Navigation – Plan du site

AccueilNuméros14Alberto Arbasino e la “vita bassa...

Alberto Arbasino e la “vita bassa”. Indagine sull’italia degli anni Ottanta in cinque mosse

Alberto Arbasino et la « vita bassa ». Enquête sur l’Italie des années quatre-vingts jouée en cinq coups
Alberto Arbasino and “low life”: an investigation on 1980s Italy in five moves
Giuseppe Panella
p. 183-199

Résumés

Alberto Arbasino a été l’un des interprètes les plus importants de la « vita bassa » italienne des années quatre-vingt. Il en a été, en un sens, le chantre. Après le déclin de la militance politique qui avait caractérisé l’année 1968 et une bonne partie des années soixante-dix, la décennie successive a été largement traversée par une série de phénomènes inquiétants et riches en menaces pour la vie culturelle et politique de la nation. En effet, c’était un moment favorable à la vie yuppie hédoniste et effrénée, décrite comme une forme de vie réconfortante et confortable, où s’enrichir était facile et illégal, à la corruption répandue et à la vulgarité triomphante des nouveaux riches qui étaient liés à la politique du cycle du gouvernement de cette époque-là. Tout cela a été décrit par Arbasino d’une manière exemplaire et particulière. Il a mis l’accent sur l’aspect linguistique de la question et il a cloué au pilori les manies et les tics linguistiques de la petite et moyenne bourgeoisie italienne (midcult) mais aussi la bêtise humaine qui en est le pendant anthropologique. Des livres comme Fantasmi italiani, In questo stato, Un paese senza mais aussi maints de ses reportages de voyage dans des pays exotiques (écrits de la fin des années soixante-dix à la fin des années quatre-vingt-dix) établissent une forme artistique de déconstruction de la culture italienne dans ses dispositions et conséquences les plus négatives. Arbasino a été un maître dans cette forme d’expression littéraire.

Haut de page

Texte intégral

Ma quelle stesse parole che non sono comprensibili, che agiscono isolate, che danno luogo a una specie di figura acustica, non sono rare o nuove, inventate dalle creature che mirano alla loro singolarità: sono le parole che vengono usate più di frequente, frasi comunissime per tutti, ripetute centomila volte; e di questo, proprio di questo si servono per dimostrare la loro caparbietà. Parole belle, brutte, nobili, comuni, sacre, profane, capitate tutte in questo tumultuoso serbatoio; e ciascuno ne trae fuori ciò che si addice alla propria inerzia; e lo ripete finché le parole non sono più riconoscibili, finché dicono tutt’altro, il contrario di ciò che una volta significavano. La deformazione della lingua conduce al caos delle figure separate. Karl Kraus, estremamente sensibile agli abusi della lingua, aveva il dono di captare in statu nascendi e di non lasciarsi più sfuggire i prodotti di questi abusi. Per chi lo ascoltava si apriva così una dimensione nuova della lingua, che è inesauribile e alla quale prima si faceva ricorso solo sporadicamente, senza l’opportuna coerenza.
E. Canetti, «Karl Kraus, scuola di resistenza», in Potere e sopravvivenza.

Quel che è successo in Italia…

  • 1 A. Arbasino, La vita bassa, Milano, Adelphi, 2008, pp. 102-103. Per un profilo aggiornato dell’oper (...)

In questo stato, e poi Un paese senza, obbedivano al dovere civile delle testimonianze ‘dal vivo’ nelle congiunture epocali, in seguito utili ai ricercatori e agli archivisti del ‘post’ e del ‘propter’, del perché e del percome, del prima e del dopo. “E se domani...” canticchiavano al piano-bar gli storici futuri anche involontari, nel corso degli eventi. Poi, ogni storiografia o iconografia o commemorazione finirà per registrare soprattutto due serie parallele di icone inevitabili, per quegli anni Settanta. Pasolini, Moro, Feltrinelli, e i tanti altri assassinati. Una pletora, si deplorò. Accanto, un’altra pletora di indimenticabili successi e cult forever: Mina, Celentano, Morandi, Battisti, Baglioni, De André, De Gregori, Dalla, Paoli, Guccini, e tanti altri miti e riti regolarmente estremi e duraturi e ‘live’. Anche alle esibizioni attempate di Keith Jarrett e moltissimi altri, a tutt’oggi, quante migliaia di junior e senior si eccitano e commuovono sinceramente dopo aver sborsato cento euro dai bagarini o sopportato fatiche ‘bestiali’ in coda. Così, anche questo nuovo libretto “sui fatti del 2008” si proporrà (ancora una volta) come una obiettiva ‘deposizione’ testimoniale a caldo su un altro snodo o svincolo o scivolo di eventi italiani probabilmente epocali, nel mesto corso del loro svolgersi1.

1La vita bassa è l’approdo più recente di Arbasino alla “critica spietata” di tutto ciò che si dice e di ciò che si vorrebbe e dovrebbe realizzare in Italia e che si finisce per evitare di fare.

2Il testo dal quale si cita qui sopra è certo assai più recente ma si ricollega sicuramente e in maniera perfettamente tranchante ai trascorsi migliori dell’opera di Alberto Arbasino.

3In libri come Fantasmi italiani (Roma, Cooperativa Scrittori, 1977 – una raccolta di scritti mai più ristampata in seguito), In questo stato (Milano, Garzanti, 1978) o Un paese senza che è del 1980 (poi ristampato sempre da Garzanti nel 1990), lo scrittore lombardo aveva dato il meglio di sé nel descrivere le oscillazioni, le derive, i piagnistei, le angosce e gli effimeri trionfi di un paese come l’Italia che gli appariva sempre mancante della sostanza necessaria a sostenersi o a progredire, nella condizione cioè di essere sempre privo dei fondamenti essenziali per sopravvivere e svilupparsi, di essere continuamente senza qualcosa (antropologicamente, politicamente, culturalmente).

4Il qualcosa che mancava poteva essere, parlandone at random and haphazard, la rivoluzione proletaria o le riforme di struttura, la coscienza civile o la capacità di prendere posizione su questioni generali e fondamentali (come è evidente in Un paese senza) ma era comunque sempre un Qualcosa che era mancato (come si diceva spesso allora con un malvezzo insistito e assai diffuso) “a monte”. Sembrava, in realtà, che essere sempre senza quel qualcosa fosse la condizione naturale di chi non voleva neppure provarsi a portare a compimento progetti o riforme, rivoluzioni epocali o “enormi mutamenti all’ultimo momento” (per dirla con il titolo di una famosa raccolta di racconti di Grace Paley).

5Arbasino è stato il più feroce (e, nello stesso tempo, rattristato e melanconico) critico di quel periodo di storia italiana che va dalla fine degli anni Settanta agli anni Novanta. È questo il momento della facile fortuna dello yuppismo edonistico e rampante esaltato come confortante e confortevole forma di vita, dell’arricchimento facile e illegale, della corruzione diffusa e della volgarità trionfante dei nouveaux riches legati alla politica d’abord del ciclo di governo di allora (e poi confermato da ciò che sarebbe seguito successivamente).

  • 2 Il richiamo (forse scontato) è a un celebre saggio di I. Calvino intitolato “Il mare dell’oggettivi (...)

6Ma è anche il periodo in cui si consumano la fine delle ideologie e dei manifesti politici, della caduta di ogni possibilità di realismo letterario, della sperimentazione della realtà quotidiana nella scrittura come frutto dell’immersione in un mare che non è più quello “dell’oggettività” (così come lo descriveva ancora Italo Calvino negli anni Sessanta)2 quanto quello dell’ormai avvenuta mutazione antropologica e dell’affermarsi di una soggettività spietata e del tutto priva di memoria storica del passato (come accade sia nei romanzi di De Carlo e spesso anche in quelli di Tabucchi che in quelli, per citare un autore della parte opposta ma egualmente significativo di Luca Doninelli).

7Arbasino analizza e verifica attraverso inchieste e indagini sur le terrain (come la lettura della “piccola posta” che appariva sul giornale di sinistra Lotta Continua) le trasformazioni del costume e la degenerazione culturale in atto; cerca di decostruirle alla luce di modelli culturali alti (Leopardi, Gramsci) e, infine, propone modelli di ricostruzione linguistica degli sviluppi socio-antropologici in atto. Su tutti questi aspetti della fase di Kulturkritiker di Arbasino (una dimensione di scrittura che, tutto sommato, dura ancora fino ad oggi) merita di spendere il tempo di una riflessione che finora non è stata ancora fatta.

8Essa, infatti, è tutta presente nel brano citato sopra quale cifra di un libro assai più breve di suoi altri volumi ma sempre succoso e aspro come un limone ben maturo.

9La Kulturkritik (come si diceva in ambito rigorosamente francofortese) o meglio la critica del linguaggio quotidiano e pseudo-culturale (la professione preferita negli anni Venti da un grande scrittore come Karl Kraus, tanto per fare un esempio illustre e adeguato all’oggetto) è sempre stata la passione manifesta e celebrata di Alberto Arbasino saggista e commentatore di costume, antropologo e narratore dei fasti e nefasti della vita culturale italiana degli ultimi quaranta anni. Ovviamente, è del tutto conseguente il fatto che dalla critica delle parole (parolacce o meno che possano essere considerate) alla critica dei costumi di coloro che le usano (impropriamente e goffamente e crudamente ma anche esemplarmente) il passo sia assai breve.

10In La vita bassa c’è tutto questo e gli strali acuti (come pure le bacchettate severe) dello scrittore di Voghera per i suoi contemporanei non potrebbero cadere più a proposito in un anno come il 2008 destinato al ricordo solerte e alla rievocazione forsennata (e spesso piuttosto interessata da parte dei superstiti protagonisti) dei fasti del Sessantotto, annus mirabilis della contestazione di molti e della giovinezza di tutti i protagonisti di quell’annata (come pure di molte delle successive, nel bene e nel male, nella violenza ostentata e nella prevaricazione vissuta).

11Seguendo la falsariga già utilizzata in Un paese senza e in In questo stato, Arbasino procede per aforismi e brevi sentenze, per sintagmi accusatori e spesso per lunghe sequenze di allitterazione fonetica e latamente linguistica utilizzando termini ormai in uso che, messi in fila in un certo suo modo, non sembrano dare senso alcuno alla loro proliferazione come parole non utilizzabili ma mimano di poterlo e volerlo fare.

  • 3 Per Leopardi è sempre importante ricordare l’aspra e sovente lucidamente rancorosa lettura del cost (...)
  • 4 Di Gramsci è assai vibrante la disamina delle forme di comportamento politico e sociale degli itali (...)

12Di conseguenza, l’oggetto del contendere risultano i costumi linguistici degli Italiani e i loro vezzi provincial-locutori (sulla scia di non dimenticati testi analoghi di antropologia culturale prodotti da Leopardi3 e da Gramsci)4. Ma dietro questi difetti di conoscenza e di razionalità ci sono anche interessi concreti e ben precisi – la cultura mancata nasconde anche (o forse soprattutto?) i profitti personali e le corruttele continuate che non appartengono soltanto al profilo linguistico di amministratori e politici di lungo corso e di smisurato appetito.

Dalla decostruzione degli eventi culturali alla scoperta della dimensione antropologica

13L’episodio letterario di La vita bassa, tuttavia, non è certo una novità nel percorso fluido e, nello stesso tempo, accidentato e spigoloso di Alberto Arbasino. Già negli anni Sessanta i suoi libri di critica teatrale e di ricostruzione delle mode culturali erano costellati di osservazioni vivaci e brillanti sul costume degli italiani “colti” e dei loro vezzi intellettuali.

14Ma è alla fine degli anni Settanta che Arbasino decide di abbandonare (almeno provvisoriamente) il campo della scrittura narrativa e di dedicarsi a tempo pieno, decrittandola e circoscrivendola, allo studio linguistico e culturale della società italiana in cui si trova a vivere.

15L’Introduzione di Fantasmi italiani del 1977 (dal titolo allusivo di Senza deposito) è assai esplicita al riguardo. In quegli ultimi anni Settanta (non a caso poi ben presto noti e malfamati come “anni di piombo”), Arbasino prende una decisione dalla quale non desisterà e non tornerà più indietro:

  • 5 A. Arbasino, Fantasmi italiani, Roma, Cooperativa Scrittori, 1977, p. 7.

Questo non-libro si fonda su una decisione: seguire oggi non qualche simpatico o suggestivo Altrove ma l’attualità politica e culturale italiana giorno per giorno, con tutti i rischi della immediatezza troppo “a caldo”; e per tener dietro a una realtà molto in movimento, tentare una scrittura / struttura niente affatto seriosa o solenne o “sistematica”, ma piuttosto frammentaria, rapsodica, aforistica, molto corporea. Molto parlata, molto vocale, e perfino trasversale. Dunque, scrittura – magari – anche come “performance”, rappresentazione, spettacolo. I “temi” di questi esercizi sono interrogazioni elementari e familiari. Di fronte ai disturbi culturali e politici che colpiscono la vita italiana contemporanea: si tratta di inopinati bubboni, deplorevoli e “mai visti”, in un corpo fondamentalmente sano? Oppure si tratta di vecchie solfe, orrende “costanti” antropologiche e ataviche molto nostre che continuano a riaffacciarsi camuffate da novità preoccupanti? E di fronte ai disturbi disgraziati o ridicoli che affliggono adesso il nostro linguaggio e il nostro “discorso”: quali disturbi autentici e specifici rivelano o rispecchiano nel pensiero italiano? Tornano allora qui rielaborati in un diverso assemblaggio numerosi temi di Kulturkritik…5

16Il presente dell’Italia gli sembra oscurato da qualcosa che non può essere più lasciato indietro come elemento costitutivo stesso della nazione (ciò che c’è sempre stato e che non si può mai cambiare, anzi ciò che va cambiato proprio perché nulla cambi – gattopardianamente) o risolto con una serie di discorsi in cui l’altezza che questi raggiungono è pari a quel nulla di fatto cui conducono o su cui si coibentano. La “differenza” italiana rispetto ai paesi europei più “normali” è, allora, il solito male di sempre (e proprio per questo non ci si potrà mai fare nulla) o si tratta di qualcosa di nuovo, di tragicamente inedito? Arbasino cercherà di dare una risposta a questo quesito cruciale.

  • 6 Ibid., pp. 11-12.

I grandi malori italiani contemporanei derivano da quei due grandi flagelli che sono la sovrappopolazione selvaggia e il linguaggio alienato. Cioè, precisamente, un “discorso” soltanto astratto che corrisponde a un “pensiero” soltanto teorico, e uno scervellato prolifichìo in un territorio ristretto con risorse in diminuzione, dove i più non sanno mai cosa stanno dicendo, né come daranno da mangiare ai propri figli, e dove però ciascuno (benché smentito continuamente dai fatti) si ritiene eccezionalmente “dritto”, lui solo, ritenendo tutti gli altri eccezionalmente “coglioni”. Scambiare la coglioneria per drittaggine porta allora a conseguenze per lo più disastrose, giacché “alla lunga” i risultati non funzionano, né corrispondono ad alcuna tra le false premesse o le bugiarde speranze. Per auto-indulgenza smisurata – o per incapacità o sprovvedutezza che ignorano perfino il proprio nome – numerosi italiani pretendono infatti di esprimersi in idiomi addirittura insensati, che chiaramente non hanno più nulla di umano: eppure questi idiomi rispecchiano precisamente e rivelano le insensatezze delle strutture del pensiero, e una quantità di caratteristiche specifiche e costanti nel carattere italiano: la superficialità, la volubilità, l’irresponsabilità, l’incompetenza, lo sperdersi… Invece, altri caratteri non meno tipici come l’aggressività, la criminalità, la violenza, la ladreria, attualmente, possono sembrare conseguenze o effetti probabili del sovraffollamento e della scarsità crescente di cibo, come nelle topaie sperimentali di laboratorio. Ma con l’aggravarsi della crisi italiana, anche le connotazioni italiane più tradizionali sembrano “impazzire” peggio di una mayonnaise. Un nuovo linguaggio italiano ancora più teorico e astratto e alienato e auto-indulgente dei vecchi gerghi gotici e umanistici e barocchi, e ora nettamente ideologico-tecnologico-patologico, incomincia a riflettere nei propri disturbi superficiali dei profondi disturbi della mente, caratteriali e pericolosi. E da parte sua, il vecchio banditismo medievale o elisabettiano o stendhaliano-romantico diventa nichilismo e terrorismo con aperti sintomi di “trip” privato e demonismo irreale… Allora, l’interrogazione ossessiva (“inopinati bubboni, o vecchie solfe?”) continua a riproporsi “di prepotenza”, di fronte a ogni fenomeno che appare “senza precedenti” nella nostra crisi6.

  • 7 Anche se in un tale contesto ormai suranné e scarsamente condivisibile, fanno eccezione, ad es., le (...)

17Da un lato, siamo ancora nel reame del “machiavellismo degli Stenterelli” di gramsciana elaborazione (il regno in cui il più furbo è capace di sconvolgere l’equilibrio generale in nome della propria superiorità in furbizia), dall’altro sembrano riaffiorare fantasmi atavici legati alle analisi del tardo positivismo7. A parte la questione della sovrappopolazione che se, da un lato, sembra affliggere ancora una parte dell’Italia meridionale, dall’altro sembra, invece, compensata dalla radicale de-natalizzazione degli anni Novanta soprattutto al Centro Nord, quella della follia linguistica è tema assai caro ad Arbasino (e il richiamo a Karl Kraus è ancora una volta d’obbligo).

18Nel 1977, tuttavia, la tragedia italiana dell’affaire Moro non è stata ancora consumata. Nel libro, però, molti spunti critici sembrano (certo con il senno di poi) preludervi. In un testo successivo, vichianamente intitolato ai Corsi & Ricorsi della vicenda italiana, Arbasino scrive:

  • 8 A. Arbasino, Fantasmi italiani, op. cit., pp. 38-39.

… Ma perché la rabbia si sta sommando alla nevrastenia italiana, privata e politica? Da principio c’è stata una orribile pena: come quando ci si rende conto, davanti a nuovi bambini già teneramente amati, che stanno crescendo strabici come il papà, balbuzienti come la mamma, ladri come il nonno, bigotti come la zia. E, allora, quando nella patria dei Corsi & Ricorsi storici, si assiste a una riapparizione delle solite, antichissime, e tanto descritte “costanti” antropologiche – magari credute (sbagliando) sparite per sempre, nell’euforia della “modernità” o per qualche ironia “positiva” della Storia – ecco che improvvisamente ci si sente, magari neanche delusi o disillusi o cinici, però, certamente, molto vecchi. Ci si sente molto vecchi, infatti, a partire dal giorno in cui si ripresenta “tale e quale” e “come nuovo” (e come se le lezioni del passato non servissero effettivamente a niente) un fenomeno che si era ritenuto unico, episodico, e impossibile da ripetere proprio per l’esperienza che ne è derivata. E invece, macché: sono proprio i fenomeni “una tantum” che si ripresentano con periodicità regolare. E malgrado ciò vengono ritenuti, ogni volta, “inaspettati”, “inopinati”, “imprevisti”, sempre in un “corpo fondamentalmente sano”. Forse ci eravamo davvero addormentati tutti in uno di quei grandi sogni italiani collettivi ad occhi aperti che ci spingono periodicamente verso quei certi auto-inganni così scervellati8.

L’incontro con il paese reale

19Il “brusco risveglio” (almeno per i meno smaliziati) arriverà l’anno dopo con il rapimento e la morte di Aldo Moro, con la legislazione eccezionale sul terrorismo, con la fine annunciata della politica dell’opposizione da parte del PCI e quelli che saranno chiamati i governi di “unità nazionale”.

20Di questa nuova stagione (ma quanto poi nuova?) è testimonianza il successivo libro di Arbasino.

21In questo Stato è un libro tutto scritto in presa diretta. Vuole essere una testimonianza a caldo scritta in una civiltà letteraria che delle memorie scritte nel fuoco della lotta non ha mai voluto sapere troppo (preferendo, invece, raccontare anni dopo ciò che era più prudente o più lusinghiero ricordare e mettere in evidenza per rendere maggior lume e luce agli occhi di chi aveva visto magari tutt’altre cose e vicende). Le ragioni della stesura del libro sono chiarite subito:

  • 9 A. Arbasino, In questo stato, Milano, Garzanti, 1978, pp. 6-7. È trasparente ma efficace il gioco d (...)

Forse questo “spaccato” o “montaggio” di demenze e deliri italiani non mi sarebbe neanche venuto in mente, se avessi vissuto quella “svolta” in una situazione di indifferenza italiana collettiva, e non di quello “straniamento” o “stacco” iniziale che mi ha fatto vedere per qualche giorno – come con occhi brechtiani – la nostra famosa incoscienza travestita da seriosità, con la nostra irresponsabilità, la nostra leggerezza, e una certa vera ferocia; e diversi altri caratteri tradizionali italiani per lo più camuffati o appiattati in attesa di “dare i numeri” nelle fasi più acute delle nostre crisi nazionali. Ma avendo intanto anche visto a Berlino Deutschland in Herbst fatto egualmente a caldo da parecchi registi tedeschi sugli eventi dell’autunno scorso vissuti immediatamente nel “pubblico” e nel “privato”, senza rielaborazioni né distacchi né (meno che meno) solenni mozioni degli affetti nazionali, mi sono ancora convinto che la struttura formale più adatta stavolta non fosse tanto un romanzo “classico” e “storico” come Fratelli d’Italia, composto durante il “boom”, oppure un romanzo “a frammenti mobili” come il Super-Eliogabalo, composto nel ’68, ma appunto questa performance del tutto corale, aperta, spalancata, registrazione e rappresentazione “personale” e “politica” rimescolata con gli infiniti paragoni e rinvii che emergono spontanei o coatti dalla cultura, dalla letteratura, dai precedenti storici, dalle analogie inevitabili, dalle conversazioni continue fra la gente per questi interi due mesi. […] Anche “perché rimanga qualche cosa” (conversazioni autentiche, giudizi autentici, “follies” autentiche, pezzetti di giornali che già sembrano “nonsense” appena poche settimane dopo); e soprattutto dal momento che la nostra Letteratura, invece, non è mai molto ricca di queste testimonianze “dal vivo” e “a caldo”, né di epistolari e diari e memorie (individuali o collettive) che possano in qualunque modo “restituire” il vero colore, la vera atmosfera di un’epoca, la vera “aura”…9

22Il proposito è quello di rendere conto delle oscillazioni di una pubblica opinione tradita dai suoi organi elettivi (i giornali), assalita da ondate di retorica pervicace e purulenta che ne insidia nei fondamenti il buon senso e la credulità, incapace di capire che cosa sta accadendo e poco propensa, comunque, a comprenderlo. Ciò che invade il campo della conoscenza degli avvenimenti è un bla irritante e insistente, di nessuna utilità a realizzare obiettivi concreti ma solo adeguato a impedire la realizzazione di atti concreti e a coprire l’irresponsabilità spesso criminale (si pensi allo scambio che sarebbe stato comico se non fosse risultato, in realtà, macabro tra Gradoli cittadina di montagna dove si trova il Lago della Duchessa e via Gradoli dove effettivamente Moro veniva detenuto dalle Brigate rosse), spesso deliberata di chi avrebbe dovuto gestire le emergenze del periodo.

23Il bla generalizzato apre le porte a un’alluvione linguistica che comporta la sconnessione profonda del linguaggio utilizzato per sostenerlo.

24Il bla continuo, inoltre, mostra come il giornalismo italiano e la sua profluvie di chiacchiere fini a se stesse proceda all’inflazione di luoghi comuni e di frasi fatte che non rimandano altro che a se stesse:

  • 10 A. Arbasino, In questo stato, op. cit., p. 28. Su questo libro fondamentale nella produzione letter (...)

E allora. Fra i diversi e continui “tradimenti Gutenberg” (come il trasformare un evento effettivamente accaduto in un luogo comune milleusi quale “il bubbone è scoppiato”), denunciare criticamente questa guittaggine del birignao politico-giornalese – lezioso e pretenzioso come il deus ex machina e il lupus in fabula, la camicia di Nesso e il letto di Procuste, il naso di Cleopatra e il vaso di Pandora, lo scheletro nell’armadio e il castello di accuse, il motu proprio e il more uxorio e il modus in rebus, il fiume d’inchiostro e gli addetti ai lavori, lo sparare a zero e il mettere alla frusta e il cavalcare la tigre, il salto di qualità e quello nel buio, la presa di distanza e quella di coscienza, nonché l’anticamera del cervello e la più pallida idea… – non sarà più davvero una battaglia donchisciottesca da Bouvard e Pécuchet stilcritici, o da Karl Kraus apocalittici, bensì (a costo che rischi di apparire quale un’ossessione “celibe”) addirittura un dovere civico: lo smascheramento di un manierismo mistificatorio e regressivo che per pigrizia o complicità o cinismo di bidelli e di uscieri occulta o ricopre sotto un patchwork di “darsi carico” e “fare chiarezza” giornalese qualunque dato e fatto politico e reale10

25I giornali, i politici, i giovani, gli scrittori: tutti cospirano a creare il disagio psico-sociale all’interno del quale lo Stato si spappola come struttura al quale fare riferimento per la difesa degli interessi generali dei cittadini e lo stato ordinario diventa quello di un delirio socio-linguistico dal quale si potrà ormai uscire con grande difficoltà. Chi parla (come i politici e i giornalisti) parla per creare polverone retorico e fumo verbale; chi si domanda quale sia la verità e dove si andrà a finire riceve in risposta o un invito generico a impegnarsi o a porsi al servizio di un apparato statuale che reagisce anch’esso in modo pletorico e impreciso, come un pugile suonato che meni delle mazzate a caso ad un avversario che non vede e di cui non riesce a capire le mosse.

26Chi governa oggi in Italia? Sembra chiedersi Arbasino.

27Chi sa che cosa succede davvero nel Paese, tra complotti, attentati, morti ammazzati senza senso e un tentativo di rivoluzione abortito fin sul nascere, senza consenso palese e con tutti contro (almeno in apparenza)? Che cosa succede agli intellettuali che hanno paura (come sembravano averla Sciascia o Moravia, autore di un famoso slogan “Né con lo Stato, né con le Brigate rosse” poi ripreso anche dallo scrittore di Racalmuto)? E che cosa succede agli intellettuali (di partito) che di questo loro timore riprovano i suddetti intellettuali (come Amendola sulle colonne di “Rinascita”)?

28E perché gli scrittori, invece di rinchiudersi nei loro salotti e stanze da letto e amori e chiacchiere e pettegolezzi (gli ingredienti di ciò che fu chiamato il “riflusso”), non cercano di rendere in forma letteraria e dare respiro al clima asfittico in cui vive e respira il Paese Italia?

  • 11 A. Arbasino, In questo stato, op. cit., pp. 125-126.

Però noi siamo artisti, e non già reporters, ribattono alcuni autori. Siamo sicuri? Allora. I fatti mentre accadono sono soltanto cronaca, loro dicono, e bisogna lasciarseli alle spalle, in prospettiva, perché diventino storia e anche letteratura. Va bene, Guerra e pace. Però anche Balzac non aspettava troppo a lungo per riversare nei suoi romanzi i rapimenti e gli spari e gli affari politico-finanziari-penali del suo tempo, tutto sommato (la differenza coi film e romanzi del nostro tempo che battono l’attualità e rimescolano denunce e messaggi sta nella diversa efficacia della rappresentazione, soprattutto lì). E parecchi fra i romanzi più notevoli del nostro secolo, malgrado la poca simpatia per le smanie presenzialistiche dei loro autori, sono proprio dovuti a reporters “a caldo” come Hemingway in Spagna e Malraux in Cina; e risultano più importanti e più interessanti delle opere di artisti che hanno parlato dei loro parenti e dei loro appartamenti, senza essere una Compton-Burnett, e però né Genet né Jünger né Fenoglio si sono lasciati sfuggire “a caldo” l’occupazione tedesca della Francia e dell’Italia; e le storie di Isherwood sulla Germania di Weimar, scritte durante l’andata al potere del nazismo, con Sally Bowles e Mr. Norris, risultano innegabilmente più rilevanti dei suoi monumentini di pietà filiale alla memoria dei cari e insignificanti genitori… Ma non solo in caso di guerre o di rivoluzioni: lasciamo forse stare dei reporters mica tanto da buttar via come Capote e Mailer, ma il miglior reporter sull’Età del Jazz, Scott Fitzgerald, scrive appunto durante l’Età del Jazz, senza alcuna prospettiva né avanti né indietro, e forse anche per questo suona così autentico, molto più delle “ricostruzioni” eseguite in seguito sui ritagli dei giornali e sulla memoria collettiva; né Proust lascia passare lunghe prospettive prima di occuparsi dell’Affare Dreyfus o dei Balletti Russi (e “cavandosela”, in fondo, sia con l’uso di mondo sia con i casi Lockheed del suo tempo). Perfino i più squisiti austriaci, perfino il sublime Nabokov di Lolita e il sublime Bulgakov del Maestro e Margherita sono lì “in presa (abbastanza) diretta”11.

29Scrivere “in diretta”, allora, si rivela, per Arbasino, il desiderio di entrare nell’eletta schiera di autori che non sono stati gestiti dal loro tempo, ma il loro presente sono stati capaci di trasformarlo in scrittura e poi in modelli letterari. Nel Presente non c’è più solo la cronaca informe che va modellata in blocco marmoreo di stile ma la necessità formale dell’esercizio della critica in nome di una conoscenza della realtà che si trasforma poi in un modello letterario capace di sfidare il Passato, se non forse il Futuro.

Senza fine: sull’Italia degli anni Ottanta

  • 12 In un libro composto da interviste a diversi autori italiani contemporanei, Arbasino dirà all’autri (...)

30Da questo deriva (ipotesi ampiamente suffragata da dichiarazioni dello stesso Arbasino)12 la necessità di scrittura per frammenti e per brevi blocchi narrativi.

31Un paese senza è del 1980 (Arbasino lo ristamperà nel 1990 accompagnandolo con una lunga postilla ironicamente intitolata Dieci o vent’anni dopo).

32In esso lo scrittore di Voghera esaspera la dissoluzione del saggio lungo tradizionale e lo polverizza in una serie continua e cattivissima di frammenti di più o meno corta durata.

33Eccone un esempio relativo alla dinamica e all’impatto delle TV libere che all’epoca cominciavano già a imperversare in Italia:

  • 13 A. Arbasino, Un paese senza, Milano, Garzanti, 1990, p. 56.

Il paese reale. Vedendo i programmi televisivi più popolari e più apparentemente spregiudicati, anche quelli che sembrano presentare conflitti tra vecchio e nuovo o tra religioso e laico: che piccolo mondo antico tutto cattolico e tutto coerente, dove tutto si tiene e tutto si corrisponde. Le donne solo sante o puttane o travestiti. Gli uomini eterni bambini zozzetti turbati da problemi inutili, travolti da tormenti superflui, continuamente tremolanti fra il volere e il non potere, fra il sembrare e l’essere, fra il mi piacerebbe di notte ma poi di giorno chissà cosa si dirà di me. Ma fatta ’sta scopata, e magnato ’sto spaghetto, che mai sarà? Il programma lì muore13.

34Il panorama antropologico appare desolante, ma da questa prospettiva (il sesso come affare sporco o misterioso per i più, il degrado del corpo delle donne, la fragilità di quello maschile, ecc.) non si sposterà più: anzi, dopo il 1977, quando nascono le prime TV commerciali in Lombardia, il panorama diventerà sempre più squallido e, soprattutto, funzionale a ciò che si scoprirà solo molto più tardi: non solo affari e denaro ma anche Potere e Politica. Arbasino per ora si limita a intuire tutto questo anche se è chiaro che il gioco sta per diventare molto più pesante.

  • 14 Ibid., p. 199.

Come soluzione alternativa di ribellione e protesta contro le famiglie conformiste e borghesi: andare con sacchi a pelo e spinelli a vedere Via col vento, Le quattro piume, Pane amore e fantasia, Scarpette rosse, Casa Ricordi, esclamando “eccezionale”. Tanti anni fa si andava col papà e con la mamma e con le zie al cinema “Roma” a vedere Via col vento, Le quattro piume, Pane amore e fantasia, Scarpette rosse, Casa Ricordi, con le caramelle e dicendo magari “che palle”14.

35Il paradosso è solo apparente: l’epoca dell’alternatività forzata e considerata quale pratica rivoluzionaria apre al recupero di ciò che sembrava essere stato accantonato nello sgabuzzino della casa di campagna o accantonato nella “pattumiera della Storia”. Quindi ciò che destava noia o sbadigli solo dieci o vent’anni prima diventa, per forza di cose e di conformismo generalizzato, qualcosa da recuperare e, se possibile, venerare come simbolo di un passato di gran lunga migliore del presente. Ancora Arbasino:

  • 15 Ibid., p. 182.

Del resto – signori, si chiude – stanno chiudendosi adesso non solo gli Anni Settanta, ma dieci / undici / dodici anni di Creatività, non soltanto letteraria, per una generazione che ha avuto più chances di qualunque generazione passata: cultura e contro-cultura, informazione e contro-informazione, il tutto a buon mercato, e il Nulla a carissimo prezzo. Il revival di Travolta e di Edith Piaf non si sa ancora se avverrà prima o dopo quello di Frankie Avalon o di Moustaki. Intanto che cosa elencano per ora i cataloghi decennali, gli inventari, i bilanci, i consuntivi, le liste, le ipotesi di repêchage e di reprint, non solo in fatto di letteratura, ma di arte, di spettacolo, di cinema, di musica, di critica culturale, di “pensiero” originale? Quale sarà il giudizio della storia intellettuale, fra dieci anni o fra uno? Che cosa si consegna e si trasmette alla generazione dell’Ottanta, da recapitare e rimettere a quella del Novecento?15

  • 16 Si veda L. Colletti, Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 1986.

36Una buona domanda, questa. Gli anni Settanta con la loro esplosione di una creatività forse un po’ troppo forsennata nei modi e negli stili di pensiero ma sorretti, pêle-mêle, da una forte tensione morale verso una trasformazione che ancora si credeva possibile, naufraga negli Ottanta in una sorta di rovinio ideologicamente neutro ma politicamente e socialmente assai retrivo. Il giudizio della storia intellettuale richiesto da Arbasino sarà rovinoso così come rovinoso sarà il giudizio politico. Ma, limitandosi al piano del costume, saranno gli anni del rampantismo e del riflusso, della crisi della militanza e dell’arricchimento sfrenato, della teorizzazione della morte dell’ideologia (o del suo tramonto16 – come voleva Lucio Colletti, tipico intellettuale italiano di quegli anni, approdato dall’ultra-sinistra e dalla critica “da sinistra” della Scuola di Francoforte e dell’irrazionalismo a suo dire in esso trionfante alla tradizione populistico-liberale di Forza Italia), della fine dell’illusione nella trasformazione (sia pure graduale) dell’Italia mediata dalle “riforme di struttura” dell’economia e della società. Il passaggio che avviene, allora, è tra una generazione che aveva creduto, tutto sommato, nella possibilità del cambiamento ad una che del cambiamento non sa che farsene dato che lasciare le cose come stanno potrebbe convenire a tutti (meno, ovviamente, a chi ne paga il prezzo e le conseguenze).

  • 17 A. Arbasino, Un paese senza, op. cit., p. 475.

I deliri italiani prossimi deriveranno soprattutto (nella nostra Storia è già capitato) dalle invasioni del Paese, e dai conflitti che hanno più volte provocato anche fra i cittadini?… E un sicuro test per dimostrare il proprio civilissimo antirazzismo potrebbe essere il darsi (come partito, gruppo, confessione, giornale, società, ufficio, parrocchia, congresso, club, lista elettorale, beni culturali, Usl, sindacato, ecc.) un management extracomunitario tutto o in parte giapponese? Buon viaggio negli Anni Novanta. Speriamo di aver fatto opera utile per capire meglio – attraverso alcune sue demenze – l’Italia17.

37Con questa dichiarazione paradossale e parossistica, Arbasino non sapeva forse quanto fosse arrivato vicino al vero e quanto fosse prossimo a sfondare una porta aperta. Il discrimine tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta sarà caratterizzato, infatti, da passaggi politici (caduta del Muro di Berlino, ondate in arrivo di extracomunitari provenienti dall’Est dell’Europa e dal Sud del mondo, disoccupazione legata a processi economici non più controllabili su base nazionale) che porteranno a deliri ben più incontrollabili di quelli liberati alla fine degli anni Settanta e all’inizio del nuovo decennio. Ciò che era accaduto allora sembrerà ad occhi avvertiti e capaci di cogliere le differenze fondamentali intervenute negli eventi storici più recenti assai più gestibile del caos del presente.

38Ma probabilmente questa è una costante: va a finire sempre così quando il passato appare “calettato” – per usare una metafora cara al Musil di L’uomo senza qualità – e comprensibile e ciò che appare di fronte allo spettatore spaurito e sgomento è invece il magma dell’indistinzione e della mancanza di senso compiuto dell’evento non-storicizzato.

La metafora del rinvio come continuità storica

39E per ritornare al presente, alla fine di questa rievocazione sia pur cursoria e “facilitata” del percorso di Arbasino critico della vita quotidiana e culturale italiana: La vita bassa, analizzato alla luce di questa linea ricostruttiva, è un libro di moralità esacerbate e spesso sapientemente virulente, alimentate però dall’acido corrosivo e dalla capacità agonistica di una volontà satirica che non l’abbandona fino alla fine. Il libro vuole essere descrizione attenta (anche se ironica e disincantata) dei “segni dei tempi”:

  • 18 A. Arbasino, La vita bassa, op. cit., pp. 26-27.

E “la vita bassa”, da noi, non diventerà una Metafora illuminante e dirigibile, nella pubblicistica ‘easy’, satura e beata di cose che sono sempre metafore di altre cose? Non solo il mercato e i mercatini, anche gli scarichi paiono ormai ingorgati eppure insaziabili di metafore del nostro tempo, del nostro paese, della nostra condizione, dell’esistenza umana, di Dio, dell’ermeneutica, di tutto. Anche metafore di metafore, metafore polivalenti? Moratoria sulla metafora, urge? Sennò, bufera sulla bufala, mozzarelle mozzafiato, riflettori accesi su Roma nun dà la bufala stasera? E se “la vita bassa”, per i prossimi Lévi-Strauss e Mauss e Bataille e Leiris e Caillois (in un aggiornato Musée de l’Homme con foto in bianco e nero di ‘indigeni’ autentici con addomi e glutei ridondanti odierni esibiti di fronte e profilo), diventasse un Segno antropo- ed etnometodo-logico strutturale e culturale di tutto un Inconscio o Conscio tribale ed elettorale non solo giovanile e sgargiante, come i totem e tabù e le penne e gonnelle e facce dipinte dei più rinomati aborigeni? “Funzione segnica” un pochino ruffiana o equivoca?... Feticcio peraltro pochissimo studiato, per ora, nonostante la prensilità così ‘easy’ e ‘quick’ degli apparati mediatici specializzati18.

40La “vita bassa” è, in effetti, sia la moda di andare in giro con i pantaloni allacciati al di sotto dell’ombelico (usanza molto in voga soprattutto tra le fanciulle tra i tredici e i diciotto anni) sia la dimensione ormai degradata della vita pubblica e culturale italiana.

41Trasformare tutto in metafora di qualcosa che non si vede o non si conosce compiutamente e, quindi, rimbalzare il senso di essa su qualche altra cosa altrettanto sconosciuta rappresenta ormai soltanto il rimedio a ciò che forse non si può più cambiare. Rimandare i problemi rinviandoli ad altri o leggendoli come altro diventa il miglior sistema per non affrontarli.

42Arbasino non risparmia sarcasmi agli intellettuali di ieri (alla silenziosa fronda degli Ermetici fiorentini alle “Giubbe Rosse”, ad es., o a quei personaggi della scena letteraria degli anni Trenta – Malaparte, Montanelli, Prezzolini, Longanesi, con i distinguo del caso – poi riciclatisi con qualche clamore all’alba del dopoguerra) o a quelli di oggi nella consapevolezza che per essi varrà sempre il “Viva Franza, viva Spagna, purché se magna” di cui già riferiva poco compiacentemente il Gramsci dei Quaderni del carcere.

43Per questo motivo, è il costume tipico italiota, in realtà, a essere nel mirino di una critica che non si nasconde le difficoltà di andare a bersaglio, data la pervicacia dei difetti da sconfiggere o da sormontare. Le pagine e le riflessioni sul malvezzo italiano di usare termini stranieri oscuri o inadatti per indicare organi di governo o forme di rappresentanza politica e amministrativa (da ‘governance’ a ‘welfare’ a ‘privacy’) sono emblematiche al proposito come pure quelle sull’“Inno di Mameli”, la cui arcaicità linguistica si allea e ben si sposa con la riluttanza a cantarlo da parte di non pochi politici e calciatori.

44Ma il pezzo forte di questo libro non è tanto la critica spietata alla “vita bassa” del presente quanto la rievocazione del passato vissuto in prima persona da Arbasino stesso.

45Tutta la seconda parte del libro è dedicata alla rievocazione di “incontri con uomini importanti” fatti dall’autore quarant’anni prima (molti di essi erano già apparsi in parte in Sessanta posizioni, Milano, Feltrinelli, 1971, un libro in cui venivano chiamati in causa i maggiori esponenti della cultura europea degli anni Cinquanta e Sessanta). È in questo modo che allora il cerchio si chiude.

46L’Arbasino degli anni Sessanta e Settanta si ritrova a polemizzare con lo stesso piglio e la stessa ferocia dell’Arbasino di oggi.

47Negli anni Ottanta il passaggio era stato soprattutto un fatto di scelte stilistiche e formali che però alludevano a questioni di rilevante sostanza – l’Arbasino sperimentale aveva passato la mano a quello “civile” per il quale la ricostruzione dei fatti narrati non era mai disgiunta dall’indignazione civile per gli eventi rappresentati e per le responsabilità che essi comportavano. Gli Anni Novanta avrebbero poi mostrato un volto ben diverso e tutta un’altra storia da raccontare (sulla quale, però, varrà la pena di soffermarsi un’altra volta).

Haut de page

Notes

1 A. Arbasino, La vita bassa, Milano, Adelphi, 2008, pp. 102-103. Per un profilo aggiornato dell’opera di Arbasino fino a La vita bassa, mi permetto di rimandare al mio “profilo d’autore” Alberto Arbasino, Firenze, Cadmo, 2004 (che sfiora Marescialle e libertini, Milano, Adelphi, 2004, un libro sull’opera lirica e la musica sinfonica – uno dei temi più cari all’Arbasino saggista – e non comprende l’analisi di La vita bassa).

2 Il richiamo (forse scontato) è a un celebre saggio di I. Calvino intitolato “Il mare dell’oggettività” (uscito sul n. 2 di “Il Menabò di letteratura”, diretto da I. Calvino ed E. Vittorini e pubblicato da Einaudi e poi raccolto in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, con una Presentazione dell’autore, Torino, Einaudi, 1980, poi ristampato presso Mondadori di Milano nel 1995, pp. 47-54). In esso, Calvino faceva delle affermazioni risultate poi profetiche: «La perdita dell’io, la calata nel mare dell’oggettività indifferenziata, fu proprio allora, vent’anni fa, sperimentata per la prima volta, da Sartre, nella Nausée, ma era una discesa agli inferi, Il protagonista vedeva a poco a poco svanire la distinzione tra sé e il mondo esterno, la sua faccia allo specchio diventare cosa, e un’unica viscosità coinvolgere l’io e gli oggetti. Ma questa rappresentazione già completa del processo è compiuta da Sartre restando al di qua, dal punto di vista della coscienza, della scelta, della libertà. Oggi si è dato il giro: il punto di vista è quello del magma.» (pp. 48-49)

3 Per Leopardi è sempre importante ricordare l’aspra e sovente lucidamente rancorosa lettura del costume nazionale italico presente nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (scritto nel 1824 ma pubblicato solo nel 1906). Ne esiste un’edizione a cura di F. Ferrucci (Nuovo discorso sugli Italiani con il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori, 1993) in cui il curatore, nel commentare il testo leopardiano e aggiornarlo al presente, riprende molti dei suggerimenti critici cari ad Arbasino. Si legga, ad es., a pp. 66-67: «L’italiano manifesta così la sua vocazione recitativa e il suo sentirsi a casa entro uno scenario prefissato che assomiglia talvolta a un tinello e talvolta a un caffè coi tavolini all’aperto. L’italiano è sempre felice di recitare se stesso, perché quello è il suo momento di sincerità. Il risultato che viene raggiunto non è a dire il vero consolante; poiché, assieme al calcio, e con la stessa efficacia, la religione televisiva distrugge sottilmente ogni stima di sé – e questo incontra il bisogno di espiazione che da un pezzo accompagna gli italiani. Il vuoto che si apre dentro rassicura sulla bontà della cura. Cosicché l’italiano ha inventato l’arte di punirsi attraverso il divertimento: una delle più sperimentate e infallibili ricette di espiazione che si possano reperire. Le ideologie parallele del calcio e della televisione ne offrono una palese applicazione: la guerriglia che esplode alla fine delle partite ha un equivalente nella silenziosa strage che prende vita ogni sera nei salotti delle case. Davanti a questo siamo praticamente impotenti.» Questa annotazione di Ferrucci ricordano molto da vicino le polemiche arbasiniane sulla noia a teatro (e il rigetto anti-ideologico delle operazioni drammaturgiche di Strehler effettuate nelle sue messinscene di opere di Bertolt Brecht) presenti in Grazie per le magnifiche rose, un libro-monstre del 1965 edito da Feltrinelli di Milano. Su Leopardi critico dell’ “italianità” di sempre, dei suoi vezzi e dei suoi “fondamenti mancati” dal punto di vista dell’agire sociale, si tenga presente il buon saggio di M. Biscuso e F. Gallo, Leopardi materialista antiitaliano, Roma, Manifestolibri, 1999.

4 Di Gramsci è assai vibrante la disamina delle forme di comportamento politico e sociale degli italiani (sia in sede storica che antropologica) presenti in molte sezioni dei Quaderni del carcere. Si pensi all’analisi del “machiavellismo degli Stenterelli”: «Stenterello è molto più furbo di Machiavelli. Quando Stenterello aderisce a una iniziativa politica, vuol far sapere a tutti di essere molto furbo e che a lui nessuno gliela fa, neanche se stesso. Egli aderisce all’iniziativa, perché è furbo, ma è ancor più furbo perché sa di esserlo e vuol farlo sapere a tutti. Perciò egli spiegherà a tutti che cosa significa “esattamente” l’iniziativa alla quale ha aderito: si tratta, manco a dirlo, di una macchina ben montata, ben congegnata e la sua maggiore astuzia consiste nel fatto che è stata preparata nella persuasione che tutti siano degli imbecilli e si lasceranno intrappolare. Appunto: Stenterello vuol far sapere che non è che lui si lasci intrappolare, lui così furbo; l’accetta perché intrappolerà gli altri, non lui. E siccome fra gli altri qualche furbo c’è, Stenterello a questo ammicca e spiega, e analizza: “Sono dei vostri, veh!, noi ci intendiamo. Badate di non credere che io creda… Si tratta di una “machiavellica”, siamo intesi?”. E Stenterello così passa per essere il più furbo dei furbi, il più intelligente degli intelligenti, l’erede diretto, e senza cautela d’inventario, della tradizione di Machiavelli. Altro aspetto della questione: quando si fa la proposta di una iniziativa politica, Stenterello non si cura di vedere l’importanza della proposta, per accettarla e lavorare a divulgarla, difenderla, sostenerla. Stenterello crede che la sua missione è quella di essere la Vestale del sacro fuoco. Riconosce che l’iniziativa non è contro le sacre tavole e così crede di aver esaurito la sua parte. Egli sa che siamo circondati di traditori, di deviatori, e sta col fucile spianato per difendere l’altare e il focolare. Applaude e spara e così ha fatto la storia bevendoci sopra un mezzo litro.» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. II, Quaderni 6 (VIII) - 11 (XVIII), pp. 1111-1112) E le valutazioni sugli intellettuali italiani del dopoguerra: «In questo fenomeno caratteristico italiano sono da distinguere vari aspetti: 1) il fatto che gli intellettuali sono disgregati, senza gerarchia, senza un centro di unificazione e centralizzazione ideologica e intellettuale, ciò che è risultato di una scarsa omogeneità, compattezza e “nazionalità” della classe dirigente; 2) il fatto che queste discussioni sono, in realtà, la prospettiva e il fondamento storico di programmi politici impliciti, che rimangono impliciti, retorici, perché l’analisi del passato non è fatta obbiettivamente, ma secondo pregiudizi letterari o di nazionalismo letterario.» (Id. , Quaderni del carcere, op. cit., vol. III, Quaderni 12 (XIX) - 29 (XXI), p. 1704.)

5 A. Arbasino, Fantasmi italiani, Roma, Cooperativa Scrittori, 1977, p. 7.

6 Ibid., pp. 11-12.

7 Anche se in un tale contesto ormai suranné e scarsamente condivisibile, fanno eccezione, ad es., le ancora interessanti analisi che si possono ritrovare in un libro troppo poco considerato come quello di P. Turiello, Governo e governati in Italia (l’ultima edizione è quella, pur ridotta drasticamente, a cura di Piero Bevilacqua, stampata a Torino da Einaudi nel 1980).

8 A. Arbasino, Fantasmi italiani, op. cit., pp. 38-39.

9 A. Arbasino, In questo stato, Milano, Garzanti, 1978, pp. 6-7. È trasparente ma efficace il gioco di parole che sostituisce Stato a stato con una locuzione che evidenzia e indirizza verso una situazione di indigenza storica e morale. Germania in autunno (Deutschland in Herbst, 1978) è un film collettivo diretto da Alf Brustellin, Hans Peter Cloos, Rainer Werner Fassbinder, Alexander Kluge, Beate Mainka-Jellinghaus, Maximiliane Mainka, Edgar Reitz, Katja Rupé, Volker Schlöndorff, Bernhard Schinkel e Peter Schubert, con la collaborazione alla sceneggiatura di autori come Heinrich Böll e autoprodotto. Il suo obiettivo era quello di descrivere le reazioni private e pubbliche di molti tedeschi, intellettuali o meno, di fronte alla morte (avvenuta il 18 ottobre 1977, mai chiarita completamente e fatta passare per suicidio) dei componenti la prima generazione dei terroristi della Rote Armee Fraktion detenuti nel carcere di Stammheim

10 A. Arbasino, In questo stato, op. cit., p. 28. Su questo libro fondamentale nella produzione letteraria di Arbasino, buoni spunti sono presenti sia nell’ottimo Invito alla lettura di Arbasino di E. Bolla, Milano, Mursia, 1979 che nel Castoro (è il n. 167) di M. E. Vecchi, Alberto Arbasino, Firenze, La Nuova Italia, 1980. Elisabetta Bolla rileva come: «Analizzando le reazioni del paese alla vicenda Moro, Arbasino ne deriva una conferma in più dell’opinione, già espressa, che la crisi in cui ci troviamo non è tanto un fatto economico quanto un disturbo mentale. Ne è riprova la facilità con cui questo caso clamoroso, che non trova riscontro storico immediato se non in una mitica “cattura del sovrano”, sia riuscito a stravolgere tutto il paese, mostrando come sia labile il nostro equilibrio fra “tenuta” e “sfascio”, fra “crescita” e “regresso”.» (E. Bolla, Invito alla lettura di Arbasino, op. cit., pp. 137-138.) La Vecchi, invece, insiste sull’effetto di rimozione del caso Moro nell’ambito dell’opinione pubblica: «È, di nuovo, il rifiuto della realtà che si manifesta ad ogni piè sospinto, soprattutto negli scrittori, impegnatissimi a riscaldare eternamente le proprie minestre invece di affacciarsi al balcone per vedere quello che succede in piazza. I giovani non sono da meno, si guardino le lettere scritte a “Lotta Continua”, “allineate senza commento come reperti di tormenti e di strazi remoti, rispecchiando con impassibilità e registrando con eclettismo le nuances di una condizione giovanile perduta in tutte le sue illusioni e contraddizioni e delusioni e ‘pallosità’ e ‘scazzi’” (p. 138). E non sono meglio quelle scritte da Moro (ce n’è un collage alla fine), terribilmente “piccine”: stizze, ripicche, la famiglia offesa… ben altro nerbo rivelano quelle di Maria Antonietta sulla soglia del patibolo. // Pare proprio che Arbasino suggerisca, in questo Stato e in questo stato, di lasciar perdere ogni implicazione con la sfera del self per entrare a viva forza negli eventi. Ma, e qui ogni chiarimento sarebbe il benvenuto, se la letteratura non può farsi banditrice di alcuna causa, o questa non è una causa o non è letteratura. Forse non è più tempo di inventare delle storie, di scrivere dei romanzi; la struttura formale più adatta a sostenere un’operazione mimetica sul paese del bla-bla sembra essere la performance corale che riproduce innanzitutto parole, parole e parole, che “monta” reperti, che fornisce riferimenti storici, rinvii culturali, analogie, conversazioni, luoghi comuni, cioè, come sempre, tutto.» (M. E. Vecchi, Alberto Arbasino, op. cit., pp. 88-89.)

11 A. Arbasino, In questo stato, op. cit., pp. 125-126.

12 In un libro composto da interviste a diversi autori italiani contemporanei, Arbasino dirà all’autrice dei dialoghi da cui il volumetto risulta composto: «Perché i frammenti? Perché la forma dei frammenti, che di solito viene abbastanza sdegnata come minore nella nostra produzione saggistica pomposa e a tutto tondo, è la forma preferita di Nietzsche, di Adorno, di Benjamin, di Karl Kraus e di Enzensberger (nonché del dimenticato Gramsci) – quindi, chapeau bas !, usiamo il frammento e cerchiamo casomai di giustapporre i frammenti in modo che vi siano dei fili tematici a legarli per così, o per cosà, per cui non sarà necessario leggerlo tutto. Si fanno dei percorsi. Un libro di frammenti non si deve leggere dall’inizio alla fine, si legge in tutte le direzioni, basta che ci siano alcuni fili tematici che legano i frammenti dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio. Come poi è successo per Un paese senza, che è stato fatto più o meno con gli stessi criteri e che invece è un libro un po’ troppo lungo, perché quando si fanno libri a caldo si tende a non essere abbastanza selettivi, ci si mette dentro un po’ troppa roba; poi lo si riapre e si dice: “Ah, questo non ci voleva!, sarebbe venuto meglio, sarebbe venuto più agile, questa roba è un di più”. Però nel libro a caldo in quel momento non lo si vede. Occorre che passi qualche settimana, per rileggerlo… Ma l’idea era appunto di usare una forma come il frammento che, anche secondo i nomi che ho fatto, e aggiungiamo l’obbligatorio Lichtenberg, è tra le più illustri.» (G. Pulce, Lettura d’autore. Conversazioni di critica e letteratura con Giorgio Manganelli, Pietro Citati e Alberto Arbasino, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 185-186.)

13 A. Arbasino, Un paese senza, Milano, Garzanti, 1990, p. 56.

14 Ibid., p. 199.

15 Ibid., p. 182.

16 Si veda L. Colletti, Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 1986.

17 A. Arbasino, Un paese senza, op. cit., p. 475.

18 A. Arbasino, La vita bassa, op. cit., pp. 26-27.

Haut de page

Pour citer cet article

Référence papier

Giuseppe Panella, « Alberto Arbasino e la “vita bassa”. Indagine sull’italia degli anni Ottanta in cinque mosse »Cahiers d’études italiennes, 14 | 2012, 183-199.

Référence électronique

Giuseppe Panella, « Alberto Arbasino e la “vita bassa”. Indagine sull’italia degli anni Ottanta in cinque mosse »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 14 | 2012, mis en ligne le 15 septembre 2013, consulté le 09 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/489 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.489

Haut de page

Auteur

Giuseppe Panella

Scuola normale di Pisa

Articles du même auteur

Haut de page

Droits d’auteur

Le texte et les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés), sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.

Haut de page
Rechercher dans OpenEdition Search

Vous allez être redirigé vers OpenEdition Search