“Con la guerra nel cervello”: la memorialistica alla prova degli anni Ottanta. Il disperso di marburg di Nuto Revelli
Résumés
Nuto Revelli, ancien officier de l’Armée Royale et ancien résistant, auteur de nombreuses œuvres inspirées par ses expériences militaires, publie en 1994 une œuvre atypique dans son parcours littéraire : Il disperso di Marburg. Cette œuvre n’est pas une chronique de faits vécus en première personne ; elle n’est pas non plus un roman ayant comme thème la Résistance italienne. Il s’agit d’un parcours de recherche historique qui a pour but de dévoiler l’identité d’un soldat allemand disparu en Italie en 1944. Dans cette enquête, plusieurs niveaux de narration s’entremêlent. Le travail de l’auteur, présenté comme un véritable jeu de piste entre les archives de différents pays, se mêle à un processus de récolte des témoignages oraux, et se transforme pour l’auteur en voyage douloureux dans le passé et ses souvenirs personnels. La recherche de l’identité du soldat allemand disparu devient une recherche symbolique, aussi bien de reconstruction identitaire de l’ennemi d’autrefois que de reconstruction d’une subjectivité blessée par l’expérience de la guerre.
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Mots-clés :
Nuto Revelli, Résistance, mémoire, guerre, témoignage, Il disperso di Marburg, soldat allemandKeywords:
Nuto Revelli, Resistance, memoirs, war-testimonies, Il disperso di Marburg, German soldierParole chiave:
Nuto Revelli, Resistenza, memorialistica, guerra, testimonianza, Il disperso di Marburg, soldato tedescoTexte intégral
1Gli anni Ottanta segnano per Nuto Revelli l’inizio di una nuova stagione letteraria nel corso della quale l’autore riprende modalità espressive già sperimentate in precedenza per rinnovarle profondamente dal loro interno. Ex allievo della Regia Accademia di fanteria e cavalleria di Modena, poi ufficiale del Regio Esercito, tra il luglio 1942 e il marzo 1943 Revelli prese parte all’ARMIR, e fu impegnato sul fronte russo nella disastrosa campagna del Don. Al ritorno da questa tremenda esperienza abbandonò l’esercito e si unì, all’indomani dell’8 settembre 1943, alle prime bande clandestine di partigiani sulle montagne di Cuneo, dapprima in una formazione denominata «Compagnia Rivendicazione Caduti» (in onore dei caduti di Russia), in seguito nelle bande Giustizia e libertà di Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco. Revelli fu comandante della brigata Valle Vermenagna e della brigata Valle Stura «Fratelli Rosselli», attiva quest’ultima prima sul versante italiano e poi su quello francese delle Alpi Marittime. Alla fine della guerra, traspose sulla pagina la propria esperienza di ufficiale in Russia (Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, 1946) e di partigiano impegnato nella lotta al nazi-fascismo (La guerra dei poveri, 1962). Raccolse inoltre le testimonianze di alpini che parteciparono alla campagna di Russia in La strada del Davai (1966) e L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale (1971). Dopo questo intenso periodo durante il quale videro la luce cronache di guerra sulla propria esperienza e opere di recupero della memoria dei dispersi di Russia, Revelli si dedicò a ricerche di un altro carattere, sempre di tipo memoriale ma riguardanti il mondo contadino e l’eredità culturale delle valli e delle montagne del cuneese: Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina (1977), raccolta di testimonianze di uomini e donne delle vallate alpine e delle campagne emarginati dal progresso, e L’anello forte. La donna: storie di vita contadina (1986), opera che si concentra sulle figure femminili, fulcro, secondo Revelli, della società contadina.
- 1 È questa una caratteristica della memorialistica, sia della prima, sia della seconda guerra mondial (...)
- 2 Le caratteristiche di questa produzione sono state studiate in dettaglio da Giovanni Falaschi (La R (...)
2Nella bibliografia di Revelli, Il disperso di Marburg (1994, ma con un periodo di gestazione che si snoda tra il 1986 e il 1993) si situa dopo quest’ultima fase, che ha visto l’autore impegnato in una ricerca di tipo più prettamente socio-antropologico. L’opera (che non mi sento di definire né una cronaca, né un romanzo, come spiegherò) è il racconto della ricerca condotta da Revelli per svelare l’identità di un soldato tedesco ucciso a San Rocco Castagnaretta, vicino a Cuneo, nel 1944, forse dai partigiani, forse da uno sbandato, o forse da una «lingera» cioè, in dialetto piemontese, un poco di buono. È questo un fatto cui Revelli non ha partecipato in prima persona, ma del quale ha sentito spesso parlare dai suoi amici partigiani. L’opera rappresenta dunque un ritorno a temi bellici dopo una lunga pausa, che, è un’ipotesi, potrebbe venire letta come il segno del temporaneo esaurimento, per Revelli, delle capacità espressive della memorialistica. Si tratterebbe di un esaurimento legato alla natura stessa di questo genere letterario, inteso come testimonianza di un evento collettivo e di un’esperienza personale – che presenta cioè quanto è straordinario per l’autore all’interno di eventi importanti per la collettività1. Il ritorno a tematiche di guerra si farà dunque, se questa ipotesi risulta corretta, con modalità che non rispondono ai criteri espressivi della cronaca di guerra documentaria2. Revelli incomincia la ricerca per Il disperso di Marburg nel 1986: oltre quarant’anni dopo i fatti, i tempi sono cambiati, il clima letterario e anche quello politico non sono più gli stessi del periodo immediatamente successivo alla guerra. La memorialistica sarà ancora in grado di parlare a un pubblico profondamente diverso da quello del dopoguerra, un pubblico che conta al suo interno sempre meno attori degli eventi storici al centro della narrazione? Come deve reagire il memorialista di fronte a questi cambiamenti: le sue armi espressive sono ancora valide, o si trova obbligato a esplorare altri percorsi?
- 3 N. Revelli, Il disperso di Marburg, Torino, Einaudi, 1994, p. 105. D’ora in poi le citazioni da que (...)
3Nel presente articolo si tenterà di capire le ragioni e di studiare le modalità del ritorno ai temi di guerra, il perché e il come di una scelta tematica che non è scevra di difficoltà per l’autore stesso: «Cinquant’anni dopo sono qui tra i miei libri e le mie scartoffie, e con la guerra nel cervello. Sono matto […]. Sono qui ad autotorturarmi, ad arrovellarmi su un piccolo episodio che ha come protagonista un “disperso” tedesco»3. Si cercherà altresì di mostrare che Il disperso di Marburg diventa il crocevia complesso di diversi temi – l’io e l’altro (il nemico), la Storia e la «storia minuta», il pubblico e il privato, il passato e il presente, la memoria collettiva e la memoria privata – un’opera che ribadisce con forza il valore civico del ricordo e della testimonianza.
4Per decifrare i motivi dietro la scelta di dedicarsi alla stesura de Il disperso di Marburg, con il ritorno a temi dolorosi che essa implica, è utile prendere in considerazione il contesto di composizione dell’opera. Nel 1987, quando la ricerca era già incominciata ma si trovava ancora allo stadio embrionale, Revelli viene chiamato a far parte della commissione ministeriale che aveva il compito di pronunciarsi sui fatti di Leopoli, in Russia, dove, in seguito alla firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, furono uccisi duemila soldati italiani. L’obiettivo della «Commissione Leopoli» era chiarire le responsabilità dell’eccidio: si trattò di una strage nazista o i soldati italiani morirono nei campi di prigionia russi? La sua istituzione fu facilitata dal nuovo clima politico instauratosi a Mosca negli anni Ottanta. Tuttavia, i lavori della commissione d’inchiesta, principalmente a causa delle implicazioni politiche sottese alle conclusioni storiche, si risolsero in un nulla di fatto poco sorprendente: «La sentenza finale era scontata in partenza: negato il massacro. Siamo o non siamo, oggi come allora, “alleati” dei tedeschi?» (p. 56), sbotta Nuto Revelli quando la commissione conclude negando la strage di mano nazista. In un percorso fallimentare di recupero della memoria dei militari italiani morti a Leopoli, Revelli si sente particolarmente deluso dalla gestione politica della memoria collettiva italiana. Questa gestione, ad opera di uno Stato che istituisce una commissione composta, secondo Revelli, da «anime morte» (p. 54), contrasta in modo stridente con quella della Germania, la quale, per mezzo di un efficiente sistema archivistico che Revelli scopre e sfrutta per la sua ricerca, mostra una volontà reale di depennare un nome, anche uno solo, dalla dolorosa lista dei dispersi in guerra:
[…] è sorprendente la serietà e la sensibilità di cui danno prova i vari enti tedeschi. Altro che la “Commissione Leopoli”, dove ogni richiesta di chiarimento era considerata un fastidio, una provocazione. Anche perché una parte dei documenti relativa ai nostri “dispersi” era finita da tempo al macero. (p. 58)
5L’autore si concentra allora su quella che egli stesso definisce la «piccola storia» (p. 45), nel tentativo di dare un nome a un morto tedesco, nemico di un tempo.
- 4 Si cita a titolo di esempio la nota di Pietro Chiodi in apertura di Banditi (ANPI, Alba, 1946): «Qu (...)
- 5 Il dibattito su una divisione precisa tra i generi evocati (cronaca, documento storico, produzione (...)
6La decisione di dedicarsi nuovamente alla memorialistica non può però tradursi per Revelli in una semplice ripetizione di quanto fatto nel periodo in cui egli stesso compose alcune delle opere più importanti del genere. La stesura de Il disperso di Marburg obbliga l’autore a innovare questa forma espressiva, con un’opera che non è più solo memorialistica, ma che non è ancora romanzo. Tocchiamo qui un punto fondamentale per un gran numero di memorialisti, che rivendicano apertamente il valore di cronaca dei loro scritti, in opposizione a romanzi e novelle di argomento resistenziale4. Questi autori, che si pongono volontariamente al di qua della letteratura, non si esprimono evidentemente da un punto di vista narratologico, e un’analisi delle loro affermazioni in tal senso sarebbe abusiva. Semplicemente, essi sottolineano l’assenza, nei loro lavori, di situazioni inventate. Si pone allora il problema della possibilità di una separazione netta tra opere di cronaca, che presentano fatti accaduti, e opere di finzione, le quali implicano invece l’invenzione di situazioni e avventure non vissute da chi scrive5.
7Revelli, che nei suoi scritti precedenti aderisce in tutto e per tutto ai moduli della memorialistica, si pone ne Il disperso di Marburg il problema teorico dell’opposizione cronaca/romanzo, e di conseguenza quello dell’invenzione romanzesca. L’autore sente, forse per la prima volta, la «tentazione» del romanzo e del ricorso a modalità espressive «vietate» nella memorialistica. Molto esplicitamente, a proposito della stesura definitiva della sua ricerca storica, Revelli si domanda: «Dovrò limitarmi a riordinare gli appunti del mio diario e le testimonianze che ho raccolto o dovrò “inventare” una storia né vera né falsa, ambientandola chissà dove?» (p. 128.) Il solo fatto di esporre questi tentennamenti, e di condividerli con il lettore, la dice lunga sul rovello intellettuale e personale dell’autore, che alla fine opta per quella che egli stesso definisce «una via di mezzo» (p. 128).
8Il carattere peculiare de Il disperso di Marburg, la «via di mezzo» scelta da Revelli, si percepisce immediatamente. Innanzitutto, il fatto al centro dell’opera non è stato vissuto in prima persona dell’autore. Si tratta di un evento tramandato oralmente da anni, su cui Revelli si propone di fare luce. Il libro si apre con un capitolo dal titolo emblematico: «La leggenda del cavaliere solitario». A differenza degli altri capitoli, recanti una data che scandisce l’avanzamento della ricerca, dal 1986 fino al 1993, il primo è il solo a non comportare riferimenti temporali. La sua separatezza rispetto al resto dell’opera è confermata inoltre dal titolo, che fa riferimento alla leggenda e all’universo del mito, dove la verità storica è per lo meno dubbia. Gli indizi in questa direzione si moltiplicano nel corso del capitolo; la storia del soldato tedesco morto ammazzato sulla quale l’autore indaga viene definita «un’incredibile storia dal sapore di fiaba» (p. 5). Dopo la leggenda, la fiaba: almeno per il momento, il lettore non si muove nell’universo di riferimento della memorialistica. Quali sono allora le coordinate di questo nuovo spazio non ancora sondato dall’autore? Ci troviamo forse di fronte al nuovo orizzonte di questa forma espressiva, una nuova prospettiva che Nuto Revelli sta tracciando a mano a mano che la ricerca, e quindi l’opera, procedono? L’autore tenta ne Il disperso di Marburg una ridefinizione del lavoro e dell’opera del memorialista. Per quest’ultimo, oramai, non si tratta più di riversare sulla pagina quanto vissuto – esperienze personali traumatiche e straordinarie, eventi condivisi con altri uomini e donne. Questo approccio coincide con quello della prima ondata di testimonianze, pubblicate in gran parte «a caldo» tra la fine della guerra e il 1948, poi con minore frequenza in seguito. Nel 1986, più di quarant’anni dopo i fatti, il lavoro del memorialista è radicalmente cambiato perché, come spiega Revelli, «[…] il tempo frantuma e poi disperde la verità, e quel che rimane diventa leggenda, mito» (p. 7).
9La leggenda e il mito si delineano allora come le nuove coordinate all’interno delle quali opera il memorialista degli anni Ottanta, o meglio come il substrato della nuova memorialistica, un substrato che era invece assente dalle cronache del dopoguerra, vivide testimonianze non ancora sfumate dal passaggio degli anni. Quarant’anni dopo, la memorialistica non è più un’esperienza catartica e liberatoria come poteva esserlo nel dopoguerra, dove ricordare voleva anche dire condividere il fardello delle pene vissute. Si tratta piuttosto di un’operazione traumatica e dolorosa sulla cui utilità è necessario interrogarsi: l’indagine storica, dice Revelli, «Non […] valeva la pena» (p. 7) e, ammissione paradossalmente tragica, «era meglio dimenticare che ricordare troppo» (ibid.). «Meglio dimenticare che ricordare»: il contrario dell’obiettivo della cosiddetta letteratura della memoria, che si propone di fissare, nell’intenzione precisamente di non dimenticare, un’esperienza fondatrice per l’individuo e per la comunità. Questo paradosso è probabilmente dettato dal carattere proibitivo del compito che Revelli si assegna, in quanto il passato si presenta come un «mosaico ormai scomparso e irricomponibile» (p. 18). Nel 1986, l’autore si muove dunque in quella che è anche per lui, non solo per il lettore, una terra incognita, una zona che non è più quella della cronaca documentaria, quanto piuttosto un territorio sconosciuto dallo statuto indefinito. E ciò che è sconosciuto spaventa. Revelli ha a che fare con una «storia inquietante» (p. 8) che lo aggredisce e lo ributta nel suo passato. L’impostazione rigorosa che contraddistingue le opere di Revelli scompare, lasciando il posto a qualcos’altro, una «fantasia» che «prendeva la mano», dei «sogni ad occhi aperti» (ibid.). Ma ciò che spaventa attrae. L’autore stesso desidera esplorare territori sconosciuti alla cronaca documentaria: «Ma voglio che ogni tanto i freni della razionalità si allentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti» (p. 152). Il rapporto di Revelli con la memorialistica, costruito negli anni su basi solide, entra in crisi: tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, la memorialistica tradizionale, intesa nel senso visto più sopra di presentazione di quanto vissuto, non rappresenta più una strada praticabile. Tra leggenda, mito, sogno e verità storica, si devono allora esplorare nuovi percorsi, tentare direzioni nuove al di fuori dei sentieri battuti.
10Revelli stesso, che tratteggia con lucidità i contorni del problema, indica il percorso da seguire per una possibile uscita da questa crisi. Parafrasando una celebre definizione di Jean Ricardou, si potrebbe affermare che, ne Il disperso di Marburg, «l’avventura della scrittura» conta più della «scrittura di un’avventura». Ecco spiegato il motivo della messa a nudo dell’autore. Revelli si mette in scena: come nella memorialistica, è l’autore a essere al centro dell’intreccio. Ma se prima si trovava al centro di fatti di guerra – al centro della testimonianza – ora è nel fitto di una vicenda intellettuale che dovrebbe condurre alla testimonianza. Il lettore viene messo di fronte ai tentennamenti dell’autore e alle sue indecisioni:
[…] sarà già tanto se riuscirò ad abbozzare una versione dell’episodio […] la meno fantasiosa possibile, dalla quale emergano nitidi gli interrogativi principali. Solo così potrò rendermi conto della complessità dei problemi da risolvere, e poi decidere se arrendermi o no. (p. 27-28)
11L’autore illustra passo dopo passo le varie tappe della sua indagine, il ruolo giocato da lui e dai vari testimoni incontrati lungo il percorso. Per i motivi esposti fino ad ora, Il disperso di Marburg può essere allora considerato una «meta-testimonianza». La precisione e l’accuratezza non riguardano più la presentazione degli eventi storici, che si riducono a inserti brevi, quanto piuttosto la descrizione del percorso seguito per definire i contorni storici dell’episodio al centro dell’opera.
12Il risultato certamente più interessante di questa meta-testimonianza è l’intrecciarsi di più livelli narrativi. In effetti, il cambiamento che implica la scelta di una modalità espressiva nuova per l’autore non riguarda lo stile, che resta fondamentalmente molto simile a quello delle sue opere passate. Esso è molto più radicale, poiché ha come risultato la creazione di un’opera che non segue più solo la storia dell’autore-attore degli eventi, ma che ha l’ambizione di presentare diverse vicende, situate a livelli differenti. Revelli intreccia alla storia del tedesco, il disperso del titolo, la sua vicenda di ufficiale in Russia, la sua esperienza di partigiano in Piemonte, quella dei testimoni che ascolta e delle persone che lo aiutano nel lavoro. Si assiste, ne Il disperso di Marburg, a una moltiplicazione dei livelli della testimonianza. Questa non è più presentata come una vicenda distesa che si sviluppa assecondando e dettando i tempi dell’opera; a parte la trascrizione delle fonti orali riguardanti la vicenda di San Rocco, essa si limita piuttosto alla presentazione sintetica di episodi brevi, come quello della mamma di un disperso di Russia che racconta i presentimenti della morte del figlio (p. 32), o come quello dei partigiani che catturano due tedeschi per poi liberarli immediatamente e conservarne le cavalcature (p. 37). L’opera assume poco alla volta un carattere eterogeneo, il quale nasce da una commistione tematica che sembra voler conferire dignità al processo di raccolta di testimonianze orali e scritte. Quest’ultimo diventa di fatto parte integrante della narrazione, inserito in un progetto narrativo più ampio e complesso. Il moltiplicarsi delle testimonianze contribuisce alla composizione di un’opera corale che illustra una vicenda collettiva: la differenza con la memorialistica tradizionale, incentrata sulle vicende di una sola persona, appare allora in tutta la sua evidenza.
- 6 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhi (...)
13Il disperso di Marburg diviene, come si è detto, il crocevia di diversi temi. La ricostruzione dell’identità del soldato tedesco ucciso dai partigiani assume i contorni di una ricerca simbolica, che oltrepassa largamente i confini dell’indagine storica, come spiega Revelli: «La storia di quel “disperso”, tedesco, polacco o russo che sia, ha ormai assunto per me il valore di un simbolo. Questa storia è entrata nella mia vita, mi appartiene.» (p. 31.) Il valore simbolico evocato dall’autore sembra essere legato indirettamente alla nozione di anonimato, un concetto che regola i rapporti tra soldati di schieramenti nemici. In una guerra, il soldato è protetto da quello che Claudio Pavone definisce «l’anonimato morale6» che, secondo lo storico, permette più facilmente di affrontare, e uccidere, il nemico. In una guerra civile o in una guerra tra esercito e bande clandestine, precisa Pavone, i combattenti sono meno protetti dall’anonimato offerto da un esercito regolare in una guerra tra Stati di diritto. L’indagine di Revelli procede proprio con la volontà di spezzare completamente questo «patto dell’anonimato». Il gesto, volto a riconoscere l’uomo dietro il nemico anonimo che si è combattuto anni prima, possiede una forte valenza simbolica. Per riflesso, la ricerca dell’identità del tedesco diviene simbolo della ricerca di sé; è per questo che la vicenda del soldato morto quarant’anni prima fa oramai parte della vita presente dell’autore, che non può più liberarsi dal vincolo venutosi a creare.
14L’opera si delinea quindi anche come un cammino di ricostruzione di sé, in un rapporto di continuità tra il passato e il presente. Questo processo parte dall’esperienza di Revelli partigiano e approda a una riflessione più generale sulla guerra. Ma l’autore diffida dall’esporsi troppo in prima persona e non vuole che la sua esperienza partigiana (del resto già presentata ampiamente in altre opere) si mischi a quella del tedesco disperso. Revelli si mette allora in guardia contro i pericoli che corre: «[...] dovrò evitare che le due storie [quella del tedesco e la sua vicenda partigiana, ndr] si sovrappongano. Soprattutto dovrò evitare di immedesimarmi troppo nell’episodio di San Rocco.» (p. 71.) Tuttavia, l’immedesimazione risulta inevitabile. Revelli non si identifica tanto con il tedesco morto nell’imboscata, quanto soprattutto con un altro tedesco, lo storico Christoph Schminck-Gustavus, che si rivela un aiuto fondamentale per la ricostruzione della vicenda del tedesco ucciso in Italia nel 1944. Christoph, nato nel 1942, due anni prima dell’imboscata costata la vita al soldato tedesco sconosciuto, è più di un aiutante per Revelli. All’interno dell’opera, così come il tedesco ucciso a San Rocco, egli assume valore di simbolo. Tuttavia, al contrario del tedesco del 1944, che ributta violentemente Revelli verso un passato doloroso, Christoph rappresenta un’apertura verso il futuro, una presenza lenitiva per le ferite profonde e difficilmente rimarginabili che la guerra ha lasciato all’ex-comandante partigiano. In effetti, quando viene per la prima volta a conoscenza della storia del cavaliere solitario ucciso a Cuneo, un mitico «tedesco buono», Revelli pensa innanzitutto agli spietati soldati tedeschi conosciuti in Russia e vede «immagini infinitamente più tristi, più cupe. Altro che il “tedesco buono” !» (p. 7.) Christoph rappresenta invece l’incarnazione di questo mito evanescente, il rovesciamento del nemico di un tempo: «In questo ambiente spettrale, la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio “tedesco buono” l’ho trovato.» (p. 49.) La ricerca storica al centro dell’opera viene temporaneamente accantonata, e l’autore sottolinea il raggiungimento di un risultato fondamentale nel suo percorso personale: «Christoph, in fatto di testardaggine, è proprio un “tedesco di Germania”. Io sono il suo fratello gemello.» (p. 63.) Si manifesta qui la forza morale e civica di questa memorialistica di un nuovo tipo, in quanto l’identificazione non riguarda solo la testardaggine del metodo di lavoro, ma indica un legame di fraternità profondo, un risultato straordinario possibile, in questo caso, quarant’anni dopo i fatti.
15Per finire, un accenno alla figura al centro dell’opera, il giovane disperso di Marburg, il sottotenente Rudolf Knaut, nato a Marburg nel 1920, a cui la ricerca al centro dell’opera riesce a restituire un’identità. Nel tentativo operato da Revelli di dare una nuova forma alla memorialistica, e di illustrare le tappe dell’indagine storica, il lettore assiste alla ricostruzione di un destino umano, quello del soldato disperso in Italia nel 1944. La ricerca storica si apre in direzione della dimensione esistenziale. Chi è il personaggio che si costruisce davanti ai nostri occhi? Il soldato, la cui scheda biografica si trova presso gli archivi militari tedeschi, è solo il sottotenente morto in un’imboscata in un territorio dove agivano bande armate clandestine? Alla luce di quanto detto, si potrebbe concludere che ci si trova piuttosto di fronte a un uomo che oltrepassa il dato storico per ergersi a personaggio emblematico, a simbolo, come indica Revelli. Rudolf Knaut rappresenta ciò che ha reso possibile il contatto tra il passato della guerra e il presente della pace, il legame tra generazioni diverse. Pongo allora un’ultima domanda, che esula dall’analisi dell’opera e che fa riflettere sull’insieme della produzione letteraria di Revelli. Si potrebbe vedere la ricostruzione della figura di Rudolf Knaut come il lavoro preparatorio per un’opera che ripercorra la vicenda di questo «cavaliere solitario», un’opera che Revelli non ha scritto ma che, come egli stesso dice, potrebbe essere «né vera e né falsa», ambientata chissà dove? Potrebbe cioè Il disperso di Marburg essere considerato, nel percorso di Revelli, come il punto più vicino al romanzo, modalità espressiva che l’autore non ha mai sperimentato? In altre parole, si sarebbe raggiunto un punto in cui la separazione, come detto problematica, tra la cronaca e l’opera letteraria risulta ancora più fluida?
Notes
1 È questa una caratteristica della memorialistica, sia della prima, sia della seconda guerra mondiale, come ricorda Giovanni Falaschi: «Va da sé che, all’interno della memoria collettiva di eventi traumatici, il memorialista ricorda quanto è stato straordinario per lui.» Il critico cita gli esempi di Emilio Lussu e di Pietro Chiodi, che rispettivamente in Un anno sull’altipiano e Banditi, affermano di voler raccontare solamente ciò che li riguarda in prima persona. Vedi G. Falaschi, “Autobiografie e memorie”, in F. Brioschi e C. di Girolamo (a cura di), Manuale di Letteratura Italiana. Storia per generi e problemi, IV. Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 734.
2 Le caratteristiche di questa produzione sono state studiate in dettaglio da Giovanni Falaschi (La Resistenza armata nella narrativa italiana, Einaudi, Torino, 1976) e da Bruno Falcetto (Storia della narrativa neorealista, Mursia, Milano, 1992). Possiamo qui ricordarne le principali in modo sintetico. Nelle cronache di guerra, gli autori presentano unicamente i fatti vissuti in prima persona, per produrre quello che Falcetto chiama, citando V. Nabokov, un racconto «lineare»: l’esperienza personale è considerata la principale garanzia del valore dell’opera, un’opera destinata, si ricorda, a lettori che sono stati spesso attori degli stessi eventi vissuti e narrati dall’autore. Dal punto di vista stilistico, le cronache di guerra si caratterizzano per annotazioni fatte in uno stile breve e secco, dove i fatti, spesso ordinati sotto la data, restano centrali. Poco spazio viene accordato all’introspezione, mentre in primo piano si trovano le sensazioni fisiche del protagonista (fame, sete, freddo, paura, eccitazione, angoscia).
3 N. Revelli, Il disperso di Marburg, Torino, Einaudi, 1994, p. 105. D’ora in poi le citazioni da questa opera si troveranno direttamente nel testo dell’articolo, seguite dall’indicazione del numero della pagina.
4 Si cita a titolo di esempio la nota di Pietro Chiodi in apertura di Banditi (ANPI, Alba, 1946): «Questo libro non è un romanzo, né una storia romanzata. È un documentario storico, nel senso che personaggi, fatti ed emozioni sono effettivamente stati. L’autore ne assume in proposito la più completa responsabilità». La stessa nota è stata ripresa e ampliata per la ristampa del 1961 (Panfilo, Cuneo, poi Einaudi, Torino, 1975).
5 Il dibattito su una divisione precisa tra i generi evocati (cronaca, documento storico, produzione letteraria sulla seconda guerra mondiale) è molto complesso, e di non facile soluzione. Tuttavia, una separazione teorica resta possibile. Per operarla, occorre far ricorso alla nozione di invenzione. Secondo Maria Corti (Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, p. 52) si può parlare di memorialistica quando l’invenzione non è integrata all’opera. Gérard Genette ricorda che la materia alla base delle opere di finzione «est fictive, c’est-à-dire inventée par celui qui présentement la raconte» e che la letteratura di finzione «s’impose essentiellement par le caractère imaginaire de ses objets» (Fiction et diction, Paris, Seuil, 2004, pp. 143 e 110). La nozione d’invenzione è evocata anche da Giovanni Falaschi (La Resistenza armata nella narrativa italiana, op. cit., p. 152), che separa i memorialisti che rispettano la verità storica dai romanzieri che inventano situazioni e avventure, e da Mario Saccenti, «Letteratura della Resistenza», in Vittore Branca (a cura di), Dizionario critico della letteratura italiana, UTET, Torino, 1994², p. 598. La questione resta comunque aperta se, come afferma Pier Giorgio Zunino, «molta invenzione […] c’è anche nella storiografia, nella migliore, poco meno che nella letteratura» (Id., La Repubblica e il suo passato, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 227).
6 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, p. 422.
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Référence papier
Alessandro Martini, « “Con la guerra nel cervello”: la memorialistica alla prova degli anni Ottanta. Il disperso di marburg di Nuto Revelli », Cahiers d’études italiennes, 14 | 2012, 225-234.
Référence électronique
Alessandro Martini, « “Con la guerra nel cervello”: la memorialistica alla prova degli anni Ottanta. Il disperso di marburg di Nuto Revelli », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 14 | 2012, mis en ligne le 15 septembre 2013, consulté le 11 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/530 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.530
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