- 1 Berto 2010.
- 2 Cfr. Vattimo 2009.
1Quando uscì Documentalità ebbi l’occasione di recensirlo su un quotidiano nazionale1. Questo spazio sulla “Rivista di estetica” mi permette di sviluppare un poco quelle considerazioni. Quasi tutte le recensioni del libro di Ferraris che ho letto hanno il dono di non parlare dei suoi nodi teoretici cruciali. Di conseguenza, non parlano neanche dei (possibili) veri problemi2. Io ne ho uno da proporre.
2Come quasi tutti i filosofi italiani ormai sanno, Documentalità è anzitutto l’esposizione di un’ontologia degli oggetti sociali, ossia un’articolata risposta alla domanda: cosa sono? La prima osservazione da fare è che cose come i mutui, le istituzioni universitarie, le tornate elettorali, il danaro, i matrimoni e i funerali, le roadmap aziendali e le quotazioni in borsa, sono fra quelle che pesano di più nelle nostre vite; che si tratti di oggetti molto importanti rende importante di per sé un libro che se ne occupi seriamente
3La seconda osservazione è che lo statuto di queste cose è un po’ paradossale. Se non ci fosse la carta non ci sarebbero le banconote (non virtuali), e se non ci fossero firme su scartoffie e crocette su schede elettorali, non ci sarebbero mutui né elezioni più o meno democratiche. D’altra parte, è il suo statuto di danaro a rendere interessante il pezzo di carta che ora ho in tasca (una banconota da 20 dollari): fosse solo un rettangolo di carta lo getterei nel cestino, invece non lo faccio. E certe righe di inchiostro su alcuni fogli depositati presso un notaio veneto sono nei miei pensieri, perché si dà il caso che quegli scarabocchi siano la mia firma sui documenti del mutuo di casa mia. Già questo ci annuncia che gli oggetti sociali sono un po’ un puzzle ontologico: cose piuttosto volatili ma tremendamente importanti, che dipendono ontologicamente da oggetti molto concreti, ma di scarso rilievo.
4La terza cosa da tener presente per apprezzare Documentalità, è che è stato scritto sullo sfondo de – e avendo come bersaglio polemico la – teoria mainstream sugli oggetti sociali: quella di John Searle. Il motto su cui si basa la teoria searliana, e che è ampiamante discusso nel libro, consiste nell’affermazione che X conta come Y (nel contesto C) sulla base dell’intenzione collettiva di trattarlo come tale – dove X varia su oggetti materiali, e Y su oggetti sociali (non escluderei oggetti sociali che dipendono da altri oggetti sociali, i quali quindi rientrerebbero nel dominio della X – ma è una complicazione che possiamo tralasciare).
5L’esempio della banconota è il più famoso: X è un pezzo di carta che si trova nella mia tasca, e conta come Y, una banconota da 20 dollari, nel contesto C dell’economia attuale, perché abbiamo convenuto che sia utilizzabile come avente un certo valore di scambio ecc. Sembra che lo schema searliano funzioni anche per cose più complesse – per esempio, l’università di Notre Dame in cui mi trovo ora: X è un complesso oggetto fisico che si trova in Indiana, costituito da muri, aule, vialetti, biblioteche, uffici, residenze, padiglioni sportivi; e conta come Y, l’università in questione, sulla base di un accordo intenzionale collettivo per cui X viene utilizzato per svolgere quel complicato insieme di funzioni che associamo alla vita universitaria.
6La teoria di Searle è stata criticata da vari autori – per esempio, da Barry Smith – perché è troppo riduzionista: tratta gli oggetti sociali come nient’altro che oggetti fisici a cui noi attribuiamo rilevanza sociale3. Ferraris, invece, ha problemi proprio con quel “noi attribuiamo”: Searle basa la sua analisi su quello che la gente intende e attribuisce, ossia sulla nozione di intenzionalità. In un’epoca di naturalizzazione della filosofia, questa è notoriamente sospetta. Ci sono, beninteso, studi molto importanti e scientificamente rispettabili in proposito. Il problema della teoria di Searle è però che usa, più specificamente, il concetto di intenzionalità collettiva: a qualcuno potrebbero venire in mente i borg di Star Trek, che comunicano in wireless telepatico. Per stare più sul classico della filosofia, si potrebbe pensare al Weltgeist di Hegel, o a nozioni come quella di spirito oggettivo. Ferraris sostiene che quella di intenzionalità collettiva è un’entità decisamente misteriosa. Ma ritiene anche che non abbiamo bisogno di questo deus ex machina, almeno, e probabilmente non solo, per fare ontologia degli oggetti sociali.
7Tutti sono d’accordo sul fatto che gli oggetti sociali vanno fondati su qualcos’altro – su entità di altro tipo; alla combinazione searliana oggetti materiali + intenzioni, Ferraris propone però di sostituire, nel ruolo di fondamento, i documenti: le registrazioni, la scrittura intesa in un’accezione ampia, in qualche senso più originaria anche del nostro linguaggio ordinario, e che Ferraris chiama “archiscrittura”, prendendo il vocabolo da Derrida. A detta di Ferraris, possiamo avere un’ontologia degli oggetti sociali fondata sulle (buone) scartoffie, senza (cattive) intenzioni (collettive, o meno).
8Prima facie, l’opzione promette bene: la nozione di intenzionalità in Searle serviva a spiegare il fatto che gli oggetti sociali differiscono da cose naturali qualsiasi, come i mucchi di neve e le foglie d’acero, perché dipendono da noi: non esisterebbero se non ci fossimo noi, soggetti pensanti. D’altra parte, la base materiale (il dominio della X nel motto searliano) rendeva conto di un altro fatto importante che riguarda queste cose: di norma, sono solidamente nello spazio e nel tempo pubblici; non sono affatto mere rappresentazioni mentali. Il mio mutuo non esiste solo nella mia testa (purtroppo, mi dico a volte): è stato realmente contratto da me, in una banca vicino a Venezia, qualche anno fa. Ora, agganciarlo ai documenti sembra un modo alternativo, e migliore di quello searliano, per tenere conto di entrambe le caratteristiche: una scartoffia è insieme un oggetto materiale, pubblico e ben collocato nello spazio-tempo, e un prodotto dell’attività di soggetti razionali. Forse abbiamo trovato un modo per spiegare gli oggetti sociali, senza cadere nelle oscurità in cui si sono storicamente avvolte le scienze dello spirito – per cominciare, appunto, il concetto di Geist. Questa intuizione è espressa dal motto che Documentalità oppone a quello di Searle – nel caso, un’equazione: “Oggetto = Atto iscritto”. Secondo Ferraris, gli oggetti sociali sono fatti di iscrizioni.
- 4 Qualche mio amico, ontologo riduzionista, avrebbe forse un’obiezione a quest’uso della (contrappos (...)
9L’ontologia di Documentalità è un capitolo dell’ambizioso progetto di Ferraris, teso a ribaltare un tradizionale ordine di priorità assegnato nel pensiero occidentale, diciamo, quantomeno da Aristotele a Hegel: prima viene il pensiero, poi la parola, poi la scrittura. All’inizio del De interpretatione Aristotele afferma la gerarchia: i suoni della voce (τὰ ὲν tῇ φωνῇ) sono simboli (σύµβολα) delle affezioni che hanno luogo nell’anima (ὲν tῇ ΨυϬχῇ), e le lettere scritte (γραφόμενα) sono simboli dei suoni della voce. Più che dire che, secondo Ferraris, questa gerarchia va ribaltata, sarebbe meglio affermare che a suo parere c’è qualcosa che sta alle spalle di tutte e tre le cose: l’archiscrittura. Ma cominciamo con “Oggetto = Atto iscritto”. Che gli oggetti sociali siano fatti di iscrizioni, non può voler dire che un oggetto sociale è identico alle iscrizioni corrispondenti, se queste sono prese come cose qualsiasi – ovvero, nel caso, come oggetti materiali. Il mio mutuo non può essere quella cosa che è l’inchiostro sulle risme di fogli protocollo nell’archivio del notaio. Non si può dire che il mio mutuo sia nient’altro che l’inchiostro, perché ha proprietà che questo, come oggetto materiale, non ha: per esempio, è a tasso variabile; ma di certo l’inchiostro non è a tasso variabile4.
10Se gli atti scritti sono identici a oggetti sociali, allora, lo saranno non in quanto oggetti materiali qualsiasi, ma in quanto oggetti materiali che sono anche σύµβολα, segni. Se le iscrizioni sono il fondamento delle cose sociali, è perché sono “tracce”, dice Documentalità: rinviano a qualcosa di altro da sé. Senza rinvio, niente segno; senza segno, niente oggetto sociale: se l’inchiostro sulla carta del mutuo fosse solo inchiostro, non ci sarebbe il mutuo ma solo la carta inchiostrata. È perché quei ghirigori di tratti d’inchiostro sono anche un sistema di segni, che c’è il mutuo.
11Ora, perché ci sia un segno occorre una cosa che sia il significato di quel segno. “Maurizio Ferraris”, il nome che avete appena letto dentro le virgolette, non è solo una serie di macchie di inchiostro nero sulla carta, ma anche un segno, perché c’è una cosa, ossia Maurizio Ferraris, che è significata da quel segno: è il qualcosa di non presente, a cui il segno rinvia.
12Questo è naturalmente un modo un po’ povero per spiegare i segni. “Rinvio a qualcosa” coglie tuttavia l’essenziale della faccenda. Uno può senz’altro concedere che nel concetto di archiscrittura di Derrida, a cui Ferraris si appoggia, ci sia di più che nel nostro ordinario concetto di scrittura – o che quello sia più ampio di questo, o più profondo, o più fondamentale: per esempio, perché i segni dell’archiscrittura non sono mai rinvii a significati dati, o a cose che sono puri significati, ma sempre ad altri segni; sicché l’archiscrittura non sarebbe riducibile alla famosa metafisica della semplice-presenza, al logocentrismo dell’Occidente, o alla distinzione fra parola scritta e non; eccetera, eccetera. Si può anche assumere che l’archiscrittura sia gesto o significazione originaria, nel senso che precede in vari modi quello che chiamiamo linguaggio ordinario: forse menti che sono, in qualche accezione del termine, tabule rase linguistiche e concettuali, sono capaci di segno e significazione – lo sono, s’intende, prima di disporre di qualcosa di simile al linguaggio ordinario. In particolare, certe menti possono produrre ideogrammi, simboli, segni vari prima di possedere una cosa come un alfabeto.
13Resta il fatto che si tratta di segni, σύµβολα: oggetti che non sono solo cose materiali qualsiasi. Sono anche quello, ma in più “rinviano a qualcosa”, ovvero, si riferiscono a significati. Che queste cose che sono significati siano, derridianamente, altri segni, mai puri significati ecc., non è un problema: l’essenziale è che ci siano, e che siano ciò a cui quegli altri segni da cui eravamo partiti si riferiscono.
14Ebbene, la relazione di riferimento di un segno alla cosa che significa è una delle cose più difficili da spiegare. I più elaborati tentativi di naturalizzarla – per esempio riducendola a relazioni causali – tentati dalla filosofia contemporanea, hanno vita dura. Spesso i filosofi non trovano di meglio che ricorrere alla nozione di… intenzionalità. In Nome e necessità, il libro più celebrato della filosofia analitica contemporanea, Saul Kripke ha sostenuto che un’analisi del riferimento in termini di nozioni più primitive, che non menzionino il riferimento, è un’impresa disperata5. Il meglio che si può fare è raccontare una storia su come gli uomini, per il fatto di vivere in società, si trovino coinvolti in un certo insieme di nessi causali, e abbiano certe intenzioni sul rinvio segnico. Per Kripke possiamo dire che “Maurizio Ferraris” è un segno di qualcosa, o un rinvio a qualcosa – che riusciamo a riferirci a Maurizio Ferraris usando il nome “Maurizio Ferraris”; che riusciamo a usare “Maurizio Ferraris” come segno che rinvia a Maurizio Ferraris – perché chi ha cominciato a usare così, come segno, quella cosa, intendeva che rinviasse alla cosa significata; e noi abbiamo l’intenzione di riferirci alla stessa persona cui si riferiva chi ha inteso usare quel segno per riferirsi al filosofo. Ricondurre gli oggetti sociali a oggetti testuali cui sopravvengono, o meglio, con cui sono identici, ma in quanto segni (non in quanto meri oggetti materiali qualunque), difficilmente ci libererà dell’intenzionalità, ovvero dello “spirito” o dei “pensieri”, a meno che uno non produca una spiegazione del riferimento – la relazione semantica fondamentale – che ne faccia a meno.
15Si potrebbe osservare che Kripke parlava di nomi; e i nomi sono soltanto un tipo molto specifico di pezzi di linguaggio, che potrebbe avere un funzionamento sui generis; e sono comunque pezzi di linguaggio nel senso che sono segni appartenenti ai nostri linguaggi ordinari. Sicché queste osservazioni non si generalizzano facilmente a quella cosa più originaria che dovrebbe essere la “segnità” in cui consiste l’archiscrittura.
- 6 Strategie che cercano di fare emergere la semantica come risultato di una certa articolazione, str (...)
16Ma non è vero che quelle osservazioni non si generalizzano. Intenzioni da un segno al suo referente, e catene di trasmissione del riferimento basate sulle nostre intenzioni, sono essenziali all’esistenza stessa di segni. Il fatto non riguarda specialmente i nomi del nostro linguaggio ordinario. Normalmente, quando uno adopera un segno, lo fa con l’intenzione che quel segno porti il riferimento che porta; e noi intendiamo usare normalmente il segno per rinviare alla stessa cosa a cui rinviava per quelli da cui l’abbiamo appreso. Sicché ci serve una mente, e una che intenda qualcosa. La quarta parte di Documentalità ospita una risposta articolata e riccamente argomentata a questo tipo di problemi, basata sulla nozione di imitazione, e sull’idea che la creazione di significati sia basata sull’iterazione segnica6. Ferraris sostiene che la mente stessa è una tabula che raccoglie iscrizioni, e che quella delle iscrizioni mentali che precedono il linguaggio ordinario non è solo una metafora. Eppure: queste iscrizioni nella mente, se non sono cose qualsiasi ma cose che sono anche segni, lo saranno perché rinviano a, ossia significano, ossia si riferiscono a, qualcosa. Come fanno? Wittgenstein notoriamente non amava, al pari di Ferraris, il mentalismo in generale, e in filosofia del linguaggio in particolare. Di fronte a spiegazioni del rinvio segnico basate sull’idea di iscrizioni nella mente, lamentava che queste cose nella mente, se non sono cose qualsiasi, sarebbero solo altri segni; e quindi di per sé non spiegano il riferimento.
17La morale della situazione mi sembra la seguente: a Ferraris occorre produrre una teoria del significato che fa del tutto a meno dell’intenzionalità. Potrebbe forse non essere una teoria del significato per il linguaggio ordinario, dato che questo viene visto in qualche senso come derivato da un’idea segnica più fondamentale (e questo renderebbe il compito di Ferraris più facile: non dovrebbe render conto a linguisti e filosofi del linguaggio di certi vincoli oramai acquisiti per una buona teoria del significato per il linguaggio ordinario, quali la composizionalità, o l’apprendibilità da menti finite in un tempo finito ecc.). Ma sarebbe una teoria del significato di questo mondo segnico più fondamentale. Rilevavo nella mia recensione che, se Documentalità fosse sulla strada giusta per arrivarci, Ferraris avrebbe scoperto o escogitato qualcosa di estremamente importante – anche più importante di un’ontologia degli oggetti sociali.