e cioè la teoria “contestuale” per cui si assume che lo statuto dell’opera venga dal parere che su quell’opera esprime un determinato contesto di esperti e autorizzati, il “mondo dell’arte”. La versione di Kobau è pienamente documentale. In effetti, perché un’opera sia un’opera è sufficiente che abbia un titolo o un’etichetta, ovviamente nelle sedi opportune. Al limite, suggerisce Kobau con un autentico colpo di genio, da una scritta come “Si prega di non toccare”. Una scritta di questo genere si limita a suggerire deferenza, ed è ciò che fa dell’opera un’opera. Per anni ho avuto un atteggiamento deferente nei confronti di molte opere, perché mi avevano insegnato che era arte e che all’arte si riserva deferenza. Poi molta di questa deferenza se ne è andata, sostituita da un amore profondo per certe opere e da una indifferenza o fastidio per moltissime altre. Ma anche di fronte all’opera che più mi disgusta ubbidirei al cartello “Si prega di non toccare”.
36Il che, per chiudere in bellezza, mi permette anche una replica a Paolo D’Angelo, che nel suo generosissimo intervento afferma – in cauda venenum – che l’ontologia dell’opera d’arte non dice l’essenziale dell’opera d’arte, e cioè che cosa fa di X un’opera d’arte. Sono d’accordissimo, è proprio quello che sostenevo nel libro. Dove dicevo che l’opera è un documento, e notavo che anche lì il potere dei documenti dipende da altri documenti. Ora, è esattamente così per l’opera d’arte, espressione che a ben vedere nasconde un principio di classificazione (opera vs. cosa qualunque) e uno di valutazione (bello vs. brutto). Come sostiene Kobau, per quanto riguarda il livello della classificazione, basta l’etichetta “Si prega di non toccare” (e dunque basta il documento). Ma ovviamente non basta per la valutazione, nel senso che nessun documento può far piacere qualcosa (anche se ovviamente spesso ci prova, e magari ad aumentare l’apprezzamento può bastare quel minimo ma decisivo documento che è il cartellino del prezzo). Comunque grazie a D’Angelo, compagno di cammino sin dai tempi della nostra infanzia accademica, generosissimo nei complimenti e acutissimo nel leggere. Tanto è vero che mi prende in castagna bonariamente:
Un aneddoto molto divertente è legato a Gadamer – scrive Paolo. Questi parlando di Husserl una volta disse che “era nato in uno di quei luoghi in cui l’Europa si confonde con l’Asia”, mentre Husserl è nato a Prossnitz, in Moravia, nel 1859. Allora la città faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico, mentre oggi si chiama Prostejov (o Pribor) e fa parte della Repubblica Ceca. Curiosamente, Ferraris scrive invece che un tempo la città si chiamava Freiberg (forse sovrapponendo il nome della città, Freiburg in Brisgovia, dove Husserl è morto il 26 aprile del 1938).
37Touché, anche se a sua volta Paolo commette un lapsus freudiano, alla lettera, quando afferma che la città oggi si chiama “Prostějov (o Příbor)”. In effetti, Prostějov (o Prossnitz che dir si voglia, insomma la città natale di Husserl) non è Příbor. Příbor, un centinaio di chilometri più a est, quasi sul confine polacco è dove è nato Freud – e un tempo si chiamava appunto Freiberg. La colpa ovviamente è comunque tutta mia, che ho scritto: «è Freiberg, l’attuale Příbor nella Repubblica Ceca, città natale di Husserl», fenomenologizzando ove si doveva psicoanalizzare.