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II. Interviste
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Ubuntu e il principio di Co-Agency nell’ecologia africana: una conversazione con James Ogude

James Ogude
Maria Isabel Pérez-Ramos
Traduzione di Greta Caretto

Abstract

In questa intervista, partendo dal concetto di ubuntu James Ogude spiega le implicazioni etiche e filosofiche di questo termine, prestando particolare attenzione alle emergenze sanitaria e ambientale in corso. Ubuntu si fonda sulle idee di co-agency e relazionalità, idee che vanno ben al di là di una visione del mondo puramente antropocentrica. Ogude inserisce il concetto di ubuntu all’interno degli studi postcoloniali e dell’ecocriticismo e mostra come esso sia uno strumento analitico importante per ricostruire i fenomeni di appropriazione della natura e di ingiustizia ambientale ai tempi dell’«Antropocene».

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Testo integrale

“#streetart ~ Little people. Helping each other.” by Darren Smith on FlickrVisualizza l'immagine
Credits: Flickr

1Questa intervista a James Ogude è stata condotta da Maria Isabel Perez Ramos, ecocritica presso l’Università di Oviedo in Spagna, in occasione dell’edizione online della conferenza STREAMS. Transformative Environmental Humanities che si è svolta dal 5 al 7 Agosto 2020 e che il prossimo anno dovrebbe proseguire le attività in presenza. La conferenza è stata organizzata dall’Environmental Humanities Laboratory della Division of History of Science, Technology and Environment del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma. Per maggiori informazioni,
URL: <
https://www.kth.se/​en/​abe/​inst/​philhist/​historia/​ehl/​ehl-events/​shaping-the-environm/​streams-1.910662 >.

2Isabel Pérez (I.P.): Prima di spiegarlo, vorrei provare a rendere “operativo” il concetto di ubuntu e a metterlo in relazione con una questione di stringente attualità, quale la pandemia. Ubuntu, come vedremo meglio in seguito, è correlato alle idee di comunità e di benessere collettivo e, per iniziare, vorrei chiederle di descriverci l’impatto della pandemia in Sud Africa e, più in generale, nel continente africano.

3James Ogude (J. O.): Grazie Isabel. Stiamo vivendo un periodo difficile: l’attuale pandemia, come tutte le epidemie, ha un enorme impatto sulle infrastrutture sociali ed economiche della società sudafricana e africana in generale. Sta intaccando la sicurezza sanitaria per la maggior parte della popolazione e soprattutto per i più poveri tra i poveri. Il carico eccezionale che le nostre strutture sanitarie stanno sostenendo accentua le difficoltà e le disuguaglianze socio-economiche. In particolare povertà, sovrappopolazione di alcune aree urbane e ingiustizie spaziali sono questioni che rendono difficilmente applicabile il distanziamento fisico non solo nell’Africa meridionale o in Sudafrica, ma in tutto il continente. Il problema ovviamente si concentra soprattutto nelle aree urbane di Johannesburg o Nairobi, dove il contenimento della pandemia si è rivelato una vera e propria sfida. E alla questione spaziale si è aggiunta la difficoltà di garantire la sicurezza alimentare, anche attraverso gli aiuti internazionali. In questa situazione di emergenza, gli aiuti arrivano più lentamente perché i Paesi del Nord del mondo che ci supportano maggiormente – in primis quelli scandinavi – sono a loro volta in difficoltà per la pandemia.
Eppure ho positivamente notato che le comunità hanno reagito a questa situazione emergenziale con alcuni dei nostri valori migliori, quali la condivisione e la cura dei più vulnerabili tra noi. Le nostre comunità hanno mostrato resilienza, nonostante le enormi tensioni e difficoltà. Si sono comportate molto bene e sono davvero delle comunità resilienti, nonostante le tensioni, la vulnerabilità e le linee di frattura che la pandemia ha mostrato con maggiore evidenza. Se da un lato la pandemia ci ha mostrato quali potrebbero essere i rischi dell’indifferenza, del voltarsi dall’altra parte e del non essere più i «custodi dei fratelli» proprio quando siamo toccati da urgenti e personali difficoltà. Dall’altro lato ci ha esposto alla sfida insita nell’andare avanti non rinunciando al valore della condivisione tra le persone. In Sud Africa abbiamo visto emergere un incredibile spirito di generosità che ha coinvolto diversi gruppi sociali.
In relazione a quanto detto, vorrei affrontare ancora un ultimo punto. Dal momento che questa conferenza tratta anche il tema dell’ambiente, mi sono chiesto cosa abbiamo imparato da questa pandemia come esseri umani. Si è detto che il virus è stato trasmesso dagli animali agli umani. Posso sbagliarmi, sarà la scienza in futuro a dirlo, ma credo che la pandemia ci abbia costretto, come esseri umani, a ripensare la nostra relazione con le altre specie, con le cose, con le piante, con gli animali. Questa situazione ci ha permesso di capire che siamo noi i colpevoli e i responsabili di alcune cose che ci stanno capitando. Ovviamente in un simile contesto si corre il rischio di alterare la nostra normale gerarchia dei bisogni e tendiamo a mettere in secondo piano il nostro rapporto con ciò che ci circonda. A meno che non ripensiamo profondamente il nostro rapporto con la terra e con le altre specie, questi problemi potrebbero ripetersi.

4I. P.: Grazie per questa risposta meravigliosa e per essere entrato nell’argomento che vorremo discutere in questa sede. Anche se quanto riportato è abbastanza preoccupante, dalle sue parole sulla cooperazione e su ciò che possiamo imparare dalla situazione attuale, ritroviamo qualche speranza.
So che ha lavorato e pubblicato diversi scritti sul concetto di
ubuntu, che sembra particolarmente importante in questo periodo di pandemia perché si riferisce alle nozioni di comunità e benessere. Alcuni considerano l’ubuntu anche una sorta di parola d’ordine entrata nell’uso comune e che si è poi diffusa nei discorsi e nei dibattiti pubblici in Sudafrica. Potrebbe spiegarci il concetto e come lo ha utilizzato e declinato nelle sue ricerche?

5J. O.: Premetto che non mi considero un vero e proprio esperto di ubuntu e che ho iniziato a occuparmene dal 2014, anno in cui il nostro Vice Cancelliere mi chiese di dirigere un progetto sull’ubuntu. In quel periodo la World Charity Foundation assegnò all’arcivescovo Desmond Tutu – il quale si ispirava alla necessità della rigenerazione di una comunità nel portare avanti il suo impegno per la Commissione Verità e Riconciliazione in Sudafrica – un premio per il suo lavoro spirituale. La World Charity Foundation voleva che l’accademia sudafricana approfondisse ed estendesse la conoscenza filosofica dell’ubuntu. Parte del loro ragionamento riguarda, come precisamente stavi dicendo tu, la trasformazione della parola ubuntu in una parola d’ordine.
Personalmente sono stato piuttosto riluttante a occuparmi di quest’area di studio precisamente perché pensavo di cadere in un campo intellettuale difficile: non sono un filosofo e nemmeno un teologo, bensì mi occupo di critica letteraria.
Al concetto di
ubuntu era accaduto quello che generalmente avviene quando alcuni termini accademici entrano nel dibattito pubblico: diventano in qualche modo delle parole d’ordine, dei passepartout. Ubuntu oggi è una parola di uso comune, proprio come il termine globalizzazione, per fare un esempio, fa parte del lessico politico del Paese e funge da strumento politico per “rigenerare” la società, per mettere insieme la comunità nazionale dopo decenni di divisioni razziali, etniche, economiche. L’Arcivescovo Desmond Tutu venne accusato di un ricorso eccessivo alla giustizia riparativa e alla riconciliazione, con cui cercava di far sì che la società potesse in qualche modo andare avanti. Da cristiano, Tutu, provò, per quanto possibile, a costruire un legame che fosse basato sull’umana benevolenza, che mirasse all’umanizzazione di tutti e tutte. Il semplice fatto che noi siamo fatti «a immagine di Dio» era un punto di partenza comune per i membri della comunità, indipendentemente dalla razza, dal vissuto e dalla eredità.
Per rispondere alla sua domanda, la parola
ubuntu si potrebbe tradurre così: io sono perché tu sei, noi siamo perché voi siete. Si fonda sul presupposto che il pieno sviluppo della persona avviene attraverso la condivisione delle identità e che l’umanità dell’individuo si formi grazie ad una rete di relazioni. Ubuntu propone un’idea relazionale di individuo e riguarda il carattere sociale degli esseri umani. In altre parole, vi sarebbe una genesi sociale pre-metafisica dell’individuo da cui dipenderebbe la sua autorealizzazione. Anch’io, come sostengono alcuni filosofi, sono dell’opinione che tutti noi diventiamo persone attraverso l’acquisizione di conoscenze e alla partecipazione alle pratiche e alle conoscenze che apprendiamo attraverso il vivere con gli altri. È a partire da queste relazioni, che comportano anche rinunce e talvolta imposizioni da seguire, che si sviluppa la nostra umanità.
Dobbiamo essere chiari su questo punto: l’
agency, la nostra capacità di essere soggetto, non risiede solo in corpi autonomi, autodeterminati e individualistici come si ritiene in Occidente; essa risiede nelle persone che si costituiscono attraverso la socialità. Si tratta di una distinzione importante che spesso è fonte di contestazioni dal momento che parlare di etica comunitaria e di condivisione dell’identità può essere considerato un attacco all’autonomia, all’individualismo e all’autodeterminazione.
Per concludere, l’essere persona è un obiettivo raggiungibile solo con molto impegno e attraverso complessi processi di scambio; inoltre dipende da come le persone interagiscono e comunicano tra loro e con la totalità dell’ambiente circostante. È qui che risiede il punto critico: la totalità dell’ambiente non è solo caratterizzata dal legame tra persone, ma è anche un incontro con il cosmo.

6I. P.: Grazie per la spiegazione esaustiva del concetto di ubuntu, molto utile per chi non ha familiarità con la filosofia africana. Credo sia importante approfondire la discussione sulla «cosmologia dell’ubuntu». Se la capacità di agire da soggetto, di avere agency, si fonda sulla mutua responsabilità e sulla relazionalità con il resto dell’ambiente, esiste una gerarchia all’interno di queste relazioni? Sono gli esseri umani, in questa relazione, a essere responsabili per e degli altri elementi? È una relazione orizzontale? Come la descriverebbe?

  • 1 WIREDU, Kwasi, Philosophy and an African Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 1980; Mora (...)
  • 2 SARO-WIWA, Ken, Un mese e un giorno. Storia del mio assassinio, Milano, Ed. Baldini Castoldi Dalai, (...)

7J. O.: È una domanda molto importante, Isabel, alla quale non è facile rispondere, ma provo.
Una delle cose importanti da capire è che
ubuntu si basa sul principio di co-agency, che pone l’accento sulla relazione dialettica tra gli esseri umani e le altre specie. In Africa l’approccio pre-metafisico, o meglio precoloniale, degli esseri umani in relazione alla natura, è sempre stato di co-creazione, co-attività e co-esistenza [in inglese: co-creation, co-agency, co-existance] e l’ubuntu si basa proprio su questi principi. La relazione tra le persone non sono solo quelle tra persona e persona, tra essere umano ed essere umano, ma sono anche il risultato di rapporti che sottolineano l’importanza del legame con altre specie ed elementi, quali ad esempio le piante, i fiumi…
Non solo nelle società africane, ma anche in altre dell’Asia o dell’America Latina, è possibile trovare questa interdipendenza e venerazione per le altre specie. In Amazzonia, ad esempio, mi hanno raccontato che i pescatori locali ributtano in acqua il pesce pescato ogni qualvolta hanno la sensazione di averne preso troppo. In questo modo i fiumi vengono apprezzati, ricompensati e rispettati; così la sussistenza delle comunità appare indissolubilmente intrecciata con quella dell’ecosistema fiume. Io, per esempio, vengo da una zona lacustre dove si svolgono una serie di importanti rituali legati alla diminuzione di biodiversità e promossi dalla paura di perdere qualcosa. I rituali sono indicativi in quanto forme e processi simbolici e cognitivi attraverso cui gli esseri umani cercano di riconciliarsi con il mondo e con la natura. Questa interrelazione tra uomo e natura, così come il rispetto per gli antenati e per gli esseri “supremi”, è molto importante nelle società africane.
Ci tengo a sottolineare che, non a caso, l’approccio precoloniale alla natura poneva spesso l’enfasi sul raggiungimento dell’equilibrio. La parola equilibrio è fondamentale nella relazione tra tutti questi elementi: esseri umani, ecologia e antenati. Era costante il tentativo di realizzare, utilizzare e raggiungere un equilibrio, lottando per il raggiungimento di un’armonia «corealizzata». L’accento va posto sulla parola “corealizzata” perché scaturisce dalla collaborazione tra specie diverse. Per questo motivo, ogni volta in cui l’equilibrio veniva interrotto o sconvolto, aveva sempre luogo una forma di restituzione: un tentativo di riconciliarsi con il proprio ambiente attraverso rituali, sacrifici o anche penitenze. Il rituale si verificava quando si aveva la sensazione di aver generato uno squilibrio all’interno della società di tutti gli enti.
Gli esseri umani hanno erroneamente sostituito la propria funzione di co-creatori con il diritto di imporre la propria autorità su tutti gli enti. È questa gerarchia artificiale che deve essere messa in discussione.
Le società socialmente articolate sono strutturate in molti casi intorno al patriarcato e alla divisione tra classi sociali. Durante la nostra ricerca su
ubuntu, abbiamo constatato la mancanza delle donne nel processo di rigenerazione di questo equilibrio, in mano prevalentemente agli uomini chiamati a presiedere e guidare la maggior parte dei rituali presenti nelle pratiche quotidiane. Sebbene idealmente il concetto di ubuntu preveda un riconoscimento dell’uguaglianza morale di tutte le persone, di fatto ci sono ancora lacune e forme di discriminazione che devono essere affrontate. I valori di ubuntu, però, forniscono argomentazioni per una critica profonda delle dinamiche di esclusione sociale. Mandela e l’Arcivescovo Tutu furono in grado di utilizzare proprio in questa accezione il concetto di ubuntu.
L’ubuntu ci richiede di esercitare tra le persone e nelle nostre relazioni una sorta di «imparzialità simpatica», come la chiamerebbe il filosofo ghanese Kwasi Wiredu1. Possiamo collegare e usare il principio etico di ubuntu per mettere in discussione la pratica dell’estrattivismo, ovvero lo sfruttamento delle risorse mondiali a scapito dell’integrità del mondo, l’idea del benessere ambientale e il concetto del ciclo naturale delle creature e del complesso del nostro sistema ecologico. Affermare ubuntu quale principio etico consente di mostrare e di cogliere come le pratiche estrattiviste feriscano gli esseri umani non solo in Africa, ma ovunque.
Forse alcuni tra voi conoscono la situazione del delta del Niger e la campagna dello scrittore attivista politico Ken Saro-Wiwa
2 che denuncia la distruzione operata sistematicamente da parte delle compagnie petrolifere britanniche, Shell in primis. In questo momento, mentre sto parlando, un tribunale nigeriano sta revocando la licenza a una di queste compagnie petrolifere sulla base di una denuncia presentata dalla popolazione locale che aveva a cuore la protezione dell’ambiente. Ancora, nella mia terra, in Sud Africa, lo sfruttamento minerario ha determinato danni agli esseri umani diffondendo la silicosi tra i minatori. La silicosi è una forma di materializzazione corporea, nel vero senso della parola, dell’«Antropocene»: è l’estrattivismo trasportato nei polmoni dei lavoratori.

8L’agilità epistemologica e le implicazioni etiche che il concetto di ubuntu offrono potrebbero rivelarsi utili per affrontare le sfide di cui vi ho appena parlato.

9I. P.: Grazie, è una risposta davvero esaustiva. Sono molto interessata alla questione dell’estrattivismo, alle nozioni di giustizia ambientale che Lei ha introdotto parlando di violenza e delle diverse forme di esclusione sociale. Come può essere applicata questa filosofia di ubuntu nelle società occidentali dove prevale l’individualismo e la laicità, tenuto conto che ubuntu utilizza un linguaggio vicino alla teologia?

10J. O.: È una domanda che si presenta ogni qualvolta si parli di ubuntu. Inizierei dicendo che ubuntu non è un programma politico, ma un sistema di valori che tocca la politica quotidiana e che non presuppone uno Stato teocratico. Molte società africane non hanno mai tracciato delle linee nette di confine tra il dominio spirituale e quello materiale e questo fa parte certamente della storia della società africana, come si può evincere dai testi antichi. Ma anche in Gran Bretagna, ad esempio, per secoli, i sovrani sono stati anche delle guide spirituali della Chiesa anglicana.
Di fatto anche nelle società occidentali, guidate certamente dall’individualismo, esiste il principio dei diritti umani fondamentali, ovvero quello standard minimo che indica il modo in cui tutti dovrebbero essere trattati. Quindi anche in Occidente è apprezzato e diffuso il principio che stabilisce pratiche valide per tutti i membri all’interno di una comunità, quello che si chiama rispetto dei diritti umani fondamentali.
Troviamo quindi una certa sovrapposizione tra i diritti umani fondamentali e i principi di
ubuntu. Non possiamo restare indifferenti e non prendere posizione rispetto ai genocidi che sono attualmente in corso; non possiamo assistere in silenzio alla morte di esseri umani; non possiamo essere ciechi di fronte alla sofferenza dei migranti che approdano nelle nostre terre. Quel che cerco di suggerire è che il concetto di ubuntu può aiutare a pensare e concepire in modo nuovo il futuro, secondo una grammatica che promuova i principi della mutualità e della convivenza pacifica. Si tratta di un principio che tocca sia la dimensione esteriore che quella interiore. Ad esempio, quando parliamo di giustizia riparativa, parliamo della giustizia ambientale e sociale in cui si riconoscono, almeno in linea teorica, la maggior parte delle società occidentali. Quindi alcuni valori e principi etici che sono incorporati nella filosofia di ubuntu possono essere condivisi dall’intera umanità.
Beninteso,
ubuntu non impone i suoi valori alla comunità in modo dispotico, non è una tirannia collettiva. Piuttosto, occorre la costruzione di un certo consenso: le persone si riuniscono per discutere nell’intento di approdare a una condivisione di intenti che possa accomunare tutti i membri della comunità; questo non significa, tuttavia, che non esistano voci dissenzienti. In questa logica, ubuntu può essere d’aiuto nell’affrontare le nuove sfide poste da un mondo neoliberista e globalizzato in cui tende a prevalere l’individualismo più sfrenato, l’interesse personale a scapito dei beni e dei valori comunitari. Direi che in ubuntu possiamo rinvenire al contempo un significato e degli interrogativi che non accettano la disuguaglianza e che puntano piuttosto all’inclusione sociale. Non si potrà certamente rispondere a tutto, ma almeno offrire delle prospettive per un futuro possibile, soprattutto nei contesti postcoloniali.

11I. P.: Come può essere integrato negli studi postcoloniali e nelle ricerche di ecocritica il concetto di ubuntu?

12J. O. Penso che un punto di partenza potrebbe essere quello di riconoscere che l’ambito degli studi postcoloniali ha sempre dialogato criticamente con le questioni della soggettività [in inglese: agency] e della rappresentatività di chi non aveva voce, dei subalterni. Tale approccio ha provato a introdurre narrative e linguaggi che localizzavano in luoghi diversi la produzione di sapere e ha valorizzato le differenze e le alterità. Di conseguenza, l’ecocriticismo di matrice postcoloniale ha spinto questi elementi verso il non-umano e ha teorizzato le questioni del chi può parlare per conto della natura e del chi può parlare per un soggetto subalterno, senza riproporre il tradizionale dualismo società-natura ed evitando di rendere naturali le gerarchie tra umano e non-umano.
L’ubuntu è un punto di partenza privilegiato per un’analisi dei testi letterati in prospettiva decoloniale e ambientale proprio perchè tale concetto implica la relazione tra umani e altre specie, proprio come abbiamo visto all’inizio di questa intervista.
L’ubuntu mira alla rigenerazione della comunità e dell’ambiente attraverso modalità che includono i movimenti di giustizia climatica a livello globale e che cercano un dialogo attivo tra locale e globale.

13I. P.: Vuole chiudere questa intervista con qualche considerazione su un argomento che non siamo riusciti a toccare?

14J. O.: Permettetemi di aggiungere alcune precisazioni. Una delle cose che abbiamo scoperto portando avanti le nostre ricerche è che il concetto di ubuntu richiama molti concetti diffusi in tutto il continente africano, specialmente tra i cosiddetti gruppi di lingua bantu nell’Africa Orientale. Presso di loro, ubuntu si chiama utu ma ha fondamentalmente lo stesso significato. Utu è una parola swahili che indica l’idea di relazione tra persone. Inoltre, durante la nostra ricerca abbiamo anche scoperto che ci sono molti corrispettivi nell’America Latina e in alcune parti dell’Asia. In questi due continenti i valori di ubuntu sono alla base della struttura sociale delle comunità tradizionali. Se si considerano le radici etimologiche del termine, si scopre improvvisamente che si estende ben oltre il Sudafrica. Ancora, il defunto presidente della Tanzania, Benjamin Mkapa, ha inventato un termine – ujamaa – che indica in buona sostanza il principio della condivisione e del vivere insieme; egli parlava anche della versatilità e del modo in cui questo concetto attraversasse comunità che vivono in regioni diverse.
Passiamo ora alla giustizia. Quando parliamo di questo tema, siamo sempre preoccupati di individuare colpevoli e responsabili, ma qui voglio parlare specificamente di giustizia ambientale ai tempi dell’«Antropocene». La verità è che, quando si guarda alla responsabilità nella distruzione della Terra come ecosistema, l’anthropos non è indifferenziato e sono proprio quelle comunità più vulnerabili di Africa e Asia a subire maggiormente gli effetti del cambiamento climatico pur essendo i meno colpevoli e i meno responsabili di esso. Quindi, se davvero si sta cercando giustizia, occorre accertare le responsabilità di ciò che sta accadendo alla Terra e ribadire che l’«Antropocene» non è uno spazio indifferenziato.

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Note

1 WIREDU, Kwasi, Philosophy and an African Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 1980; Moral foundations of an African culture, in WIREDU, Kwasi, GYEKYE, Kwame (ed. by), Person and community: Ghanaian philosophical studies, Washington DC, The Council for Research in Values and Philosophy, pp. 192-206.

2 SARO-WIWA, Ken, Un mese e un giorno. Storia del mio assassinio, Milano, Ed. Baldini Castoldi Dalai, 2010.

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica digitale

James Ogude, «Ubuntu e il principio di Co-Agency nell’ecologia africana: una conversazione con James Ogude»Diacronie [Online], N° 44, 4 | 2020, documento 11, online dal 29 décembre 2020, consultato il 08 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/diacronie/15242; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/12fgo

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Autore

James Ogude

James Ogude, professore di Letteratura e Culture Africane, dirige il Centre for the Advancement of Scholarship e l’African Observatory for Environmental Humanities presso l’Università di Pretoria (Sudafrica) ed è ricercatore accreditato dal National Research Foundation (NRF). Ha appena concluso un progetto di ricerca quinquennale – finanziato dalla Templeton World Charity Foundation – sul concetto di Ubuntu. Le sue ricerche riguardano la letteratura africana in lingua inglese, la storia e la cultura postcoloniale in Africa. È autore di Ngugi’s Novels and African History: Narrating the Nation (London - Sterling, Pluto Press, 1999) e ha curato recentemente Ubuntu and Personhood (Trenton (NJ), Africa World Press, 2018), (con Unifier Dyer) Ubuntu and the Everyday (Trenton (NJ), Africa World Press, 2019) e Ubuntu and the Reconstitution of Community (Bloomington, Indiana University Press, 2019). Ogude ha pubblicato numerosi articoli in riviste scientifiche.
URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Ogude >

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Maria Isabel Pérez-Ramos

Maria Isabel Pérez-Ramos ha conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2017 presso il KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma e ha fatto parte dell´Environmental Humanities Laboratory presso lo stesso istituto. Attualmente è Juan de la Cierva postdoctoral fellow presso il Department of English, French, and German dell’Università di Oviedo, Spagna. I suoi interessi di ricerca sono le rappresentazioni letterarie delle ingiustizie ambientali, soprattutto nella letteratura chicana e statunitense. Suoi saggi compaiono su riviste accademiche, come «MELUS», «Resilience», «Environmental Humanities» e «Ecozon@». Fa parte dei gruppi di ricerca interdisciplinare Intersections: Contemporary Literatures, Cultures and Theories dell’Università di Oviedo e GIECO-Instituto Franklin dell’Universitá di Alcalà. È responsabile della sezione recensioni della rivista europea «Ecozon@».
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Traduttore

Greta Caretto

Greta Caretto (Torino, 1999) è studentessa del corso di laurea in “Scienze per la pace, cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti” dell’Università di Pisa. È da sempre interessata alle tematiche riguardanti l’ambiente, la giustizia ambientale, le migrazioni, la pace e la non violenza. Attiva socialmente e particolarmente attenta all’attualità politica nazionale e internazionale, nutre una grande passione per la scrittura e la fotografia. Nel 2020 ha svolto un tirocinio presso il KTH Environmental Humanities Laboratory di Stoccolma.
URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Caretto >

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