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HomeNumeriN° 7, 3III. Una guerra che non passa“Vivere in tempo di guerra”

III. Una guerra che non passa
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“Vivere in tempo di guerra”

La testimonianza di un brigatista austriaco in esilio
Gerhard Hoffmann
Traduzione di Chiara Conter

Abstract

L’articolo narra l’esperienza vissuta da un brigatista austriaco unitosi ai rifugiati spagnoli in quei drammatici momenti antecedenti lo sbarco alleato, nell’estate del 1944. Nel luglio dello stesso anno, dopo l’attentato ad Adolf Hitler, tutti avevano sperato, invano, in una rapida conclusione della guerra. In agosto la Wehrmacht aveva già lasciato spazio alle truppe d’invasione alleate, mentre l’amministrazione della vita civile rimaneva ancora in mano agli occupanti tedeschi. Nel frattempo i ‘Maquis’ iniziavano ad uscire dai loro nascondigli.
L’autore, che a quei tempi viveva con una famiglia di rifugiati spagnoli, ricorda in questo testo gli ultimi giorni delle SS e i primi della Liberazione, un evento che diede purtroppo il via a una serie di effetti secondari: da chi cercava di approfittarsi della situazione di confusione assumendo il controllo dei ruoli di potere, a chi perpetuava atti di vendetta e abusi, talora anche nei confronti di innocenti. L’autore ricorda come gli spagnoli della regione si riunirono per intraprendere il ritorno verso una patria, la Spagna repubblicana, che in quel momento sentivano ancora viva, e che credevano possibile recuperare. Gerhard Hoffmann, costantemente combattuto tra le sue due patrie, si vide obbligato a separarsi dagli spagnoli in attesa della liberazione dell’Austria, la sua terra.

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Testo integrale

Volontari austriaci nel Campo di internamento di Gurs (Francia – 1939)Visualizza l'immagine
Credits: DÖW, Dokumentationsarchiv des österreichischen Widerstandes / Spaniensammlung, Wien, Österreich

1Il 6 giugno del 1944 gli eserciti alleati arrivarono sulle coste francesi con undicimila aerei e cinquemila navi. A una distanza che al giorno d’oggi si percorre in meno di due ore ebbe luogo la più grande battaglia della storia militare. Il Vallo Atlantico – alla cui costruzione lavorarono centinaia di migliaia di prigionieri costretti ai lavori forzati, in gran parte repubblicani spagnoli – cominciò a vacillare, per poi essere sfondata nel giro di pochi giorni. Nell’arco del mese di giugno vennero prese Cherbourg, Caen, e Rouen: la strada verso Parigi era ormai aperta. In luglio le divisioni tedesche iniziarono quella ritirata che agli inizi del mese successivo si sarebbe trasformata in una fuga. Gli eserciti alleati poterono così avanzare verso la capitale francese.

2Nella tranquilla cittadina dove vivevo allora non si sentiva ancora il rombo dei cannoni. Sapevamo dello sbarco degli alleati, ma non eravamo a conoscenza dei movimenti delle truppe. Il duro regime degli occupanti tedeschi perdurava nel rigoroso controllo della Gestapo e della Feldgendarmerie e nelle grigie uniformi della Wehrmacht che si mischiavano tra i passanti. La popolazione civile continuava a vivere nella penuria alla quale era ormai abituata, mentre nella Soldatenheim si celebravano sontuosi festini. Le autorità francesi non eseguivano più alla lettera gli ordini impartiti dalla Kommandantura, e i gendarmi evitavano di procedere con assoluto rigore nei confronti dei maquisards.

3Noi che facevamo parte della Resistenza avevamo una visione romantica dello sbarco alleato e sognavamo assalti, esplosioni delle postazioni nemiche, e ogni altro tipo di azione che avrebbe ostacolato la ritirata delle truppe tedesche. Io dovevo svolgere il “Trabajo Antinazi” (“lavoro antinazista”, NdT), che consisteva nello sfruttare la mia conoscenza del tedesco per entrare in contatto con soldati dell’esercito occupante e cercare di convincerli che la guerra era ormai persa. Per questo motivo mi ero infiltrato come falegname nella locale caserma tedesca. Fingevo di balbettare qualcosa di tedesco, dando a vedere che mi sforzavo di trovare le parole giuste quando in realtà le stavo solo storpiando. All’ufficio di collocamento un ufficiale voleva mandarmi a lavorare in Germania, ma la segretaria scrisse sul mio modulo «falegname in caserma», e quel 'beone' del sottufficiale lo firmò. In quella Francia in attesa della liberazione tutti simpatizzavano per la Resistenza, anche solo con barzellette anti-tedesche sussurrate tra amici. Perfino il viceprefetto dimostrava il suo patriottismo concedendo documenti falsi ai resistenti minacciati dalla Gestapo (fu così che ottenni la mia dichiarazione di «cittadino spagnolo nato a Zaragoza», grazie al quale riuscii a entrare nella caserma tedesca per mettere in atto il trabajo antinazi).

4Sul mio nuovo posto di lavoro ero testimone dei soprusi che i sadici ufficiali commettevano nei confronti delle nuove reclute. Sentii parlare alcuni di quei ragazzi nel dialetto della mia terra, una lingua molto più dolce del tedesco del nord. Nei momenti di riposo, quando si riunivano nei bagni di fronte al mio laboratorio, li sentivo lamentarsi delle proprie condizioni. Un giorno non riuscii più a contenere l’emozione e dissi loro alcune parole di conforto in puro viennese: che sorpresa sentire il falegname spagnolo che li consolava nel loro stesso dialetto! Questa, in realtà, avrebbe potuto essere una svista imperdonabile; se una di quelle reclute avesse deciso di denunciarmi sarei di certo finito in cella. E invece quei bagni si convertirono in una specie di centro clandestino per i nostalgici della patria lontana.

5Anni dopo, quando tornai nel mio paese, incontrai alcuni amici d’infanzia che avevano servito nell’esercito tedesco, e ci chiedemmo come ci saremmo comportati se le nostre strade si fossero incontrate nella Francia occupata. Loro erano sicuri che ci saremmo abbracciati, felici di esserci ritrovati. Io però lo dubito, chi avrebbe rischiato la propria vita per salutare un amico che secondo la legge era un traditore?

  • 1 Nell’originale trascritto da Hoffmann, il luogo è indicato con il nome di “Solange”. Trovandosi per (...)

6Io, d’altra parte, trovandomi di fronte a soldati in uniforme tedesca, avrei dovuto considerarli dei nemici, e in caso di combattimento il mio dovere sarebbe stato quello di ucciderli. Contemporaneamente li consideravo miei compagni, amici obbligati spesso forzatamente a servire i nazisti. Ma nonostante si percepisse che la fine era vicina, ci trovavamo ancora sotto il regime della Kommandantura della Wehrmacht e in qualsiasi momento ci si poteva imbattere in un distaccamento delle SS. I magistrati francesi non eseguivano più gli ordini come un tempo, d’altronde chi avrebbe voluto essere visto come un Collaborateur alla vigilia del cambiamento al potere? Nell’agosto del 1944 la nostra vita stava diventando sempre più difficile. Il mio miserabile salario non ci permetteva di fare la spesa, né regolarmente, né tantomeno al mercato nero. La domenica camminavo per ore con la mia fidanzata catalana, figlia di rifugiati repubblicani, tra i bei campi coltivati della Sologne1 alla ricerca di qualcosa per placare la fame, e a volte barattavamo una coperta o del sapone con un pezzo di formaggio di capra, che poi dividevamo con i suoi fratelli…

7Quando agli inizi di agosto, anche se ancora da lontano, si cominciò a sentire il rombo dei cannoni, noi stavamo ancora vivendo nella più assoluta tranquillità. Che importanza potevano avere le quotidiane avversità? Con la nostra giovane sicurezza le avremmo vinte di sicuro! C’erano dubbi? Io frequentavo la colonia dei repubblicani spagnoli, che ovviamente sapevano della mia vera identità, ma mi consideravano uno di loro. La mia fidanzata era figlia di un funzionario sindacale che venne ucciso dai falangisti quando, nel febbraio del 1939, i vincitori della guerra civile spagnola entrarono nel loro paese. La madre prese con sé i tre figli e si unì alla valanga di quasi mezzo milione di fuggitivi che attraversò la frontiera alla ricerca di rifugio in Francia. La mia fidanzata era la figlia maggiore, l’altra sorella aveva diciassette anni e il fratello dodici. Come tante madri spagnole, Mercedes si ritrovò in un paese di cui non conosceva la lingua, senza alcuna risorsa, obbligata a dipendere dagli scarsi sussidi erogati dalle autorità francesi. Io avevo una stanzetta in una casa vicina alla loro, ma passavo molto tempo dai Servats, che mi fecero sentire subito un membro della famiglia. Tra di loro parlavano in catalano, lingua che poco a poco cominciai a capire, mentre con me comunicavano in spagnolo.

8Era il 22 luglio del 1944 quando arrivarono le prime notizie dell’attentato ad Adolf Hitler. Tutti pensammo che a quel punto il popolo tedesco si sarebbe disfatto di quel regime che lo stava chiaramente trascinando verso il peggior disastro della propria storia. Chi pensava, nell’estate del 1944, che la pazzia sarebbe andata avanti per altri nove mesi? Nell’agosto di quell’anno nessuno sospettava che dozzine di magnifiche città tedesche sarebbero state ridotte in macerie fino a che russi e americani non si fossero abbracciati tra le rovine di Berlino. Mentre aspettavo quella pace tanto sognata scrissi sul mio diario questo appunto:

“Al di là delle Alpi è arrivato il grande momento, la grande trasformazione. Un’altra guerra persa! Quanti mutilati di guerra mendicheranno per le strade in attesa che coloro che questa volta ne sono usciti indenni li compatiscano?”

  • 2 «Non va bene. I francesi non sono tedeschi. Io lo posso fare ».
  • 3 «Ingresso vietato».

9…questi erano i ricordi della mia infanzia, vissuta in un paese vinto e disperato dopo la Grande Guerra. Nel mio laboratorio ormai non costruivamo più ridicoli modellini di carri armati. Adesso gli ufficiali ci chiedevano valigie di legno, che noi fissavamo sul fondo solamente con tre chiodi, in modo che i loro bottini rimanessero in Francia. Un giorno stavo andando come di consueto dalla caserma dove lavoravo verso la casa della mia fidanzata, portando con me delle provviste per i tre ragazzi che vi si stavano nascondendo in attesa di entrare nel maquis. Per strada mi aspettava una sorpresa: un distaccamento delle SS si era installato esattamente all’incrocio che portava alla zona in cui vivevamo. Una delle guardie, un ragazzo biondo, con la sua odiosa uniforme grigia, stava fissando un cartello con la scritta “EINTRITT VERBOTEN!”. Non c’erano alternative, dovevo passare proprio da lì! Dovevo arrivare a casa a tutti i costi. Cercando di rimanere calmo mi diressi verso il biondo SS, e gli dissi nel peggior tedesco che riuscii a balbettare: «NIX GUT – FRANZOSEN NIX DEITCH; – IK DIR MAKEN»2. Il militare, felice dell’inaspettato aiuto, mi diede il gessetto e io scrissi con accurata calligrafia: «ENTREE ENTREDITE»3. Poi lo aiutai a fissare il cartello, lui mi ringraziò, e mi fece passare.

10A casa della famiglia Servats le tre donne e il bambino erano spaventati. I tre ragazzi erano noscosti nella stanzetta dietro la porta, mentre nella piccola cucina le SS si erano sedute attorno alla stufa. Il capo, lo Sturmbannführer (o forse l’Obersturmbannführer) stava di fronte alla signora, e conversava pacificamente con lei nel suo corretto francese scolastico. Era ovviamente un uomo di buona famiglia; ci disse che era di Vienna e che i suoi genitori erano ungheresi. Verso mezzogiorno, all’improvviso, se ne andarono quasi tutti, lasciando solo due o tre militari di guardia. Tornarono all’imbrunire, si riunirono di nuovo in cucina e ripresero la conversazione. Il capo diede alla signora Servats la sua giacca, chiedendole di attaccargli un bottone. Quando si mise gli occhiali la povera donna vide il buco di un proiettile e l’SS le spiegò tranquillamente, sempre con il suo correttissimo francese scolastico: «Ce matin, c’etait d’un de vos gens…», “Questa mattina, era uno dei vostri…”.

11Perché non ci catturarono, se avevano già sospetti su di noi? Forse fu per poter continuare a godere dell’idillio di quel pacifico episodio ormai prossimo alla fine. Sulla porta vidi un SS che piangeva. Era il ragazzo biondo della mattina, che sentii singhiozzare amaramente: «Ich möcht’ heim, zu Mutter…», “Voglio andare a casa, dalla mamma…”. Avrebbe dovuto aspettare ancora nove mesi, nei quali il rischio di perdere la vita sarebbe stato molto elevato. La mattina dopo non c’era più quella confusione. Le SS se ne erano andate.

Liberté, liberté, chérie!4

  • 4 «Libertà, libertà, mia cara!».

12Le SS se ne andarono, ma quelli della Wehrmacht rimasero. Gli alleati si stavano avvicinando, lo si sapeva già da giorni, ma i tedeschi non riuscivano a organizzare l’evacuazione del loro complesso apparato con la dovuta rapidità. Salutai due delle giovani reclute che solitamente si riunivano nei bagni. Se ne andarono con la truppa, non pensarono nemmeno all’ipotesi di disertare, perché c’era il rischio che i guerriglieri francesi li catturassero. Portavano l’uniforme nemica, ed eravamo ancora in guerra.

13Durante una di quelle calde notti di agosto ci fu una sparatoria tra i maquisards che iniziavano a penetrare in città e alcune pattuglie tedesche in ritirata. A mano a mano che i tedeschi se ne andavano, il numero di guerriglieri che nei giorni precedenti si erano riuniti nei boschi limitrofi aumentava. Scendevano in strada anche molti degli abitanti che fino a quel momento avevano scrutato la situazione nascosti dietro le tende di casa. Ora che la liberazione era ormai a un passo, tutti avrebbero voluto aver preso parte alla Resistenza. Bisognava occupare le posizioni chiave prima che la vecchia burocrazia se ne appropriasse. Alcune povere ragazze che avevano frequentato dei militari tedeschi furono trascinate sul balcone della prefettura e rapate a zero tra le grida di gioia del popolo, che urlava: “A morte i traditori!, Viva la libertà!”.

14Quando Romorantin si svegliò, la mattina di quel giorno memorabile, la città era libera… libera… libera! Dopo quattro anni di occupazione tedesca finalmente la Kommandantura, la Gestapo, le SS e gli altezzosi ufficiali con l’odiata uniforme grigia non c’erano più; la leva non era più obbligatoria e i raccolti non sarebbero più finiti nelle mani del nemico. Era l’inizio di una nuova vita. Pochi giorni dopo Parigi venne liberata e i carri armati alleati chiamati “Jarama”, “Guadalajara”, “Belchite”, con a bordo repubblicani spagnoli, entrarono nella capitale accolti da una folla festante.

15Nel frattempo in Spagna Franco rimase al potere, benché tutti pensassero che una volta sconfitti i suoi protettori il regime sarebbe crollato. I miei amici repubblicani, impazienti di tornare nella propria terra, si riunirono per andare a Vierzon assieme a tutti gli altri spagnoli della zona, in attesa di ricevere indicazioni. Ma già nel maggio del 1944, durante un discorso in parlamento, il primo ministro britannico Winston Churchill si era implicitamente dichiarato a favore del regime franchista, ringraziando il dittatore spagnolo di essere rimasto neutrale. Inoltre, in vista della sempre più vicina Guerra Fredda, inviati del presidente Roosevelt erano in trattativa con Franco per assicurarsi punti strategici in Spagna.

16Nell’autunno del 1944 dovemmo convincerci che i vincitori della guerra non avrebbero mosso un dito contro Franco. Bisognava abbattere la dittatura con le armi. Cominciammo con il parlare di “Reconquista”, e i repubblicani rifugiatisi in Francia si prepararono alla lotta. La maggior parte di coloro che attraversarono la frontiera con le armi strappate ai tedeschi cadde quasi subito nelle mani della Guardia Civil. Furono pochi gli infiltrati che riuscirono a rimanere nascosti tra i boschi, tanto che pochi anni dopo, intorno al 1950, tutti noi dovemmo ammettere che la Reconquista era fallita.

17Io personalmente ero ancora tormentato dal dilemma di dover scegliere tra i due paesi che consideravo la mia patria. Nell’autunno del 1944 gli angloamericani erano stazionati sulla riva del Reno, e i tedeschi si trovavano davanti a Berlino. In dicembre, dopo il fallimento dell’ultimo disperato attacco di von Rundstedt nelle Ardenne, pensai che l’Austria sarebbe stata liberata di lì a poco e che il mio dovere sarebbe stato quello di tornare nel mio paese.

18Dovemmo salutarci: i miei amici si diressero verso sud mentre io andai a Bruxelles, dove speravo di rincontrare mia madre, quella povera donna che aveva sopportato cinque anni di miserabile vita da rifugiata sotto la costante minaccia di deportazione. Lì venni a sapere che era stata detenuta e deportata ad Auschwitz poco prima che gli alleati entrassero in città. Per tornare in Austria dovetti aspettare altri sei mesi, fino a quando l’Esercito Rosso entrò nella “mia” Vienna liberata e ridotta in macerie.

19I miei compagni spagnoli, allora solo dei ragazzi, avevano ormai i capelli bianchi quando, finalmente, poterono ritornare nella loro tanto agognata patria.

Appendice fotografica5

  • 5 Va fatto un particolare ringraziamento a Irene Filip, responsabile della Spanien-Dokumentation des (...)

20Qui di seguito sono riportate alcune foto che ritraggono volontari austriaci delle Brigate Internazionali che condivisero, insieme a Gerhard Hoffmann, il duro periodo di sopravvivenza nei campi dei rifugiati spagnoli in Francia. La maggior parte di essi partecipò poi nella Resistenza francese e quindi cooperò con gli alleati alla liberazione dei paesi sottomessi al controllo della Germania nazista. Non tutti ebbero la fortuna di poter tornare in Austria; alcuni infatti morirono durante l’esilio nei campi in Francia o furono arrestati dalla Gestapo ed inviati nei campi di concentramento nazisti.

Le foto sono state gentilmente concesse (ed autorizzate alla pubblicazione) dal DÖW – Dokumentationsarchiv des Österreichischen Widerstandes / Centro di Documentazione della Resistenza Austriaca di Vienna.

Figura 1. Volontari comunisti austriaci nel Campo di internamento di Gurs (Francia, 1939)

Figura 1. Volontari comunisti austriaci nel Campo di internamento di Gurs (Francia, 1939)

Prima fila (in ginocchio) da sinistra a destra: Hermann Peczenik, Franz Brandstätter, Otto Kustka, Franz Pixner; seconda fila (in piedi) da sinistra a destra: Alois Peter, Johann Eichinger, Leopold Spira

Figura 2. Vita al campo di Gurs: costruzione del modellino della Wiener Riesenrad (Ruota panoramica di Vienna), simbolo della città (ca. 1939-1940)

Figura 2. Vita al campo di Gurs: costruzione del modellino della Wiener Riesenrad (Ruota panoramica di Vienna), simbolo della città (ca. 1939-1940)

Da sinistra a destra: Miron Pasicznyk, Josef Voda, Ernst Kuntschik

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Note

1 Nell’originale trascritto da Hoffmann, il luogo è indicato con il nome di “Solange”. Trovandosi però nella regione “Centre” (così come il paese di Romorantin, citato più avanti), il luogo riportato dovrebbe essere quindi Sologne.

2 «Non va bene. I francesi non sono tedeschi. Io lo posso fare ».

3 «Ingresso vietato».

4 «Libertà, libertà, mia cara!».

5 Va fatto un particolare ringraziamento a Irene Filip, responsabile della Spanien-Dokumentation des DÖW, per aver facilitato le immagini e le informazioni sui volontari austriaci in Spagna. Fondo: DÖW, Dokumentationsarchiv des österreichischen Widerstandes – Spaniensammlung; peczenik-hermann.jpg, kuntschik ernst 2.jpg.

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Indice delle illustrazioni

Titolo Figura 1. Volontari comunisti austriaci nel Campo di internamento di Gurs (Francia, 1939)
Legenda Prima fila (in ginocchio) da sinistra a destra: Hermann Peczenik, Franz Brandstätter, Otto Kustka, Franz Pixner; seconda fila (in piedi) da sinistra a destra: Alois Peter, Johann Eichinger, Leopold Spira
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Titolo Figura 2. Vita al campo di Gurs: costruzione del modellino della Wiener Riesenrad (Ruota panoramica di Vienna), simbolo della città (ca. 1939-1940)
Legenda Da sinistra a destra: Miron Pasicznyk, Josef Voda, Ernst Kuntschik
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Notizia bibliografica digitale

Gerhard Hoffmann, «“Vivere in tempo di guerra”»Diacronie [Online], N° 7, 3 | 2011, documento 14, online dal 29 juillet 2011, consultato il 09 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/diacronie/3326; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/diacronie.3326

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Autore

Gerhard Hoffmann

Iscritto alla Gioventù Comunista di Vienna, sua città natale, Gerhard Hoffmann (1917) partecipò in prima persona ai difficili anni del governo Dollfuss, durante i quali le strade della capitale austriaca furono teatro di scontri tra i sostenitori della Sinistra e i seguaci dell’austrofascismo e del movimento nazista. Nel 1938, poco prima dell’Anschluβ, fugge a Praga e da lì, nell’estate dello stesso anno, si sposta in Spagna, dove si arruola nelle Brigate Internazionali. Partecipa agli ultimi combattimenti della battaglia dell’Ebro e della difesa di Barcellona, per poi rifugiarsi in Francia nel gennaio del 1939. Conosce in prima persona le dure condizioni di vita degli esiliati nei campi di Saint Cyprien, Gurs, Argèles-sur-mer e altri ancora. Costantemente circondato da amici spagnoli, prende parte alla Resistenza e lotta con loro per la liberazione della Francia. Segue gli alleati in Belgio e quindi in Germania (visitando le prima città tedesche occupate dopo i pesanti bombardamenti), per tornare nuovamente a Vienna verso la fine del 1945. Dopo aver assistito alle celebrazioni per la firma del Trattato di Stato e alla proclamazione della Seconda Repubblica Austriaca, si stabilisce definitivamente nella capitale, dove lavora e vive con la famiglia. In seguito partecipa a progetti di volontariato internazionale, soprattutto in Centroamerica (Nicaragua); attualmente, all’età di novantaquattro anni vive in un piccolo e tranquillo paese nei dintorni di Vienna.

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Traduttore

Chiara Conter

Chiara Conter si è laureata in Scienze Linguistiche per le imprese, la comunicazione internazionale e il turismo presso l’Università degli Studi di Trento nel 2010, con una tesi dal titolo El río del olvido de Julio Llamazares: traducción y percepción intercultural. Successivamente ha frequentato la Scuola di specializzazione per traduttori editoriali presso l’agenzia formativa tuttoEUROPA di Torino. Ha collaborato alla traduzione del libro di racconti La fiamma in bocca. Giovani narratori cubani, Voland (2009) e del romanzo La sindrome di Rasputin, Sellerio, in corso di stampa.
URL: < http://www.studistorici.com/2011/12/28/chiara-conter/ >

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