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II. Interviste
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Le Environmental Humanities: una conversazione con Dipesh Chakrabarty

Dipesh Chakrabarty
Roberta Biasillo e Johan Gärdebo
Traduzione di Filippo Calissi

Abstract

Il titolo di questa conversazione è Tangled in knots: pasts, presents and futures of the Environmental Humanities (EH). Sulla base degli studi di Dipesh Chakrabarty si discuteranno alcune tensioni metodologiche e teoriche che affrontano le questioni ambientali. Quali sono le scale di analisi e come si combinano o escludono a vicenda? Quali sono le potenzialitá e i limiti di un approccio interdisciplinare e cosa contraddistingue le scienze sociali e gli studi umanistici? Che cosa è cambiato nella storia ambientale e nell’approccio all´ambiente negli ultimi decenni?

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Testo integrale

“Mother Earth” by Adrianos777 via Wikimedia CommonsVisualizza l'immagine
Credits: Wikimedia Commons

1Questa intervista è stata condotta da Roberta Biasillo, storica dell’ambiente, e da Johan Gärdebo, storico della tecnologia, in occasione dell’edizione online della conferenza STREAMS. Transformative Environmental Humanities che si è svolta dal 5 al 7 Agosto 2020 e che il prossimo anno dovrebbe proseguire le attività in presenza. La conferenza è stata organizzata dall’Environmental Humanities Laboratory della Division of History of Science, Technology and Environment del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma. Per maggiori informazioni,

2URL: < https://www.kth.se/​en/​abe/​inst/​philhist/​historia/​ehl/​ehl-events/​shaping-the-environm/​streams-1.910662 >.

  • 1 KERRIDGE, Richard, Foreword, in OPPERMANN, Serpil, IOVINO, Serenella (ed.), Environmental Humanitie (...)

3Roberta Biasillo (R.B.): La prima domanda che vorrei farle è relativa alle scale di analisi che si possono adottare per studiare le trasformazioni ambientali e i relativi fenomeni. In molte delle sue ricerche lei ha mostrato la dimensione globale dei cambiamenti ambientali e climatici e ha messo in relazione globalizzazione e trasformazioni socio-ecologiche. Altri studi, sempre nelle EH, hanno invece adottato una scala locale o regionale puntando molto sulla differenziazione dei contesti e sul protagonismo delle comunità locali1. Come si possono far concordare, o meno, queste diverse prospettive di analisi al fine di ricostruire un fenomeno nel modo più inclusivo possibile?

4Dipesh Chakrabarty (D.C.): Qualsiasi fenomeno andiamo ad analizzare presenta scale diverse, così come tutte le questioni che affrontiamo più o meno quotidianamente presentano scale e ordini di grandezza differenti. Pensiamo al bilancio economico che deve gestire il Primo ministro di uno Stato e quello con cui si rapporta la mia famiglia: prima di tutto, entrambi i fenomeni non sono privi di connessione; in secondo luogo, è pensabile accettare che fenomeni simili possano fare riferimento a scale diverse; ne deriva che, questioni che interessano primariamente il livello statale o sovrastatale, allo stesso tempo, possano produrre un impatto su realtà circoscritte, come ad esempio una famiglia e, viceversa, spesso non siamo pienamente consapevoli dell’enorme impatto delle nostre vite individuali su più larga scala.

  • 2 Sul rapporto tra tecnologia, scala e trasformazioni ambientali si veda il documentario Antropocene: (...)

5Allargare o restringere la prospettiva analitica è uno dei modi attraverso il quale possiamo conoscere e rappresentare un problema. Ad esempio, chi studia il sistema Terra ha chiaramente dimostrato come gli esseri umani siano diventati una delle più importanti forze geomorfologiche del tempo presente, e come da qui sia nato il termine «Antropocene»2. La prima immagine iconica che mi viene in mente per far capire come la nostra specie abbia iniziato a rimodellare la superficie del pianeta, è la figura di enormi macchine scavatrici che trasformano i nostri paesaggi. Le stesse macchine, seppur in versione giocattolo, oggi fanno anche parte della realtà e dell’immaginario dei nostri bambini e delle nostre bambine. Per i più piccoli, il ruolo geomorfologico dell’uomo appare semplicemente naturale, come il gioco.

  • 3 Si veda la posizione dei delegati indiani nella conferenza dellONU a Kigali, in Rwanda, nel 2016: (...)

6Il “grande” e il “piccolo” viaggiano spesso di pari passo anche nelle nostre vite, seppur talvolta queste due dimensioni siano in conflitto fra loro. Un altro esempio può essere rappresentato dai climatizzatori presenti a Delhi; le città indiane si stanno sensibilmente surriscaldando e le temperature registrate sono sempre più alte: questo spinge le persone a installare condizionatori. Persino nelle abitazioni delle aree meno ricche delle città, gruppi di abitanti si organizzano per acquistare un condizionatore. Paradossalmente, l’acquisto e l’utilizzo di massa di questi apparecchi, spesso obsoleti e più inquinanti, rendono le città ancora più calde. È dal 2016 che l’India sta cercando di far approvare politiche che facilitino la transizione verso forme di energia più pulite e verso tecnologie meno inquinanti3 e la diffusione dei condizionatori nelle abitazioni private è in contrasto con gli obiettivi e le politiche statali. Questo è un preciso caso in cui il “grande” e il “piccolo” si scontrano, ma anche in cui visioni di breve e lungo periodo entrano in conflitto.

7L’adozione di una scala piuttosto che di un’altra dipende, quindi, dalla questione con cui ci dobbiamo rapportare. Quando si parla di cambiamento climatico, però, bisogna considerare il breve e lungo termine in cui gli effetti si presume che si produrranno. Scale e temporalità vanno valutate contemporaneamente.

8Johan Gärdebo (J.G.): Può spiegare meglio quali implicazioni comportano le differenze tra le diverse aree del mondo in relazione alla questione del cambiamento climatico?

  • 4 ARCHER, David, Global Warming: understanding the forecast, Maiden (MA), Blackwell, 2006.

9(D.C.): Certamente. Se pensiamo alla letteratura relativa al riscaldamento globale potremmo chiederci perché gli scienziati e le scienziate cinesi ed indiani non abbiano scritto libri che hanno ottenuto una certa popolarità su questo tema, sebbene essi abbiano redatto articoli accademici sulla questione del clima. Non sono a conoscenza di nessun autore cinese che stia scrivendo un libro sul riscaldamento globale come quello di David Archer4. È giusto allora pensare che solo l’Occidente possieda sia la capacità tecnologica che istituzionale per trattare un tale problema e che, di conseguenza, la disuguaglianza tra le aree del mondo abbia un impatto sulla produzione di conoscenza?

10Se non avessimo avuto la Guerra Fredda e la corsa allo spazio non avremmo visto la nascita della scienza del sistema Terra. Fu la NASA a creare il primo gruppo di ricerca su questo tema nel 1985; poco prima James Hansen aveva partecipato a diversi lavori della NASA (tra il 1960 e il 1966) sull’unità di Carl Sagan che verificava la possibilità della vita su Marte e quindi la possibilità di colonizzare quel pianeta. È vero che viviamo in un mondo ineguale, nel quale le nazioni più potenti creano i problemi e allo stesso tempo posseggono la capacità istituzionale e tecnologica per risolverli, o perlomeno studiarli. La parte del mondo che sta danneggiando il pianeta è, sfortunatamente, la stessa che produce scienza sui sistemi ecologici del pianeta.

11Ma è altrettanto vero però che vi sono forme di conoscenza e approcci alla natura diversi in altre regioni: sto pensando, ad esempio, alle comunità indigene. Quello che possiamo fare ora è aprirci alle forme di sapere che vengono da queste comunità e essere consapevoli che la scienza legata al riscaldamento globale è frutto di un mondo ineguale.

12Perchè le environmental humanites sono così presenti nel Nord Europa e molto meno a Delhi o a Pechino o a Mosca? Perché anche nella produzione accademica esistono e persistono privilegi territoriali storicamente legati alle nazioni europee, alle eredità degli imperi coloniali e alle conseguenze della iniqua distribuzione della ricchezza nell’attuale sistema mondo.

13(R.B.): La relazione fra scienze naturali e le EH è mutata negli ultimi decenni e sta cambiando ancora oggi mostrando crescente interesse verso le dimensioni sociale e storica dei fenomeni ambientali. Potrebbe descriverci il modo in cui, secondo Lei, scienze naturali e sociali hanno modificato il rapporto che le lega? Quali benefici potrebbero ottenere e a quali rischi si esporrebbero le discipline umanistiche qualora facessero propri strumenti e concetti provenienti dall’ambito delle scienze naturali? E mi riferisco soprattutto al concetto di Antropocene, da Lei ampiamente analizzato...

  • 5 NIXON, Rob, The promise and pitfalls of an epochal idea, in MITMAN, Gregg, ARMIERO, Marco, EMMETT, (...)

14(D.C.): Come lei saprà, «Antropocene» è un termine molto discusso, in particolare nel campo delle scienze sociali, delle discipline umanistiche e della geologia, seppur per ragioni diverse5.

  • 6 ANGUS, Ian, Facing the Anthropocene: Fossil Capitalism and the Crisis of the Earth System, New York (...)

15Alcuni ritengono che denominare il periodo storico-geologico attuale «Antropocene» equivalga ad attribuire all’intera umanità la responsabilità della crisi ecologica, quando invece la responsabilità va attribuita a una piccola fetta della popolazione mondiale e cioè a poche nazioni (non più di 14) che sono le produttrici della stragrande maggioranza delle emissioni di CO2 annue. Per mostrare queste differenze e questi squilibri, alcuni hanno adottato il termine «Capitalocene» – col fine di enfatizzare il legame con il sistema capitalistico; altri fanno uso del termine «Econocene» – così da evidenziare il ruolo dell’ordine economico globale neoliberista; altri ancora definiscono tale periodo «Plantocene» – per mettere in evidenza i legami degli attuali squilibri con il passato colonialista e schiavista. Il termine «Antropocene» è controverso proprio perché cela dentro di sé una serie di elementi che non sono immediatamente riconoscibili e potrebbe negare addirittura le disuguaglianze socio-economiche come elemento strutturale, ma anche come concausa, del riscaldamento globale.
All’interno delle scienze sociali vi sono studi che, al contrario, incoraggiano l’adozione di questo termine, come ad esempio fa il libro Facing the Anthropocene: Fossil Capitalism and the Crisis of the Earth System6 del marxista Ian Angus, senza negarne le contraddizioni interne.

16Se da un lato le scienze naturali confermano la relazione tra il riscaldamento climatico e l’emissione in gran quantità di gas serra, dall’altro lato credo che le scienze umane debbano continuare ad indagare il ruolo del capitalismo come sistema economico e sociale. Si può dire che vi siano molti «antropoceni», in quanto il cambiamento climatico si manifesta in modi molto diversi, ma tutti inseriti nella medesima epoca storico-geologica.

17(R.B.): Il passaggio tra singolare e plurale è importante per riconoscere la complessità e la pluralità delle situazioni e delle percezioni che definiscono la crisi ecologica attuale e personalmente sono favorevole all’uso del termine «antropoceni» al plurale. Rimanendo sempre all’interno del rapporto tra scienze naturali e umane, potrebbe portare altri esempi di concetti che cambiano a seconda dell’ambito di utilizzo? E anche quando guardiamo alla scienza, intesa come produzione di sapere monolitico, non dovremmo anche in quel caso parlare di saperi scientifici al plurale?

18(D.C.): Certamente. Il mondo è il risultato di una pluralità di scienze, quali fisica, biologia o geologia. A ogni disciplina accademica corrisponde una specifica modalità di interpretare e classificare ciò che ci circonda. Un altro termine che può essere analizzato in modo diverso a seconda dell’ambito disciplinare scelto è ciò che oggi si chiama «sistema Terra». Al linguaggio scientifico, le discipline umanistiche hanno affiancato un altro modo per comprendere il sistema Terra, quello delle emozioni [in inglese, affects] – l’ansia, la preoccupazione, ma anche la speranza sono gli elementi con i quali le environmental humanities parlano di cambiamento climatico; solo attraverso le discipline umanistiche possiamo accedere alle emozioni ad esso legate.

19Inoltre, si possono individuare discipline scientifiche che tendono a isolarsi e altre, invece, che presentano una maggiore multidisciplinarietà. Ritengo non vi siano motivi validi che impediscano alle scienze naturali e alle scienze umanistiche di beneficiare l’una delle ricerche dell’altra. Come detto, nessuna disciplina è “pura” come si potrebbe credere e come ogni sapere ha sempre cercato di dare ad intendere. Ad esempio, all’interno del mondo della fisica vi sono idee e teorie contrastanti, come nel caso della «teoria delle stringhe». Conosco fisici che hanno smesso di parlarsi a causa di questi dissensi (ride). Quello che vorrei sottolineare è l’inevitabilità per gli esseri umani di sviluppare emozioni, che solo gli studiosi e le studiosi di ambito umanistico sono in grado di catturare e studiare.

20Gli scienziati non operano con l’idea che vi sia una sola scienza con la “esse” maiuscola.

21La Scienza con la “esse” maiuscola è solo una visione ideologica o una costruzione teorica, spesso usata dallo stesso sistema scientifico o dai governi per legittimare scelte particolari. Ma battersi per il riconoscimento di una pluralità di scienze è assolutamente giusto.

22L’India, una volta ottenuta l’indipendenza, iniziò il proprio processo di modernizzazione sotto la guida del Primo ministro Nehru. Nonostante i grandi passi in avanti compiuti sotto tutti i punti di vista, egli commise un grande errore normalizzando un approccio scientifico alle decisioni politiche e mettendo in secondo piano le ragioni culturali della popolazione. Oggi possiamo dire che l’approccio scientifico non ha monopolizzato le menti delle persone. Infatti, scienziate e scienziati coltivano e praticano ancora la propria fede religiosa e frequentano i templi. Le scienze sono una realtà pluralistica.

23(R.B.): Lei sta affermando che, in quanto umaniste e umanisti, abbiamo la capacità di rapportarci con fenomeni diversi, ma lo facciamo con canali e strumenti propri e distintivi come, ad esempio, le emozioni. Che cosa caratterizza le discipline umanistiche nel momento in cui si approcciano a temi ambientali?

  • 7 SCOTT, James C., Weapons of the Weak: Everyday Forms of Peasant Resistance, New Haven-London, Yale (...)

24(D.C.): Le potenziali conseguenze negative derivanti dalla gestione dei rifiuti nucleari hanno effetti a lungo termine che superano di gran lunga le nostre aspettative di vita, ma la decisione di produrli è nostra. C’è una differenza tra le scienze umanistiche precedenti alla Seconda guerra mondiale e quelle post-belliche: essa consiste nel fatto che queste, come la grammatica e la retorica, hanno attraversato un radicale processo di democratizzazione. Da discipline di élite, negli anni Cinquanta entrano a far parte dei programmi di educazione di massa. Se per lungo tempo le discipline umanistiche sono state la base culturale della classe dirigente, sono successivamente divenute ciò che James Scott definisce «the weapons of the weak»7.

25Le ultime tre o quattro generazioni di studiose e studiosi hanno posto al centro delle discipline umanistiche temi quali le disuguaglianze, il potere e la rappresentanza politica. Questi nuovi studi rappresentano un punto di rottura con la vecchia realtà dei saperi umanistici. Ciò implica, per tornare alla domanda, che tutto ciò che coinvolge l’intera umanità può essere affrontato solo guardando ciò che divide l’umanità in relazione alla questione in esame. Non ci si può più approcciare allo studio delle società senza considerare aspetti che la dividono, quali razza, appartenenza etnica, genere e classe.

26Prima della Conferenza di Rio del 1992 il direttore del World Resources Institute, James Gustave Speth, affermò che il cambiamento climatico era un problema dell’umanità intera. Un gruppo di attivisti e attiviste indiani reagì a una tale affermazione sottolineando le maggiori responsabilità di certe classi sociali rispetto ad altre e e mettendo in evidenza la logica capitalistica di appropriazione della natura. Ogni questione che sembri parlare a e di un’indifferenziata umanità, come quella dell’«antropocene», si trova quindi in contrasto con il concetto base della cultura umanistica: l’esistenza di società articolate e differenziate.

27J.G.: Relativamente ai fenomeni che agiscono su scala globale – quali il cambiamento climatico e gli effetti a esso riconducibili –, Lei intravede, al di là di queste tendenze e attenzioni alla differenziazione e ai distinguo, la possibilità di una linea comune di analisi e di azione che ci conduca verso una maggiore giustizia sociale e ambientale?

28(D.C.): Vorrei rispondere con un esempio, se possibile. Quando scrissi il mio primo saggio, vi era un aspetto per cui fui duramente criticato all’interno della comunità delle scienze sociali e umanistiche. Affermai che la specie umana era divenuta una specie dominante e molti mi contestarono l’uso del termine “specie”, in quanto questo si riferisce all’umanità nella sua interezza. Gli umani si differenziano per classe, per razza e per tutti quei fattori che rendono il mondo ineguale, mi venne fatto presente. Ma se si guarda alla storia degli ultimi cinquecento anni si potrebbe affermare che il capitalismo ha prodotto sia ineguaglianze, sia fenomeni e concetti che, al contrario, coinvolgono il mondo intero, quali la tecnologizzazione e il progresso. Queste due facce del capitalismo non sono contraddittorie, ma bisogna essere in grado di mostrarle entrambe.

29Dobbiamo portare avanti un lavoro che ci permetta di entrare in comunicazione con discipline diverse, come la biologia evoluzionistica che riconosce l’identità differenziata interna a ogni specie sia da un punto di vista sociologico che biologico. Quando osserviamo le specie da una prospettiva biologica ci allontaniamo dalla narrazione darwiniana, questo al fine di affermare il rispetto e la dignità di tutte le specie; per far questo serve uno sguardo etico.

30Tornando quindi alla domanda precedente, un altro aspetto che, da umanisti e umaniste dobbiamo tenere a mente, è il punto di partenza individuale, la centralità dell’esperienza del singolo all’interno del contesto sociale, politico e ambientale. Presi dall’ansia di differenziare, spesso tralasciamo di approfondire ciò che vi è in comune, che però esiste solo se guardato attraverso lo sguardo della differenziazione. Il capitalismo stesso porta avanti un’opera di differenziazione, o meglio, di divisione, ma allo stesso tempo produce una realtà comune. Le persone meno abbienti aspirano ai privilegi dei più ricchi, come succede nell’esempio dei condizionatori che ho portato in precedenza. È necessario prendere in considerazione la portata della spinta alla creazione dei bisogni è impossibile comprendere la globalizzazione. L’espansione del ceto medio consumista dall’Europa e dal Nord America verso altri continenti, come l’Asia, è resa possibile solo perché noi apparteniamo tutti alla medesima comunità umana, che è universale.

  • 8 CHAKRABARTY, Dipesh, «The Climate of History: Four Theses», in Critical Inquiry, 35, 2/2009, pp. 19 (...)

31(R.B.): Chiudiamo con il suo ultimo lavoro. Sappiamo che è in uscita il suo prossimo libro The Climate of History in a Planetary Age che riprende il titolo del suo citatissimo saggio del 2009 «The Climate of History: Four Theses»8. Nei dieci anni che intercorrono tra questi due lavori, come è cambiato «the climate of history»? Cosa ha comportato, dal punto di vista storico e politico, l’emergere, con sempre maggior forza e urgenza, del cambiamento climatico come orizzonte globale comune?

32(D.C.): Credo che le conseguenze del dibattito pubblico e scientifico sul riscaldamento globale siano evidenti nelle discipline umanistiche. Facciamo un paio di esempi. Prima di tutto anche le persone che leggono i giornali o ascoltano la televisione sono a conoscenza della distinzione tra fonti energetiche rinnovabili e non e a questa distinzione segue quella tra il tempo umano e quello planetario. Anche le fonti fossili sarebbero rinnovabili se prendessimo in considerazione un arco di tempo di cento milioni di anni. Quindi quando affermiamo che esse sono fonti non rinnovabili facciamo riferimento al tempo umano, mentre quando diciamo che c’è un eccesso di anidride carbonica nell’atmosfera lo facciamo in relazione al tempo naturale, cioè al tempo che la natura impiega ad assorbire il carbonio in eccesso, calcolato in base a stime scientifiche.

33Lasciatemi fare un ultimo esempio. La creazione nel 1988 dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) è avvenuta sulla scia del successo del Protocollo di Montreal, il cui obiettivo era di ridurre il buco dell’ozono. L’IPCC si basava sull’idea che il riscaldamento climatico fosse un problema globale e infatti nacque in seno alle Nazioni Unite, l’unica agenzia capace di affrontare questioni globali. Le Nazioni Unite però non stabiliscono un termine temporale entro il quale risolvere le questioni. La domanda “Quando potranno vivere in pace i palestinesi e gli israeliani?” non troverà una risposta certa; potrebbero volerci 200 anni come 500. Un aspetto interessante relativo al riscaldamento globale è che la scienza, al contrario, propone dei termini temporali ben definiti perché il tempo a disposizione è limitato. È la prima volta nella storia in cui ci troviamo di fronte a un tempo finito per prendere provvedimenti. L’aumento di 1,5°C è la soglia da non superare e le nazioni contrattano tra loro per ottenere più tempo per utilizzare ancora per un po’ le energie fossili nel nome dello sviluppo e dell’economia. La soglia dei 2°C è quindi un dato che contempla esigenze politiche più che naturali. Gli scienziati e le scienziate si rapportano con il pianeta per definire i prossimi passi della lotta al cambiamento climatico, mentre le Nazioni Unite si rapportano con il globo [in inglese, globe], il quale, a differenza del pianeta, è una costruzione umana. Le questioni legate alla governance planetaria sono sempre più urgenti e non abbiamo risposte. Non abbiamo le risposte per determinare come sarà definita la relazione tra esseri umani e non umani e che forma avrà la giustizia atmosferica nel futuro perché le Nazioni Unite rappresentano una risposta inadeguata e le scienze naturali offrono una visione parziale. La disciplina storica,invece, si trova a fare i conti con la confluenza di tempi umani e tempi naturali.

34(R.B.): Quindi quando lei usa il termine «planetario» indica un concetto più inclusivo, giusto?

35(D.C.): Beh, sì! Esso rappresenta un termine inclusivo, ma anche slegato da quello di «globo». «Globo» e «globale» sono due termini che rimandano a una realtà frutto dell’imperialismo europeo e, a seguire, del capitalismo e del nazionalismo moderno. Il «globo» è lo spazio in cui si dispiega la storia della modernizzazione infrastrutturale, la quale si è realizzata grazie all’esistenza degli imperi europei e, successivamente, anche attraverso le politiche post-coloniali, come è stato fatto da Cina e India. Ritengo che Carl Schmitt avesse assolutamente ragione quando affermò che il punto d’avvio della costruzione di un «globo» fosse rinvenibile nel momento in cui le nazioni europee, a partire dagli olandesi, iniziarono a solcare mari sempre più aperti.

36Nella storia della globalizzazione i principali attori sono sempre stati gli uomini, ma stiamo scoprendo solo adesso l’esistenza di un’altra storia, nota come «storia planetaria», dalla quale dipende la nostra vita ed esistenza, nonostante il pianeta non sia una creazione umana. L’esempio lampante è dato dal fatto che l’aria che noi respiriamo nell’atmosfera contiene un livello di ossigeno mantenutosi tale per 375 milioni di anni attraverso cicli e fenomeni planetari legati alla funzione del plancton, dei batteri e delle piante in nessun modo correlati all’azione degli uomini. Il concetto di «pianeta» è quindi completamente slegato da quello di «globo».

  • 9 CHAKRABARTY, Dipesh, «The Planet: An Emergent Humanist Category», in Critical Inquiry, 46, 1/2019, (...)

37Su questo lo scorso anno ho pubblicato un articolo intitolato The Planet: An Emergent Humanist Category9. Lì ho cercato di approfondire le conseguenze e le implicazioni di questa distinzione tra «globo» e «pianeta». Non ci troviamo più semplicemente nell’era globale e della globalizzazione, bensì all’intersezione tra quest’ultima e - come io la definisco – la nascente era planetaria.

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Note

1 KERRIDGE, Richard, Foreword, in OPPERMANN, Serpil, IOVINO, Serenella (ed.), Environmental Humanities. Voices from the Anthropocene, London-New York, Rowman and Littlefield International, 2016, pp. XIII-XVII, pp. XIII-XIV.

2 Sul rapporto tra tecnologia, scala e trasformazioni ambientali si veda il documentario Antropocene: BAICHWAL, Jennifer, BURTYNSKY, Edward, DE PENCIER, Antropocene - L’epoca umana, Fondazione Stensen, Canada, 2018, 87’.

3 Si veda la posizione dei delegati indiani nella conferenza dellONU a Kigali, in Rwanda, nel 2016: URL: < https://unfccc.int/news/28th-meeting-parties-montreal-protocol > [consultato il 29 settembre 2020].

4 ARCHER, David, Global Warming: understanding the forecast, Maiden (MA), Blackwell, 2006.

5 NIXON, Rob, The promise and pitfalls of an epochal idea, in MITMAN, Gregg, ARMIERO, Marco, EMMETT, Robert S., Future remains, Chicago, The University of Chicago Press, 2018, pp. 1-17; ÅSBERG, Cecilia, «Feminist Posthumanities in the Anthropocene: Forays Into The Postnatural in Journal of Posthuman Studies», in Journal of Posthuman Studies, 1, 2/2018, pp. 185-204.

6 ANGUS, Ian, Facing the Anthropocene: Fossil Capitalism and the Crisis of the Earth System, New York, Monthly Review Press, 2016.

7 SCOTT, James C., Weapons of the Weak: Everyday Forms of Peasant Resistance, New Haven-London, Yale University Press, 1985.

8 CHAKRABARTY, Dipesh, «The Climate of History: Four Theses», in Critical Inquiry, 35, 2/2009, pp. 197-222.

9 CHAKRABARTY, Dipesh, «The Planet: An Emergent Humanist Category», in Critical Inquiry, 46, 1/2019, pp. 1-31.

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica digitale

Dipesh Chakrabarty, «Le Environmental Humanities: una conversazione con Dipesh Chakrabarty»Diacronie [Online], N° 44, 4 | 2020, documento 10, online dal 29 décembre 2020, consultato il 09 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/diacronie/15165; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/12fgn

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Autore

Dipesh Chakrabarty

Dipesh Chakrabarty è una delle voci più autorevoli e innovative nell’ambito delle discipline umanistiche, con particolare riferimento alla storia sociale e ambientale e agli studi postcoloniali. Tra le altre affiliazioni, è Laurence Kimpton Distinguished Service Professor in History, South Asian Languages and Civilizations, and the College presso la University of Chicago. I suoi libri più recenti sono: Crisis of Civilization. Exploring Global and Planetary History (New Delhi, Oxford University Press, 2018) e Calling of History: Sir Jadunath Sarkar and His Empire of Truth (University of Chicago Press, 2015). È autore del celebre saggio «The Climate of History: Four Thesis» pubblicato in «Critical Inquiry» nel 2009. Il suo libro più noto e che ha influenzato tutti gli studi post- e de-coloniali Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference (Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2001) è stato tradotto in molte lingue, compreso l’italiano. È membro fondatore della redazione di «Subaltern Studies» e di «Postcolonial Studies» e collabora con «Critical Inquiry».
URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Chakrabarty >

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Roberta Biasillo

Roberta Biasillo è ricercatrice in storia dell’ambiente. Attualmente è Max Weber Fellow presso lo European University Institute di Fiesole. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Europa Moderna e Contemporanea all’Università di Bari e svolto attività di ricerca presso il Rachel Carson Center di Monaco di Baviera e il KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle questioni forestali e territoriali nell’Italia liberale e sulla colonizzazione libica durante il fascismo.
URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Biasillo >

Johan Gärdebo

Johan Gärdebo è un ricercatore specializzato in storia della scienza, della tecnologia e dell’ambiente. I suoi interessi di ricerca coprono i saperi tecno-scientifici, la diplomazia legata alle questioni ambientali, la politica di aiuti internazionali, la gestione informatica dei dati riguardanti i fenomeni naturali. La sua tesi di dottorato Environing Technology (http://kth.diva-portal.org/smash/record.jsf?pid=diva2%3A1296384&dswid=-8047) analizza gli impatti che il sistema svedese di monitoraggio satellitare ha svolto durante la Guerra Fredda. È attualmente ricercatore presso l’Università di Linköping all’interno del progetto Just Transformation (https://liu.se/en/research/the-fossil-free-society-places-politics-and-ethics) e si occupa della transizione energetica in quelle che furono città industriali svedesi.
URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Gärdebo >

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Traduttore

Filippo Calissi

Filippo Calissi è studente del Corso di laurea triennale “Scienze per la pace: cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti” presso l’Università di Pisa. La sua tesi di laurea verterà sul nesso tra la presenza dei quartieri di colore e la localizzazione dei siti inquinanti. Tra il luglio e il settembre del 2020 ha svolto un tirocinio presso il KTH Environmental Humanities Laboratory di Stoccolma focalizzato sulla tematica della giustizia ambientale.
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