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II. Socialdemocratici e laburisti
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La socialdemocrazia nordica e la “sfida democratica al capitalismo”

Paolo Borioni

Abstract

L’attuale crisi globale può essere forse d’aiuto alla socialdemocrazia europea per trovare una strada politica differente. Il nocciolo della socialdemocrazia non è il welfare state universalistico, ma l’ambizione di rappresentare le classi lavoratrici e parte delle classi medie così da riformare il modo in cui il capitalismo utilizza i fattori della produzione. In particolare, lo scopo è quello di competere con le forze neoliberali (qualcosa che le socialdemocrazie negli anni novanta avevano quasi sempre smesso di fare), sostenendo l’idea secondo cui un basso livello di sfruttamento dei lavoratori e un alto livello di innovazioni produrranno una crescita di gran lunga più costante e sicura. Essenziale per questo tipo di crescita è il ruolo dinamico di salari e investimenti e, quindi, l’alto impiego e il welfare state. In virtù di tutto questo, un’analisi dei reali elementi fondanti del successo delle socialdemocrazie scandinave può essere utile specialmente in questo periodo.

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Testo integrale

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Credits: by marza on Flickr (CC BY 2.0)

Introduzione

1Il saggio tratta dalle idee errate che prosperano sulle socialdemocrazie in genere, e sui modelli sociali nordici in particolare. Il fine è di meglio comprenderne le (vere) caratteristiche e i punti critici. Ma anche – essendo quelle nordiche per vari motivi socialdemocrazie piuttosto “di successo” (almeno fino a pochi anni orsono) – di definire quali siano i migliori e più distintivi caratteri del socialismo europeo in generale.

2L’ipotesi di lavoro da cui parte questo testo, peraltro, è che proprio la crisi globale in corso stia evidenziando con maggiore nettezza le caratteristiche comuni di questa famiglia politica. Tale tendenza rappresenta un ritorno al nocciolo del socialismo democratico, e deriva in gran parte dalla crescente consapevolezza dei gravi limiti del periodo “blairiano” (o “ulivista”, o del “Neue Mitte”). Il saggio pone in questo contesto l’analisi delle difficoltà e delle opportunità che sono oggi dinanzi ai partiti socialdemocratici nordici e ai loro alleati.

1. Un socialismo europeo. Con più coerenza

  • 1 «A willingness to pay for other peoples services and benefits rests upon the understanding that the (...)
  • 2 È il caso (oltre che di teorici come Michael Walzer ed altri ancora) dell’esponente laburista brita (...)
  • 3 Si veda ad esempio come un caso particolarmente chiaro SALVATI, Michele, «Contro il declino la lezi (...)

3Sui sistemi sociali nordici si odono spesso credenze pre-politiche ed etniciste. Tony Judt ad esempio sosteneva che la ridotta dimensione e compattezza etnica dei popoli nordici favorisce la loro volontà di pagare alte tasse1. In base a questo tipo di approccio non si spiegherebbe allora come mai il Portogallo, l’Irlanda, o la Grecia e molti altri paesi piccoli e compatti abbiano avuto storie così diverse, e versino oggi in così difficili condizioni. Queste opinioni a dir poco semplicistiche hanno origine specialmente da intellettuali anglosassoni. Questi ultimi, se di destra, non riescono a spiegarsi i successi competitivi e sociali di paesi che adottano parametri opposti a quelli che essi sostengono nei propri. E ricorrono quindi al fattore pre-politico attribuendo ai paesi nordici il ruolo di eccezioni irripetibili, di esperienze fuori casistica. Molti progressisti anglosassoni, invece, ricercano una sorta di reazione “morale”, oppure “comunitarista” all’epoca neoliberale (spesso comprendendovi Blair e Clinton)2. Perciò eleggono gli elementi pre-politici o extra-politici a fattori decisivi del socialismo nordico e dei suoi successi. Da tale forma del semplicismo anglo-sassone discendono due tipologie di conseguenze. La prima è quella che Gramsci avrebbe chiamato “provincialismo cosmopolita”. Secondo questa abitudine mentale, in sostanza, la patente di “modernità” o di “internazionalità” si assume con una semplice operazione: uniformarsi al modo di pensare anglosassone (compreso l’utilizzo di anglicismi frequenti nell’eloquio). Ciò vale per tutto: i sistemi socio-economici, i sistemi elettorali, quelli costituzionali, quelli parlamentari3. La civiltà europea-continentale stessa va interpretata e criticata in quella luce. E così la socialdemocrazia e la società dei nordici.

  • 4 Cfr. l’introduzione in CHRISTIANSEN, Niels Finn, PETERSEN, Klaus, EDLING, Niels, HAAVE, Per, The No (...)

4In tutto o in parte da questa stessa distorsione proviene anche la modellistica politologica (o sociologica) che si proietta sui sistemi socio-politici nordici. Essa assolutizza ed esagera grandemente, per esempio, la centralità “caratterizzante” dei tratti “universalistici” del welfare nordico, ipostatizzando così le categorie proposte dai famosi saggi di Gösta Esping Andersen, che la storiografia nordica ha da tempo ridimensionato4. Ciò, per le mentalità fortemente politologiche, permette di non confrontarsi con la dinamica fattuale della storia sociale ed economica, e conferma gli altri assunti grandemente insufficienti già menzionati. Infatti, il welfare universalistico basato sulle tasse aiuta a sostenere l’idea di società etnicamente propense a pagare alti tributi. Nonché quella di una democrazia consensuale di per sé.

5Ciò nasconde illegittimamente della storia nordica quelle che sono le sue caratteristiche principali: a) la forte auto-organizzazione operaia e sindacale; b) la profonda riforma del capitalismo discesa dal confronto fra interessi che ne è risultato; c) l’idea di compromesso fra interessi distinti, ben diversa dall’idea di “consenso naturale alle tasse”; d) in ultima analisi la necessaria constatazione che bisogna del tutto invertire l’ordine logico-esplicativo dei fattori: è il modello sociale (di compromesso fra interessi distinti e fortemente organizzati) che ha prodotto la (relativa) bontà dei risultati (tra cui la relativa compattezza nazionale), non già (come discende dalla modellistica a cui si faceva cenno prima) la “compattezza naturale” ad aver prodotto il sistema sociale (e i suoi risultati).

6È mia forte convinzione che la storia nordica (e quella contemporanea in genere) si comprende solo ricercando il dispiegarsi di queste dinamiche. Mentre assai poco contano i “caratteri originari” o “pre-politici”. Tra l’altro, sottolineando la centralità di questi ultimi elementi, si ottiene un effetto di oscuramento della posizione centrale, nelle società democratiche nordiche, assunta da una cultura politica fondamentale del nostro continente: il socialismo democratico. Anzi: è molto verosimile che una delle finalità di questo approccio sia proprio questo oscuramento.

7Il socialismo democratico europeo è quella cultura che organizza la classe lavoratrice (anche appartenente ai ceti medi) perché ritiene che solo riformando in profondità il capitalismo, l’assetto costituzionale democratico e l’economia di mercato funzionano secondo le loro potenzialità positive. Nel concreto: secondo la socialdemocrazia europea, solo dall’organizzazione democratica del lavoro collegata all’azione politica di un partito socialista democratico sortisce un capitalismo che privilegia l’investimento di lungo periodo e l’innovazione anziché lo sfruttamento intensivo della manodopera. Questo positivo risultato, inoltre, si ottiene al meglio se al centro c’è la democrazia parlamentare, ovvero se i governi sono non già il centro di massima concentrazione della sovranità democratica (come negli Usa del maggioritario uninominale) ma solo il punto di coordinamento di una società che negozia l’economia in modo policentrico, se non addirittura diffuso. Il Mitbestimmung tedesco, i meccanismi di co-decisione industriale olandese e austriaca e i loro paralleli nordici sono appunto alcuni momenti e snodi di tale negoziazione.

8Rimane da definire il ruolo del welfare state in tutto questo. Nel sistema delineato di “economia negoziata” il welfare state è sia un mezzo, sia un esito. Esso è il mezzo concreto tramite cui l’organizzazione del lavoro, e il singolo lavoratore, possono resistere meglio all’offerta di lavoro “povero”. Rinforzando così la controproposta “ricca” (con più innovazione, più sapere, più investimento e più salario) del socialismo democratico e dei suoi alleati. Il welfare state, inoltre, è anche l’esito della controproposta di riforma della produzione capitalistica in questo senso: tanto più si opera nel quadro di questa controproposta e del suo modo di investire, tanto più il welfare state si rafforza. Il rafforzamento è sia economico-finanziario, sia politico-sociale. Il welfare state posto nel quadro della riforma del capitalismo, infatti, ha a disposizione le risorse per essere inclusivo, e, per esempio, opera un’alleanza anche con i ceti medi, cui procura lavoro e occasioni di risparmio (mentre il sistema educativo e di assicurazione sanitaria anglo-americano genera spesso l’indebitamento dei ceti medi, oltre che la marginalizzazione dei ceti popolari). Solo in questo contesto, in questa dinamica storico-economica e socio-politica, nasce il welfare state universalistico. Tutto ciò per aggiungere forza alla teoria che esso non è affatto, come vedremo meglio sotto, il risultato di una compattezza etnica, ma di un ben preciso modello di sviluppo.

9Gli alti salari e in genere il ciclo investimenti-salari-welfare sono l’impianto dinamico politico-sociale del socialismo democratico europeo. Ciò è almeno in parte vero anche nei paesi mediterranei come il nostro, che però se ne sono giovati per un tempo troppo breve per poter far sì che la sinistra diventasse davvero socialdemocratica e il sistema economico potesse beneficiarne in modo sistematico e ultimativo. La storia del Psi ne è un esempio, con le sue culture preziose per la democrazia e la riforma della società, ma sparse, poco omogenee, contemporaneamente ministerialiste e massimaliste, e infine (nel periodo post-1976, ma anche prima) troppo inclini al politique d’abord, alla manovra sovrastrutturale e tattica, perché deficitarie (tranne che nei filoni di De Martino, Brodolini, Giolitti e alcuni altri) di pensiero storico-economico profondo, nonché di risorse organizzative che lo applicassero. La storia del Pci è l’altra metà funzionale (o dis-funzionale) di questo esempio, con la sua egemonia organizzativa tradotta in pratica “socialdemocratica” realizzata, e la sua cultura politica sempre ansiosa di terze vie, o impegnata in maturazioni mai concluse.

10Ad ogni modo, il socialismo europeo ha tutto questo in comune: sia il radicamento egemone che fu del Pci, sia il movimento riformista che fu del Psi. E la crisi attuale, dopo anni di appannamento “pseudo-riformista” pare poter rinforzare proprio questa identità.

  • 5 BERMAN, Sheri, The Social Democratic Moment. Ideas and Politics in the Making of Interwar Europe, C (...)

11Ma quanto abbiamo detto serve nel nostro contesto soprattutto a comprendere un punto importante: le socialdemocrazie nordiche sono nient’altro che socialismo europeo. Ovvero: se seguiamo, come propongo di seguito, la dinamica storico-sociale anziché la modellistica politologia, emerge che esse sono solo l’applicazione (forse più coerente) delle dinamiche sociali, delle dottrine politiche e dei sistemi di alleanza comuni a tutto il socialismo europeo5.

2. Modello Ghent e dinamica dei sistemi sociali nordici

  • 6 ÅMARK, Kläs, LUNDBERG, Urban, Diritti e sicurezza sociale: il Welfare state svedese, 1900-2000, in (...)

12Come bene posto in rilievo dalla moderna storiografia nordica6, all’origine del sistema sociale scandinavo e finlandese non c’è affatto il welfare universalista (componente assai tarda del sistema stesso) ma il cosiddetto “modello Ghent”, che come rivelato dal nome è peraltro di derivazione belga. Ciò significa che in tutti i paesi nordici l’autonomia di classe era esercitata fin dagli albori attraverso casse di disoccupazione e malattia gestite dai sindacati. Il “modello Ghent” (nonostante la non obbligatorietà dell’iscrizione sindacale) comportava principi importantissimi: a) al contrario del meccanismo bismarckiano statalista-centralizzante (dai nordici esplicitamente eletto come esempio da cui rifuggire) si praticava l’indipendenza dallo Stato della classe organizzata; b) tale indipendenza permetteva di combattere meglio qualunque possibile tendenza ad un regime di bassi salari, data la consistenza che il sistema Ghent conferisce al singolo lavoratore (sotto forma di alti tassi di sostituzione) e al sindacato (sotto forma di alta sindacalizzazione); c) la struttura assicurativa delle casse stesse, per essere sostenibile, necessitava di alta occupazione e alti salari.

13Bisogna aggiungere che tale tipologia organizzativa del sindacato di ispirazione socialista era il frutto di una più ampia tendenza alla autonomia organizzativa del sociale fondatasi grosso modo fra il 1850 e il XX secolo. In modi vari, anche il mondo dell’agricoltura, dell’associazionismo etico-religioso, del welfare basato sul volontariato ne sono stati protagonisti. Normalmente si parla di questo periodo come di quello dei “movimenti popolari” (in svedese folkrörelser, in danese folkebevægelser), il cui fine e principale conquista politica fu il suffragio universale anche femminile ottenuto fra il 1906 (Finlandia) e il 1918 (Svezia). Il movimento operaio è stato uno (alla lunga il più importante) di questi movimenti. L’economia diffusamente negoziata è tra le altre cose il risultato di tale forma della nazionalizzazione delle masse. Il “sistema Ghent”, a sua volta, è stato la modalità organizzativa derivata dalla natura di movimento popolare del sindacato, che ha reso particolarmente coerente l’impianto organizzativo dei lavoratori, e particolarmente efficace e radicata nella sua classe di riferimento la socialdemocrazia.

14La potenza di tale impianto è stata per un lungo periodo (ed è ancora, nonostante i problemi che diremo) assai forte. Chi, come il ministro socialdemocratico Gustav Möller, tentò anzitempo (intorno al 1950) di convertire la socialdemocrazia svedese e il sindacato LO (Landsorganisationen) al welfare universalista, uscì totalmente sconfitto. La ragione sta nei vantaggi che le caratteristiche del “sistema Ghent” potevano vantare rispetto all’egemonia socialdemocratico-sindacale, alla natura competitiva di paesi industriali in rapido sviluppo e alla primazia del riformismo socialista. Il capitalismo nordico, perciò, si adattò (anche per gli indubbi guadagni che ne venivano) a forme d’investimento di lungo periodo, tendenti alla piena occupazione e al sempre crescente investimento tecnologico.

  • 7 KETTUNEN, Pauli, The power of international comparison, in CHRISTIANSEN, Niels Finn, PETERSEN, Klau (...)

15Solo con la messa a punto di questo sistema di “parità”, fra interessi opposti7, come ben posto in evidenza dalla ricerca storica più qualificata, una realtà fatta di diffusa povertà (il 20% della popolazione svedese emigra fra XIX e XX secolo), radicalizzazione delle lotte (specie in Norvegia e Finlandia), guerra civile (Finlandia), e comunque fortissima conflittualità sindacale (Svezia) e prevalente economia agricola (Danimarca) si tramuta, pur secondo modalità e attraverso fasi non identiche, in qualcosa di diverso. Ovvero nel compromesso fra capitale e fortissime e distinte organizzazioni democratiche della classe (per quanto non esclusivamente di una sola classe). Ciò avviene dagli anni ’30 del XX secolo in poi.

16Peraltro, a questo contribuisce un’idea di sé dei paesi nordici che abbandona precocemente ogni velleità coloniale e di potenza. Già i cosiddetti “movimenti popolari”, a partire dal 1850, avevano vissuto uno spirito nazionale, come abbiamo visto, basato sull’organizzazione e l’attivazione popolare. Esso era diffidente rispetto al nazionalismo più monarchico, dinastico, comunque “di corte”, sostenuto dai nazional-liberali e dalla Destra storica, che i movimenti popolari percepivano giustamente come forze politiche del liberalismo elitista. La spesa militare eccessiva e dunque l’impresa di potenza, coloniale o protezionista che fosse, pareva peraltro poco consigliabile. Il dato geo-strategico oggettivo condusse infatti, in ultima analisi, alla vittoria netta di una visione non di potenza della nazione, in un contesto europeo in cui si affermavano invece grandi potenze come Prussia-Germania e Russia. Il punto, in sostanza, è che la costruzione di un’economia che non poteva basarsi né sul mercato interno (per la sua scarsezza) né sul militarismo-colonialismo (per le condizioni geostrategiche) permise di dedicare più risorse politiche alla edificazione di un diverso modello: la costruzione sociale della competitività, e poi anche del welfare. Si tratta, ancora una volta, di un tratto comune tipico del socialismo democratico europeo, che per i motivi detti e specifici dell’area nordica fu applicato in quei paesi con maggiore coerenza.

17Ma è tuttavia con il secondo dopoguerra che le potenzialità dell’ordine sociale acquisito si dispiegano pienamente. Il compromesso democratico basato sull’autonoma organizzazione della classe, e dunque sugli alti salari, non poteva che condurre ad una progressiva ascesa dell’innovazione, e ad un parallelo declino delle zone di bassi salari. Con gli anni ’50, infatti, fu messo a punto in Svezia (paese industrialmente più avanzato della regione) il cosiddetto sistema Rehn-Meidner. Esso prevedeva che il potere sindacale conducesse politiche salariali abbastanza espansive da indurre imprese e settori meno innovativi a chiudere i battenti. L’espansività dei salari, tuttavia, non doveva essere tale da provocare inflazione, o da porre prematuramente sotto pressione le imprese più innovative e capaci d’esportazione. Nel corso di quei decenni, non a caso, le spese dell’AMS (Arbetmarknadstyrelsen), autorità pubblica per il mercato del lavoro, balzarono dal 2 al 5% del bilancio dello Stato. Ciò significava che masse enormi di lavoratori venivano accompagnati (geograficamente e professionalmente: attraverso politiche attive e passive per la disoccupazione) verso i settori a più elevato valore aggiunto. La piena occupazione e la sempre maggiore espansione di settori industriali con salari alti (ma sostenibili grazie alla produttività e alla socialmente costruita disponibilità di nuova manodopera, che evitava “colli di bottiglia” nel mercato del lavoro) era così perseguita.

  • 8 OJALA, Jari, ELORANTA, Jari, JALAVA, Jukka (a cura di), The Road to Prosperity. An Economic History (...)

18L’importanza dell’organizzazione del complesso socialdemocratico-sindacale si nota però non solo in Svezia e in Norvegia, ma anche nella più agricola Danimarca e nella meno socialdemocratica Finlandia (dove rimarrà sempre fondamentale il partito di Centro condotto da Kekkonen). Ad esempio, la Danimarca, quando forza il passo verso la definitiva preminenza dell’industria (primi anni Sessanta) lo fa perseguendo alti salari. Attraverso le varie crisi produttive e occupazionali degli anni Settanta e Ottanta, e la preminenza della politica liberal-conservatrice (1982-1992) la scelta danese fu sostanzialmente confermata. Al momento di varare la cosiddetta “flexicurity” (1993-95) alto potere di sostituzione delle assicurazioni sindacali e alti salari furono ancora confermati. Così, elevate risorse pubbliche andarono a finanziare l’innovazione e le politiche attive del lavoro, con una spesa in ricerca e sviluppo che eguagliava o superava leggermente quella di Germania e Usa: il 2,6%. Anche la Svezia, del resto, dal 1981 ha accresciuto la propria spesa in questo campo passando dal 2,4 fino al 4% del Pil. Il trend è stato seguito anche dalla Finlandia: dall’1% nel 1981 a quasi il 4% del Pil8.

  • 9 KETTUNEN, Pauli, The power of international comparison, in CHRISTIANSEN, Niels Finn, PETERSEN, Klau (...)

19Tutte queste spese in produttività (cui vanno aggiunte quelle, elevate, per le politiche attive del lavoro) sono anch’esse in buona parte una conseguenza del cosiddetto “sistema Ghent”. Com’è stato constatato, infatti, gestendo quelle casse di disoccupazione, il sindacato è interessato a periodi di disoccupazione piuttosto ridotti, e quindi ad una certa efficienza della macchina che produce e diffonde produttività e innovazione9.

  • 10 MAGNUSSON, Lars, Sveriges Ekonomiska Historia, Stockholm, Tidens Förlag, 1996, p. 395.

20In tutto questo, che funzione ha avuto il welfare universalista? I dati mostrano inconfutabilmente che solo dagli anni Sessanta l’imposizione fiscale s’impenna oltre quella degli altri paesi sviluppati. Cioè, solo una volta che si erano già consolidati il sistema Ghent e gli elementi organizzativi, di strategia socio-economica e politica della socialdemocrazie e dei sindacati LO10. Soltanto allora si produrranno le istituzioni universalistiche del welfare, quasi tutte venute alla luce negli anni Settanta: ma come effetto relativamente tardo, non come fonte del sistema. Tale effetto, peraltro, finì per essere accolto dal movimento operaio perché era del tutto compatibile con il sistema di parità del movimento sindacale e operaio nel suo complesso. Infatti, il welfare universalistico, includendo le donne, perpetuava un altro fattore di forza del complesso socialdemocratico-sindacale: la piena o comunque l’altissima occupazione (la più alta al mondo, non a caso). Ciò avveniva, inoltre, rafforzando quei servizi e quei trasferimenti che permettevano al lavoratore in quanto cittadino (e non solo in quanto sindacalizzato iscritto alle casse del sistema Ghent) di presentarsi sul mercato del lavoro in una posizione di “parità” con il datore di lavoro.

21Dunque, l’universalismo non è la fonte né la principale modalità dinamica del modello nordico: esso viene molto dopo il NHS (National Health Service) britannico (1945-50), e si afferma peraltro in un periodo in cui le istituzioni universalistiche si consolidano anche altrove (non da ultimo, con il Servizio Sanitario Nazionale, anche in Italia). Certo, esso si afferma con maggiore vigore perché la trasformazione antecedente, con i suoi fattori dinamici politici, organizzativi, socio-economici e geostrategici, aveva preparato meglio il suo avvento. Infine, le potenzialità d’egemonia politica del riformismo socialdemocratico e sindacale ne risultavano rafforzate. Ma queste non erano tanto il consenso o la democrazia consensuale, bensì soprattutto, ancora una volta e in modo nuovo (per esempio tramite l’occupazione femminile nel settore pubblico sociale) la parità fra capitale e lavoro e il compromesso progressista che dalla parità discende. È la forza organizzativa del lavoro e della socialdemocrazia che porta il capitalismo all’accettazione del compromesso. Non la tendenza “etnica” al consenso. Né quella altrettanto “etnica” al pagare alte tasse: non a caso, appena l’imposizione fiscale supererà la media europea (nei tardi anni ’60) esploderà in Danimarca e Norvegia il malcontento, con il successo, oscillante ma duraturo, dei populisti anti-tasse, e in genere con il comparire di nuovi partiti eccentrici, o estranei, al classico impianto nordico politico “a quattro”, composto da Socialdemocratici, Conservatori, Liberal-agrari, Social-liberali (con l’aggiunta dei Comunisti, più forti in Svezia e specie Finlandia, più marginali in Norvegia e Danimarca).

3. Il concetto di “utenforskap” e l’attacco al modello nordico di riforma del capitalismo

22Con gli anni Novanta, e con il ritorno al potere in Svezia e Danimarca delle socialdemocrazie dopo periodi più o meno lunghi di governi liberal-conservatori, i sistemi nordici sono stati in grado di smentire le profezie sulla loro insostenibilità proprio intensificando le caratteristiche d’innovazione che abbiamo descritto. Ovvero imponendo gli alti salari come stimolo, e poi come base fiscale, di alte spese per innovazione, welfare e politiche attive del lavoro. Cioè di impiego sociale e negoziato del capitale. Erano così confermate, anche nell’età della globalizzazione, alcune tesi fondamentali che sono sempre state (e ora, alla fine dell’era Blair-Schröder-Prodi, tornano ad essere) il cuore comune del socialismo europeo: a) Il capitalismo non percorre spontaneamente la via dell’investimento di lungo periodo e in innovazione; b) Esso, lasciato a sé stesso, predilige invece l’investimento a breve, rischioso ma più redditizio, anche perché in tal modo riesce ad effettuare il residuo investimento produttivo in una condizione di superiorità (e non di parità) con il lavoro e i suoi rappresentanti; c) Per tutte queste ragioni la competitività, la produttività e l’alta occupazione (e anche altri fenomeni come la mobilità sociale) possono essere costruiti soltanto socialmente, e su un piano per lo meno di parità fra capitale e lavoro. Le attuali crisi economico-finanziarie globali provengono dal fatto che tali verità sono in effetti state eluse negli ultimi trent’anni.

23Tuttavia, proprio a causa dell’egemonia neoliberale, andavano perdendosi alcune delle condizioni favorevoli per la parità nordica. Per esempio le potenzialità “universalistiche” di questi sistemi. Con ciò intendiamo la loro capacità di acquisire produttività e piena occupazione con il fine di includere anche i ceti meno pronti alla riconversione continua delle competenze. Da cosa dipendeva tutto questo?

  • 11 WEISE, Kristian, «Kristian Weise og Martin Agerup, den bedsteidé, politikerne har overset», URL: < (...)
  • 12 KRIPPNER, Greta, The financialization of the American economy, in Socio-Economic Review, 3, 2005, p (...)
  • 13 STRÅTH, Bo, Mellan medbestämmande och metarbetare, Stochholm, Metall, 1998.

24Essenzialmente, da alcune discontinuità ambientali ed internazionali. La prima discontinuità era la tendenza all’investimento finanziario. Come ha recentemente notato Kristian Weise, direttore del think-tank progressista danese CEVEA: «Dall’essere uguale al Pil mondiale (1980) l’economia finanziaria è giunta a 212 trillioni di dollari: 3,4 volte il Pil mondiale 2010»11. Greta Krippner ha dipinto il fenomeno come segue: «No financial firms responded to falling returns on investment by withdrawing capital from production and diverting it to financial markets»12. Secondo queste analisi, la finanziarizzazione sarebbe appunto (tra le altre cose) un modo del capitalismo per discostarsi dagli obblighi connessi con i caratteri sociali della produzione e della disciplina che impone investimenti di lungo periodo e con profitti relativamente bassi rispetto all’investimento finanziario. Tanto per richiamare un altro aspetto tipico della storia economica nordica, anche il famoso “Piano Meidner” svedese, e la “Økonomisk Demokrati” danese possono essere interpretati come reazioni a questa tendenza del capitalismo. Tali proposte (mai del tutto realizzate) miravano alla costruzione di fondi dei dipendenti in cui confluivano in parte le indicizzazioni salariali. Investiti nelle grandi aziende, essi potevano ovviare alla caduta dell’investimento capitalistico dovuto, appunto, al fatto che il capitalismo tendeva a liberarsi da vincoli e discipline13.

25La seconda discontinuità era rappresentata dai parametri di Maastricht. E ciò non solo nel caso della Finlandia, che fa parte dell’Euro. In Svezia il debito sul Pil era giunto intorno al 60% nel 1992, ovvero nel mezzo della maggiore crisi economica e valutaria che il paese abbia mai vissuto. Poi, col ritorno socialdemocratico al governo fra 1993 e 2006, intensificando il nesso fra lavoro dipendente forte e spese in innovazione, la produzione di ricchezza ha ricondotto il rapporto debito/PIL al 40%. In Danimarca negli anni 1990 è avvenuto qualcosa di simile, e il rapporto debito/PIL, che era il 75% nel 1995, è sceso al 55% già nel 2000, per arrivare al 32% nel 2008. Qualcosa di analogo è avvenuto per il debito estero: dopo la grande crisi del 1992, in cui il debito estero era giunto a 1300 miliardi di corone, esso era arrivato a circa 200 nel 2006 (dall’l1 al 6% circa del Pil). In Danimarca calò dall’11,8% del 1995 al 6,6% del 2000.

26Cosa voleva dire ciò rispetto al modello nordico basato sul trinomio parità-compromesso-produttività? Semplicemente, che l’aggiornamento della manodopera, ovvero quella mobilità indotta non (come spesso si sente ripetere nel dibattito italiano) dalla flessibilità danese (che, infatti, non esiste in Svezia e Finlandia), ma appunto dai meccanismi ben più strutturali e socio-politici sopra descritti, comportava che i risultati produttivi venissero investiti in modo sbilanciato. Ovvero: in maniera esagerata nell’abbassamento dal debito pubblico, e in maniera risicata nel welfare e forse ancora più importante, nelle politiche attive per il lavoro. Ciò in parte era già cominciato ad avvenire durante i governi socialdemocratici, e aveva prodotto fenomeni vari, tutti legati alla tendenza a diminuire costantemente, anziché a stabilizzare, il debito pubblico. La liberalizzazione dell’offerta scolastica in Svezia, i tagli ai pur generosi salari di disoccupazione, lo stimolo di parallele assicurazioni sanitarie in Danimarca, la sempre maggiore brevità del percorso fra disoccupazione e acquisizione di nuove competenze per un nuovo lavoro (specie per i giovani) avevano l’effetto (irrevocabilmente misurabile e misurato) di aumentare le diseguaglianze in modo inedito. Nelle politiche attive del lavoro, poi, queste tendenze conducevano sempre più al cosiddetto creaming, cioè alla scrematura dei migliori anziché alla socializzazione delle competenze nella relativa eguaglianza. La socialdemocrazia vedeva allora crescere, nei lavoratori sindacalizzati nelle confederazioni LO, sia i partiti populisti, sia l’astensione. Ma anche la convinzione, da parte di alcune aristocrazie operaie, di essere individualmente meritevoli del proprio status. La sociologia elettorale danese ha quantificato questo ceto salariato passato al centro-destra intorno al 5% dell’elettorato, e lo ha chiamato Bjarne (da un nome di battesimo assai popolare). A ciò si aggiunga il raddoppio (dal 6 al 12%) della destra populista, anche questo in gran parte a spese della socialdemocrazia.

27Giunti così al potere, le strategie di governo dei liberalconservatori hanno metodicamente ampliato gli effetti deleteri per la parità fra le parti. In Svezia non è più possibile ottenere alcuna riduzione fiscale per le quote di adesione alla LO e alle casse di disoccupazione amministrate dai sindacati. In conseguenza di ciò questa doppia adesione costa ora 400 SEK (corone svedesi) di più al mese. Ciò si è tradotto in un arretramento della sindacalizzazione del 7,4% in un solo anno (attestandosi intorno al 70% o poco sotto). In una città come Stoccolma meno del 20% dei lavoratori in età giovanile aderiscono oggi al sindacato.

  • 14 Su tutte queste riforme recenti del modello sociale nordico si veda BORIONI, Paolo, «Paesi nordici: (...)

28In Danimarca l’opera dei governi di centro-destra post-2001 si è soprattutto incentrata su una riforma organizzativa dei centri per l’impiego affidandoli sempre più ai soli comuni anziché alla gestione delle parti sociali come in precedenza. Il governo centrale acquisisce maggiore controllo riguardo alle ragioni, alla natura e alla durata dei programmi di attivazione, potendo in molte circostanze regolamentare in maniera più stringente la scelta fra programmi di formazione, oppure avviare al lavoro disponibile qualunque esso sia. Inoltre, è avvenuto un cospicuo calo delle spese per le politiche attive del lavoro, così centrali per un reale funzionamento della flexicurity. Il fine è quello di trasformare il sistema: dal perseguimento negoziato e sociale della produttività alla flessibilità pura e semplice14.

  • 15 Skattereformen skyder hul i fagbevægelsens formue, 31, 2006, URL: < http://www.ugebreveta4.dk/2009/ (...)
  • 16 Uno dei maggiori esperti in materia, Jesper Due, osserva: «Una parte notevole del modello danese st (...)

29Infine, alcune riforme fiscali hanno nel 2009 cancellato le esenzioni alle rendite derivate dai patrimoni investiti dai sindacati15. Nello specifico, come chiariscono gli esperti, ciò condurrà ad un aggravio di 162 milioni di corone danesi per la LO. Sono colpiti i fondi risparmiati nelle casse di resistenza in caso di conflitto nel mercato del lavoro. In effetti, nel relativo testo di legge del 1985, si vede come le esenzioni fossero mirate a garantire il mantenimento del valore reale delle somme accantonate dai sindacati nelle casse per lo sciopero16.

  • 17 ESBATI, Ali, Lanseringen av ‘Utanforskapet’. Hvordan høyresiden svekker tilliten til tygdeordninger (...)

30A tutto questo si è aggiunta la strategia che la destra svedese ha chiamato di “utenforskap” (traducibile con “esclusione” dal lavoro)17. L’idea, recentemente imitata dalla destra norvegese che cercherà alle prossime elezioni di battere il governo di sinistra di Jens Soltenberg, è quella di non attaccare più il welfare in quanto tale, anzi di giurare fedeltà al “modello scandinavo”. La scelta è invece quella di denunciare come le varie istituzioni del sistema nordico (politiche attive del lavoro, casse Ghent per la disoccupazione e per la malattia ecc.) in sostanza tengano un certo numero (per i liberal-conservatori eccessivo) di persone fuori dal lavoro. Ciò avviene nel dibattito pubblico elencando tutte le persone in età da lavoro al di fuori da un’occupazione che stanno percependo una qualunque forma di trasferimento. Recentemente l’esponente liberal-populista norvegese Robert Eriksson ha quantificato tale numero in 600.000 persone abili al lavoro. Ora, i dati hanno appurato che di queste, 276.000 sono state dichiarate invalide al 100%. Il punto è tuttavia quello di affermare (abilmente) che la destra non ha nulla contro il welfare, ma solo contro le istituzioni “Ghent” e le procedure di attivazione alla base del potere di parità sindacale, in quanto queste passivizzerebbero un numero eccessivo di lavoratori. Ciò nonostante che, come è noto, i paesi nordici in questione siano le società con la maggiore partecipazione al lavoro al mondo.

31L’idea è quella di dividere il consenso socialdemocratico operaio da vasta parte delle classi medie: queste ultime si sentono protette dalle forme universalistiche (a partire dalla sanità) che il centro-destra non manifesta di volere attaccare. Inoltre, assieme alle aristocrazie operaie “Bjarne” di cui si è parlato (con salari o qualifiche particolarmente alti), esse sono tentate dagli sgravi fiscali che vengono promessi a condizione che si riesca a ridurre le spese relative alle politiche sotto attacco (il che confuta ancora la teoria della predisposizione naturale ed etnico-comunitaristica alle alte tasse dei nordici).

32Inoltre, la destra nordica manifesta l’idea “morale e individuale”, e non “sociale e negoziata”, di ottenimento dell’alta occupazione e della produttività. Tale idea è che il tasso d’occupazione aumenterà ancora abolendo parte cospicua delle garanzie relative al mercato del lavoro. A questo punto, sostengono i liberal-conservatori, la ricchezza e il gettito aumenteranno, e si potrà alleggerire il carico fiscale per tutti senza troppi tagli al resto delle istituzioni di welfare. Implicita, ma talvolta anche esplicita, è l’argomentazione per cui socialdemocrazia e confederazioni LO difendono le istituzioni nordiche del mercato del lavoro perché queste costituiscono il loro potere, ovvero il potere sindacale e socialista più forte e se necessario combattivo (non consensuale) al mondo. Ora, quest’ultima affermazione è senz’altro vera. Il punto è che, tuttavia: a) è assai dubbio che qualunque economia al mondo possa ottenere tassi occupazionali maggiori dei nordici (e infatti i risultati delle politiche liberalconservatrici sono negativi: negli ultimi anni in Svezia la disoccupazione è aumentata più che nella media UE); b) la via intrapresa tende ad “americanizzare” i paesi nordici, ovvero a immettere una zona di bassi salari (specie in alcuni settori protetti e per nulla innovativi come la ristorazione e i servizi alla persona) come via ad una maggiore occupazione. È però arduo credere che i paesi nordici, visti i risultati competitivi e sociali raggiunti, abbiano bisogno proprio di questo.

33D’altra parte, la socialdemocrazia e il sindacato, anche per gli errori commessi in passato, hanno oggi più difficoltà ad affermare apertamente che il proprio insediamento di consenso e potere va salvaguardato per il bene del paese e del modello nordico. Ciò dipende dal contesto economico ed egemonico neoliberale degli ultimi trent’anni, che ha disabituato la socialdemocrazia in genere ad affermare le basi sociali ed ideologiche del proprio peculiare riformismo. Ma la crisi sta in gran parte cambiando questo quadro. La vittoria della sinistra norvegese nelle ultime due elezioni, avvenuta grazie a questa consapevolezza, lo suggerisce.

34Quanto all’evento più recente, la vittoria delle sinistre in Danimarca, essa si deve ancora troppo poco alla rinascita (dopo l’eclisse) della socialdemocrazia. La vittoria, intanto, è stata più stentata del previsto, e la socialdemocrazia ha solo confermato dati insoddisfacenti intorno al 25% dei voti. Inoltre i più premiati sono stati i liberal-radicali e i post-comunisti (ovvero le forze di centro-sinistra rispettivamente alla destra e alla sinistra dei socialdemocratici). Non sono stati recuperati i voti operai ai nazional-populisti del Dansk Folkeparti, anche se al contempo questo partito pare piuttosto isolato, dopo che per un decennio con il loro appoggio esterno aveva plasmato la politica del governo di centro-destra. Oggi, infatti, i liberali di centro-destra (e ancora di più i conservatori) hanno rotto qualunque patto coi nazional-populisti, e invece tenteranno di attrarre verso la collaborazione al centro il governo di sinistra appena eletto. In questo avranno come alleati appunto i liberal-radicali progressisti presenti nell’esecutivo. Una buona notizia per i socialdemocratici è tuttavia che i Socialisti Popolari, tradizionalmente più a sinistra, sono ormai virtualmente anche loro dei socialdemocratici, e con questi collaborano strettamente in centri studi comuni. Vista da questa prospettiva, l’area del riformismo socialista dimostra comunque di essere tornata oltre il 35%.

4. Conclusione

  • 18 ANDERSSON, Jenny, The library and the Bookshop: Social democracy and capitalism in the knowledge ag (...)

35I partiti del socialismo europeo hanno in comune l’idea di una riforma del capitalismo basata sull’efficace rappresentanza della classe lavoratrice e sull’alleanza di questa con classi medie interessate ai cospicui vantaggi che tutto ciò offre in termini di stabilità e crescita generale. Per varie ragioni, si è ritenuto che tale funzione storica (che necessariamente comprende una fase di distinzione e differenziazione critica dalla realtà prima di quella successiva di compromesso) dovesse essere ormai superata. Fra le ragioni di questo superamento, c’è l’interpretazione fornita da molte parti della economia della conoscenza, che la storica dell’economia svedese Jenny Andersson ha definito non rival18. Tale definizione significa che si è ritenuto sempre di più, anche in settori della sinistra europea e nordica, che fornire il sapere, nella cosiddetta economia della conoscenza, fosse ormai abbastanza. Assicurando l’accesso alla conoscenza, cioè, potevano assumere molta minore importanza, se non addirittura divenire superflue o dannose, le esigenze di rappresentanza, di organizzazione e di potere del lavoro salariato. Per il socialismo nordico ciò ha prodotto una sorta di paradosso: negli anni ’90 i sistemi nordici dimostravano di confutare la teoria della loro insostenibilità, che per molti sarebbe stata causata dalla pressione fiscale e della regolazione che essi necessitano. La confutazione avveniva perché si evidenziava come il dispositivo della parità fra capitale e lavoro, del welfare e della regolazione conducesse il capitalismo proprio verso alti livelli di investimento in innovazione e conoscenza. Si diffondeva invece una diversa lettura dei fatti. I successi dei sistemi nordici venivano interpretati in modo variamente distorto: a) come flessibilità del lavoro (la flexicurity, un elemento soltanto danese, laddove in Svezia e Finlandia con alti livelli di protezione del lavoro l’investimento in conoscenza è anche più efficace e massiccio); b) come pura disponibilità pre-politica/comunitarista a sostenere alti costi fiscali (cosa che non si ritrova in tutti i paesi nordici, ed è completamente infondata sul piano della dinamica storica); c) come eccezione non riproducibile ormai superata dalla storia globale (mentre si tratta solo dell’attuazione, per vari motivi particolarmente coerente, di assetti regolativi presenti anche nell’Europa continentale).

  • 19 KETTUNEN, Pauli, Corporate citizenship and social partnership, in LANDGRÉN, Lars-Folke, HAUTAMUÄKI, (...)

36La crisi mondiale giunge però tempestiva a ristabilire alcune verità, sia sull’attualità, sia sui limiti storico-contestuali del socialismo nordico (ed europeo). La crisi chiarisce soprattutto che il capitalismo non segue spontaneamente percorsi di sviluppo sostenibile, perché tende ad allontanarsi da forme d’investimento di lungo periodo che parallelamente giovino anche ai salari e quindi a forme di crescita affidabili. A partire dai “santuari” come Wall Street e la City di Londra, la finanziarizzazione è infatti esattamente la fuga dalla regolazione e da un modo di produrre paziente, regolato e razionale. Ora, se il capitalismo conferma tendenze storiche più volte emerse, allora è parallelamente confermato che nelle democrazie avanzate è indispensabile uno schieramento riformista incline invece ad attivare un circuito investimento-regolazione-salari-innovazione-welfare. Tale ragionamento, inoltre, spiega i successi dei sistemi nordici, vieppiù confutando le interpretazioni di modellistica pre-politica (in cui sarebbe la coesione sociale innata a produrre la regolazione, e non la regolazione a produrre la pace sociale). Soprattutto: ciò spiega che senza un’autonomia, e una forza sia organizzativa sia ideologica, del lavoro, ovvero senza una cultura politica che costruisce la parità fra lavoro e capitale, un equilibrio democratico non avviene19.

  • 20 Qui si aggredisce forse un altro mito, ma va ricordato che la mia affermazione può essere confermat (...)

37Certo, i limiti incontrati dalle riforme degli anni ’90 dicono molto sulle amnesie avvenute anche in campo socialdemocratico riguardo a quanto appena detto. All’idea di società della conoscenza non-rival, parte rilevante della socialdemocrazia è giunta esagerando la (giusta) fiducia che essa ha/aveva proprio nella riforma del modo di produrre, nel proprio ruolo di domatore del capitalismo riguardo appunto all’investimento di lungo periodo in conoscenza. Tale fiducia coincide logicamente con il successo socialdemocratico nel riformare il modo in cui si produce, più che il modo in cui si consuma (ritenuto storicamente importante, ma conseguente rispetto al primo). Le politiche della domanda, quindi, sono state solo funzionali (in situazioni di rilancio, o di bassa occupazione) rispetto a quelle dell’offerta (che appunto modificano il modo in cui si produce, l’innovazione di prodotto e soprattutto di processo)20. Da questa virtù è forse derivato, nel contesto degli ultimi due decenni, più di un’amnesia, che possiamo così elencare:

  1. un’eccessiva passività nell’accogliere la postulata fine di ogni possibile keynesismo, e dunque anche la passività verso le regole di Maastricht, di cui come si è detto i nordici sono i più solerti seguaci (con le conseguenze negative sulle quali ci si è già soffermati);

  2. la disattenzione per una maggiore, e alla luce dei fatti indispensabile, politica europea di investimento come quella per esempio indicata da Delors nel suo famoso Libro Bianco. Vengono alla mente ad esempio quegli Eurobonds (o Project Bonds) che oggi riaffiorano nel dibattito al fine di riportare risparmio e capitali ad alimentare una crescita qualitativa e prevedibile (senza di cui si dipende dall’erraticità micidiale della finanza, e diviene ben più difficile programmare e quindi regolare, nonché smorzare, quell’ansia che tanto alimenta nelle classi operaie europee il voto populista);

    • 21 FOPA, De røde højborge – arbejderbevægelsens bastioner, URL: < http://politiskanalyse.org/ [consul (...)
    • 22 «Capitalismo significa dominio del capitale, socialismo significa subordinazione dell'economia alla (...)

    riforma del capitalismo e autonomia del riformismo politico sono elementi che devono necessariamente agire insieme, e che devono essere pensati più nettamente anche nel loro momento di potere organizzativo e politico, nonché di distinzione dallo schieramento neoliberale e datoriale. Anche perché, come dimostrano gli studi sul socialismo nordico21, è piuttosto evidente che i voti socialdemocratici da recuperare sono perlopiù appunto quelli sindacalizzati e popolari. Le parole pronunciate alla convenzione del PSE da Martin Schulz potrebbero far presagire che nel socialismo riformista europeo è in atto una riflessione in proposito22.

38Conclusivamente, la vicenda del socialismo riformista nordico (come quella del socialismo europeo) pare significare che, pur avendo ragione, si può finire per fare grandi favori all’avversario. Tra cui quello di non pensarlo abbastanza per quello che è: appunto un avversario.

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Note

1 «A willingness to pay for other peoples services and benefits rests upon the understanding that they in turn will do likewise for you and your children: because they are like you and see the world as you do». JUDT, Tony, «What Is Living and What Is Dead in Social Democracy?», in New York Review of Books, 56, 17 December 2009, URL: < http://0-www-nybooks-com.catalogue.libraries.london.ac.uk/articles/archives/2009/dec/17/what-is-living-and-what-is-dead-in-social-democratic/ > [consultato il 15 dicembre 2011].

2 È il caso (oltre che di teorici come Michael Walzer ed altri ancora) dell’esponente laburista britannico Jon Cruddas, che in sostanza individua in una nuova idea di “Good society” la soluzione per superare le (indubbie) rovine del blairismo. Riflettere su tale idea è di certo più che utile, ma che la sua base possa essere la ricostruzione del senso di comunità denota, secondo chi scrive, una visione piuttosto naif delle risorse politico-ideologiche e delle argomentazioni a disposizione del socialismo europeo dinanzi ai prodigi negativi del capitalismo degli ultimi decenni. Per un’idea in proposito i video di Jon Cruddas su “Social Europe”, URL: < http://www.social-europe.eu/2010/11/jon-cruddas-on-a-political-economy-for-the-good-society/ > [consultato il 15 dicembre 2011].

3 Si veda ad esempio come un caso particolarmente chiaro SALVATI, Michele, «Contro il declino la lezione di Blair», in Corriere della Sera, 14 maggio 2007. In questo articolo l’autore si rammaricava che la sinistra guardasse ai paesi nordici come esempio, e indicava invece Blair come modello. Egli sosteneva che essendo i paesi nordici «piccoli, e dunque economie molto aperte, e culturalmente molto omogenei», non sono validi per confutare una «correlazione fra successo economico e riduzione del peso del settore pubblico». Egli invece indicava Blair come esempio di uomo politico che aveva salvato il proprio paese dal «un lungo periodo di relativo declino». Ciò era avvenuto come prolungamento delle politiche della signora Thatcher, poiché «a partire dagli anni ’80 del secolo scorso i governi britannici hanno impresso e tenuta ferma una svolta radicale nelle politiche sociali ed economiche». I fatti hanno di lì a pochi mesi mostrato che questa “svolta radicale” altro non era che la finanziarizzazione da debito diffuso (e disuguaglianza esplosiva) dell’economia anglo-americana, che contagia oggi anche l’Europa a causa dei limiti monetaristici dell’Unione.

4 Cfr. l’introduzione in CHRISTIANSEN, Niels Finn, PETERSEN, Klaus, EDLING, Niels, HAAVE, Per, The Nordic Model of Welfare. A Historical Reappraisal, Copenhagen, Tusculanum, 2006.

5 BERMAN, Sheri, The Social Democratic Moment. Ideas and Politics in the Making of Interwar Europe, Cambridge-London, Harvard University Press, 1998, p. 11 e pass.

6 ÅMARK, Kläs, LUNDBERG, Urban, Diritti e sicurezza sociale: il Welfare state svedese, 1900-2000, in BORIONI, Paolo (a cura di), Welfare scandinavo. Storia e innovazione, Roma, Carocci, 2003, pp. 42-43, 45-48 e 50-51.

7 KETTUNEN, Pauli, The power of international comparison, in CHRISTIANSEN, Niels Finn, PETERSEN, Klaus, EDLING, Niels, HAAVE, Per, op. cit., pp. 59-60.

8 OJALA, Jari, ELORANTA, Jari, JALAVA, Jukka (a cura di), The Road to Prosperity. An Economic History of Finland, Helsinki, SKS, 2006, p. 269.

9 KETTUNEN, Pauli, The power of international comparison, in CHRISTIANSEN, Niels Finn, PETERSEN, Klaus, EDLING, Niels, HAAVE, Per, op. cit., pp. 59-60; EDLING, Niels, Limited Universalism: unemployment insurance, in Ibidem, p. 105.

10 MAGNUSSON, Lars, Sveriges Ekonomiska Historia, Stockholm, Tidens Förlag, 1996, p. 395.

11 WEISE, Kristian, «Kristian Weise og Martin Agerup, den bedsteidé, politikerne har overset», URL: < http://raeson.dk/2011/kristian-weise-og-martin-agerup-den-bedste-ide-politikerne-har-overset/ > [consultato il 15 dicembre 2011].

12 KRIPPNER, Greta, The financialization of the American economy, in Socio-Economic Review, 3, 2005, p. 182.

13 STRÅTH, Bo, Mellan medbestämmande och metarbetare, Stochholm, Metall, 1998.

14 Su tutte queste riforme recenti del modello sociale nordico si veda BORIONI, Paolo, «Paesi nordici: campi, processi ed effetti della privatizzazione in corso», in Rivista delle Politiche Sociali, 2, 2011, pp. 235-255.

15 Skattereformen skyder hul i fagbevægelsens formue, 31, 2006, URL: < http://www.ugebreveta4.dk/2009/200931/Baggrundoganalyse/Skattereform_skyder_hul_i_fagbevaegelsens_formue.aspx > [consultato il 15 dicembre 2011].

16 Uno dei maggiori esperti in materia, Jesper Due, osserva: «Una parte notevole del modello danese sta nel fatto che si possa accedere al conflitto in caso sia di sciopero sia di serrata. Il conflitto non è un fine in sé, ma è piuttosto un mezzo da poter utilizzare se è necessario premere sulla controparte in una situazione negoziale. È per questo che negli anni si sono accumulati patrimoni che sono parte integrante del dispositivo sindacale in caso di conflitto» in BIRKEDAL CHRISTENSEN, Katrine, Skattereform skyder hul i fagbevægelsens formue, 31, 2009, URL: < http://www.ugebreveta4.dk/2009/200931/baggrundoganalyse/skattereform_skyder_hul_i_fagbevaegelsens_formue.aspx > [consultato il 15 dicembre 2012].

17 ESBATI, Ali, Lanseringen av ‘Utanforskapet’. Hvordan høyresiden svekker tilliten til tygdeordningerne, Oslo, Manifest. Senter for Samfunnanalyse, 2010, URL: < http://www.manifestanalyse.no/-/document/get/2889/Rapport4-2010.pdf > [consultato il 16 gennaio 2012].

18 ANDERSSON, Jenny, The library and the Bookshop: Social democracy and capitalism in the knowledge age, Stanford, Stanford University Press, 2010.

19 KETTUNEN, Pauli, Corporate citizenship and social partnership, in LANDGRÉN, Lars-Folke, HAUTAMUÄKI, Pirkko, People, Citizen, Nation, Helsinki, Renvall Institute, 2005.

20 Qui si aggredisce forse un altro mito, ma va ricordato che la mia affermazione può essere confermata da molti esempi storici, alcuni dei quali sommariamente richiamati nel testo, e anche dalla centralità che il movimento sindacale aveva ed ha per la socialdemocrazia. Inoltre, va ricordato che Keynes era un liberale, e quindi meno attento alla dialettica delle classi nel mercato del lavoro e intorno al tavolo della negoziazione. Si può addirittura ipotizzare che in gran parte la sua dottrina economica lo convincesse della capacità di risolvere ogni problema economico senza necessità di confronto sociale.

21 FOPA, De røde højborge – arbejderbevægelsens bastioner, URL: < http://politiskanalyse.org/ > [consultato il 15 dicembre 2011].

22 «Capitalismo significa dominio del capitale, socialismo significa subordinazione dell'economia alla società, attraverso meccanismi democratici».

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica digitale

Paolo Borioni, «La socialdemocrazia nordica e la “sfida democratica al capitalismo”»Diacronie [Online], N° 9, 1 | 2012, documento 7, online dal 29 janvier 2012, consultato il 09 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/diacronie/2978; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/diacronie.2978

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Autore

Paolo Borioni

Paolo Borioni ha compiuto studi di storia all’Università La Sapienza di Roma e alla KUA Copenhagen University. Ha condotto ricerche sulla storia dei paesi scandinavi e in particolare sulla Danimarca, sulle socialdemocrazie nordiche, sul welfare state e sulla storia economica del Novecento. È membro del comitato scientifico della Fondazione Giacomo Brodolini e redattore della rivista Economia e Lavoro. Tra le sue pubblicazioni: Svezia (Milano, UNICOPLI, 2005); Risorse per la politica: il finanziamento dei partiti fra tradizione e innovazione (Roma, Carocci, 2005); Solo il re ha il potere delle armi. Copenaghen, 18 ottobre 1660: gli Stati Generali di Danimarca e l’instaurazione dell’assolutismo monarchico, Bologna, Il Mulino, 2008. Ha curato i volumi: Revisionismo socialista e rinnovamento liberale: il riformismo nell’Europa degli anni Ottanta, Roma, Carocci, 2001; Welfare scandinavo: storia e innovazione, Roma, Carocci, 2003; Welfare scandinavo, welfare italiano: il modello sociale europeo, Roma, Carocci, 2005.
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