Mark Greengrass, Lorna Hughes (edited by), The Virtual Representation of the Past
Mark Greengrass, Lorna Hughes (edited by), The Virtual Representation of the Past, Farnham, Ashgate Publishing, 2008, 226 pp.
Testo integrale
Credits: Mark GREENGRASS, Lorna HUGHES (edited by), The Virtual Representation of the Past, Farnham, Ashgate Publishing, 2008, 226 pp.
1The Virtual Representation of the Past è il volume di apertura di una collana edita dal King’s College London che si propone di affrontare i “metodi informatici avanzati” nelle arti e nelle scienze umane. Il volume collettaneo, ispirato a un incontro tra digital humanists tenutosi nel 2006 a Sheffield, fornisce esempi di cosa si possa intendere con la – volutamente – vaga categoria di “metodi informatici avanzati” e discute le problematiche che essi sollevano nel rapporto con la storiografia e l’archeologia “tradizionali”.
2Diviso in 4 parti tematiche, il volume raccoglie i contributi di studiosi britannici di storia, archeologia e scienze umane. Un’occhiata ai brevi curricula dei contributori è sufficiente per intuire la vivacità del panorama britannico della digital history, popolato da centri di ricerca specializzati, corsi dedicati esclusivamente ai problemi storiografici legati alle tecnologie digitali e progetti interdisciplinari che prevedono la partecipazione di informatici e storici. L’impressione, pienamente confermata dalla lettura dei saggi, è che il contenuto altamente specialistico del volume possa servire da preziosa ispirazione per il pubblico italiano, ma che i suoi interessi siano a uno stadio tecnicamente più avanzato rispetto a quelli coltivati dall’accademia nazionale nel suo complesso.
3In luogo di offrire una valutazione dettagliata dei singoli saggi cercherò di dare un’idea delle questioni principali che emergono dal volume. La prima parte tratta della “rappresentazione virtuale dei testi”. La questione al centro dei tre saggi che la compongono è quale debba essere la forma del testo – in particolare del manoscritto – trasposto in forma digitale, se esso debba essere trascritto, permettendo in questo modo la ricerca automatizzata di parole e lemmi (approccio data-oriented), o se esso debba essere trasposto fedelmente in formato immagine per evitare la perdita di elementi extratestuali (il supporto di scrittura, la calligrafia degli scriventi, le eventuali correzioni...) fondamentali alla comprensione della fonte e al suo utilizzo (approccio source-oriented). Già in questa prima parte è evidente – sebbene non discussa esplicitamente – la problematica legata alla divisione disciplinare tradizionale: la stessa fonte, vista da uno storico dell’età moderna, da un archeologo o da un contemporaneista può avere diversi criteri di intelligibilità e di credibilità e richiede una trasposizione digitale differente.
- 1 Il vocabolario metadata probabilmente più popolare, ma tutt’altro che egemonico, è il Dublin Core: (...)
4La soluzione proposta da virtualmente tutti i contributori è quella di un markup del testo (e di qualsiasi fonte storica digitalizzata) il più possibile comprensivo ed esteso, che crei un sistema di metadati legati all’artefatto che lo rendano interoperabile, utilizzabile in diversi ambiti disciplinari e capace di rispondere a domande di ricerca non immaginate da chi per primo ha reso disponibili le fonti online. La questione, che permea in realtà tutto il volume, è affrontata esplicitamente nella seconda e nella quarta parte (“Storie e Preistorie virtuali in cerca di significato” e “La rappresentazione storica virtuale di oggetti ed eventi”). La maggior parte degli interventi prende piede da esperienze di raccolta, ricerca e digitalizzazione particolari e discute le virtù e i difetti di diversi linguaggi di dialogo tra macchina e archivi storici online. La situazione attuale troppo spesso vede la pubblicazione online di fonti predisposte esclusivamente a rispondere alle domande dei primi “trascrittori”, diventando, alla fine del progetto originario, non un supporto per la ricerca successiva, ma un mero strumento di didattica. Ciò che ancora manca – e probabilmente mancherà per lungo tempo – è uno standard delle modalità di creazione della fonte digitale e della sua caratterizzazione attraverso metadata1. Nel volume vengono avanzate diverse proposte in questo senso e sono elencate alcune delle caratterizzazioni fondamentali di un sistema condiviso: interconnessione tra le singole fonti, metadati fondamentali, linguaggio condiviso per l’interrogazione dei database creati in XML. Tale sistema permetterebbe in primo luogo un’agevole valutazione dell’autorità della fonte e la verifica dei metadati ad essa attribuiti. In secondo luogo – e in un secondo tempo – il sistema condiviso di presentazione delle fonti online dovrebbe permettere il data mining senza il riferimento consapevole del ricercatore a singoli siti. In altre parole il motore di ricerca dovrebbe essere in grado di riconoscere non solo specifiche stringhe di testo, ma i campi semantici a cui appartengono i diversi archivi online. Il ricercatore dovrebbe essere dunque in grado di interrogare “la macchina” e di ricevere una risposta pertinente tratta da archivi online diversi e correlati non da link posti volontariamente dai creatori dei siti, ma dai metadati che caratterizzano le fonti in essi contenute. Lo sviluppo di questo semantic web non è certo trainato da domande storiografiche, ma come spesso accade – si pensi al caso dei GIS – gli sviluppi della tecnologia digitale possono essere sfruttati e reinventati per rispondere alle esigenze dei ricercatori (la questione è affrontata esplicitamente nel cap. 5). In questo caso si tratta di superare le limitazioni proprie dell’archivio (sia fisico che virtuale) e fare dell’intero web un bacino di fonti facilmente reperibili e interrogabili. Ovviamente tale traguardo è ancora lontano: prima ancora delle difficoltà tecniche l’ostacolo maggiore è rappresentato dalla mancanza di un organo abbastanza autorevole da imporre uno standard o dall’incapacità dei diversi centri di accordarsi su un metodo di lavoro comune. Il volume rappresenta un inizio di discussione sull’argomento – per quanto comprensibilmente sbilanciato sulla situazione nazionale e sugli standard proposti in Gran Bretagna – e può essere letto come un appello in questo senso.
5Se questo è senza dubbio l’argomento più importante della raccolta, non mancano riflessioni più propriamente storiografiche. Tim Hitchcock, ad esempio, si chiede come cambi la professione in seguito all’aumento esponenziale di fonti testuali e visive disponibili online. La storiografia, sostiene, sta diventando sempre più «letteraria», sempre più legata al testo e sempre più slegata dalla struttura rigida dei singoli archivi. Lo storico si starebbe trasformando da pellegrino, costretto a percorrere gli itinerari fissati dagli archivi, in cartografo, occupato a trovare nuovi percorsi nel caos delle fonti disponibili online. L’intero volume, in un certo senso, mira a esporre gli strumenti del nuovo storico-cartografo, dando, tramite l’esposizione di progetti di ricerca specifici.
6Difficile dire se la metafora di Hitchcock descriva fedelmente gli sviluppi della storiografia internazionale o anche solo anglosassone. Se lo storico è mai stato pellegrino è dubbio; se diventerà mai cartografo è forse troppo presto per dirlo. Tutti i progetti presentati sono dei work-in-progress; tutti i sistemi proposti di interrogazione delle fonti online vedranno sancito il proprio successo solo nel momento in cui uno standard sarà effettivamente adottato. Forse per questo la raccolta di saggi è, soprattutto per l’accademia italiana, di grande interesse: essa dà un’idea di un possibile futuro della disciplina; a tratti gli autori appaiono forse troppo sicuri sulla forma che questo futuro assumerà (semantic web, data mining, scomparsa progressiva degli archivi fisici...), ma – dato che un cambiamento legato alle tecnologie digitali è senza dubbio in atto – questo non diminuisce il valore degli interventi e, soprattutto, la necessità che questi interventi si moltiplichino, anche in Italia. Un argomento che non è affrontato nei saggi, ma che di certo dovrebbe interessare tutte le tradizioni storiografiche non anglosassoni, è quello del possibile appiattimento delle differenze nazionali o della preminenza – all’interno di un sistema archivistico apparentemente globale – di tematiche e priorità di ricerca nazionali. Se il web è destinato a diventare un unico grande archivio e se, come è indubitabile, la forma dell’archivio ha un così grande impatto sulla narrazione storiografica, allora è auspicabile che l’accademia italiana abbia voce nel momento in cui i criteri di catalogazione e presentazione delle fonti vengono discusse. Il rischio è che il semantic web, qualsiasi forma assumerà, non sia in grado di rispondere alle domande poste da tradizioni storiografiche non anglosassoni o che gli archivi online creati al di fuori di queste non siano tecnicamente integrabili nel sistema complessivo.
Note
1 Il vocabolario metadata probabilmente più popolare, ma tutt’altro che egemonico, è il Dublin Core: URL: < http://wiki.dublincore.org/index.php/User_Guide > [consultato il 16/5/2012].
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Notizia bibliografica digitale
Federico Mazzini, «Mark Greengrass, Lorna Hughes (edited by), The Virtual Representation of the Past», Diacronie [Online], N° 10, 2 | 2012, documento 12, online dal 29 juin 2012, consultato il 11 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/diacronie/2769; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/diacronie.2769
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