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HomeNumeriN° 11, 3I. ArticoliUn’altra visione delle cose

I. Articoli
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Un’altra visione delle cose

Note sulla satira nel Risorgimento
Marco Viscardi

Abstract

L’articolo ricostruisce la vicenda storica della satira letteraria in Italia fra gli anni trenta del XIX secolo ed il raggiungimento dell’Unità nazionale. In quattro paragrafi si prende in considerazione la dolorosa reinterpretazione dello sternismo di Carlo Bini, l’esperienza satirica napoletana degli ultimi anni di Giacomo Leopardi, gli “Scherzi” di Giuseppe Giusti, ed infine il connubio fra umorismo e satira nella Milano del decennio precedente l’unificazione.

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Testo integrale

Introduzione

  • 1 CELATI, Gianni, «Si comincia con Swift per riparare quel “più”», in Il caffè letterario e satirico, (...)

1Il racconto del Risorgimento ha ceduto alle lusinghe della retorica ufficiale. Tutti i momenti del processo di unificazione nazionale sono stati fissati nelle pose solenni della statuaria e nelle forme alte della letteratura, ma prima del 1861, il riso, la comicità e la satira erano una delle armi della battaglia politica, e non la meno efficace. Quest’articolo si occupa di quel riso dimenticato: è una storia di quella satira che, come ha scritto Gianni Celati in altro contesto, fu capace di «vedere nella singola immagine di corruzione non il sintomo di un mondano malcostume ma il segno d’una dimensione infernale»1. Al lettore si propone un percorso, necessariamente sintetico, diviso in quattro parti, che dall’umorismo carcerario di Carlo Bini arriva agli esperimenti degli anni Cinquanta dell’Ottocento attraverso la produzione di Giacomo Leopardi e di Giuseppe Giusti: insomma, un viaggio rapido nei territori irrequieti della satira e dell’ironia militante.

1. Bini: il gemito del comico

  • 2 Scritto durante la prigionia nel 1833, il testo venne pubblicato, con forti tagli, nel 1843 all’int (...)

2Il Manoscritto di un prigioniero2 di Carlo Bini rappresenta uno dei momenti di maggiore tensione della scrittura umoristica del primo Ottocento italiano. Rinchiuso per tre mesi nel carcere di Portoferraio per le sue frequentazioni mazziniane, Bini era noto alla polizia del Granduca di Toscana da quando aveva fondato, proprio con Mazzini e Guerrazzi, l’«Indicatore Livornese» (1830), giornale rapidamente chiuso dal governo toscano.

  • 3 BINI, Carlo, op. cit., p. 28.
  • 4 Ibidem, p. 98.

3Scritto durante la prigionia, il Manoscritto racconta il periodo della reclusione senza l’ausilio di un narratore narrante onnisciente, capace di guidare il lettore nell’evocazione della memoria, ma con una voce che procede alla rinfusa, trasformando la pratica sterniana delle digressioni – «Io non posso camminar dritto, serpeggio sempre»3 – nell’espressione letteraria della resistenza all’eterno presente del tempo carcerario che opprime il prigioniero con l’aspetto di «una figura di piombo sdraiata in un canto»4.

  • 5 Ibidem, p. 113.

4Nel suo tentativo di mettere in atto un tempo alternativo a quello uniforme e lugubre del carcere, la scrittura non si coagula attorno a un’idea guida, ma si muove in continua, drammatica e disordinata evoluzione. Con lo scorrere dei capitoli, questo andamento a zigzag si rivela sempre più tormentato, fino a giungere alla sfiducia verso le possibilità della letteratura: «la parola è un bel dono; ma non rende la ricchezza del nostro interno» dice Bini al culmine dello sconforto, «è un riflesso smorto e tiepidissimo del sentimento, e sta alla sensazione come un sole dipinto al sole della natura»5.

5Nella scrittura umoristica di Bini, le esigenze di liberazione lottano con le costrizioni di un mondo degradato; in questa tensione irrisolta, i continui rimandi alla serpentina e al Poor Yorick, (ricordi espliciti del capolavoro dell’umorismo europeo, il Tristram Shandy), annodano l’esperienza di Bini al modello sterniano, ma di uno Sterne difensore, quasi partigiano, della condizione umana di fronte al cieco meccanicismo del “sistema”: «Ora se tu ami sapere qual grado ti assegnavano i fati sulla scala degli animali» scriveva Bini sull’«Indicatore Livornese»:

  • 6 MAZZACURATI, Giancarlo (a cura di), Effetto Sterne, Pisa, Nistri-Lischi, 1990, p. 354.

Leggi Lorenzo Sterne, perché con vario governo esercitando le leggi eterne del cuore non consente all’umano le superbie del sistema, ma sì lo stringe a piangere, e a ridere, […] e col motteggio, che ne sa molto d’amaro che medica, lo contiene nel cerchio delle sue umanità6.

6Nella biblioteca mentale di Bini, Sterne è un eroe della resistenza dell’umano, ma la sua eredità è destinata a essere stravolta dalle spirali del mondo moderno. In questa tensione irrisolta fra libertà della narrazione e vita ingabbiata, il movimento a spirale che per Sterne era l’emblema della vita libera e aperta ai giochi del caso – si ricordi il famoso capitolo del Tristran Shandy in cui il Caporale Trim rappresentava i piaceri della vita da scapolo disegnando una serpentina nell’aria col suo bastone – si capovolge nel garbuglio dei movimenti oscuri della fortuna, come comprendiamo leggendo l’esergo del Manoscritto:

  • 7 BINI, Carlo, op. cit., p. 12.

V’è più ragione di ridere quando sei in fondo che quando sei in cima […]. Il riso dell’uomo felice può essere smentito da un punto all’altro. La fortuna non fa contratti perpetui con nessuno. Il suo corso è a spirali, e non rettilineo. Oggi t’abbraccia, ti mette sul capo un diadema; dimani ti taglia la testa, e la dà per balocco all’abbietto, che faceva da sgabello ai tuoi piedi7.

  • 8 BLUMENBERG, Hans, L’ansia si specchia sul fondo, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 130-131.

7In quest’opera, l’umorismo italiano mostra il suo fondo di più nero pessimismo e, contemporaneamente, si fa protesta contro le regole opprimenti di un mondo ordinato a prosa. Fra i tanti registri della scrittura di Bini, la satira è una delle voci maggiormente riconoscibili ed è per questo che il nostro discorso inizia da questo livornese mai veramente assorbito nel canone della nostra letteratura. Prima di approcciare due complessi autori satirici come Leopardi e Giusti, vale la pena citare le riflessioni elaborate da Hans Blumenberg alla fine del secolo passato. Pur essendo state concepite, infatti, in tutt’altro contesto, colgono appieno la declinazione dolorosa dello sternismo di Bini: «Possiamo esistere solo perché facciamo digressioni. Se tutti andassero per la via più breve, arriverebbe uno soltanto»; di fronte alla pretesa razionalità della linea dritta «sono le digressioni che danno alla civiltà la funzione di umanizzare la vita. La pretesa “arte di vivere” della via più breve è, nella consequenzialità delle esclusioni, barbarie»8.

2. Leopardi: l’incubo della storia

  • 9 BLASUCCI, Luigi, I tempi della satira leopardiana, in ID., I titoli dei “Canti” e altri studi leopa (...)
  • 10 Le tre opere citate furono tutte scritte a Napoli negli ultimi anni di vita di Leopardi: la Palinod (...)

8Nell’universo teorico e poetico di Giacomo Leopardi, la vocazione satirica e la riflessione sul riso – ora nascoste, ora dissimulate, ora apertamente dichiarate – sono il vero controcanto della sua esperienza lirica9. L’ispirazione di Talia, che riaffiora spessissimo nel laboratorio delle Operette Morali, dà i suoi frutti più inquieti negli ultimi anni della vita del poeta, quando compone la Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti e i Paralipomeni della Batracomiomachia10.

9L’obbiettivo polemico di questa estrema stagione satirica sono i moderati italiani e i loro giornali, senza distinzioni fra gli intellettuali liberali che diedero vita all’esperienza prestigiosa dell’«Antologia» a Firenze e gli spiritualisti che a Napoli si riconoscevano nel «Progresso». A questo irenico ottimismo della modernità, la voce del satiro oppone una nobilissima genealogia, il cui capostipite, il biblico Salomone, aveva definito l’esistenza «acerba e vana» (I Nuovi Credenti v. 3).

10L’avventura letteraria di Leopardi si conclude con un duplice movimento, testimoniato dalla contemporanea presenza sul suo scrittorio della Ginestra e dei Paralipomeni: mentre la lirica vagheggia la struggente utopia di un’umanità tutta «fra sé confederata» (La Ginestra, v. 130) per andare incontro al «comun fato» (v. 114), la satira esplode in una risata che attacca la vanagloria delle magnifiche sorti e progressive (v. 51).

11Le forme metriche utilizzate gli endecasillabi sciolti per la Palinodia, il capitolo in terza rima dei Nuovi Credenti e le ottave del genere eroicomico dei Paralipomeni alla Batriacomiomachia – quasi costringono la tradizione italiana al racconto di un presente degradato e risibile. Il contatto con i modi della poesia alta fa risaltare l’aspetto ridicolo delle mitologie del mondo moderno e, allo stesso tempo, svela tutta l’inconsistenza dell’intellettualità contemporanea, denunciando la sfiducia di Leopardi in una possibilità di riscatto concreta del problema italiano. Le speranze si erano ormai spostate sull’orizzonte meta-storico della Ginestra, dove Leopardi aveva fuso la portata eversiva del messaggio con lo sforzo di massima tensione della sperimentazione metrica leopardiana.

12I tre momenti della satira di Leopardi mostrano le crepe della cultura dominante e del loro tentativo di giungere a forme di mediazione e di compromesso fra le caute aspirazioni progressiste degli intellettuali liberal-moderati e la difesa oltranzista della tradizione dei sovrani italiani. Nella Palinodia, concepita come grottesca conclusione all’edizione napoletana dei Canti del 1835, Leopardi annunciava il fittizio ripensamento della propria filosofia e la presa d’atto, non meno ironica, dell’imminente età dell’oro annunciata dal clamore dei fogli quotidiani: «Aureo secolo omai volgono o Gino / I fusi delle Parche. Ogni giornale, / Gener vario di lingue e di colonne, / Da tutti lidi lo promette al mondo / Concordemente … » (vv. 38-42). L’aureo secolo rimanda direttamente alla quarta Egloga di Virgilio, della quale la Palinodia è una moderna rielaborazione parodica che sostituisce l’attesa del fanciullo portatore di un mondo nuovo con lo spettacolo dei figli di quegli stessi patrioti moderati presi di mira nel componimento. Il canto si chiude con l’immagine dei neonati cui il generoso fluire delle barbe dei padri annuncia e garantisce un avvenire prospero:

E tu comincia a salutar col riso / Gl’ispidi genitori, o prole infante, / Eletta agli aurei dì, né ti spauri / L’innocuo nereggiar dei cari aspetti. / Ridi o tenera prole: a te serbato / È di cotanto favellare il frutto; / Veder gioia regnar, cittadi e ville, / Vecchiezza e gioventù del par contente / E le barbe ondeggiar lunghe due spanne (vv. 267-279).

13La ridondanza del pelame, icona perenne del rivoluzionario, ritorna in Leopardi a colpire la smaniosa comunità patriottica italiana del tempo, accusata di progettare una futura felicità collettiva indifferente verso l’infelicità del singolo. Una felicità fondata sulle scienze esatte, sui libri a malapena sfogliati e sulle riviste intensamente compulsate nei gabinetti di lettura, piuttosto che sulla presa di coscienza della comune condizione umana.

14Nell’atmosfera grottesca dei Paralipomeni, torna la caricatura dei barbutos, ma con una distinzione fra i sobri baffi dei topi liberali e gli improbabili carbonari di Topaia che, «perché il pelo ardir promette» (vv. VI, 17, 3), mostrano fieri il trionfo della propria barba, segno esteriore dell’affiliazione alla «setta che andava e che venia / congiurando a grand’agio per le strade / ragionando con forza e leggiadria / d’amor patrio, d’onor, di libertate» (vv. VI, 15, 3-6). Dietro questi arabeschi di barbe, baffi e basette, la trama degli otto canti dei Paralipomeni racconta la disfatta dei topi (leggi i liberali italiani) di fronte all’esercito dei granchi (gli austriaci) intervenuti nella guerra fra topi e rane, già cantata da Omero, per imporre la propria supremazia su entrambi gli schieramenti. Sulla pietà per il natìo loco s’impone la ferocia del riso satirico, che fa poche distinzioni fra i granchi austriaci e i topi italiani, descritti come ingenui, melodrammatici, furbi e pronti all’inganno. Dall’ironia generale si salvano solo due personaggi, due topi antitetici fra loro eppure rispettati dal disilluso narratore: l’eroe Rubatocchi, che muore combattendo per la patria, e il generale Assaggiatore, l’unico che, secondo la profezia dei defunti, potrebbe aiutare la rinascita della patria e che, inesplicabilmente, si rifiuta di farlo.

  • 11 Cfr. BAZZOCCHI, Marco Antonio, Per leggere un’opera fraintesa, in LEOPARDI, Giacomo, I Paralipomeni (...)
  • 12 BRIOSCHI, Franco, Misantropia, satira, sarcasmo nei Paralipomeni della Batracomiomachia, in Il riso (...)

15L’eroe del poemetto è il conte Leccafondi, cultore della poesia tedesca, appassionato delle scienze sociali e gran lettore di giornali, il quale, prima di conoscere la dura via dell’esilio, è stato ambasciatore presso i granchi e poi ministro degli interni in patria durante il regno di Rodipane (il sovrano costituzionale dei topi e non di Topaia, in cui è ravvisabile una puntura a Luigi Filippo, re dei francesi). Topo byroniano, amico delle tenebre e della notte11, il conte Leccafondi – che, come l’umanità della Ginestra, ha preferito il buio dell’errore alla luce della conoscenza – compie una sua personalissima catabasi all’inferno dei topi sotto la guida del misterioso Dedalo, il solo essere umano dell’opera. Ad accoglierlo trova la massa infinita dei defunti, assorta in uno smemorato ed eterno silenzio. A questa sterminata assemblea di morti il conte chiede lumi sulle sorti della nazione, ma i trapassati, a sentire parlare di statuto e monarchia costituzionale, disfatte militari e future riscosse, rispondono con un suono sordo che si fa sempre più forte fino a scoppiare in una spaventosa risata che risale dalle più profonde regioni d’Averno, per precipitare sulla testa del povero Leccafondi e allargarsi sulla recente storia italiana, riducendo la lotta per la libertà d’Italia a una «cosa nel naufragio universale delle cose»12.

16L’esistenza di Leopardi si chiude con un attacco alle ideologie del progresso che – dietro lo scintillio delle barbe, la foga delle gazzette e la presa in giro di un eroismo da operetta – ha come suo oggetto principale l’antropocentrismo ottuso di chi dice «a goder son fatto» (La Ginestra v. 101) e, nell’illusione di un mondo costruito attorno all’uomo, rifiuta di guardare al destino comune e rendersi conto del male radicato nell’esistenza, della fragilità e infelicità umane.

3. Giusti: un mondo meccanico

  • 13 Le poesie di Giuseppe Giusti ebbero una larga circolazione già prima di essere raccolte in volume: (...)
  • 14 BRILLI, Attilio, Dalla satira alla caricatura. Storie, tecniche e ideologie della rappresentazione,(...)
  • 15 Ibidem.

17Quando, nel 1842, l’editore Baudry pubblicò a Parigi la prima edizione dei Paralipomeni il successo degli Scherzi13 di Giuseppe Giusti cominciava a superare i confini del piccolo Granducato di Toscana; ma se nel poemetto leopardiano l’aspetto distruttivo del genere si era imposto su quello educativo, nelle poesie di Giusti le due anime tradizionali della poesia satirica – quella sociale, «censoria e moralista»14 che ammonisce i lettori, e quella antisociale, «trasgressiva e parodica»15 nei confronti dell’ordine costituito – tornavano a fondersi insieme.

18Negli Scherzi di Giusti troviamo la messa in scena della vita convulsa e deforme di un antico regime immobile e morboso, popolato da principi imbelli e plebei rapaci, nobili e banchieri, gesuiti e ipocriti, impiegati corrotti e arrivisti disposti a qualsiasi cosa, ciascuno ritratto in modo grottesco e tutti confusi in una diabolica fantasmagoria. Il comico e il deforme sono momenti di un mondo vecchio, destinati a dissolversi quando la società italiana, da decenni immobile, finalmente si sarebbe rimessa in cammino.

19Spesso i personaggi di Giusti, cui manca una vita interiore, sono ritratti in modo bidimensionale; il poeta assottiglia i suoi anti-eroi fino a farne pure parvenze come avviene nel Ballo (1837-1842) dove la festa mostra la sua inconsistenza tanto nel riverbero delle ombre proiettate all’esterno («Come, per magico / vetro, all’oscuro / folletti e diavoli / passar sul muro, / maravigliandosi vede il villano / che corre al cembalo / del ciarlatano», vv. 9-16.) quanto nella confusione inumana dell’interno, dove il colpo d’occhio coglie solo immagini nebulose: «Per tutto un chiedere, / per tutto un dare / strappare, mescere / e ristappare; / un moto, un vortice / di mani impronte / e piatti e tavole / tutte in un monte» (vv. 105-112). La reazione a questo groviglio di fantasmi è una poesia in cui la comicità diventa scelta militante. Come leggiamo nell’Origine degli scherzi (1841-1843), dedicata all’amico Girolamo Tommasi, la poesia nasce come protesta di fronte all’«odierna festa» (v. 91) dei pagliacci contemporanei, al loro frenetico «trescone» (v. 92) che, ancora una volta, dà luogo a forme indistinte. La satira è una forma di resistenza, la voce di una cattività:

Come se corri per le gallerie / vedi in confuso un barbaglìo di quadri, / così falsi profeti e balì ladri, / martiri spie, / mercanti e birri in barba liberale, / mi frullan per la testa a schiera a schiera: / Tommasi, mi ci par l’ultima sera / di carnevale. / Ecco i miei personaggi, ecco le scene, / e degli scherzi la sorgente prima (vv 133-140).

  • 16 L’orrore per le macchine ed il pericolo che rappresentano per gli esseri umani è già presente nella (...)

20A questo vuoto di vita morale corrisponde l’avvicinarsi di una spaventosa era meccanica, pronta a inghiottire gli ultimi retaggi di umanità. La paura della meccanizzazione dei rapporti umani, uno dei grandi temi della satira italiana dell’Ottocento16, nei versi di Giusti diventa il fondamento ideologico di un mostruoso e distorto modello di formazione. In Gli immobili e i semoventi (1841) Giusti ha immaginato istituti educativi dell’avvenire, «scuole a macchina» (v. 43), in cui la formazione della «futura adolescenza» (v. 40) sarà «filata dalla scienza» (ibidem) e i movimenti dell’uomo, ridotto a un «bipede oriolo» (v. 38), saranno regolati dal «pendolo». I sentimenti – «certi verbi, come amare, / tollerare, illuminare» (vv.103-104) – saranno prodotti di combinazioni algebriche: «Il fanciullo deve andare, / deve ridere e pensare / appoggiato al calcolo». Le intelligenze formate in queste nuove scuole scivoleranno verso un torpore malato, cui viene data l’apparenza della felicità raggiunta: «Ah l’amore è un parossismo / in un lento quietismo / va cullato il popolo» (vv.91-93), mentre «tanto il bene quanto il male» saranno tenuti nei «gangheri» (v. 96) per mantenere i cervelli in uno stato letargico e lo «scatto generoso» sarà ridotto a vuota figurazione retorica, ovvero avrà «titolo e riposo / nell’Arte Poetica» (vv. 98-99).

21La meccanizzazione porta con sé l’avvilimento e la confusione dei valori. Si profila un futuro in cui gli uomini preferiranno il riposo inane all’azione politica: «sarà inutile il cannone / morirem d’indigestione / anzi di nullaggine» (Gli umanitari [1840] vv. 40-42); e una grande stanchezza, «la fiaccona generale» (v. 43), tutto inghiottirà nelle sue spirali di tedio.

22Le marionette, gli ordigni e gli automi di cui brulica la poesia di Giusti sono allegoria dei membri di una società che ha preferito il sonnacchioso vagheggiamento del proprio nulla ai sommovimenti del presente. Non a caso il poeta raggiunge l’apice del suo registro infernale proprio nella descrizione dell’insano connubio fra plebi e aristocrazia, che impedisce agli italiani di uscire dal loro torpore e riprendere il cammino della Storia. Si prenda ad esempio la Vestizione (1839), dove la cerimonia d’investitura del titolo cavalleresco concesso al beccaio Becero grazie al suo patrimonio, misteriosamente guadagnato, si risolve nelle visioni terribili del neo-titolato cui appaiono una personificazione dell’usura, il corteo della nobiltà cadente, il coro dei popolani del Mercato Vecchio. Ancora nei territori dell’incubo si conclude La Scritta (1841), il caricaturale apologo del matrimonio tra la mostruosa figlia di un ricco usuraio e uno spiantato aristocratico che, nella terza parte del poemetto, vede in sogno il fondatore del suo casato, un deforme anti-Cacciaguida che gli svela l’origine plebea della famiglia e le frodi e le violenze per ottenere il titolo.

23Nel mondo di Giusti c’è una possibilità di redenzione, una forza viva, portatrice del cambiamento e questa forza è il popolo. In questo popolo stanno racchiuse le potenzialità di liberazione di una nazione tenuta schiava tanto dall’accordo fra nobiltà smunta e plebe corrotta quanto dalle ambizioni della borghesia mercantile. Per un attimo vertiginoso, a Giusti era sembrato che questo gigante addormentato si rimettesse in cammino e per un attimo parve terminato il tempo della satira. Durante i mesi convulsi del 1848 le speranze si spostarono dalla pagina scritta ai campi di combattimento fra Lombardia e Veneto. Giusti sentiva finito il suo compito, la sua risata era il retaggio di un mondo imperfetto, si alimentava delle disarmonie e delle ingiustizie per poi colpirle con la frusta della satira. Come scrisse in una delle tante prefazioni che appose ai suoi versi:

  • 17 GIUSTI, Giuseppe, op. cit., p. 5.

Ora che essa [la mia nazione] spande da sé la larga vena dei suoi tesori, e che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinnanzi la sua meravigliosa epopea; noi miseri accozzatori di strofe bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d’immischiarci oltre nei solenni parlari di casa17.

24Le illusioni, tuttavia, durarono poco: alla breve primavera dei popoli seguì un lungo inverno. Dopo le vicende toscane del 1848, con la fuga del Granduca a Gaeta e il governo gestito in modo traballante dai democratici di Guerrazzi, Giusti, che nel frattempo era stato eletto deputato all’Assemblea Nazionale, si ritirò dalla scena politica. Alla delusione pubblica seguì anche l’accentuarsi della malattia che da tempo minava la sua salute e che di lì a due anni l’avrebbe portato alla morte. Davanti al futuro, che si presentava grigio e incerto, il poeta si sentiva trasformato lui stesso in uno di quegli ordigni meccanici di cui aveva parlato la sua poesia, una nevrosi da rivoluzione fallita che si avverte chiaramente nelle parole scritte a Manzoni nel 1849:

  • 18 GIUSTI, Giuseppe, Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1904, p. 323.

Questo turbine di cose ci ha intronata la testa per modo che abbiamo lasciato in un canto gli amici e gli studi, e rinunziato a tutti i conforti della vita, o senza avvedercene o per volontà deliberata di abbandonarci ai rumori di piazza. Il parlare di una cosa da due anni in qua, ci ha ridotto alla condizione di queste macchinette che mandano quel dato suono e fanno quel tale movimento […]. Ora non mi maraviglio più se imbestiano e inferociscono i lavoranti delle grandi officine, tenuti lì per anni a fare quel solo pezzo che è loro assegnato, perché la bestialità e la ferocia debbono essere il resultato necessario del fissarsi in un pensiero unico, come si vede nei pazzi18.

4. Un certo humor: gli anni Cinquanta

25Nel gennaio 1850, mentre Giusti si spegneva a Firenze, Carlo Tenca dava alle stampe a Milano quello che sarebbe diventato il più importante periodico del decennio di preparazione: «Il Crepuscolo». Dopo il fallimentare esito del biennio rivoluzionario, le ideologie elaborate negli anni Quaranta si erano rivelate insufficienti a risolvere il problema italiano. Le sconfitte dell’esercito di Carlo Alberto, così come la capitolazione delle Repubbliche di Roma e Venezia, invalidarono tutte le categorie interpretative degli anni precedenti. Il presente richiedeva nuovi strumenti di comprensione. In questo labirinto, «Il Crepuscolo», sin dal suo esordio, si pose il compito di arginare il dilagare dello sconforto e della rassegnazione e di ritemprare le forze vive della società lombarda in vista delle battaglie del futuro. Il progetto politico era sottinteso alla riflessione culturale che Tenca indirizzò al suo pubblico nel primo numero del giornale:

  • 19 TENCA, Carlo, «Ai lettori», in Il Crepuscolo, I, 1, 1851.

Per noi la letteratura d’oggidì assomiglia ad una carovana sorpresa dal vento del deserto. La bufera ne ha scompigliato le file e sottratto per un istante […] la meta del cammino. Ma poi, cessato il turbine, i superstiti si raccolgono, contano i caduti ed i dispersi, ripigliano la loro vita, intenti al medesimo punto raggiante dell’orizzonte19.

  • 20 TENCA, Carlo, Giuseppe Giusti [1850], in ID., Saggi critici, Firenze, Sansoni 1969, p. 128.
  • 21 Ibidem, p. 131.
  • 22 Ibidem, p. 129.
  • 23 Ibidem, p. 130.
  • 24 Ibidem.

26Nel “cammino” verso quel nebuloso “punto raggiante all’orizzonte”, alla satira spettava il compito di aggredire il disordine morale dominante dando voce agli stimoli del pensiero e della coscienza. La prima occasione per riflettere sulla satira fu il commosso necrologio col quale Tenca salutò Giusti, da poco scomparso, come l’ultimo grande poeta capace di parlare a un’intera collettività nazionale. Giusti «aveva visto le grandi piaghe che affliggevano la nostra società, gli elementi parassiti che la dissanguavano e la corrompevano» e aveva tentato di «ristaurar la nazione, flagellandone i vizi e ispirandone la vergogna di sé medesima»20. «Il flagello delle sue satire»21, abbattendosi sull’intero «edificio sociale»22 l’aveva spogliato di ogni lusinga, mostrandolo simile a «un caos di fradici elementi, una morta gora, come quelle che Dante visitava nell’inferno, e da cui non era a trarre nessun moto di vita»23. Indocile di fronte all’orrore infernale, la parola comica aveva stimolato i suoi lettori a uscire da quella «vita artificiale e vuota» davanti alla quale «l’intelligenza aveva sentito la vergogna della sua prostrazione, e preparavasi a lottare e a risorgere» con l’aiuto dell’ironia che «la rialzò formidabile in faccia alle tristizie ed alle dure necessità del momento, e iniziò la prima battaglia del pensiero»24.

27Di fronte alla solennità del comico evocata da Tenca, la pubblicazione in quello stesso anno della prima parte dell’Arte di Convitare di Giovanni Rajberti ripropose quel legame tra umorismo e satira che era stato una delle ragioni del successo dell’opulento medico-poeta nella scena letteraria lombarda degli anni Trenta e Quaranta. Sotto il travestimento di un galateo per educare la piccola borghesia lombarda alla pratica dei pranzi alla buona, l’Arte di Convitare nasconde un ambizioso programma politico, che solo di recente è stato messo in evidenza da Giovanni Maffei

  • 25 MAFFEI, Giovanni, Introduzione, in RAJBERTI, Giovanni, L’arte di Convitare, Roma, Salerno Editrice, (...)

Il tema dell’Arte di convitare – la mensa, il pranzo, – non fu scelto per bizzarra magnificazione dell’irrilevante: esso era strategico nella visione che Rajberti aveva del mondo, nella sua filosofia della storia e psicologia sociale. Si tratta dei luoghi […] dove l’uomo corporeo che si nutre è immediatamente anche l’uomo morale che lo fa con gli altri, che sedendo a tavola cogli altri misura la propria sociabilità e convenienza25.

  • 26 RAJBERTI, Giovanni, op. cit., p. 73.

28La resistenza all’occupazione austriaca passava per le buone maniere a tavola, prima fase di un incivilimento destinato a diventare educazione alla vita pubblica. In quanto opera politica l’Arte di convitare individua immediatamente il suo interlocutore: «A chi volesse sapere prima di tutto che cosa io intenda per popolo – leggiamo all’inizio del libro – dico, a scanso di astruse e complicate definizioni, che intendo il ceto medio: giacché il ceto basso si usa e si osa ancora chiamarlo plebaglia o popolaccio»26.

  • 27 RAJBERTI, Giovanni, «L’Arte di Convitare spiegata al popolo del dottor Giovanni Rajberti, parte pri (...)
  • 28 Ibidem.

29Questa decisa esclusione del proletariato e del sottoproletariato urbano fu una delle cause della dura recensione al testo che apparve sul «Crepuscolo» nel febbraio del 1851. Oltre alla critica a questo modo dispregiativo di trattare le classi più povere, l’anonimo recensore espresse tutti i suoi dubbi circa l’opportunità di pubblicare un libro umoristico in quei tempi di dolorosa privazione, quando il pubblico aveva conquistato col sangue il «diritto di non ridere»27. In quell’incerto inizio di decennio a costituire il vero scandalo dell’opera era la rivendicazione delle ragioni del riso. Quando leggiamo che a Rajberti era mancato quell’«intimo senso di convenienza che ci avverte ogni qual volta un frizzo è intempestivo e inopportuno»28, comprendiamo che alla comprensione dell’anonimo recensore era sfuggita l’intelaiatura umoristica del testo. Proprio a partire da questa mancata comprensione, possiamo ricostruire due differenti concezioni della satira. Quella teorizzata dal «Crepuscolo» s’inseriva in un complesso e articolato sistema delle arti nel quale ciascun membro aveva un compito ben delineato e l’ufficio della satira, come abbiamo visto nel necrologio a Giusti, era la distruzione dei falsi idoli e il ritorno all’uso dell’intelligenza di fronte al torpore imperante. Invece, nella satira esemplificata dalla scrittura rajbertiana, i procedimenti stilistici della tradizione umoristica, come le rivendicazioni dell’io, l’attitudine alle digressioni, lo sconvolgimento delle categorie consuete, non solo erano posti al servizio dei contenuti sovversivi del testo, ma erano specchio delle strutture contraddittorie della realtà circostante.

  • 29 RAJBERTI, Giovanni, «El pover Pill, versi milanesi del dottor Giovanni Rajberti», in Il Crepuscolo, (...)
  • 30 RAJBERTI, Giovanni, «L’Arte di Convitare spiegata al popolo del dottor Giovanni Rajberti, parte pri (...)
  • 31 Ibidem.
  • 32 Ibidem. Bisogna ricordare ugualmente il grande contributo alla riflessione sull’umorismo che diede (...)

30L’ordine delle arti del «Crepuscolo» non ammetteva le ambiguità del linguaggio. Nella severità del sistema di Tenca, il riso era «essenzialmente educatore, e giovava a rafforzare lo spirito e a dargli la coscienza della sua superiorità»29, come leggiamo in un’altra severa recensione a Rajberti, e la citazione delle «barricate a proposito d’un assalto dato a un piatto di manzo, o della filosofia e della politica nostra per dire c’esse consistono nel far procedere la minestra nel pranzo ad ogni altro cibo»30 non era solo come una violazione del «senso squisito della convenienza»31 per «desiderio d’effetto»32, ma un vero e proprio oltraggio alle memoria dei caduti. Eppure con questo linguaggio duplice Rajberti inseriva nella sua scrittura i temi che la persecuzione politica aveva esiliato, e che per questo motivo non potevano essere trattati senza il manto falsamente accomodante dell’ironia, la stessa ironia che permetteva una realistica rappresentazione della confusione seguita al fallimento del 1848.

  • 33 RAJBERTI, Giovanni, L’arte di Convitare, cit., pp. 117-118.
  • 34 Ibidem, p. 118.

31Se le grottesche di Leopardi e le fantasmagorie di Giusti avevano deformato gli aspetti del reale per raggiungere l’effetto desiderato, nel panorama dominato dalla rivoluzione fallita, la «descrizione del vero era per sua natura una satira, perché nel vero sovrabbondano gli elementi viziosi: ignoranza, leggerezza, vanità, sciocchezza e ridicolo»33. In quel 1850, Rajberti mostrava ancora di credere a una funzione nobile dell’ufficio della satira. Anzi la satira era, per il medico-poeta, la sola letteratura degna di nota: «ogni altro genere […] era cantare ai sordi, e non distraeva un minuto la società dall’assiduo e faticoso esercizio dei suoi sette peccati capitali»34.

  • 35 DE SANCTIS, Francesco, “Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l’agosto del 1854” per Girola (...)
  • 36 DE SANCTIS, Francesco, L’“Armando” di Giovanni Prati, in ID., op. cit., p. 223.
  • 37 DE SANCTIS, Francesco, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1971, p. 977.
  • 38 STRAFFORELLO, Gustavo, Lo Humour e gli Umoristi [1855], in MAZZACURATI, Giancarlo, op. cit., p. 407
  • 39 ARRIGHI, Cletto, «Ricordi di giornalismo», in Cronaca Bizantina, III, 11, 1883.
  • 40 «Segretario di Asmodeo, Chi siamo e che siamo?», Il Pungolo, 15 marzo 1858.
  • 41 Ibidem.

32Si può affermare che, durante il decennio di preparazione, la fusione di umorismo e satira è allo stesso tempo l’espressione artistica di una realtà stravolta e un linguaggio in codice destinato a un pubblico d’iniziati. Per De Sanctis l’umore rappresentava, hegelianamente, la «forma artistica, che ha, per suo significato, la distruzione del limite, con la coscienza di essa distruzione»35. Per questo nel saggio dedicato all’Armando di Giovanni Prati (1868), il critico indicava nel «riso micidiale di Heine»36 il potere di mandare «in frantumi» il mondo delle fantasticherie romantiche come, nella Storia della letteratura italiana (1870-1872), il «ghigno di Giuseppe Giusti»37 era stato in grado di distruggere il fragile accordo delle classi dirigenti italiane della Restaurazione. Il linguaggio in codice dell’umorismo, inteso come «sapienza travestita»38, dilagava sulla stampa del Lombardo-Veneto, specie in testate come «L’Uomo di Pietra», «Il Pungolo», «Ciò che si dice e ciò che non si dice», «L’Alchimista Friulano», dove un nugolo di intellettuali e giornalisti portava avanti una personale guerra conto l’Austria. Come avrebbe ricordato Cletto Arrighi, l’umorismo «come una vera strategia […] aveva le sue marce e contromarce, le sue imboscate, i suoi stratagemmi, le sue sorprese. Il segreto stava nello scrivere tali cose a doppio senso che la censura dovesse capirle per un verso, mentre i lettori le capivano al rovescio»39. Sul «Pungolo», giornale fondato da Leone Fortis, la prassi dissimulatoria dell’umorismo era definita un «subisso» di «fosforescenti apparenze che or si vedono or non si vedono, e mutano forma e significato»40 sotto le quali si proteggeva il germe della resistenza nei lunghi inverni dello scontento condiviso. Il manto della parola ironica era un «intonaco, sotto il quale può stare un cadavere, ma qualche volta respirare un’esistenza forte e rigogliosa» e l’insieme di queste pratiche di simulazione e dissimulazione avrebbero simboleggiato «fra 500 anni […] un’epoca storica, un’epoca di lotta, di dolori e di riso, epoca di transizione e di spostamento: e questo basta a farci capire quello che siamo»41.

33Tra i tanti, citiamo un solo, illustre, esempio di dissimulazione umoristica: l’articolo di Ippolito Nievo Episodi Autunnali. La caccia, apparso nel 1858 sull’«Uomo di Pietra», dove l’invito ad andare, armi alla mano, per la caccia in Madagascar, cela lo stimolo a diventare cacciatori delle Alpi in vista della Guerra d’Indipendenza:

  • 42 NIEVO, Ippolito, Tutte le opere narrative, tomo II, Milano, Mursia, 1967, p. 900.

Quelli che non udiranno la voce di questa nobile ambizione restino pure a passeggiare la vecchia Europa coi loro fucili. Io annunzio, io minaccio loro una vita di perpetui disinganni, un’eterna sequela d’illusioni svanite, di vane speranze, di sfiatati avvilimenti42.

34La vita vera sarebbe stata quella all’inseguimento di una preda che, nel suo aspetto mostruoso, rimanda all’aquila austriaca:

  • 43 Ibidem.

un prezioso volatile le cui dimensioni variano dai tre ai novanta metri di lunghezza colla congrua rotondità […] è grosso come un cavallo […] con sette delle sue penne si costruisce una tenda […] ha le sue gambe decentemente coperte di piuma: del resto somiglia ad un aquila come il Lago Maggiore somiglia al Bagno di Diana; ma cosa stranissima, è ancora più vorace43.

35All’avvicinarsi del compimento dell’Unità si ravvivano le speranze politiche, ma il mondo meccanico e le sue minacce sono sempre in agguato. Ne è una testimonianza lo stupore di Rajberti davanti all’implacabile movimento degli «immensi ordigni della filatura di cotone, di lino», delle «gigantesche seghe per dividere tronchi d’alberi, marmi, metalli», delle «locomotive colossali», insomma davanti a tutti quei «mostruosi bestioni» esposti all’Esposizione Universale parigina del 1855, che annunciavano il futuro regno del progresso, in cui s’imporrà la

  • 44 RAJBERTI, Giovanni, Il viaggio di un ignorante ossia ricetta per gli ipocondriaci, a cura di Enrico (...)

gran poesia utilitaria destinata in avvenire a spazzar via tutte le altre della ciarla, meno forse la satirica, che è l’unica possibile e ragionevole in tempi di elevata civiltà e di vizii maggiori: non già che la satira li corregga. Oibò! Ma perché solletica l’istinto generale della malignità44.

  • 45 Ibidem, p. 135.
  • 46 La recensione del 1839, intitolata, L’arte di ereditare [1839], viene citata da CATTANEO, Carlo, “I (...)

36Questa distopica modernità incalzante stava togliendo la corona al padre della lingua comica italiana; il mondo demoniaco della tecnica non si lasciava incastrare nella tessitura del racconto, davanti a quello spettacolo anche «Dante avrebbe lacerato la penna coi denti, nella disperazione di poter tradurre in parole adeguate quel sublime inferno»45, mentre la satira da «esame di coscienza dell’intera società»46, si sarebbe trasformata in sterile maldicenza.

37Col raggiungimento dell’unità nazionale i protagonisti della nostra storia si disperdono: l’attività parlamentare tolse a Tenca il tempo per la scrittura e gli studi, Arrighi si smarrì nell’avventura scapigliata; Nievo trovò la morte nel naufragio dell’Ercole fra il 4 e il 5 marzo del 1860 e Rajberti si spense a Milano, nel 1861, a seguito di un colpo apoplettico che l’aveva lasciato paralizzato e incapace di parlare.

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Bibliografia

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Note

1 CELATI, Gianni, «Si comincia con Swift per riparare quel “più”», in Il caffè letterario e satirico, XV, 3 giugno 1968, p. 4.

2 Scritto durante la prigionia nel 1833, il testo venne pubblicato, con forti tagli, nel 1843 all’interno degli Scritti inediti e postumi curati da Giuseppe Mazzini. La lezione del testo fu poi migliorata da Giuseppe Levantini Pietoni nel 1869. La nostra edizione di riferimento è: BINI, Carlo, Manoscritto di un prigioniero e Il Forte della Stella, Milano, Rizzoli, 1961.

3 BINI, Carlo, op. cit., p. 28.

4 Ibidem, p. 98.

5 Ibidem, p. 113.

6 MAZZACURATI, Giancarlo (a cura di), Effetto Sterne, Pisa, Nistri-Lischi, 1990, p. 354.

7 BINI, Carlo, op. cit., p. 12.

8 BLUMENBERG, Hans, L’ansia si specchia sul fondo, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 130-131.

9 BLASUCCI, Luigi, I tempi della satira leopardiana, in ID., I titoli dei “Canti” e altri studi leopardiani, Napoli, Morano, 1989, p. 197.

10 Le tre opere citate furono tutte scritte a Napoli negli ultimi anni di vita di Leopardi: la Palinodia al Marchese Gino Capponi, vide la luce nel 1835, e fu pubblicata nello stesso anno nell’edizione Canti, stampata da Starita. Tanto I Nuovi Credenti, composti dopo il 1835, che i Paralipomeni, a cui Leopardi lavorò a partire dal 1831, apparvero solo dopo la morte dell’autore. Le citazioni saranno tutte tratte da: LEOPARDI, Giacomo, Poesie e prose, tomo I, Milano, Mondadori, 1987-1988. Il numero dei versi verrà indicato nel testo fra parentesi tonda.

11 Cfr. BAZZOCCHI, Marco Antonio, Per leggere un’opera fraintesa, in LEOPARDI, Giacomo, I Paralipomeni della Batracomiomachia, Roma, Carocci, 2002, pp. 7-31.

12 BRIOSCHI, Franco, Misantropia, satira, sarcasmo nei Paralipomeni della Batracomiomachia, in Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia. Atti del IX convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 18-22 settembre 1995), Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1998, p. 550.

13 Le poesie di Giuseppe Giusti ebbero una larga circolazione già prima di essere raccolte in volume: l’edizione clandestina Poesie italiane tratte da un testo a penna, con prefazione anonima di Cesare Correnti, fu stampata a Lugano senza il consenso dell’autore nel 1844. Lo stesso anno apparvero a Livorno i Versi di Giuseppe Giusti, stavolta supervisionati dallo stesso poeta. A questa raccoltà seguì l’anno successivo l’apparizione dei Versi editi a Bastia per i tipi di Fabiani, mentre l’ultima raccolta apparsa mentre il poeta era in vita fu l’edizione dei Nuovi Versi, editi da Baracchi a Firenze nel 1847. Fra le edizioni postume vanno segnalate, per la fondamentale introduzione critica, le Poesie di Giuseppe Giusti, curate da Giosué Carducci per Barbera nel 1859, e più volte ristampate nei decenni precedenti. L’edizione di riferimento qui citata è GIUSTI, Giuseppe, Tutte le opere, Firenze, Barbera, 1968; il numero dei versi verrà indicato nel testo fra parentesi tonda.

14 BRILLI, Attilio, Dalla satira alla caricatura. Storie, tecniche e ideologie della rappresentazione, Bari, edizioni Dedalo, 1985, p. 16.

15 Ibidem.

16 L’orrore per le macchine ed il pericolo che rappresentano per gli esseri umani è già presente nella leopardiana Accademia dei Sillografi in cui si annunciano premi per l’inventore di apparecchi capaci «di fare le parti e la persona di un amico», di «essere un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime», ed infine «a fare gli uffici di una donna!», in LEOPARDI, Giacomo, Operette Morali, in ID., Poesie e prose, cit., pp. 30-32. Ancora alla fine degli anni Cinquanta, Ippolito Nievo immaginava il suo Carlo Altoviti impiegato dell’immenso apparato statale napoleonico, ridotto allo stato di «carrucola» dell’enorme ingranaggio, divenuto, forse non senza una memoria giustiana: «un coso di legno ben inverniciato ben accarezzato perché mi curvassi – racconta Carlino – metodicamente e stupidamente a parare innanzi una macchina», in NIEVO, Ippolito, Le Confessioni d’un Italiano, Venezia, Marsilio, 2000, p. 693.

17 GIUSTI, Giuseppe, op. cit., p. 5.

18 GIUSTI, Giuseppe, Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1904, p. 323.

19 TENCA, Carlo, «Ai lettori», in Il Crepuscolo, I, 1, 1851.

20 TENCA, Carlo, Giuseppe Giusti [1850], in ID., Saggi critici, Firenze, Sansoni 1969, p. 128.

21 Ibidem, p. 131.

22 Ibidem, p. 129.

23 Ibidem, p. 130.

24 Ibidem.

25 MAFFEI, Giovanni, Introduzione, in RAJBERTI, Giovanni, L’arte di Convitare, Roma, Salerno Editrice, 2002, p. 24.

26 RAJBERTI, Giovanni, op. cit., p. 73.

27 RAJBERTI, Giovanni, «L’Arte di Convitare spiegata al popolo del dottor Giovanni Rajberti, parte prima», in Il Crespuscolo, 2 Febbraio 1851.

28 Ibidem.

29 RAJBERTI, Giovanni, «El pover Pill, versi milanesi del dottor Giovanni Rajberti», in Il Crepuscolo, 2 gennaio 1853.

30 RAJBERTI, Giovanni, «L’Arte di Convitare spiegata al popolo del dottor Giovanni Rajberti, parte prima», cit.

31 Ibidem.

32 Ibidem. Bisogna ricordare ugualmente il grande contributo alla riflessione sull’umorismo che diede Tullo Massarani nel 1856 con i suoi articoli dedicati a Enrico Heine e il movimento letterario in Germania.

33 RAJBERTI, Giovanni, L’arte di Convitare, cit., pp. 117-118.

34 Ibidem, p. 118.

35 DE SANCTIS, Francesco, “Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l’agosto del 1854” per Girolamo Bonamici, in ID., Saggi critici, Roma-Bari, Laterza, 1957, p. 287.

36 DE SANCTIS, Francesco, L’“Armando” di Giovanni Prati, in ID., op. cit., p. 223.

37 DE SANCTIS, Francesco, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1971, p. 977.

38 STRAFFORELLO, Gustavo, Lo Humour e gli Umoristi [1855], in MAZZACURATI, Giancarlo, op. cit., p. 407.

39 ARRIGHI, Cletto, «Ricordi di giornalismo», in Cronaca Bizantina, III, 11, 1883.

40 «Segretario di Asmodeo, Chi siamo e che siamo?», Il Pungolo, 15 marzo 1858.

41 Ibidem.

42 NIEVO, Ippolito, Tutte le opere narrative, tomo II, Milano, Mursia, 1967, p. 900.

43 Ibidem.

44 RAJBERTI, Giovanni, Il viaggio di un ignorante ossia ricetta per gli ipocondriaci, a cura di Enrico. Ghidetti, Napoli, Guida, 1985, p. 134.

45 Ibidem, p. 135.

46 La recensione del 1839, intitolata, L’arte di ereditare [1839], viene citata da CATTANEO, Carlo, “Il Politecnico” 1839-1844, tomo I, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 169.

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Notizia bibliografica digitale

Marco Viscardi, «Un’altra visione delle cose»Diacronie [Online], N° 11, 3 | 2012, documento 2, online dal 29 octobre 2012, consultato il 06 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/diacronie/2623; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/diacronie.2623

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Autore

Marco Viscardi

Marco Viscardi (1978) si è addottorato in Filologia Moderna nel 2009 (Università degli Studi di Napoli “Federico II”) discutendo una tesi sulle lezioni dantesche di F. A. Ozanam (1813-1852); attualmente borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, lavora ad una monografia su satira ed umorismo in Italia fra 1816 e 1861. Cultore della materia presso le cattedre di Storia della Critica Letteraria e Letteratura Italiana II, titolare il prof. Giovanni Maffei, si è occupato di romanzo storico fra Otto e Novecento e di storiografia letteraria, e ha pubblicato interventi su Tomasi di Lampedusa, Manganelli e Giuseppe Giusti.
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