1Agli inizi del secolo, la “morte dell’arte” ha avuto in primo luogo una dimensione utopica: per le avanguardie, l’arte doveva estinguersi in quanto sfera separata, per risolversi nella vita, dando a essa il proprio potenziale utopico e alternativo. Poi la neoavanguardia ha rovesciato quell’utopia, mostrando come l’arte fosse ormai degradata a merce, ma nello stesso tempo dandosi come compito quello di accelerarne la fine. Il postmoderno, infine, ha assunto la morte dell’arte nel cuore stesso della pratica artistica: ora la fine dell’arte non viene né paventata, né auspicata, né data per imminente, ma è vista come già avvenuta e senza alcuna tragedia. Tutta l’arte, a questo punto, è sentita come postuma: i suoi prodotti attuali non sono che reliquie.
2L’esperienza artistica degli ultimi decenni è profondamente segnata dalla globalizzazione, ma essa non si risolve completamente nella tendenza neofigurativa e iperrealista di quelle produzioni Neo Pop che, per molti versi, si sono impadronite in maniera pressoché definitiva dell’immaginario mediatico e del mercato dell’arte. Se così fosse, l’arte dei nostri giorni non potrebbe non identificarsi totalmente con l’attuale sistema economico e culturale; in realtà, contemporaneamente a tali fenomeni sono emerse produzioni artistiche in grado di recuperare quella dimensione emancipativa e critica che, secondo Adorno, deve necessariamente caratterizzare l’arte moderna all’indomani della barbarie e della catastrofe.
3La difesa che Adorno fa dell’arte moderna si inscrive nel quadro di una lotta più generale contro i tentativi di mercificazione favorita dall’industria culturale. Adorno sa bene che le rivoluzioni formali sono anche rivoluzioni di contenuto, giacché la forma è lo stesso contenuto, il cui significato è eminentemente storico e sociale. La produzione artistica di Antoni Tàpies e Bill Viola sfuggirebbe alla condanna che Adorno fa di tutti quei movimenti che rimettono fondamentalmente in questione il concetto di arte e la nozione di opera. Questi due artisti salvano lo statuto dell’arte nella società postindustriale, vale a dire in un momento in cui le trasformazioni profonde del sistema culturale rischiano di minacciare la sopravvivenza della creazione artistica, come se la razionalità estetica non potesse che abdicare davanti alla razionalità strumentale. La scommessa di questi due artisti riguarda la sopravvivenza dell’arte nell’universo mercantile di una società sempre più amministrata e sottoposta agli imperativi economici.
4Sono pochi i pittori che come Antoni Tàpies riescono a infondere alla materia inanimata un’irradiazione e una capacità di evocazione tanto intense. I suoi quadri, che ricordano segmenti di pareti ermeticamente chiusi, spingono l’osservatore a sperimentare la loro presenza e la loro materialità offerte, per così dire, allo stato puro, tanto nella loro dimensione tattile quanto in quella grafica, e a interpretarle in quanto componenti di uno stesso processo creativo. Di fatto, l’arte di Tàpies vive della materia usata in ogni sua opera e del procedimento pittorico adottato per essa; e tuttavia, sebbene si tratti di una realtà sensoriale, c’è sempre un’aura spirituale che avvolge la sua produzione artistica. Tàpies pretende che chi si pone davanti alle sue opere le interpreti come manifesti, dichiarazioni e denunce, anche se – e in questo è vicino ad Adorno – sa che l’arte non può trasmettere direttamente alcun messaggio politico; e se lui riesce a trasmutare il materiale nello spirituale con ricorsi plastici, non deve sorprenderci che voglia presentare il suo metodo creativo come il tentativo di visualizzare nell’opera pittorica conoscenze universali ed esistenziali. In un’epoca di crescente alienazione della vita e della coscienza, e anche di crollo generale dei sistemi di valori, il pittore, con la sua opera – in particolare nel corso degli ultimi decenni, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2012 – ha preso partito più volte a favore tanto delle necessità interiori dell’essere umano quanto dei materiali considerati carenti di valore. Il pittore punta a una visione integrale del mondo che, senza stabilire differenze di gerarchia tra la materia triviale e le rappresentazioni ideali, contempla quelle e queste come elementi dotati di uguale dignità.
5Tàpies fa parte della tradizione degli artisti occidentali che dalla fine del xix secolo hanno usato la scrittura per esprimere le proprie teorie artistiche. Non a caso l’artista moderno è allo stesso tempo critico e creatore, sì che dagli astrattisti a Klee la pittura è sempre nello stesso tempo “critica della pittura”; comunque Tàpies non ha voluto elaborare con i suoi scritti una vera e propria teoria dell’arte, né questi costituiscono la chiave ermeneutica della sua opera. Tra le questioni più importanti che l’artista affronta in molti dei suoi saggi, troviamo non a caso la domanda sul senso dell’arte e quella sui rapporti tra arte e spiritualità. Si potrebbe dire che il vero contenuto della pittura di Tàpies sia il silenzio, non soltanto per il fatto che è indubbio che l’essenziale di un’opera pittorica sfugga sempre alla parola, ma nello specifico della sua produzione il silenzio coincide soprattutto con ciò che le sue opere ci dicono senza dirlo. Nel caso di Tàpies il silenzio è assolutamente necessario perché la contemplazione dia i suoi frutti, ed è proprio il silenzio che percepiamo come essenziale quando dimentichiamo i dettagli e conserviamo solo un’idea, che non può che essere vaga, di quello che il quadro contiene.
6Nelle prime produzioni di Tàpies non ci sono cose, ma a dominare sono i volti: nel loro rappresentare la soglia del non-visibile, questi volti sono ambigui, sconnessi, come lasciati al caso, e toccano la superficie, lasciando impronte profonde o rimuovendo qua e là la materia. Sembra che questi volti stiano a indicarci l’infinità dello spazio, che è tanto dilatato che sembra esplodere fino a sparire, e con esso finisce con lo sparire anche il tempo. Non a caso le immagini della pittura di Tàpies hanno il volto di pietra dell’eterno, sospendendo la durata e guardando davanti e dietro il tempo con occhi di sfinge. Non si tratta però di annullare il tempo per negare la morte, ma di scoprire che questa non può essere annullata; come pietre dure e inflessibili nel loro rigore, le opere di Tàpies non ci concedono alcun riposo, né cercano di far piacere. Davanti a loro dobbiamo restare in silenzio, appunto, e nello stesso tempo essere ciechi: negazione del mondo com’è, quest’arte ci forza a entrare nell’oscurità, dove appunto sembra che non possiamo più distinguere le cose tra loro.
7Il fatto è che quasi tutte le opere di Tàpies ci fanno scoprire la realtà che abbiamo davanti ai nostri occhi senza poterla vedere. E se il colore ha una funzione di illuminazione, che sembra dar luce allo spazio pittorico, dall’altra questo stesso colore ci frena, avvertendoci che dobbiamo fuggire dai percorsi che si presentano facili e da ogni via regia: non ci sono vie regie come non ci sono percorsi. Quello che troviamo in Tàpies è infatti l’intenso impiego di toni terrosi, grigi, neri e un’estesa gamma di ocra: se si tratta di indicare un solo colore che sembra dominare – senza dominare in realtà – è appunto l’ocra, il colore più neutro, più umile e più povero. A un livello più profondo, forme, segni, oggetti e accidenti della superficie acquistano un nuovo valore, e sembrano rinviarci a qualcosa che, si direbbe, sta fuori. Il simbolo, l’evocazione, il riferimento che ci sembra di scoprire hanno significato nell’ambito della stessa opera. Lo spazio, non solo fisico, ma quasi si potrebbe dire “metafisico”, costituisce un universo che, per l’artista come per lo spettatore, è l’unico esistente, dal momento che lo spazio isolato, che abbiamo considerato in relazione al tempo, ci sembra interminabile.
8Si è insistito molto sul carattere di “muro” a proposito della produzione dell’artista catalano, rifacendosi al gioco di parole tápia-Tàpies (dove tápia in catalano è appunto “muro”): il muro può essere visto come chiusura di percorsi, come interruzione del visibile che paradossalmente attesta la presenza di una trascendenza non-visibile. Davanti a questi muri ricoperti da una molteplicità di graffiti senza senso, l’uomo contemporaneo appare indeciso e confuso; il muro, così interpretato, riflette la rassegnazione e l’impotenza di chi non sa trovare l’uscita. Tale muro, aggredito ed eroso dal tempo e dall’azione umana, è un libro che si deve saper leggere, un vero Libro-muro come lui stesso ha significativamente intitolato una delle sue opere del 1990, un libro pieno di immagini, lettere e segni misteriosi coi quali abbiamo familiarizzato attraverso la sua lunga e intensa produzione. Se da una parte si tratta di uno stimolo alla comprensione, che ci interroga sulla natura di ciò che si pone al di là della visione stessa, dall’altra questa “porta”, restando chiusa, ci impedisce la risoluzione dell’enigma che, come sostiene Adorno nella Teoria estetica1, ci lascia comprendere esclusivamente la sua incomprensibilità. L’artista invita lo spettatore ad accedere a un livello di conoscenza più profondo; di fatto, attraverso il muro e attraverso il livello della materia sensibile, l’opera dischiude dal suo stesso interno una dimensione conoscitiva che in Adorno viene definita “contenuto di verità”, senza la quale l’opera si ridurrebbe a un mero “prodotto culinario”. Tàpies comprende presto che l’espressione individuale si può raggiungere solo mediante un atto di aperta opposizione all’arte del passato, non essendo egli un artista che cerca di incastrare la sua visione in schemi rigidi, dal momento che la sua intenzione è di lasciare che sia la realtà stessa a manifestarsi. Quello che preoccupa Tàpies è soprattutto l’utilizzazione di materiali umili o di oggetti tolti direttamente dal nostro mondo, ma a differenza di un ready-made duchampiano tale oggetto ha la funzione di manifestare il carattere fantasmatico dell’ambito quotidiano o almeno la sorpresa della sua presenza: esso costituisce un’apertura al mistero, dal quale possono emergere molti significati. La leggerezza del gesto ha sempre a che fare – come afferma lo stesso Tàpies nel 1990 – con la convinzione che l’ordine superiore e spirituale si manifesti quasi sempre nel piccolo e nell’umile; come affermava Aby Warburg, si tratta del Dio che si nasconde nei dettagli.
9Dagli anni Novanta lo spazio sembra più vasto, come per farci avvicinare alla consapevolezza del vuoto; le forme si dispiegano in modo ondulato, ma non per riempirlo bensì per sottolineare il vuoto dello stesso spazio. Le forme sono interiormente più vuote e i tratti neri o ocra che si espandono sopra la tela o la tavola non ci distraggono con possibili contenuti formali o materici. Il colore ocra, come abbiamo visto, è stato sempre importante nella pittura di Tàpies: connota la terra, è un colore apparentemente neutrale, segnala la presenza della carne e all’occasione può avere risonanze mistiche. Il nero, dal canto suo, oltre a negazione del colore e della vita è affermazione, nel linguaggio simbolico, di vita superiore. Ocra e nero sono qui, in certo modo, intercambiabili, e soprattutto nella prima metà degli anni Ottanta c’è un dialogo tra questi due colori. A volte il ruolo dell’ocra è svolto dal colore di un tono vicino: il legno non dipinto in Gris y rosa (1982), la tela non dipinta in Lector (1984) e in Formas con dos cruces (1984). Ci sono, in questi primi anni Ottanta, alcune apparizioni nelle quali la forma organica fluttua sopra un fondo di grigi; il colore, nello stesso tempo, può separarsi dalla dicotomia che si è stabilita, e forme geometriche oscure si staccano nel fondo più chiaro e prossimo al bianco. La figura umana appare in modo frammentario o, se completa, è sfigurata e ridotta a una sarcastica negazione, come a dimostrare che l’arte della nostra epoca non è in grado di darci – se non raramente – un’immagine intera dell’uomo. È evidente come l’opera di Tàpies, e nello specifico le produzioni degli ultimi decenni, rispondano pienamente all’idea che Adorno ha dell’arte moderna, un’arte che rinuncia alla compiutezza e alle categorie proprie della tradizione, ma che allo stesso tempo riesce a sottrarsi al processo di mercificazione globale; di qui, la sua insistenza sulle tonalità cupe, sulla frammentarietà e sull’incompiutezza.
10Come detto, Tàpies è il pittore che meglio ha saputo dare alle sue opere l’aspetto di muri; il segreto di ciò risiede in un modo peculiare di applicare la materia, grazie al quale la superficie del quadro viene trasformata in una crosta dura di varia consistenza. Già prima di perfezionare il miscuglio di polvere di marmo e colla, caratteristico della sua produzione a partire già dalla metà degli anni Cinquanta, egli ha mostrato un amore speciale per i materiali quotidiani e i rifiuti, che ha integrato inizialmente in composizioni costruite come assemblaggi. L’attenzione che dalle prime prove presta al reale concreto ci mostra un artista che usa nel suo lavoro, oltre a una materia pittorica di grande intensità, anche elementi estranei alla pittura. Più in generale Tàpies riesce a dare alle sue opere una forza che, oltre a evocare, incita e stimola, e nell’utilizzare una vasta varietà di oggetti si pone sulla linea delle concezioni surrealiste della prima metà del Novecento, dimostrando che la sua arte non tende all’astrazione, né ha come meta la non-figurazione; al contrario, ciò che quest’arte chiede è di stabilire un dialogo con la realtà, esigenza quanto mai essenziale nell’epoca contemporanea contraddistinta dalla globalizzazione e dalla massificazione della cultura. Nei suoi quadri l’artista catalano ci offre una sintesi di stati d’animo, sensazioni e sentimenti, traumi e processi mentali che, comuni a lui e al mondo che lo circonda, confluiscono poi nelle sue manifestazioni pittoriche, costringendoci a una comprensione e una decodifica mai definitive. Dall’azione congiunta di tutti questi ingredienti nasce la solidità che caratterizza ciascuna delle immagini del suo universo: non a caso, sulla superficie del quadro possiamo vedere, per esempio, un cappello, un piede, un letto o un corpo, insieme rappresentati e in rilievo, ma anche un pezzo di muro sul quale il tempo, gli agenti atmosferici e la mano dell’uomo hanno lasciato le loro impronte.
- 2 Di Giacomo 2015: 187-198.
11Tutto fa credere che, con l’utilizzazione di materiali esterni alla pittura, Tàpies abbia dato validi impulsi a un artista tanto interessato alla materialità come Anselm Kiefer che, come Tàpies, propone un’arte che non parla solo all’occhio ma anche, e a volte in misura maggiore, al senso del tatto, offrendoci un’ “arte della testimonianza” capace di opporsi alle dinamiche proprie del mercato dell’arte dominante nella contemporaneità2. Come in Kiefer, se l’arte in Tàpies si caratterizza per un’intensa sensorialità, nello stesso momento essa pretende di evocare realtà spirituali, tanto che si può dire che quel materiale è utilizzato per rendere visibile lo spirituale stesso: nella pittura dell’artista catalano il momento dello spirito e il momento della materia non riescono né a separarsi né a identificarsi. Insomma, raggiungere una forte irradiazione sensoriale e nello stesso tempo raccogliere in essa una dimensione spirituale è una qualità specifica che l’osservatore sperimenta immediatamente nei suoi incontri con le opere di Tàpies. L’impeto creativo comporta tanto riflessione quanto emozione; in esso confluiscono il reale e l’irreale, si visualizzano allusioni alla vita e ai sogni, mentre fatti e sensazioni lasciano impronte del loro passaggio. Tutte queste sono fasi intermedie di una visione cosmica o, meglio ancora, di una esperienza vitale che non riconosce l’essere umano come centro, ma che relativizza le frontiere tra oggettività e soggettività, e vede la materia e il pensiero come un’unità. E se il vocabolario formale di Tàpies si pone in una materialità tangibile, il suo linguaggio artistico mira chiaramente a valori spirituali, tanto che ciascuna delle sue opere trasmette inequivocabilmente esperienze artistiche di natura contemplativa. Del resto, raggiungere questa stretta relazione fra contemplazione e prassi, fra riflessione e azione, è proprio il fine dichiarato del pittore.
12La pittura di Tàpies non rientra, se non per congiuntura storica, nelle poetiche dell’Informale, ma va inquadrata nella cultura spagnola, come in particolare mostrano i suoi neri che richiamano i neri di Goya: questo nero è prigionia, angoscia mortale e soprattutto segno visibile dell’assenza di Dio. Ritroviamo qui quell’“ideale del nero” che secondo Adorno è un tratto caratterizzante dell’arte moderna, dal momento che: «Per sussistere circondate da ciò che è quanto mai estremo e cupo nella realtà, le opere d’arte che non vogliono prostituirsi come conforto devono mettersi sul suo piano. Arte radicale oggi significa lo stesso che cupa, dal colore di fondo nero»3. Tàpies sente l’angoscia dell’assenza di Dio, cioè dell’assenza del Senso, e i segni che compaiono nella materia sono i segni della consumazione della morte e non, come in Burri, i segni di una coscienza che sopravvive, immortale, al tormento della materia. L’opera di Tàpies non è basata esclusivamente sulla percezione visiva, anzi le sollecitazioni ottiche non solo sono le ultime a insorgere, ma sono anche le meno rivelatrici, dal momento che spesso più importante si rivela il senso del tatto, che nell’esplorare le superfici indugia sui tagli e le crepe, riconoscendo la materia attraversata da solchi e ferite. Se alla base di tale pittura sta la percezione è perché questa risulta essere il modo più immediato per accostarsi al mondo, nonché l’unico accesso possibile per la trascendenza. Egli non supera mai lo stadio percettivo, e questo fa sì che il ritmo della sua pittura sia quello di un tempo che si coniuga sempre al presente, un presente però immobile. Così, l’esistenza di Tàpies si consuma nel presente e la sua arte è un eterno rimanere in esso, ragion per cui la sua si configura come una pittura della ripetizione; la ripetizione, come si sa, è la forma dell’angoscia, ed è per questo che non va confusa con la ripetitività caratteristica della serializzazione minimalista e pop.
13Per tutti questi aspetti, se il percorso di Tàpies presenta le stesse ragioni di quello di Fautrier, di Burri, di Wols, di Dubuffet e di altri artisti dell’Informale europeo, rispetto a questi tuttavia Tàpies ha delle connotazioni tali da mettere in dubbio la possibilità di essere ascritto all’Informale: in nessun altro artista dell’Informale infatti la materia costituisce l’emblema e la realtà di tutta la sua vicenda pittorica, materia che è fisica e insieme epifanica, di un’epifania però che è di tipo esclusivamente “apofatico” e non “apofantico”, ovvero che come nel Quadrato nero su fondo bianco di Malevič ha un carattere negativo4. Come il quadrato di Malevič infatti è un Niente in quanto “abisso dell’essere” e apertura alla trascendenza, la materia sensibile e grezza di Tàpies è intrisa di spirito, condizione di possibilità di significati sempre nuovi e differenti. Nella sua pittura infatti gli enti si risolvono nel non-essere, e la materia non è mai la materia elaborata che caratterizza la vita ma è materia-testimonianza di un’oscura tragedia che non avrà mai fine. Così, l’arte di Tàpies non è rappresentazione di un dramma, ma dramma essa stessa, e le sue immagini non sono immagini che contengono e producono parole, ma immagini il cui unico tratto caratterizzante è appunto il silenzio. Fin dalle sue prime esperienze artistiche il dato materico gioca un ruolo assoluto e insieme testimoniale di un’attesa della morte e del nulla. Per lui occorre spingersi oltre l’angoscia individuale per arrivare alla certezza del non-essere e del nulla, e la pittura è divenuta il mezzo per la ricerca del senso, dove l’impossibilità di conseguirlo in modo definitivo ci lascia in mezzo a frammenti che sempre più ce ne fanno sentire l’assenza.
14Così la pittura di Tàpies si è fatta, beckettianamente, pittura dell’esistenza consumata, dell’annientamento e della negazione del mondo: non c’è nulla da dipingere, proprio per questo si continua dipingere. Non a caso uno dei temi centrali della pittura di Tàpies è quello delle impronte, che testimoniano appunto una presenza trascorsa e perciò stesso assente. La condizione umana di Tàpies è, in definitiva, una condizione che non può scaricarsi nel gesto ma può solo ripiegarsi su se stessa, ponendosi su un piano che è più di meditazione che di azione, di stasi più che di moto, e se la pittura d’azione presuppone energia e vita, la stasi del pittore catalano attesta piuttosto la morte e il nulla. L’immagine definitiva e ultima che emerge da questa pittura è quella di un mondo consumato, esaurito, che tenta di ritrovare l’autenticità tornando al caos, dove il dolore della materia è il dolore stesso dell’uomo: per questo il quadro diventa veicolo ed emblema di questa sofferenza. Come anche in Burri, in Fautrier e in Dubuffet, materia sta per carne: è una metafora della carne che mostra le bruciature, le ferite, i tagli, il lento ma inesorabile corrompimento e la sua caducità. Anche per questo, il repertorio cromatico di Tàpies ha ben poco di naturalistico: quello che abbiamo sono colori la cui torbidezza rimanda alla torbidezza del reale.
15Ai movimenti impulsivi di cui è capace una materia vivente si sostituiscono le lente, quasi impercettibili sedimentazioni, e insieme le fenditure e le crepe. I consueti oggetti familiari ci vengono incontro dalle tele di Tàpies avvolti in un’aura di radicale estraneità e lontananza, quasi prodotti da secolari fenomeni di fossilizzazione. Per questo il pittore riporta l’attenzione agli oggetti, estraniandoli dai contesti familiari e proponendoli secondo aspetti inediti: c’è sempre qualcosa di caduco e di irreale in quegli oggetti comuni, tanto che basta poco per rimandarli in quel nulla da cui sono emersi per lenta sedimentazione. Niente può assicurarci che dal caos materico emerga la forma di un oggetto e non la ripetizione del caos stesso, dal momento che l’oggetto di Tàpies si forma da una matrice da cui non riesce mai del tutto a staccarsi, una matrice di terra e di calce, un’incrostazione di natura e di storia, sì che il ciclo di vita dell’oggetto si risolve in un ciclo di fatale ritorno. Per questo nella sua opera c’è circolarità, ciclicità di formazione, esistenza e disfacimento, come testimoniano certi quadri dove le impronte circolarmente tornano su se stesse – come in Triptico con pisadas (1969-1970), Sardana (1972) e Gran ocre con pisadas (1972) –, testimonianza di un’assenza intrascendibile. Se nella fase iniziale le immagini, la materia, gli inserti extrapittorici si danno allo spettatore per se stessi, come definizioni tautologiche di realtà che non rimandano a significati altri, il momento surrealista arricchisce di significati lo spessore della materia pittorica, apre in esso una finestra che guarda oltre i dati immediati della percezione, scoprendo un altrove e una realtà altra. Dalle profondità del momento surrealista, Tàpies riemerge a poco a poco, riconquistando, nella sua totalità, la superficie del quadro: immagini e frammenti di realtà si offrono di nuovo alla percezione, riacquistando la solidità di presenze oggettive, anche se l’artista non sa cosa troveremo al di là del muro e della porta sbarrata. Questo ritorno a elementi che appartengono alla vita, e il rifiuto di una visione totalmente tautologica dell’immagine artistica, accomuna Tàpies ad altri grandi protagonisti dell’arte del Novecento, che dopo essere passati per l’assoluta astrazione sentono l’esigenza di tornare alla vita – come mostrano le ultime opere newyorkesi di Piet Mondrian, in particolare Victory Boogie Woogie (1944) –, se non addirittura a una qualche forma di figurazione (seppur appena abbozzata) – come appare in Cut-out (1948) di Jackson Pollock.
16Tàpies si identifica con la materia, come Cézanne, secondo Merleau-Ponty, tendeva a identificarsi con il paesaggio; ciò spiega anche perché la sua pittura si offra con modalità non solo visive ma anche tattili. L’artista catalano elabora oggetti che sono congelati, immobili, come all’origine della terra, ed è per questo che si può dire che le sue immagini sono dipinte come se non si fosse mai dipinto prima, e l’eccezionale capacità di visione del pittore arriva fino alle radici per cercare il senso della realtà, pur sapendo che non potrà mai trovarlo. L’arte di Tàpies, riflessiva e aggressiva allo stesso tempo, è arte e confessione: nei suoi quadri e nelle sue sculture egli formula questioni che puntano all’essenza della vita e soprattutto formula la sua arte come una presa di posizione davanti al presente. Ce lo dimostrano con chiarezza le pitture create durante la dittatura franchista e anche i suoi scritti della stessa epoca, giacché in essi si pronuncia chiaramente a favore della libertà e dei diritti umani, ma soprattutto a favore della Catalogna. È comunque indubbio che la molteplice ed esemplare attività di Tàpies figuri tra gli apporti artistici più decisivi e caratteristici a partire dalla seconda metà del xx secolo fino alla prima decade del xxi secolo. La sua opera, che è una testimonianza di indipendenza intellettuale, abbonda di composizioni non conformiste, che rifiutano ogni compromesso e che devono essere comprese come espressione legittima del suo e del nostro tempo, e insieme come espressione di un’attività creatrice che trascende la temporalità.
17Per Bill Viola tutte le opere d’arte rappresentano cose invisibili e la stessa tecnologia digitale non è altro che una forma più pura per avvicinarsi a quelle realtà non fisiche e non visibili che stanno sotto alle cose visibili del mondo. Sicuramente la videoarte ha rappresentato un mutamento radicale e un “nuovo inizio”; essa ha elaborato regole e caratteristiche sue proprie e, rispetto alla pittura tradizionale, ha istituito uno spazio interamente nuovo sia per l’artista che per lo spettatore, come mostra esemplarmente l’opera di Bill Viola, che fa i conti con l’arte e con la tradizione, riuscendo a stabilire un dialogo con lo spettatore. L’artista americano ripropone formati, gestualità, temi, modi espressivi propri dell’arte del Rinascimento, rivivendoli attraverso il filtro di esperienze novecentesche. In questo caso la tradizione si incarna in una specifica forma rappresentativa, ne assorbe e ne esalta il significato, lo ripropone alla sensibilità e alla emotività dell’osservatore del xxi secolo, mostrandone l’inattesa qualità. Insomma, Bill Viola pensa se stesso come un pittore, vivendo la propria arte nel dialogo con l’arte del passato.
18Il rapporto fra The Greeting (1995) e la Visitazione del Pontormo (1528) è probabilmente il più famoso tra i molti che intercorrono fra le opere di Bill Viola e quelle dei maestri del passato. Le somiglianze compositive, di formato, di tema e di sviluppo narrativo, sono qui così marcate che si potrebbe essere tentati di descrivere il video come la trasposizione fedele del dipinto, con minime oscillazioni e deviazioni (come gli abiti delle protagoniste), tutte nella direzione di una secolarizzazione della scena, che pure conserva in sé una forte carica allusiva al quadro religioso che ne è all’origine, senza che comunque si tratti di una semplice trasposizione illustrativa.
19Quel che Pontormo ci mostra nel suo quadro è un incontro mille volte rappresentato nell’arte cristiana, la Visitazione della Vergine Maria a Santa Elisabetta. Le due donne, che nel quadro del Pontormo assistono all’incontro guardando lo spettatore (Viola le riduce a una), con la loro solenne fissità sembrano consapevoli di quel che sta avvenendo, e invitano l’osservatore a considerare quell’incontro oltre le apparenze del visibile, sia per il mistero che simboleggia sia per il futuro che rivela. Secondo Salvatore Settis5, nonostante la straordinaria intensità della scena evangelica e della sua rappresentazione a opera del Pontormo, non sembra che sia il tema ad aver attratto l’attenzione di Bill Viola, quanto piuttosto le sue modalità rappresentative, in particolare il movimento delle figure espressivamente denotato mediante il fluttuare delle loro vesti nell’aria, quasi fossero mosse da un leggero vento. Per quanto riguarda la rappresentazione del movimento in pittura, è stato Aby Warburg a capire che la svolta decisiva ha coinciso con il primo Rinascimento fiorentino: è allora che i pittori hanno imparato, osservando opere d’arte antiche, ad affrontare con nuove modalità stilistiche e rappresentative il compito impossibile di suggerire all’osservatore il movimento delle figure necessariamente immobili sulla tela. L’artificio al quale essi ricorsero è stato quello di far muovere nello spazio i lembi delle vesti, i capelli sciolti, i manti e i veli. Si tratta, insomma, di far soffiare il vento sulle tele. Secondo Warburg, quelli che egli chiama “accessori in movimento” sono anzi un elemento cardine del processo di mutamento dello stile che porta il nome di Rinascimento, ed è per questo motivo che egli ha inseguito per tutta la vita quest’idea, che già nella sua dissertazione su Botticelli del 1893 ha formulato come la tendenza, nel Quattrocento, a rifarsi alle opere d’arte dell’antichità quando si voleva dare a un’immagine la vitalità di un movimento esterno.
20Ora, The Greeting di Bill Viola presuppone l’intuizione del ruolo centrale che ha, anche nella Visitazione del Pontormo, il problema “fiorentino” del moto delle figure e della sua rappresentazione mediante “accessori in movimento”. È questo il punto di partenza che, con l’occhio penetrante dell’artista, Viola ha colto e ha voluto sviluppare mediante le nuove e immense possibilità aperte dalla videoarte, che non ha bisogno di artifici visuali per suggerire il moto delle figure, poiché può rappresentarlo direttamente; si tratta inoltre di catturare l’osservatore mediante l’intensità della rappresentazione e di trascinarlo nello spazio di quest’ultima.
21Entrare nello spazio di Bill Viola vuol dire entrare nel proprio spazio interiore, che è un luogo insieme pubblico e privato. Per alcuni l’opera di Viola è uno spazio adatto alla meditazione, alla contemplazione e, in qualche caso, a un’esperienza mistica. L’immagine in movimento ci trasporta mentre il suono ci avvolge, sì che, anche se ci troviamo di fronte a uno schermo, è quasi impossibile non essere attirati al suo interno. Quello che ci troviamo di fronte è, quasi sempre, il tema della Resurrezione e del rinnovamento, declinato in modi diversi, mentre le emozioni si dilatano all’infinito; non a caso l’obiettivo della videocamera di Viola volta le spalle al mondo esterno, producendo un’attrazione verso ciò che è immateriale. I video che costituiscono la serie The Passions sono silenziosi, sospendono il tempo e nascondono, come le tragedie greche, le cause delle sventure, rappresentando piuttosto le emozioni connesse a tali vicende estreme. Per evitare relazioni che potrebbero alludere a possibili contesti narrativi, e quindi per privilegiare l’espressione pura e semplice dell’emozione, ciascun protagonista è ripreso individualmente, evitando di farlo interagire con gli altri. Ciascuno rivela se stesso e, facendo del proprio corpo il veicolo di un enorme dolore, fissa lo spettatore, per renderlo testimone di quella sofferenza che, in quanto elemento intrascendibile della vita, non può che suscitare compassione verso il soggetto che soffre.
22Secondo Valentina Valentini6, quando si attribuisce alla pratica artistica di Bill Viola una dimensione religiosa e spirituale, bisogna assumere come guida in questa esplorazione lo studio sull’icona di Pavel Florenskij. Come insegna Florenskij, l’arte proviene dalla contemplazione del mondo celeste e stabilisce un rapporto tra i due mondi, quello terreno e quello celeste e, più in generale, tra il concreto e l’astratto. Sul piano estetico, le forze ostili alla dinamica di questo movimento tra il concreto e l’astratto, tra il cielo e la terra, dinamica caratteristica dell’icona, sarebbero sia il naturalismo che l’astrattismo, incapaci entrambi di stabilire un rapporto autentico tra l’invisibile e il visibile: nel primo (naturalismo) infatti mancherebbe l’invisibile, ovvero lo spirituale, nel secondo (astrattismo) il visibile, ovvero il sensibile. Insomma, per Bill Viola l’arte del Novecento avrebbe in genere operato una semplificazione nella dinamica tra celeste e terrestre, tra visibile e invisibile. Resta tuttavia il fatto che la questione più importante posta dall’arte di Bill Viola riguarda il rapporto con la realtà, nel senso che le sue opere mostrano come il compito dell’artista sia quello di trasformare il mondo, non di duplicarlo; i video di Viola, nel rifiutare una dimensione puramente figurativa o una dimensione puramente astratta, presentano un’immagine nella quale la natura ideale fa tutt’uno con quella reale, sì che tale immagine si risolve nella connessione di mondo sovrasensibile e mondo empirico.
23Il progetto del videoartista è quello di esprimere sentimenti e passioni che non hanno dimora nell’arte contemporanea, ed è per questo che i suoi video rimandano alle antiche icone: seguendo l’analisi di Florenskij, infatti, l’icona è il prototipo dell’opera spirituale nella quale il volto svela l’immagine di Dio. Le opere di Bill Viola mostrano l’apoteosi del volto e del corpo umano: in esse il soggetto non è sparito né disincarnato, ma sta al centro e tende a superare la frammentata molteplicità del reale per aprirsi allo spirituale e all’universale. Il concentrarsi dell’artista sulla figura umana, sofferente o gioiosa, testimonia di un’istanza spirituale che è propria delle icone raffigurate in una profondità senza tempo e tuttavia esposte allo sguardo dello spettatore.
24Fra le strategie che Bill Viola mette in opera per creare immagini che abbiano la potenza spirituale delle icone c’è sicuramente l’uso dell’acqua, che nel suo essere specchio deformante produce immagini anamorfiche che collegano la sofferenza con la deformazione della figura umana. L’acqua, oltre a rappresentare la soglia fra visibile e invisibile, è la fonte e l’origine di tutte le esistenze possibili, da cui provengono e a cui ritornano tutte le forme viventi. Da superficie riflettente o velo che deforma, l’acqua, in opere come The Crossing (1996), The Messenger (1996), Five Angels for the Millennium (2001), diventa un elemento cosmico, un diluvio universale, un movimento di distruzione e rigenerazione. Così, se in The Messenger la figura umana è animata dal doppio movimento di sprofondare e riemergere con solennità, in The Crossing si percepisce qualcosa che procede in avanti fino a che non compare un uomo che si arresta immobile e che guarda davanti a sé; il risultato è che l’annientamento dell’uomo, consumato dal fuoco e dall’acqua, si trasforma in un processo di purificazione e di continua rinascita: insomma, l’arte di Bill Viola non ricicla immagini preesistenti ma le abita, trasfondendo in esse un respiro e uno spirito nuovo.
25Nel video Déserts (1994, musica di Edgar Varèse) il tema del deserto è inteso, oltre che come solitudine, anche come consapevolezza di essere “cosa” nell’universo, dal momento che è possibile accedere alla visione se si confonde la propria individualità in un tutto che la comprende. In Dèserts Viola evoca i luoghi in cui si è sempre cercata e sempre realizzata la religione, cioè i deserti della mente, la stanza spoglia, proprio quei luoghi che suscitano la paura, dove dobbiamo affrontare il nostro nudo essere e nei quali, soli e senza preavviso, incontreremo ancora i nostri dèi che vanno scomparendo. Il pericolo che Viola percepisce con grande intensità è la tragedia raffigurata dall’acquerello di Paul Klee Angelus Novus, dove l’angelo, secondo la famosa osservazione di Benjamin, guarda fissamente indietro, rivolto al passato e alle sue macerie, mentre la tempesta del progresso lo sospinge continuamente verso il futuro a cui gira le spalle. Così, viviamo le nostre vite in uno stato di fragile sospensione: continuiamo a domandare, pur sapendo che Dio, una volta abbandonato il mondo, non risponde alle nostre domande, ma resta – come afferma il giovane Lukács – “muto spettatore”.
26L’interrogazione sulla natura dell’immagine condotta da Bill Viola attribuisce una dimensione filosofica e spirituale alla sua produzione artistica, in quanto questa viene intesa come una pratica religiosa, grazie alla quale il mondo degli uomini è rivolto a quello di Dio. Bill Viola pensa e vive l’arte come pratica ascetica che separa dal mondo e tuttavia il ruolo dell’arte non è separato dalla vita quotidiana, dal momento che l’artista crede nel potere che ha l’arte di trasformare il mondo, in netta rottura con le posizioni dominanti dell’arte contemporanea, quali quelle di Damien Hirst e Jeff Koons, per i quali il mondo non deve essere trasformato ma va riprodotto così com’è perché è già in sé bello e sensato.
27Secondo Viola l’opera nasce da un ascolto interiore poiché, prima di volgersi al mondo visibile, bisogna sprofondare nella contemplazione interiore che permette di liberare l’immagine articolata della materia in cui è nascosta. Un altro aspetto della visione del mondo che emerge dall’opera di Viola è quello dell’Incarnazione: la sua arte parla dell’interno delle cose, dell’“essere dentro”, sì che tutto accade nel corpo, che è il medium di trasformazione; le sue sensazioni sono il linguaggio del mito, il luogo dove il dominio spirituale interseca il mondo ordinario del tempo e dello spazio. È in questa prospettiva che le opere di Bill Viola sono costruite con un ritmo circolare di compenetrazione tra Io e mondo, morte e rinascita, ascesa e discesa. Questa struttura circolare rinvia all’idea del ciclo vitale, per cui ogni cosa deriva da un’altra, in un processo di generazione permanente. Il risultato è che tali opere sono composte secondo questo peculiare dispositivo costruttivo, grazie al quale le opposte nature mantengono le loro differenze, sì che l’annientamento diventa rinascita e il corpo diventa spirito.
28Nell’installazione video l’opera si costruisce come un evento che si svolge lungo un asse temporale in uno spazio scenico che include lo spettatore; è quanto mostrano in modo esemplare le installazioni di Bill Viola, che presentano una dimensione teatrale caratterizzata dal fatto che hanno sostituito lo spazio statico delle immagini televisive con uno spazio dinamico in cui le immagini ottico-sonore interagiscono con lo spettatore. Nelle video-installazioni di Bill Viola troviamo l’irruzione di un flusso di immagini e di suoni che aggredisce lo spettatore, sì che il pathos drammatico si manifesta in immagini trattate come un processo e non come un dato, presentandosi come l’attesa di qualcosa che sta sempre sul punto di apparire, senza però apparire mai completamente, ed è per questo che rappresentano la soglia tra passato e presente, tra visibile e invisibile. In esse l’aperto e il chiuso si compenetrano e dialogano, tanto che l’opera di Bill Viola si potrebbe sintetizzare nella formula “abitare il limite”. In tale opera, insomma, la dimensione mistica non presenta alcuno svelamento, dato che il velo resta lì, e nessun aldilà dà senso all’aldiqua. Le video-installazioni di Bill Viola sono concepite come messa in scena di un’azione il cui soggetto è lo spettatore, che è virtualmente incorporato nell’opera stessa. Resta comunque il fatto che, se per Viola l’arte è separata dal mondo, proprio per questo è in grado di mostrare la possibilità di un cambiamento del mondo stesso. In questo senso, se la televisione ci trasmette fatti ed eventi davanti ai quali lo spettatore resta totalmente passivo, i video di Bill Viola invece richiedono uno spettatore attivamente coinvolto: se la televisione lascia lo spettatore ancorato al mero dato, questi video invitano lo spettatore in una dimensione critica nella quale al dato si sostituiscono le sue possibilità.
29Tutte le installazioni di Viola, intrise come sono di spiritualità, tessono una trama tra il visibile e ciò che lo trascende. In questi lavori a essere attivato è il tempo, il tempo delle immagini e, soprattutto, il tempo nelle immagini, e poiché nella modernità è il tempo a intessere di sé la vita, allora vi è una vita delle immagini che si tratta di comprendere. Comunque quello che vuole Viola è svincolare lo svolgimento dell’evento dalla sua fonte letteraria e insieme impedire il suo assorbimento nella logica della narrazione: insomma, Bill Viola libera le sue immagini in movimento tanto dal loro referente storico quanto dalle loro funzioni narrative. Ma il punto veramente importante che qualifica le produzioni della videoarte, almeno quelle più significative, lo si può cogliere in relazione al saggio sulla riproducibilità di Walter Benjamin. È vero che quest’ultimo ritiene che la fine dell’arte sia dovuta alla riproducibilità del film e della fotografia, tuttavia un videoartista come Bill Viola riesce a conferire all’arte un’aura conseguita proprio con quegli stessi mezzi che Benjamin considera fatali per l’aura. Nel caso di Viola si può affermare infatti che è l’atto stesso del vedere in questo modo, di mettere la rappresentazione artistica in relazione a problematiche spirituali, a essere di per sé un’operazione critica e insieme “politica”. Questo significa che oggi le opere che, come quelle video, riescono a suscitare un’emozione veramente spirituale si presentano come “sovversive” e di qui appunto la loro dimensione politica. Più in generale, mentre in opere come Nudo che scende le scale di Duchamp (1912) o Dinamismo di un cane al guinzaglio di Balla (1912), i pittori modernisti hanno cercato di tradurre gli effetti dinamici del film nella pittura, Bill Viola al contrario cerca di tradurre la stasi della pittura nel filmato.
30Dal 1995, Viola si è dedicato quasi esclusivamente alle installazioni. Basate su un’unica immagine – come mostra The Greeting – tali installazioni richiedono l’attenzione dello spettatore per una durata ben definita. Il tempo di queste immagini è esasperatamente rallentato, e l’osservatore deve cogliere i movimenti impercettibili degli attori per avere la certezza di trovarsi di fronte non a una fotografia bensì a un video, vale a dire davanti alla dilatazione teoricamente infinita di un’azione reale. Tutte le opere di Viola non si basano su testi o su dialoghi ma solo su immagini e suoni. The Crossing mette in scena in forma drammatica un uomo che si immola in acqua e fiamme, una figura che innesca la propria distruzione a opera delle opposte forze naturali di fuoco e acqua, e soccombe. Questa installazione, seppure di breve durata, è carica di metafore: quello che vediamo può forse significare la distruzione dell’artista come una sorta di eroe mitico che si consuma totalmente nella sua opera. Viola, come una specie di Dio o eroe wagneriano, che ha fatto proprio il Sacro Graal, tramuta il corpo in oggetto artistico, come se l’atto creativo fosse un principio cosmico che coinvolge gli elementi primordiali di fuoco e acqua.
31In certi video di Viola è possibile trovare il culto romantico dell’artista-eroe, che ha avuto la massima espressione in Wagner e che viene rivisitato anche nell’opera di Anselm Kiefer. Se infatti in The Crossing di Viola troviamo l’esaltazione mitica di un’arte che ha a che fare con la vita e la morte, l’intera produzione di Kiefer affronta proprio questo tema, vale a dire, nel suo caso, quello della responsabilità dell’arte di fronte al Nazismo e alla Shoah. Le sue tele sono enormi, i soggetti sono piramidi e templi disegnati da prospettive che li rendono minacciosi e le composizioni sono piene di allusioni nascoste a storia, arte, letteratura e religione. Chi guarda deve essere esegeta delle immagini e provare timore reverenziale; questo forse rende tali immagini difficili ma anche molto immediate per la carica emotiva che le accompagna. Viola evita la dimensione simbolica e la preoccupazione per il sublime che fa tutt’uno con la vita e che pervade l’opera di Kiefer, pur mettendo in evidenza un significativo debito verso il Romanticismo, per il fatto di far sprofondare lo spettatore in una sorta di wagneriana “opera d’arte totale”, dove la vita è totalmente assorbita.
32Come abbiamo visto, il lavoro di Viola mette in discussione due tendenze dell’arte contemporanea: il rifiuto dell’emozione e il conseguente privilegiare una risposta di tipo intellettuale, che lascerebbe fuori ogni dimensione “patetica”; per questo un elemento centrale della visione del mondo di Bill Viola è il luogo del dolore: se gli esseri umani appaiono ingabbiati in corpi e sono soli in quasi tutte le sue opere, essi non sono tuttavia abbandonati. La sofferenza porta alla redenzione, non però a una redenzione assoluta che si dà una volta per tutte; il dolore, infatti, quando è trasformato in sofferenza diventa un punto di contatto in un mondo di corpi separati gli uni dagli altri. L’agonia dell’artista è diventata occasione per l’autotrascendenza dello spettatore, cioè per la preoccupazione per l’altro: è questa la compassione che significa il “soffrire insieme”, ed è questo l’unico tipo di redenzione di cui si può parlare. Bill Viola, come Tàpies, appartiene a quella schiera di artisti la cui opera pare mirata a renderci consapevoli della nostra mortalità. Non a caso la nostra temporalità, ben espressa dalla temporalità del video come medium, la ritroviamo nel tentativo di Viola di riportarci di fronte alle domande fondamentali sulla nascita, la morte e il senso dell’esistenza. Con l’attenzione all’invisibile, che per Viola intride di sé sempre il visibile, la sua opera ha una dimensione mistica e messianica, ma si tratta di un messianismo senza alcuna promessa escatologica, dal momento che quello che troviamo è un’attesa senza fine.