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Lasciar parlare la foresta: politica, ecologia e mito in La caduta del cielo di Davi Kopenawa e Bruce Albert

Gioacchino Orsenigo

Abstract

L’articolo tenta di mostrare il particolare intreccio fra ecologia e politica alla luce della formulazione mitico-cosmologica realizzata dallo sciamano yanomami Davi Kopenawa nel libro La caduta del cielo. Il mito diventa qui mezzo per elaborare il passato ma anche il proprio presente. La cosmologia yanomami racconta di una realtà plurale in cui ogni essere è in stretta relazione con gli altri. La storia degli Yanomami non è scindibile da quelle della foresta e dei suoi collettivi non-umani, come non lo sono lotta indigena e lotta ambientale. Politica ed ecologia sono qui un’unica cosa che acquista senso solo all’interno di un’impalcatura cosmico-ontologica: lasciar che i nativi parlino per sé stessi significa lasciare che un intero mondo si possa proporre come alternativo.

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  • 1 KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, La caduta del cielo, Milano, Nottetempo, 2018, p. 662.

«Noi siamo abitanti della foresta. Siamo nati al centro dell’ecologia e qui siamo cresciuti»1

1. Uno sciamano nell’epoca dell’Antropocene

  • 2 Cfr. KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, La caduta del cielo, cit.

1Gli Yanomami sono una popolazione indigena che abita i territori della foresta amazzonica della Serra Parima che vanno quasi dall’alto Orinoco, a sud del Venezuela, fino alle sponde del Rio Branco e del Rio Negro in Brasile: una superficie di circa 230.000 km2 per una popolazione di circa 30 mila persone. Si tratta di un territorio a più riprese soggetto alla violenza predatoria di cercatori d’oro, industria mineraria e compagnie agroalimentari. Davi Kopenawa è sciamano della comunità di Watoriki ed è uno degli ultimi rimasti ancora in grado di «parlare con gli xapiri»2, gli spiriti che abitano e vivificano la foresta. È senza dubbio lo Yanomami più conosciuto al mondo e il suo impegno ecologico per la difesa delle terre indigene lo ha spinto a compiere viaggi in ogni parte del pianeta. Nel 2018 è stato anche in Italia, in occasione della pubblicazione in italiano di La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami (Milano, Nottetempo, 2018. Traduzione italiana di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri). Il volume, scritto da Kopenawa insieme all’amico antropologo Bruce Albert, venne pubblicato in edizione originale nel 2010 con il titolo La Chute du ciel. Paroles d’un chaman yanomami (Paris, Plon, 2010).

  • 3 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «The Crystal Forest: Notes on the Ontology of the Amazonian Spirit», i (...)

2Lo sciamano è una figura decisiva nella cultura yanomami, il cui senso e la cui importanza non possono essere compresi senza addentrarsi un minimo nella fitta maglia della cosmologia amerindiana. Egli è allo stesso tempo custode della cultura, medico guaritore, collante della comunità, fine ed esperto diplomatico dei rapporti inter-specifici fra la comunità umane e non-umane che abitano la foresta. Senza sciamani, il mondo stesso è condannato a morire, il cielo a sgretolarsi sopra le nostre teste. In questo senso, La caduta del cielo è un’opera fondamentale, perché, come ha detto l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, esso è puro «sciamanesimo applicato»3. È un’opera viva che non parla di o su, ma che è produttiva in sé stessa e cerca di avvicinare in modo inedito, laddove finora tale avvicinamento è stato per lo più violento e distruttivo, mondo occidentale e mondo indigeno. È un’opera che trasforma l’antropologia, l’ecologia, la politica: uno sciamano ci invita ad ascoltare a entrare in una nuova realtà, dove queste categorie si disfano e non sono più in grado di dire nulla.

  • 4 Cfr. CRUTZEN, Paul, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra si trova in u (...)
  • 5 VIGNOLA, Paolo, «Antropocene e geofilosofia. Una letteratura selvaggia della differenza», in La Del (...)
  • 6 NIXON, Rob, The promise and pitfalls of an epochal idea, in MITMAN, Gregg, ARMIERO, Marco, EMMETT, (...)
  • 7 VIGNOLA, Paolo, «Antropocene e geofilosofia. Una letteratura selvaggia della differenza», cit., p. (...)
  • 8 NIXON, Rob, The promise and pitfalls of an epochal idea, in MITMAN, Gregg, ARMIERO, Marco, EMMETT, (...)
  • 9 Questo perché i loro territori sono costantemente minacciati da forze predatorie che hanno spesso l (...)

3Da quando Paul Crutzen4 ha reso popolare il termine, in tanti sostengono che viviamo nell’era detta Antropocene che, secondo Paolo Vignola, ha svelato in ultimo il fallimento dell’antropocentrismo5 occidentale: mentre gli umani si sono fatti forza geologica, la Terra sembra farsi soggetto storico e persona morale. L’essere umano si rende finalmente conto che la sua esistenza è in stretta connessione con entità non-umane. È la fine della distinzione fra gli ordini del cosmologico e dell’antropologico. È bene notare, a questo proposito, che la parola Antropocene è quantomeno problematica perché se da una parte sottolinea giustamente la portata delle trasformazioni ecologiche che coinvolgono l’intera specie, dall’altra, come scrive Rob Nixon: «We may all be in the Anthropocene but we’re not all in it in the same way»6. Il termine rischia di essere fuorviante laddove sembra riferirsi a un generico anthropos come autore di questa distruzione del mondo che suona anche come una autodistruzione: «se le cause dell’imminente catastrofe risiedono in un determinato insieme di attività umane, è evidente che non si possa indicare dietro l’anthropos l’umanità astratta in generale e in generale “colpevole” di avvelenare la Terra»7. Se la causa primaria è un particolare sistema economico e politico, non tutti sono poi responsabili allo stesso modo. Basti pensare che, a partire dal 1751, solo novanta aziende hanno prodotto il 70% delle emissioni mondiali di gas serra8. Sicuramente, non sono responsabili quei popoli, come gli Yanomami, che hanno ben presente la fitta rete che unisce gli esseri umani al loro ambiente e alle creature non-umane e che, nonostante questo, sono anche fra coloro che soffrono più direttamente gli effetti degli squilibri ambientali9. Essi sanno che la distruzione provocata dall’attività mineraria e lo sfruttamento di petrolio e gas nei loro territori hanno effetti generali. L’ignoranza e la violenza dei bianchi occidentali sono la causa della vendetta degli spiriti che provocherà la caduta del cielo. La caduta del cielo è una presa di posizione contro questa crisi che contiene già in sé un’alternativa. Per questo Kopenawa sceglie di rivolgersi a noi, abitanti del “primo mondo”, e di farci ascoltare le voci degli spiriti.

2. Multinaturalismo e Sciamanesimo: la politica cosmica della foresta

  • 10 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Vero (...)
  • 11 Cfr. Ibidem, p. 28.
  • 12 Ibidem, p. 32.
  • 13 Ibidem, p. 64.
  • 14 VIGNOLA, Paolo, op. cit., p. 85.
  • 15 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit.(...)

4Chi ha studiato a lungo gli Yanomami è stato il già citato antropologo Viveiros de Castro. Per comprendere l’importanza del lavoro di Kopenawa non possiamo esimerci di tentare, seppure nel brevissimo spazio concesso a un articolo, di attivare un “decentramento di sguardo”. De Castro ha cercato nei suoi testi e in particolare in Metafisiche cannibali10, di scardinare la basi della antropologia e di far in modo che fosse il mondo stesso degli Yanomami a manifestarsi e a parlare. Nessuna interpretazione, quindi: de Castro non tenta più di cogliere cosa ci sia sotto il “velo di Maya” culturale, di rispondere alla domanda “Che cosa intendono dire in realtà?” e di dare un senso razionale a ciò che è irrazionale solo per noi, ma di entrare in quel senso. Egli cerca insomma di mettere in pratica una «decolonizzazione permanente del pensiero»11, lasciando che siano i mondi stessi a emergere e a rivendicare il loro spazio di senso e significato, di contro a quella tendenza tutta occidentale che divora i mondi altri in una logica interpretativa che anestetizza le possibilità che dischiudono questi stessi mondi. Ciò che de Castro intende dire è, cioè, di non trattare più pratiche e conoscenze indigene come oggetto di studio ma di lasciare che i popoli indigeni parlino come soggetti capaci di pensiero in senso pieno e autonomo. Tale proposito richiede un ripensamento profondo dell´antropocentrismo inteso come dominio della natura e dell´eurocentrismo come fulcro della razionalità moderna, per la quale «noi, solo noi, gli Europei, siamo gli umani compiuti o se si preferisce, ampiamente incompiuti, […] i “configuratori di mondi”. La metafisica occidentale è la fons e origo di tutti i colonialismi»12. Se si vuole decolonizzare il pensiero bisogna arrivare alle matrici stesse che hanno reso l’altro nient’altro che un mero oggetto. Si tratta di cercare di arrivare a una «diversa immagine del pensiero»13, assumere un atteggiamento conoscitivo non-proposizionale, oltre le tradizionali nozioni di categoria o rappresentazione. Prendere sul serio il conoscere indigeno e le sue pratiche significa, come nota Paolo Vignola, trarne concetti filosofici, «concetti – però – selvaggi, senza addomesticarli alle coordinate della tradizione occidentale»14, fare dell’antropologia il luogo in cui l’indio diventa soggetto, in cui anch’egli prende parola alla pari dell’antropologo, e relazionarsi al pensiero indigeno come a una «pratica del senso» e «dispositivo autoreferenziale di produzione di concetti»15.

  • 16 Ibidem, p. 42.
  • 17 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «La trasformazione degli oggetti in soggetti nelle ontologie amerindia (...)

5Punto di partenza della riflessione di de Castro è la constatazione che i popoli amazzonici vedono il mondo come composto da una varietà di punti di vista. Gli esseri sono «centri di intenzionalità»16, ciascuno dei quali ha una propria comprensione degli altri. Tutte le creature condividono uno stesso modo di appercezione poiché sono tutte dotate di “anima”, vedono sé stesse come persone e sono dunque persone. Questo implica che essi vedano noi umani come non-umani. Dal loro punto di vista, sono loro gli esseri antropomorfi, con una loro cultura: i loro alimenti sono alimenti umani, i loro attributi corporei (piumaggio, pelliccia ecc.) sono ornamenti culturali. Secondo questa concezione, dunque, l’essere una persona, l’essere dotati di un punto di vista non è una qualità di una specie particolare ma di ogni ente. Per essere più precisi, il concetto di persona è antecedente rispetto a ogni altro, compreso quello di specie. Quando gli Yanomami dicono che tutte le creature sono umane, il termine “umano” non indica nulla più della condizione di chi è soggetto, è la forma con cui ciascuna creatura vede sé stessa. Non bisogna infatti cadere nell’errore di intendere i non-umani solo come «umani sotto false spoglie»17, cioè credere che essi siano soggetti perché sono umani. Tutto al contrario, essi sono umani perché sono soggetti. Nella foresta, ogni creatura è dotata di punto di vista, di intenzionalità; ma se è dotata di intenzionalità dovrà necessariamente vedersi come umana perché quella è la forma di chi è soggetto.

  • 18 Ibidem, p. 55.
  • 19 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della (...)
  • 20 Ibidem, p. 57.

6Se la condizione che accomuna tutti gli esseri è l’essere persona – condizione che de Castro definisce umanità– al contempo «l’umanità di ogni tipo di esistente è soggettivamente evidente (e nel contempo altamente problematica e oggettivamente non evidente (e nel contempo ostinatamente affermata)»18. Gli Yanomami sanno sia di essere umani sia che lo sono le altre creature ma la visione che ogni creatura ha di sé stessa – cioè come creatura umana – differisce dalla visione che la stessa creatura ha delle altre creature e viceversa. Ciascuna specie necessariamente si vede come umana e vede le altre come non-umane; ogni specie ha cioè un suo mondo: «l’“umanità” è sia una condizione universale che una prospettiva strettamente deittica e autoreferenziale. Esseri differenti non possono occupare il punto di vista dell’“Io” nello stesso momento»19. L’umano quindi non indica più una specie ma indica, come si è detto, una posizione di soggetto: l’umano non esiste, esiste la persona, ovvero un punto di vista. La differenza non è data da una molteplicità di rappresentazioni relative al mondo. Tutti gli esseri di fatto rappresentano il mondo allo stesso modo, è il mondo che essi vedono che cambia. Categorie e valori che i non-umani utilizzano per organizzare la loro realtà sono le stesse degli umani. Anche i non-umani, cioè, sono dediti a caccia e pesca, sono legati da relazioni di parentela e vivono in comunità, hanno capi e riti d’iniziazione e così via. Essi vedono noi umani come tapiri e pecari perché anche loro mangiano tapiri e pecari, come noi “umani”, «ma le cose che essi vedono, quando le vedono come noi le vediamo, sono altre: ciò che per noi è sangue, per i giaguari è birra; ciò che per le anime dei morti è un cadavere putrefatto per noi è manioca fermentata…»20. Siamo ben lontani del relativismo culturale che prevede una molteplicità di rappresentazioni soggettive che hanno in comune una natura esterna, indifferente alla rappresentazione. Piuttosto, il reale è caratterizzato da quello che de Castro chiama multinaturalismo, che afferma la compresenza di più reami fittamente intrecciati.

  • 21 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, op. cit., p. 142.
  • 22 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit.(...)
  • 23 Cfr. DELEUZE, Gilles, Decima lezione (24.3.1981), in ID., Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, Ve (...)
  • 24 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit.(...)
  • 25 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, op. cit., p. 151.
  • 26 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit.(...)

7Secondo la mitologia yanomami, l’origine cosmologica della realtà plurale e diversificata che conosciamo è costituita da una sorta di tutto indifferenziato, luogo «pre-cosmologico»21, precedente alla differenziazione delle specie, che non è tanto da pensare come il luogo dell’originaria identificazione fra umani e non-umani ma anzi come il luogo della «differenza assoluta»22, differenza interna e intensiva a ogni personaggio e non esterna e finita come le differenze del mondo attuale. Con la speciazione, che sancisce il passaggio dal luogo mitico al mondo attuale, il continuum eterogeneo cede il passo a un discreto omogeneo, in cui ogni essere è semplicemente e solamente ciò che è; ma spiriti e sciamani, nelle culture amerindiane, continuano a testimoniare il passato pre-individuale e il fatto che non ogni virtualità è necessariamente attualizzata. Lo sciamano, che sotto determinate condizioni diviene altro da sé (non essendo mai sé stesso), porta in luce il flusso mitico comune che è solo nascosto dalle apparenti discontinuità tra le specie. Egli mette in pratica una forma di conoscenza che risale a quel luogo di differenza assoluta, quel luogo in cui ogni ente è solo forza intensiva, modo di sostanza, e non tanto un ente dotato di parti estensive, e in cui «poiché tutte le essenze sono interne le une alle altre, un’essenza che mi affetta è, insieme, una maniera secondo la quale la mia essenza affetta sé stessa»23. Nel complesso puzzle di prospettive, ha la capacità di attraversare e rompere queste barriere, regredire alla condizione comune e adottare la prospettiva di altre soggettività. Lo sciamano svolge il ruolo di interlocutore primario in un dialogo trans-specifico che ha tutte le caratteristiche di uno scambio diplomatico. Questo dialogo è complesso e rischioso, si può sempre incorrere nel pericolo di offendere, di non rendere il giusto omaggio o di tradire la fiducia. Per rappresentare questo scambio, de Castro parla di una vera e propria forma di «diplomazia interspecifica»24. Se ogni collettivo di enti costituisce una comunità, l’intero ambiente si trasforma allora in una «società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia»25. Quando ogni ente esprime un punto di vista ed è elevato a soggetto, le sue azioni sono espressione di attività intenzionale e le relazioni che si intrattengono saranno allora in tutto simili a relazioni politiche: «se il relativismo occidentale trova nel multiculturalismo la sua politica pubblica, il prospettivismo sciamanico amerindiano trova nel multinaturalismo la sua politica cosmica»26. Così molti eventi o oggetti apparentemente “naturali” sono ricodificati come prodotti di una cultura e anche il più insignificante accadimento diventa espressione di civiltà. Ciò che noi diciamo sangue sarà la birra del giaguaro, una pozza di fango sarà la casa cerimoniale del tapiro. Ciò che saremmo portati a dire “natura” si rivela essere la “cultura” di altri.

  • 27 GODANI, Paolo, Deleuze, Roma, Carocci, 2009, p. 98.
  • 28 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit.(...)
  • 29 DELEUZE, Gilles, GUATTARI, Felix, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata, Quodlibet, 1996, p 2 (...)
  • 30 GODANI, Paolo, op. cit., p. 99.

8Secondo de Castro, ciò che lo sciamano mette in atto è molto simile al divenire-animale di cui parla il filosofo Gilles Deleuze. Un divenire che si realizza solo in una tensione, senza coincidere mai con i suoi estremi. Non si tratta di una metamorfosi, dove i termini della relazione prevalgono sul rapporto stesso27. È un «movimento che deterritorializza i due termini della relazione da esso creata, estraendoli dalle relazioni che li definivano, per collegarli attraverso una nuova “connessione parziale”»28. In un divenire-giaguaro non si diventa mai giaguaro. Piuttosto, è «fare movimento, tracciare la linea di fuga in tutta la sua positività, varcare una soglia, arrivare ad un continuum di intensità che valgono ormai solo per sé stesse»29. Stare nella tensione per cogliere la prospettiva dell’altro, senza diventare l’altro. Questo non rende assolutamente il divenire qualcosa dell’ordine dell’immaginario o anche di irreale. Significa solo che non avviene fra «entità molari costituite» ma fra «gradi di intensità»30 di un unico piano.

  • 31 «Ecco perché, se tutti quelli che fanno danzare gli xapiri muoiono, i Bianchi resteranno soli e sma (...)
  • 32 Ibidem, p. 73.
  • 33 GOW, Peter, «Listen to me, listen to me, listen to me… A brief commentary on The falling Sky by Dav (...)
  • 34 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «The Crystal Forest: Notes on the Ontology of the Amazonian Spirit», I (...)

9Lo sciamano è quindi diplomatico e politico, custode delle complesse relazioni che tengono viva la foresta e ogni specie vivente, o meglio ogni comunità umana o non-umana, ha il proprio sciamano. Kopenawa denuncia la scomparsa di queste fondamentali figure poiché solo loro sono in grado di parlare con gli spiriti e far funzionare il complesso sistema di relazioni che costituisce il mondo31. Urihi, la foresta, non ha niente a che vedere con quello che siamo abituati a chiamare natura e scopriamo che le relazioni al suo interno sono in primo luogo relazioni politiche. Come abbiamo già detto, il cielo è già crollato una volta. Non va inteso come un semplice richiamo mitico ma come un vero e proprio avvertimento a noi occidentali: “a noi è già accaduto, ascoltateci”. La caduta del cielo ripercorre la vita e l’iniziazione da sciamano di Davi e nel frattempo ci racconta, in un intreccio inscindibile, la storia del popolo yanomami (e in particolare della comunità di Watoriki) e la storia cosmologica. Il racconto suona appunto come un avvertimento. A parlare attraverso lo sciamano sono gli spiriti xapiri, descritti come le «immagini degli animali ancestrali»32. Come ha scritto l’antropologo Peter Gow: «In mythic times the animal ancestors were human but when they transformed into animals, their mythic potency remained in the form of their images, the xapiri spirits. In this book, these things are not spoken about, they speak»33. A ben guardare, come scopriamo nel testo, la parola xapiri designa in realtà più elementi: il principio vitale degli esseri della foresta e l’immagine dell’umanità arcaica ma finisce per indicare anche lo stesso sciamano. Gli sciamani, cioè, condividono la stessa natura degli spiriti e si distinguono dagli altri esseri umani per questa ragione. Riprendendo quanto si diceva della lettura di de Castro, scorgiamo qui quella zona di indistinzione fra umano e non-umano, lo sbiadirsi dei confini specifici: «Hence, the concept of xapiripë, less or rather than designating a class of distinct beings, intimates a region or moment of indiscernibility between the human and nonhuman»34. Kopenawa ci descrive ogni passaggio compiuto per entrare in contatto con gli spiriti e diventare egli stesso tale ma non chiede mai di credere nella loro esistenza. Ci chiede solo di ascoltare cosa hanno da dire. È una forma di profondo altruismo perché sa benissimo che chi sta distruggendo la sua foresta e il suo mondo siamo proprio noi occidentali ma sa anche che solo insieme possiamo salvarla, e salvare noi stessi.

3. La profezia di Kopenawa: fra mitologia ed ecologia

  • 35 DE MARTINO, Ernesto, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, (...)

10Il cielo rischia di crollare, un mondo rischia di finire. Ernesto de Martino ha descritto con finezza lo stato di crisi che si sperimenta quando un mondo sta per finire. La relazione Io/Mondo, heideggerianamente l’esserci, si espone al rischio di spezzarsi. Ogni riferimento quotidiano perde di senso, persino il cielo, appunto, sembra caderci addosso. Ogni popolo ha una sua escatologia, una sua teoria della fine del mondo che manifesta l’ansia e l’angoscia di «non-poterci-essere-in-nessun-mondo-possibile»35. Uscire dalla crisi significa ripristinare le condizioni stesse dell’esperienza. L’esperienza però prende forma solo all’interno di una complessa rete di significazione culturale: essa ha bisogno del mito per avere senso. Se si resta bloccati nello schema di significazione precedente che è ormai però decadente, si perisce con il proprio antico mondo. Ecco perché Kopenawa sente la necessità di raccontare un mito, di elaborarlo lui stesso, in quanto sciamano, ascoltando gli spiriti minacciati della foresta. Nelle cosmologie amerindie la fine del mondo equivale alla scomparsa di umanità nel mondo, quell’umanità non-umana che abbiamo detto costituire la realtà sociale e politica della foresta. Non può non esistere un punto di vista, una esperienzialità e una cultura poiché ogni forma di vita è in sé umana e dotata quindi di questi attributi. Ricreare il mondo, uscire dalla crisi, significa creare vita. In una cosmologia come quella yanomami, il mito è l’unica cosa che permette di riconnettersi con l’unità originaria e dar forma al complesso dialogo fra le forme di vita. Scopriamo così tutta la forza dell’elaborazione mitologica. Fuori Jesi metteva in guardia dall’uso manipolatorio, apologetico e assolutorio che del mito può fare una classe dominante. Qui vediamo tutto al contrario il carattere positivo ed emancipatore del mito, in quanto rielaborazione del legame stesso con il mondo.

  • 36 Cfr. POVINELLI, Elizabeth, Geontologies: a requiem for neoliberalism, London, Duke University Press (...)
  • 37 KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, op. cit., p. 452.
  • 38 Termine coniato, fra i primi, dal sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos. Cfr. DE SOUSA SA (...)
  • 39 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, op. cit., p. 150.

11In epoca neoliberale si è prodotto, come testimonia l’antropologa Elizabeth Povinelli36, un nuovo movimento del capitale che neutralizza la forza delle analitiche dell’esistenza dei popoli colonizzati, rendendole prive di significato. L’occidentale non crede né vuole credere alla verità dei discorsi indigeni perché, come dice Kopenawa, «i Bianchi dormono molto, ma sognano solo sé stessi»37. Spesso però, non ci viene richiesto di credere. Quello che sì ci viene richiesto è di lasciar vivere quei discorsi. Tuttavia, mitologia e cultura indigene vengono ridotte a fossili, testimonianze di un passato lontano ma incapaci di produrre storia. Un passato verso cui al massimo avere un certo senso di colpa ma pur sempre reperto, da custodire nei musei a cielo aperto di storia naturale in cui rischiano spesso di essere trasformate le comunità indigene. In Brasile è lo stesso Kopenawa a denunciare l’incapacità degli occidentali di vedere la vita pulsante, produttiva, storica potremmo dire, della foresta. Se tutto un mondo viene così annullato e relegato a semplice testimonianza di un passato pre-colombino, si consuma un vero e proprio epistemicidio38. Conoscenze, tradizioni e con loro forme dell’esperire e della relazione vengono cancellate: o del tutto e nel modo violento e brutale della prima colonizzazione che agisce attraverso l’eliminazione fisica degli indigeni oppure, come si è detto, ridotte a fossili, tracce morte del passato. La cultura viene assimilata al punto dal renderla innocua, non più in grado, cioè, di dischiudere quei mondi altri di cui essa è testimonianza. Eppure, come scrive de Castro, «il presente etnografico non è affatto un tempo immobile; le società lente conoscono velocità infinite»39.

12Ne La caduta cielo, assistiamo davvero a una presa di parola. Lo sciamano parla e con lui un intero mondo. Quanto impariamo dalla stessa mitologia yanomami è che se vogliamo davvero lasciar parlare allora dobbiamo permettere a un intero mondo di emergere: un intero regno di segni e significati reclama il suo spazio nell’ordine del senso. L’epistemologia si accompagna a una ontologia. Come abbiamo cercato di mostrare, per gli Yanomami non esiste storia del proprio popolo disgiunta da quella di tutte le altre comunità non-umane che abitano la foresta e sono la foresta. Così assistiamo al connettersi della rivendicazione politica con quella ecologica e, in realtà, al confondersi dei due piani. Kopenawa è un attivista per i diritti indigeni in quanto sciamano e viceversa. La sua natura, la sua foresta, è caratterizzata di per sé da relazioni politiche e la sua politica è già ecologia. Scrive Kopenawa :

  • 40 Spirito ancestrale, padre e demiurgo per gli Yanomami.
  • 41 KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, op. cit., pp. 661-662.

Sin dall’inizio dei tempi, Omama40 è stato il centro di quello che i Bianchi chiamano “ecologia”. È vero! Ben prima che queste parole esistessero da loro e iniziassero a parlarne tanto, erano già in noi, senza che le chiamassimo nello stesso modo. Per gli sciamani, sono state da sempre parole venute dagli spiriti per difendere la foresta. Se possedessimo libri come loro, i Bianchi potrebbero constatare quanto sono antiche! Nella foresta, siamo noi esseri umani a essere l’ecologia. Ma come noi, lo sono anche gli xapiri, la selvaggina, gli alberi, i fiumi i pesci, il cielo…41

13Politica indigena ed ecologia acquistano senso solo all’interno di un’impalcatura cosmico-ontologica che ne sfuma i confini. Lo sciamano Davi è ambasciatore di ogni comunità e si rivolge direttamente agli aggressori della foresta per cercare di trasformarli e porre fine così alla guerra da loro stessi iniziata. Capiamo allora perché si tratta di sciamanesimo applicato:

  • 42 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «The Crystal Forest: Notes on the Ontology of the Amazonian Spirit», c (...)

If shamanism is essentially a cosmic diplomacy devoted to the translation between ontologically disparate points of view, then Kopenawa’s discourse is not just a narrative on particular shamanic contents – namely, the spirits which the shamans make speak and act – it is a shamanic form in itself, an example of shamanism in action, in which a shaman speaks about spirits to Whites and equally about Whites on the basis of spirits, and both these things through a White intermediary42.

14Kopenawa fa sciamanesimo anche nel rivolgersi a noi occidentali, cercando di rompere le barriere che separano il nostro mondo dal suo. Il fatto che si avvalga dell’aiuto di Bruce Albert testimonia di un esperimento particolare che tenta di connettere due mondi molto distanti fra loro. Il linguaggio occidentale viene usato in modo nuovo e trasformato dall’interno. La caduta del cielo non ha nulla della tradizionale letteratura etnografica ma risulta essere il frutto di un’alleanza particolare. La presenza di Albert è fondamentale per la trasformazione del linguaggio. Kopenawa è conscio che la forza delle modalità di conoscenza sciamanica non possono essere affidate del tutto alle pelli di carta, cioè a quelli che noi chiamiamo libri. Albert ha il compito di intervenire e aiutarlo ad adattare quel mondo al proprio. Sciamanesimo applicato, quindi, e mito che diviene qui opera viva, movimento, storia. Nell’opera di Kopenawa si rompono gli schemi con cui la tradizione occidentale è stata solita catalogare e neutralizzare le culture altre. Il mito, con la cultura e quindi la vita di cui racconta, pretende il suo spazio. Non è un caso che la stessa profezia della caduta del cielo sia effettivamente una creazione di Kopenawa stesso. Lo sciamano iniziò a elaborarla insieme a suo suocero a fine anni ’80, quando la corsa all’oro devastava le terre amazzoniche e una grossa crisi ecologica ed epidemiologica colpiva la sua comunità. Di fronte a tale devastazione, l’unica reazione positiva è quella di produrre un discorso che dia senso a quanto sta accadendo per poterlo affrontare. Lo sciamanesimo in atto nel testo non è la semplice testimonianza di un “indio acculturato” ma la rivendicazione di uno posto nella storia, pur volendo rimanere altro. I mondi pretendono il loro spazio di senso in tutta la loro complessità: non chiedono tanto di essere compresi, quanto di essere lasciati parlare. Le rivendicazioni del Davi attivista sono le stesse del Davi sciamano. I confini che attribuiamo a ecologia, politica, mito, storia si confondono all’improvviso. Nell’era in cui l’umano, un certo umano, si vuole signore della terra, quando fioccano catastrofi e catastrofismi di ogni genere, Kopenawa ci invita a decentrare lo sguardo e a mettere in dubbio tutte le nostre categorie, a scoprire che quella che chiamiamo natura è un enorme campo di relazioni, sociali e politiche, e che l’intreccio fra questi elementi richiede una forma nuova di rivendicazione. Gli Yanomami lo sanno da sempre, per questo la loro lotta per l’emancipazione e la sopravvivenza non può essere scissa dalla lotta per la salute della foresta e del mondo.

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Note

1 KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, La caduta del cielo, Milano, Nottetempo, 2018, p. 662.

2 Cfr. KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, La caduta del cielo, cit.

3 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «The Crystal Forest: Notes on the Ontology of the Amazonian Spirit», in Inner Asia, 9, 2/2007, pp. 153-172, p. 157.

4 Cfr. CRUTZEN, Paul, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra si trova in una nuova era, Milano, Mondadori, 2005.

5 VIGNOLA, Paolo, «Antropocene e geofilosofia. Una letteratura selvaggia della differenza», in La Deleuziana, 4, 2016, pp. 80-97, p. 81.

6 NIXON, Rob, The promise and pitfalls of an epochal idea, in MITMAN, Gregg, ARMIERO, Marco, EMMETT, Robert S., Future remains, Chicago, The University of Chicago Press, 2018, p.8.

7 VIGNOLA, Paolo, «Antropocene e geofilosofia. Una letteratura selvaggia della differenza», cit., p. 81.

8 NIXON, Rob, The promise and pitfalls of an epochal idea, in MITMAN, Gregg, ARMIERO, Marco, EMMETT, Robert S., Future remains, cit., pp. 1-20, p.8.

9 Questo perché i loro territori sono costantemente minacciati da forze predatorie che hanno spesso la complicità del governo e a cui è difficile resistere. Inoltre, secondo molti analisti i paesi del sud del mondo sono anche quelli più direttamente esposti agli squilibri climatici. Cfr. ND-Gain Country Index, URL: < https://gain.nd.edu/our-work/country-index/ > [consultato il 26 giugno 2020].

10 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Verona, Ombre Corte, 2017.

11 Cfr. Ibidem, p. 28.

12 Ibidem, p. 32.

13 Ibidem, p. 64.

14 VIGNOLA, Paolo, op. cit., p. 85.

15 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit., p. 171.

16 Ibidem, p. 42.

17 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «La trasformazione degli oggetti in soggetti nelle ontologie amerindiane», in Etnosistemi, VII, 7, 2000, pp. 47-57, p. 48.

18 Ibidem, p. 55.

19 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Milano, Nottetempo, 2017, p. 153.

20 Ibidem, p. 57.

21 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, op. cit., p. 142.

22 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit., p. 52.

23 Cfr. DELEUZE, Gilles, Decima lezione (24.3.1981), in ID., Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, Verona, Ombre corte, 2010, pp. 205-217, p. 213.

24 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit., pp. 46-48.

25 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, op. cit., p. 151.

26 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit., p. 46.

27 GODANI, Paolo, Deleuze, Roma, Carocci, 2009, p. 98.

28 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, cit., p. 141.

29 DELEUZE, Gilles, GUATTARI, Felix, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata, Quodlibet, 1996, p 23.

30 GODANI, Paolo, op. cit., p. 99.

31 «Ecco perché, se tutti quelli che fanno danzare gli xapiri muoiono, i Bianchi resteranno soli e smarriti si una terra devastata e invasa da una miriade di esseri malvagi che li divorerrano senza tregue. I loro medici, anche se numerosi e abili, non potranno nulla. verranno annientati a poco a poco, come noi prima di loro». KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, op. cit., p 679.

32 Ibidem, p. 73.

33 GOW, Peter, «Listen to me, listen to me, listen to me… A brief commentary on The falling Sky by Davi Kopenawa and Bruce Albert», in HAU: Journal of Ethnographic Theory, 4, 2, 2014, p. 305.

34 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «The Crystal Forest: Notes on the Ontology of the Amazonian Spirit», Inner Asia, 9, 2/2007, p. 157.

35 DE MARTINO, Ernesto, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977, p. 85.

36 Cfr. POVINELLI, Elizabeth, Geontologies: a requiem for neoliberalism, London, Duke University Press, 2016.

37 KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, op. cit., p. 452.

38 Termine coniato, fra i primi, dal sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos. Cfr. DE SOUSA SANTOS, Boaventura, Epistemologies of the South. Justice against Epistemicide, Boulder, Paradigm Publishers, 2014.

39 DANOWSKI, Déborah, VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, op. cit., p. 150.

40 Spirito ancestrale, padre e demiurgo per gli Yanomami.

41 KOPENAWA, Davi, ALBERT, Bruce, op. cit., pp. 661-662.

42 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo, «The Crystal Forest: Notes on the Ontology of the Amazonian Spirit», cit., pp. 154-155.

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Notizia bibliografica digitale

Gioacchino Orsenigo, «Lasciar parlare la foresta: politica, ecologia e mito in La caduta del cielo di Davi Kopenawa e Bruce Albert»Diacronie [Online], N° 44, 4 | 2020, documento 9, online dal 29 décembre 2020, consultato il 09 décembre 2024. URL: http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/diacronie/15112; DOI: https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/12fgm

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Autore

Gioacchino Orsenigo

Gioacchino Orsenigo, sta concludendo gli studi magistrali in Scienze filosofiche all’Università di Roma Tre. È stato segretario di redazione e caporedattore, dal 2016 al 2018, della rivista di filosofia online «InCircolo. Rivista di filosofia e culture», con cui ancora collabora. Si occupa di filosofia politica e di antropologia, con particolare attenzione agli approcci ontologici. È inoltre interessato alle analisi relative a neoliberismo ed estrattivismo e ai legami fra ecologia e indigenismo.
URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Orsenigo >

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