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Cambiamento sociale e attivismo giovanile nell’italia degli anni Ottanta: il caso dei centri sociali occupati e autogestiti

Changement social et activisme des jeunes dans l’Italie des années quatre-vingt : le cas des centres sociaux occupés et autogérés
Social change and youth activism in the eighties: the squatted social centres
Beppe De Sario
p. 117-138

Résumés

L’historiographie contemporaine en Italie s’est longtemps arrêtée sur le passage entre les années soixante-dix et les années quatre-vingt : elle a ainsi, dans un certain sens, mis sur cette période de transition tous les nœuds irrésolus de l’Italie républicaine (de la modernisation des années soixante jusqu’aux mouvements sociaux des décennies successives).
Cet article développe une révision critique de certains points de vue critiques à ce propos. Et cela en tant que préambule pour aborder l’étude de phénomènes politiques et culturels nouveaux (industrie du livre indépendante, autoproductions musicales, occupations de centres sociaux autogérés et activisme juvénile), en identifiant les liens de telles expériences avec les traditions des mouvements précédents et les échanges avec les scènes activistes internationales contemporaines, mais aussi les rapports locaux avec la politique institutionnelle et le marché culturel.

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Texte intégral

Domande e chiavi di accesso agli anni Ottanta

  • 1 Per le interpretazioni generali: G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Otta (...)
  • 2 E. Galli Della Loggia, L’identità italiana, Bologna, il Mulino, 1998.

1Gli anni Ottanta italiani si sono prestati a lungo a rappresentazioni divaricanti, suscitate anche in storiografia da pressioni dell’attualità e da raffronti con le fratture e le impasse del passato recente della società italiana e dell’evoluzione istituzionale seguita alla crisi del 1992-19941. D’altra parte, è indubbio che gli anni Ottanta come matrice del presente siano ancora fortemente presenti nel panorama sociale e nella nostra esperienza quotidiana: nelle degenerazioni del sistema politico che osserviamo, nei mutamenti dei costumi e dei consumi, negli strumenti e nelle risorse della comunicazione e della produzione culturale, nelle forme del lavoro e del sistema produttivo, nelle esperienze di partecipazione sociale extra-istituzionale e nella società civile organizzata, fino alla rottura di – discutibili – caratteri culturali di base dell’attuale società italiana che non riuscirebbe ad allontanarsi da familismo, nepotismo, clientelismo e corruzione2 in favore di uno spirito civico repubblicano e democratico. Anche a partire da questa cornice storica e discorsiva risulta la complessità di un avvicinamento storiografico agli anni Ottanta; e ciò fondamentalmente per la molteplicità di filtri che l’esperienza, la memoria e la soggettività frappongono alla ricerca storica; senza contare la necessità di fare i conti con i ricorrenti tentativi di uscita dalla – o regressione nella – transizione italiana tra prima e seconda repubblica che in misura diversa hanno coinvolto intellettuali e studiosi, e tra di essi anche gli storici e le storiche.

  • 3 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell'Italia attuale, Roma, Donzelli, 2009, p. (...)
  • 4 Si veda il volume di S. Woolf (a cura di), L’Italia repubblicana vista da fuori (1945-2000), Bologn (...)

2Per accostarsi alla storia degli anni Ottanta si pone un primo esercizio propedeutico: di banalizzazione e complessificazione, al tempo stesso. Un’opzione nuova, quindi, risulterebbe quella di considerare più a fondo l’ovvia novità che gli anni Ottanta inaugurarono rispetto al tempo precedente, e insieme la capacità di divenire un dispositivo chiamato a riformulare, tradurre e recuperare elementi tratti dai suoi passati e da scenari differenti. È vero infatti, ad esempio, che alcune radici degli anni Settanta e Ottanta vanno ricercate nei caratteri profondi del “miracolo economico” e nelle ambivalenze della modernizzazione degli anni Sessanta, le quali devono essere lette non nonostante ma piuttosto in relazione a «contemporanei [agli anni Sessanta] processi di incubazione di fasi e climi così differenti»3 sviluppati poi nei due decenni successivi. D’altra parte, nell’accostarsi agli anni Ottanta la sola fissazione sui caratteri della modernizzazione italiana può essere insufficiente, o fuorviante. Difatti, valutando la crisi italiana tra anni Settanta e Ottanta sono stati anche evidenziati vincoli di vario genere relativi ai nodi critici del sistema politico repubblicano e al suo rapporto con la società: la mancanza di una rivoluzione democratica negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, il bipartitismo “bloccato” fondato su PCI e DC, il clientelismo e la corruzione, l’immobilismo del PCI in diverse fasi decisive, e per un altro verso la varietà dei comportamenti sociali proprio entro una modernizzazione degli anni Sessanta segnata dall’affermarsi dell’individualismo ma anche da nuove esperienze politiche e sociali, attraverso la mobilità sociale e geografica (con le migrazioni interne, dal sud al nord industriale) e la partecipazione collettiva4.

  • 5 Soprattutto nella pubblicistica di stampo giornalistico, anche di buona qualità; un caso recente, P (...)
  • 6 G. De Cataldo, Romanzo criminale, Torino, Einaudi, 2002; G. Genna, Dies irae, Milano, Rizzoli, 2006 (...)
  • 7 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Venezia, Marsilio, 2010.
  • 8 U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, B (...)
  • 9 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, op. cit., pp. 13-14.
  • 10 S. Hall, «The Meaning of New Times», in S. Hall e M. Jacques (a cura di), New Times, London, Lawren (...)

3È vero tuttavia che permangono rappresentazioni assai nette, a proposito del passaggio tra anni Settanta e anni Ottanta5. Diversi scrittori – da Giancarlo de Cataldo a Giuseppe Genna e al collettivo Wu Ming – hanno fatto ampiamente uso di narrazioni del genere6, impregnate dalla rappresentazione di un tempo in mutazione: dai valori collettivi a una specifica via italiana all’individualizzazione della società, in qualche modo opaca e degenere; e in fondo hanno immerso l’immaginazione letteraria in un immaginario sociale già largamente orientato da queste proiezioni ideali. Suggestioni analoghe affiorano anche in storiografia, se è vero che pur procedendo dall’intenzione di superare sia la damnatio memoriae sia l’apologia malinconica di una nuova modernizzazione mancata, anche studi recenti7 sugli anni Ottanta tendono a definire un panorama concettuale e interpretativo decisamente binario e dicotomico, per quanto lo facciano in modo non convenzionale. Se pure vi si propone – per la storiografia – il superamento del conflitto tra “apocalittici” e “integrati”, riportato nel dibattito coevo dalla popolarizzazione delle riflessioni di Umberto Eco sugli atteggiamenti sociali nei confronti del mutamento degli anni Sessanta8, ciò avviene a favore di una visione non meno rigida della trasformazione in atto, sintetizzabile in uno scenario nel quale si sarebbero imposti processi socio-culturali radicalmente nuovi (l’esplosione dei ceti medi, la rivoluzione delle comunicazioni di massa, dei consumi, dei valori “postmaterialistici”, l’affermazione internazionale della politica neoliberista thatcheriana e reaganiana) ma è forte la sensazione che per tale punto di vista ciò sia avvenuto senza alcuna mediazione, e certamente con scarsa consapevolezza degli attori sociali, specie nella sinistra istituzionale e in generale tra i partiti di massa. L’effetto è quindi disorientante e squilibrato: da una parte, ad esempio, si sostiene l’affermazione di un “uomo nuovo” che sarebbe emerso dalla crisi dei corpi sociali intermedi e in rottura con il sistema sociale e politico precedente, per definire la quale è chiamata in causa la contemporanea letteratura sociologica e filosofica, da Lyotard a Castells e Beck. Dall’altra, l’affermazione dell’ethos individualistico, che pure sembra una rottura epocale, viene associata correttamente a un contesto nazionale italiano nel quale la nozione liberale di individuo – e le sue istituzioni – non è mai coincisa con un vasto progetto civile e istituzionale9. In sostanza, è così tratteggiato un panorama di radicali e suggestive novità, specie oltre il confine nazionale, ma è presupposta l’assenza di mediazioni profonde agite da soggetti specifici, risorse della tradizione o della società civile capaci di tradurre e portare i “tempi nuovi”10, pur con le loro ambivalenze, a coordinate attingibili dalla società italiana in mutamento.

4Questo atteggiamento conduce a un’enfasi pessimistica sul rapporto tra mutamento sociale e sistema politico, nonché sulla frattura tra “cittadini” e “partiti”:

  • 11 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, op. cit., p. 15.

più forte, da noi, si accese il contrasto tra i cittadini che accettarono l’accelerazione del tempo storico di volta in volta con entusiasmo, con realismo o con rassegnazione, e al contrario i grandi partiti politici di integrazione di massa, che fecero di tutto per frenare o perlomeno per rallentare la corsa, con il risultato di restare per tanti versi estranei al mutamento11.

  • 12 Che non si può limitare al contesto degli anni Settanta e Ottanta, e al mancato riconoscimento e so (...)
  • 13 E. Laclau e C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, Lond (...)

5Un mutamento che viene rappresentato in questa citazione, perlopiù, senza il protagonismo dei soggetti collettivi, riassunti nel ruolo – mancato – avuto dai partiti politici. Va considerato, tuttavia, che sebbene si debba ammettere questa dissociazione tra bisogni e ambizioni dei soggetti e sistema politico12, resta ancora inadeguato lo strumentario concettuale per leggerne correttamente i rapporti, al di là della semplice rappresentazione di una incomprensione storica mai più sanata. Laddove questi rapporti si dissolvono, quindi, occorre cercarne di nuovi, di diversa natura, e con altri occhi. Potrebbe pertanto risultare utile accostarsi a una concezione “agonistica” della democrazia in società complesse13, laddove non appaiono solamente sfide antagoniste tra soggetti ben definiti in reciproca opposizione (come nella rappresentazione dei conflitti sociali degli anni Settanta) né un puro gioco di governance tra attori di pari grado all’interno del medesimo ordine egemonico (come vorrebbero il neoliberalismo o la sinistra della “terza via”, che intendono per strade diverse neutralizzare lo scenario antagonista), ma invece conflitti asimmetrici nei quali le tendenze escluse o subalterne, eppure ugualmente emergenti, puntano piuttosto a riattivare le possibilità sopite dall’ordine egemonico:

  • 14 C. Mouffe, On the Political, London-New York, Routledge, 2005, p. 18.

every hegemonic order is susceptible of being challenged by counter-hegemonic practices, i.e. practices which will attempt to disarticulate the existing order so as to install another form of hegemony14.

Il lungo ’68 e gli anni Settanta: radici o spettri del decennio successivo?

  • 15 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, op. cit., pp. 139-140.
  • 16 J. Foot, Milan since the Miracle. City Culture and Identity, Oxford-New York, Berg, 2001.
  • 17 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, op. cit., in particolare cap. IV.

6La lettura generale degli anni Ottanta dovrebbe accostarsi, per maggiore completezza, alla domanda sul ruolo da attribuire ai movimenti sociali e politici degli anni Settanta. Questa relazione è letta in maniera differente e composita dalle interpretazioni storiografiche che hanno segnalato proprio i movimenti dei Settanta sia come risorse positive sia come radici delle impasse successive: tra l’affermarsi di «culture particolaristiche»15 e un predominio debole esercitato dalla politica istituzionale, incapace di integrare l’emergente domanda sociale e guidare il passaggio da un decennio all’altro16. Ciò, tuttavia, si sarebbe sviluppato accanto a un protagonismo autonomo dei «ceti medi riflessivi» e della società civile organizzata17 il cui ruolo sarebbe stato decisivo nella decodifica – certo parziale, e socialmente non egemone – del cambiamento in atto.

  • 18 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, op. cit., p. 59 sgg.
  • 19 S. Hall, «The crisis of labourism», in J. Curran (a cura di), The Future of the Left, Cambridge, Po (...)
  • 20 P. Capuzzo, «New times? Soggettività e percorsi di politicizzazione nell’Inghilterra thatcheriana», (...)
  • 21 È l’elemento di trasgressione intrinseca ai sistemi di potere, che in epoca postmoderna si manifest (...)

7A proposito, invece, delle interpretazioni conservatrici più popolari degli effetti sociali del ’68 e degli anni Settanta, un’accusa è quella di aver portato a una sorta di relativismo culturale, che avrebbe destabilizzato i valori e le identità tradizionali dell’occidente. Di conseguenza, l’urgenza di ritrovare un nuovo equilibrio del panorama sociale si sarebbe tradotta nella richiesta di ordine, da una parte, e allo stesso tempo di maggiore libertà individuale, accesso ai consumi, sottrazione ai controlli e alla regolazione statale, dall’altra. Questa ipotesi pare avvicinare le letture della destra neoliberale europea a quelle di alcuni storici italiani18, negli anni più recenti. A un’osservazione approfondita, tuttavia, si tratta di caratteri poco conciliabili tra loro, tenuti assieme a posteriori solo dall’ideologia neoliberale nella vulgata prodotta dalla reazione alle culture libertarie del ’68. Vi appare inoltre un palese paradosso, evidenziato da diversi critici del primo neoliberismo reaganiano e thatcheriano19, che hanno osservato la convergenza, nella nuova agenda ideologica, di elementi di tradizionalismo conservatore coniugati con un loro uso strategico altamente disgregante nei confronti degli stessi valori della “common culture”. Non per caso l’agenda neoliberale – in questo caso, britannica – è stata fin da principio eclettica, essa stessa relativista, e ha condotto a una dissoluzione dei legami sociali tradizionali del dopoguerra, fondamentalmente intrecciati alle culture del movimento operaio e al welfare state20. Nella sostanza, l’irruzione della «jouissance»21 individualistica in un sistema di governo del sociale che trasgredisce costantemente se stesso – ad esempio nella forma del populismo o del nazionalismo, ammiccanti tanto alla tradizione e alla comunità quanto all’edonismo e all’individualismo acquisitivo – ha condotto a depotenziare il conflitto sociale incentrato sullo status e sulle risorse, contribuendo proprio per questa via alla dissoluzione di ogni principio di autorità, che lo stesso neoliberismo conservatore – ufficialmente – paventava.

  • 22 G. McKay, Senseless Acts of Beauty. Cultures of Resistance since the Sixties, London-New York, Vers (...)
  • 23 C. Cooper, Sound Clash. Jamaican Dancehall Culture at Large, London, Palgrave Macmillan, 2004; H. C (...)
  • 24 D. Hebdige, Subculture. The Meaning of Style, London, Methuen, 1979.

8Ovviamente, la riflessione circa il ruolo e gli esiti dei movimenti sociali dei Sessanta-Settanta è segnata in maniera decisiva dalle storie nazionali: l’acme del conflitto sociale è da collocare negli anni Sessanta o nei Settanta? Quando, invece, si sarebbe affermato il “riflusso” di tali movimenti? Quali ne sono le periodizzazioni? Quale rapporto si instaura tra movimenti politici e culturali? Ad esempio, in Gran Bretagna gli anni Settanta sono generalmente letti come il decennio della crisi e del riflusso militante; mentre un altro punto di vista22 vi vede lo sviluppo di fenomeni controculturali legati alla cultura hippy, in una traduzione locale neotradizionalista (le fiere di Albione, i free festival musicali), che in parte risulta ironica e parodistica, ma in parte un vero e proprio contro-uso della tradizione inglese (dai travellers, fino ai ravers). Tra i Settanta e gli Ottanta vi è inoltre l’irruzione della politicizzazione postcoloniale, in un rapporto complesso tra attivismo radicale, culture musicali giovanili e fermenti identitari che impattano su diverse culture dell’attivismo, a partire da quelle femministe e giovanili. Su quest’ultimo campo si innestano elementi differenti, tra i quali la cultura anglo-caraibica del sound-system23, la politicizzazione del punk rock e l’“embodiment” della crisi economica che esso ha effettuato attraverso il suo stile degenere e innaturale24. In tal modo viene fondata una politicizzazione che reagisce al thatcherismo ma anche alla crisi delle culture del movimento operaio e del laburismo; tant’è che il laburismo della terza via, con l’enfasi degli anni Novanta sulla “cool Britannia”, sarà piuttosto una ripresa morbida di alcuni aspetti ideologici del thatcherismo. In questo contesto, le controculture britanniche hanno rappresentato nel passaggio tra anni Settanta e anni Ottanta uno spazio di negoziazione e di storicità applicato alle vicende dei movimenti di opposizione: nei confronti dell’elemento postcoloniale, per la traduzione culturale di movimenti precedenti, per l’articolazione di radice nazionale e transnazionalizzazione.

  • 25 A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008,
  • 26 G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, (...)
  • 27 Ibid., pp. 133-134.
  • 28 Ibid., p. 203.
  • 29 M. Tullio Giordana, La meglio gioventù, Italia, 383’, Bibi film.
  • 30 E. Betta e E. Capussotti, «“Il buono, il brutto, il cattivo”. L’epica dei movimenti tra storia e me (...)
  • 31 G. De Luna, Le ragioni di un decennio, op. cit., p. 208.

9Per tornare all’Italia, la posizione neoliberista, per quanto debole, ha tuttavia tentato di dare una risposta all’impasse teorica che affligge anche lo sguardo storiografico, a proposito del rapporto dei movimenti degli anni Settanta col mutamento sociale. La storiografia italiana, specie quella di sinistra, ha tracciato un proprio ciclo evolutivo, andato da letture edificanti e progressive a tonalità maggiormente pessimistiche sia sugli esiti sia sulle dinamiche interne al ciclo dei movimenti. Ciò appare nella diffusione di una prospettiva alla lunga liquidatoria, per la quale l’irrigidimento delle culture degli “anni ’68” avrebbe portato a una fissazione sul tema della violenza25 e a posizioni particolaristiche anche nella politica dei movimenti, insieme a una crisi del loro stesso pluralismo26. A questo, secondo tale prospettiva, avrebbero contribuito anche il movimento del ’77 e il femminismo radicale, collocati nel contesto di “incomunicabilità” e fine dell’universalismo della seconda metà del decennio. I caratteri originari del ’68, al contrario, avrebbero mostrato «la capacità di mescolare i linguaggi e le appartenenze»27; tuttavia, proprio alcuni caratteri distintivi (legami di affinità generazionale, presa di parola, antiautoritarismo) ne avrebbero segnato gli esiti in termini di eredità storica: il militante del ’68 sarebbe stato una “parentesi troppo breve” per aver lasciato segni nella militanza e nell’attivismo politico successivo, nonostante la «‘lunga marcia’ attraverso le istituzioni», espressione che allude in qualche modo alla diffusione sociale del movimento28. Senza processi e soggetti di mediazione, tali lasciti del ’68 verrebbero sì conservati, ma consegnati al tempo successivo solo ammettendo un carattere eccezionalista riservato ai migliori interpreti del lungo ’68, ovvero alla stessa prima generazione che ne fu protagonista. Ne emerge la «meglio gioventù»29: generazione socialmente partecipativa che approda alle virtù civiche e all’adesione alle regole della civile convivenza; la quale, pur minoritaria, avrebbe presidiato alcuni spazi sociali contro gli animal spirits del neoliberismo degli anni Ottanta (sullo sfondo, pur mai citato, del “berlusconismo” in incubazione). Eppure si tratterebbe di un’eredità poco trasferibile, proprio perché frutto di una specifica esperienza generazionale e personale, viziata da una forte «memoria possessiva»30 : dopo il «ribellismo» e il «dogmatismo», la generazione del ’68 giungerebbe a «una nuova consapevolezza derivante proprio da questi precedenti: finalmente regole accettate con convinzione, nei loro contenuti, come scelte dettate solo dalla propria coscienza»31. All’interno di tale argomentazione, l’autopercezione di unicità – quindi la presunta mancanza di eredi e risultati tangibili, se non all’interno dei percorsi biografici della prima generazione – si riverbera in una netta separazione nei confronti delle generazioni successive.

10Il tema delle regole, ovvero la corrente interrotta e inaridita del senso civico e della cultura civile, in quanto fallimento primario del ’68, si ripropone anche altrove. Se il testo di Giovanni De Luna si carica volutamente di una forte prospettiva soggettiva – giocando tuttavia, nell’argomentazione, tra autobiografia e neutralità dello storico – l’approccio maggiormente problematico a proposito dell’impatto socio-culturale e politico dei Settanta è nella posizione di Guido Crainz, secondo il quale il ’68, nonostante la radicalità impiegata e le discontinuità rispetto al passato, non è stato in grado di delineare un’etica pubblica o una risposta globale ai bisogni di governo del cambiamento che pure aveva interpretato. Sostiene Crainz che

  • 32 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, op. cit., pp. 71-72.

negli anni Ottanta verranno in realtà alla luce, senza più ostacoli, tendenze presenti sin dall’inizio della «grande trasformazione» e poi proseguite sotto i sommovimenti e le brucianti tensioni degli anni Settanta […]. [Gli «anni ’68»] ci appaiono inadeguati, invece, di fronte a un nodo centrale, neppure aggredito in tutti i suoi versanti: l’esigenza cioè di introdurre correzioni e anticorpi collettivi rispetto alle modalità della «modernizzazione italiana». Di costruire, più ancora, regole adeguate a un’Italia in trasformazione: questione che negli «anni ’68» neppure si pose 32.

  • 33 Id., Il paese mancato, op. cit.
  • 34 D. Della Porta e M. Diani, Movimenti senza protesta? L'ambientalismo in Italia, Bologna, il Mulino, (...)
  • 35 P. Marcasciano, Antologaia. Sesso, genere e cultura degli anni ’70, Milano, Il dito e la luna, 2007 (...)
  • 36 B. De Sario, Resistenze innaturali. Attivismo radicale nell’Italia degli anni ’80, Milano, Agenzia (...)

11I termini chiave che qui interrogano il ’68 e gli anni Settanta non paiono tanto quelli che attengono a effetti sociali profondi, o per un altro verso all’agenda concreta dei movimenti; tali termini, invece, si confondono in una retorica suggestiva che si riferisce all’evento ’68 quasi che avesse dovuto incarnare fattezze e responsabilità da classe dirigente, che in verità mai ebbe al tempo del suo sviluppo in quanto movimento sociale. Ovvero: il ’68 avrebbe dovuto, o potuto, correggere la curvatura politico-istituzionale degli anni Settanta in favore di “regole adeguate a un’Italia in trasformazione”? Emerge, a mio avviso, un limite fondamentale in un approccio del genere; anzitutto, uno sguardo retrospettivo che si fissa sulle responsabilità collettive successive della generazione del ’68; inoltre, vi è il limite di concentrarsi su un piano prevalentemente etico-politico, nel quale la crisi istituzionale italiana esplosa negli anni Ottanta è assurta a cartina di tornasole dell’inefficacia ed evanescenza dei cambiamenti socio-culturali e politici degli anni Settanta, sebbene si tratti di due piani non perfettamente commensurabili. Sembra prevalere su tutto – e certamente sulla varietà delle vicende successive – il paese della modernizzazione e del riformismo sconfitti, all’interno del «paese mancato»33. In tal modo non vengono considerati quei cambiamenti persistenti che pure sono venuti in luce nella società civile, nell’associazionismo come nei ceti produttivi subalterni (insieme ai nuovi ceti medi produttivi, si afferma infatti la prima generazione precaria), ma anche in ambiti di politicizzazione sconosciuti agli anni Sessanta-Settanta, come quelli – per quanto ambivalenti – legati all’ambiente e al territorio34, al femminismo di nuova generazione e alle identità di genere35, alle culture e controculture giovanili36.

12Nelle interpretazioni politico-storiografiche più consolidate, quindi, gli anni Ottanta sarebbero sostanzialmente la scena del precipitare di caratteri – e/o vizi – originari della democrazia repubblicana, della modernizzazione postbellica in Italia, a ciò aggiungendo il vicolo cieco intrapreso dalla generazione del ’68. Da ciò conseguirebbe un viatico per depotenziare e trascurare empiricamente gli esiti socio-culturali dei movimenti degli anni Settanta. Sarebbe invece necessario avvicinare gli strumenti concettuali di altre discipline che hanno approfondito il problema dell’agency in società complesse: gli studi culturali, la sociologia della cultura e dei movimenti sociali, gli studi postcoloniali e sulla globalizzazione, l’analisi della società dell’informazione. Da qui si potrebbero ridefinire termini ampiamente affermati per la descrizione di tale fase critica dell’Italia repubblicana – da “riflusso” a “partitocrazia”, da rivoluzione dei consumi a individualismo – coniugandoli con la considerazione di più ampi spazi di autonomia e complessità del sociale. Il crogiuolo di tutto ciò non è stato tanto l’affermarsi di una generica “società degli individui” – peraltro difficilmente rappresentabile storiograficamente, salvo delegarne lo studio ad altre discipline – ma piuttosto l’articolazione di inedite differenze sociali e soggettività. In tal senso, si tratta di cercare un diverso punto di accesso storico al rapporto tra sistema politico e mutamento socio-culturale, e quindi tra stato, società civile e soggettività. Proprio quest’ultima prospettiva, avanzata in primo luogo da Paul Ginsborg, consente di osservare gli ambienti, le risorse, i soggetti di mediazione che avrebbero consentito di tradurre il vecchio nel nuovo, nel contesto della “grande trasformazione” evocata da Guido Crainz. Ad esempio, interrogandoci su quale esito abbia avuto la rivoluzione dei consumi; quali soggetti abbia interpellato e in che modo abbia agito; quale articolazione differenziata abbiano preso i ceti medi; quali traiettorie abbia preso il distacco tra sistema politico e società civile; quali risorse abbiano lasciato sul campo le culture del ’68 e i conflitti degli anni Settanta. Lo sviluppo di un approccio del genere consentirebbe il non trascurabile vantaggio di delineare una storia degli anni Ottanta dalla quale non siano espunti a priori i soggetti collettivi, organizzati o meno, e insieme le identità e le soggettività che non si vogliano, invece, ridurre convenzionalmente a un puro e semplice culto del passato o al dilagare dell’individualismo e della frammentazione sociale. Emerge invece, osservando gli esiti successivi da un punto di vista non convenzionale, un laboratorio di innovazioni e di pratiche che in seguito sarebbero state riprese e sviluppate in diversi campi sociali: dall’attivismo della società civile ai processi culturali più ampi; instaurando tuttavia proprio negli anni Ottanta – e in rottura con il decennio precedente – una relazione col sistema politico fondata sull’asimmetria, che non significa semplicemente differenza di scala e di potenza, ma in qualche misura differenziazione reciproca delle pratiche politiche e, più radicalmente, dei processi di politicizzazione.

Giovani e attivisti negli anni Ottanta

  • 37 B. De Sario, Resistenze innaturali, op. cit.

13Come ho provato a suggerire nelle pagine precedenti, il complesso del cambiamento degli anni Ottanta è stato anche il frutto dell’operosa azione di soggetti subalterni e non egemonici sulle lacune, le enclave e i crateri lasciati inabitati al termine del lungo primo tratto di corsa dell’Italia repubblicana. La ricerca a cui ho lavorato tra il 2003 e il 200637 ha mosso i primi passi da una problematizzazione dell’attivismo giovanile tra la fine degli anni Settanta e il decennio successivo. I termini chiave con i quali ho affrontato il tema specifico sono stati frutto, per l’appunto, di una riconsiderazione dei concetti attraverso i quali rappresentare il decennio Ottanta, da un lato, mentre dall’altro mi sono soffermato sulle modalità di storicizzazione e soggettivazione che le esperienze in esame si sono date per affrontare un passaggio estremamente complesso. Tali modalità, in particolare, si sono espresse in un dispositivo che ha combinato processi diversi: la trasmissione e la memoria di una tradizione di attivismo radicale da un decennio all’altro e da una generazione all’altra; l’articolazione di tali elementi con più ampi fenomeni e processi sociali; e ciò attraverso un processo di traduzione di esperienze militanti, linguaggi, pratiche sociali e repertori culturali diversi – operazione nella quale, è bene ricordarlo, i termini di origine non corrispondono mai a quelli di arrivo, e ne sono semmai innovati in varia misura. Tale accesso basato su traduzione e articolazione ha consentito di osservare alcune linee di sviluppo dalla storia postbellica italiana anche in fenomeni a lungo considerati al di fuori della storia nazionale, o oltre la storia repubblicana in quanto storia di soggetti collettivi. Nella sostanza, l’intenzione è stata quella di esplorare una vicenda non ancora raccontata – quella dell’attivismo radicale e giovanile dalla fine dei Settanta, fino al passaggio agli anni Novanta – interrogando tali esperienze circa la loro capacità di essere agenti del presente e, in una dimensione minoritaria ma con ambizioni controegemoniche, di incidere sull’innovazione dei movimenti di opposizione e sull’autonomia della società civile.

  • 38 R. Guha e G. Chakravorty Spivak (a cura di), Selected Subaltern studies, Oxford, Oxford University (...)
  • 39 D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, (...)

14Da un punto di vista teoreticamente suggestivo, l’attivismo degli anni Ottanta potrebbe essere visto anche attraverso le lenti della condizione “subalterna”. Qui si intende la posizione liminare o marginale – ovvero parzialmente inserita nella relazione con l’egemonia sociale – dell’attivismo giovanile, impegnato in un conflitto asimmetrico e a lungo non riconosciuto, al di fuori della linea di scontro che aveva opposto i movimenti sociali dei Settanta al blocco di potere dominante. L’allusione all’approccio dei Subaltern studies si concentra sulla triangolazione che essi propongono tra dominatori, dominati e subalterni, ovvero tra la coppia antagonistica che si gioca il potere – o l’indipendenza nazionale, nel caso indiano su cui si soffermano gli storici «subalterni»38 – e i subalterni stessi, inclusi nel conflitto politico proprio in quanto ne sono esclusi a priori, fondando così con la propria esclusione radicale la base simbolica e pratica del conflitto stesso, dal momento che portano su di sé una “differenza storica” irriducibile alla dimensione della politica moderna39. Sempre per analogia e parafrasando la nota domanda di Spivak, proviamo a chiederci: i subalterni dell’attivismo degli Ottanta sono stati in grado di parlare? Di certo, raramente sono stati parlati da altri; e invece hanno sviluppato una grande capacità di presa di parola culturale (e spesso controculturale), specie all’interno di scene ed enclave ben distinte dal mainstream sociale; e hanno vissuto una condizione rovesciata rispetto al contesto coloniale e postcoloniale, dal momento che i movimenti degli anni Settanta sono stati sconfitti e su di essi l’attivismo degli anni Ottanta ha potuto operare un’opera di rilettura e riuso del passato militante, principalmente attraverso una chiave di accesso culturale. In realtà è esattamente la sconfitta del proprio referente storico (i movimenti radicali degli anni Settanta) ad aver consentito da una parte la facoltà di parola culturale e dall’altra la messa a riparo e l’insignificanza dell’attivismo degli anni Ottanta nei confronti dei poteri e delle istituzioni (insignificanza nel duplice senso di per nulla significativo e di non significabile). Tali processi sono stati agiti fondamentalmente attraverso forme di attivismo e resistenza culturale che puntarono anzitutto, e spesso senza un programma politico vero e proprio, ad attivare forme di vita di opposizione decodificando e usando le fonti della tradizione militante e allo stesso tempo le risorse pratiche e culturali garantite dalle culture giovanili del tempo, per quanto queste fossero spurie, eterogenee e polisemiche per definizione.

15Ai margini delle dinamiche del sistema politico, pertanto, ma in relazione con la storia nazionale dei movimenti sociali e con l’emergere di culture giovanili transnazionali (in primo luogo il punk, in seguito il reggae e l’hip-hop nel passaggio agli anni Novanta) l’attivismo giovanile successivo agli anni Settanta ha affrontato processi di traduzione culturale che hanno innestato sulle pratiche dell’“autonomia diffusa” del movimento ’77 la politicizzazione di stili di vita e culture che avrebbero dato vita alle esperienze dei “Centri sociali occupati e autogestiti” e a una vasta area di autoproduzioni culturali, in particolare musicali ed editoriali. Tale traduzione si è realizzata in vario modo nei diversi contesti locali, utilizzando da una parte tradizioni e risorse specifiche – politiche, culturali e urbane – e dall’altra le relazioni dirette con il radicalismo giovanile di altri contesti europei, in particolare i movimenti autonomi in Germania, Olanda, Svizzera.

Roma, Milano, Torino: centri sociali, tradizioni militanti e scene urbane

  • 40 M. Grispigni, Il Settantasette, Milano, Il saggiatore, 1997.
  • 41 A. Melucci (a cura di), Altri codici. Aree di movimento nella metropoli, Bologna, il Mulino, 1984.

16Oggetto concreto di studio sono state alcune esperienze di attivismo politico e culturale sviluppatesi nelle città di Roma, Milano e Torino. Anzitutto sono state privilegiate la memoria e l’esperienza, interrogando alcuni protagonisti e protagoniste circa il senso, le continuità e le rotture, singolari e collettive, vissute tra un decennio e l’altro. Il referente originario di questi giovani attivisti è da ricercare nei piccoli gruppi di militanti nati attorno al movimento del ’7740 o politicizzatisi negli anni seguenti. Si tratta di gruppi centrati soprattutto sulle pratiche musicali, sull’editoria indipendente, sull’occupazione di spazi sociali per i giovani (“Centri sociali autogestiti” e “Circoli del proletariato giovanile”) e sull’attivismo urbano (collettivi scolastici, organizzazioni di volontariato, occupazioni di case non abitate). Il campo dello studio è limitato ad alcune «aree di movimento»41 e non all’intero campo politico radicale di Roma, Milano e Torino, ed è periodizzato – in misura differente nelle tre città – all’incirca tra il ’75-’77 e il ’90-’94. Tali esperienze hanno inaugurato la propria storia di attivismo – o mutato le caratteristiche di quello precedente da cui emersero – principalmente attraverso la realizzazione di progetti, esperienze di vita, pratiche culturali poste in ogni caso all’interno del campo attivistico. Con tutto questo, si intende in concreto l’intreccio dell’attività politica con la produzione e distribuzione di riviste, incisioni su dischi e cassette musicali, grafica politica, fumetti, produzione video e teatrale, organizzazione di concerti ed eventi musicali; fino ad arrivare all’esperienza di un centro sociale occupato e autogestito (1986: Forte Prenestino, nel quartiere di Centocelle a Roma), di uno squat di matrice punkanarchica (1989: El Paso occupato, nella periferia sud Torino) e alla costituzione di una cooperativa editoriale e di una più ampia area controculturale (1986-1989: la rivista Decoder e la casa editrice ShaKe Edizioni Underground a Milano, di orientamento internazionale ma ben insediata nel quartiere controculturale del Ticinese).

  • 42 Fino a riproporsi in bizzarre rappresentazioni, come nei resoconti in cui prefetti e questori tenta (...)

17L’ambiente in cui le esperienze controculturali giovanili si sono politicizzate è debitore di fattori assai particolari. In primo luogo, una specificità italiana è il precipitare di molti stili e culture giovanili del tempo, nate sotto specifiche cornici socio-culturali e rapporti col mercato, all’interno di un quadro semantico di natura prevalentemente politica che dovette fare i conti a lungo con le eredità degli anni Settanta42. Le matrici di questa eredità sono state a loro volta assai diversificate: l’“autonomia operaia”, la controcultura dei “giovani proletari” e degli “indiani metropolitani” del ‘77, le culture delle donne, e così via. Questo fare i conti, tuttavia, fu assai meno di quanto si supponga una pura e semplice custodia della memoria o un rifiuto netto del passato, bensì un complesso processo di traduzione culturale, molteplice nell’intreccio di simboli, pratiche ed eredità storiche. Grazie a diverse esperienze di vita e scambio culturale, il rapporto con le tradizioni dell’attivismo italiano dei Settanta da parte delle giovanissime generazioni fu tutt’altro che scontato, e semmai fondato su un doppio movimento: di negoziazione e ricodifica, usando ciò che pareva utile e scartando ciò che appariva irrimediabilmente datato; mentre si affermava (1) una fascinazione nei confronti delle nuove culture giovanili. Ad esempio, le esperienze personali di formazione o di svago vissute nei viaggi, specialmente estivi, a Londra e Amsterdam di fine anni Settanta e successivamente a Berlino, Amburgo, Zurigo; in queste e altre città europee vi erano ricche scene alternative, le quali ebbero un ruolo fondamentale per far intravedere ai giovani italiani in cerca di modelli di ribellione alcune esperienze legate all’autogestione, alla controcultura, all’opposizione alle trasformazioni urbane attraverso un universo di contro-simboli e pratiche che definivano spazi di libertà, per quanto non di antagonismo sistemico tout court. Il raffronto continuo operato in un’esperienza biografica sospesa tra referenti socio-culturali esterni, nuovi e stimolanti, e tradizioni militanti interne portò agli attivisti un utile decentramento cognitivo e culturale, decisivo per l’elaborazione del passaggio storico vissuto dall’attivismo radicale.

  • 43 Di cui vi sono tracce anche in letteratura: P. V. Tondelli, Un week-end postmoderno. Cronache degli (...)
  • 44 Per un resoconto biografico: Militant A, Storie di Assalti frontali. Conflitti che producono bandit (...)
  • 45 In particolare un ruolo decisivo fu svolto da Primo Moroni, intellettuale radicale e libraio milane (...)
  • 46 O. Rubini e A. Tinti, Non disperdetevi. San Francisco, New York, Bologna. Le zone libere del mondo, (...)

18Questa esperienza di mediazione trovò la propria dimensione nei viaggi, certamente, ma anche in una più vasta fruizione e decodifica mediale – attraverso i media di massa, ma anche quelli autoprodotti come le fanzine – che per la prima volta divenne decisiva per l’affermazione di una politicizzazione giovanile che non verrà più recuperata in seguito, come nei Settanta, da quadri ideologici maggiormente coerenti; ma si riproporrà costantemente come mix di elementi diversi, posti (2) tra attivismo politico e resistenza culturale. L’apporto dei flussi culturali alle pratiche e tradizioni politiche verrà assicurato alla giovane generazione – per quanto assai precariamente – dal tessuto di relazioni e dagli spazi concreti che, città per città, intrecciarono in giro per l’Italia nodi inediti di una rete prima non concepibile: tra centri sociali autogestiti, festival culturali e librerie indipendenti, sale prove e di incisione musicale, tra club, locali e negozi di abbigliamento e di dischi, piazze e “muretti” che accostarono le culture di strada ai nuclei militanti rimasti sulla scena e svolsero il non secondario compito di avvicinare giovani dalle più diverse provenienze43. Così, nei primi anni Ottanta alcuni quartieri periferici romani divennero uno spazio rifugio comune per militanti e giovani di strada, specie in una fase di grande repressione poliziesca44; mentre a Milano altre enclave, più segnatamente controculturali – come il quartiere Ticinese e la zona dei Navigli – ospitarono l’incontro di controculture vecchie e nuove con alcuni gruppi di militanti reduci dai gruppi dall’autonomia operaia degli anni Settanta45. Questa transizione ebbe forme specifiche in ogni città, e in alcune di esse segnò maggiori continuità politiche e stilistiche (ad esempio tra la Bologna anticonformista del ’77 e le successive scene creative nella musica, nel disegno, nel fumetto e nella letteratura)46. In altri contesti, invece, ciò si espresse in rotture radicali: come a Torino, dove l’assenza di spazi autogestiti per i giovani e la chiusura delle sedi politiche extraistituzionali portò a una fase formativa del punk cittadino più distinta che altrove dalle scene militanti precedenti; di questa necessità la scena “punkanarchica” torinese fece in qualche misura virtù, avvicinandosi al ricco campo associativo che univa obiettori di coscienza, prime cooperative di animazione giovanile, servizi socio-educativi nel campo del disagio giovanile e delle tossicodipendenze, insieme a sperimentazioni culturali nella musica di base, nell’intrattenimento e nella produzione cinematografica e video.

  • 47 G. Martinotti, Metropoli. La nuova morfologia sociale delle città, Bologna, il Mulino, 1993.
  • 48 F. Adinolfi (a cura di), Comunità virtuali: i centri sociali in Italia, Roma, Manifestolibri, 1994.
  • 49 Aaster, Centro Sociale Cox 18, Centro Sociale Leoncavallo, Primo Moroni, Centri sociali: geografie (...)
  • 50 Pur nella differenziazione dovuta a storie urbane diverse: ad esempio, un’innovazione culturale più (...)
  • 51 «Una nuova modalità di comunicazione ‘underground’ adatta agli anni ’90» viene definita l’attitudin (...)

19In quali spazi sociali e urbani hanno agito tali esperienze? Specie nei contesti metropolitani, i primi anni Ottanta hanno segnato un’inversione di tendenza irreversibile rispetto alla concentrazione di classe operaia entro le mura urbane, aprendo a nuovi usi ed esperienze dello spazio cittadino47. Si è trattato di un movimento che ha ricollocato centinaia di migliaia di persone specie dalle grandi città del nord Italia – Milano e Torino – verso i comuni delle cinture urbane dell’hinterland o nella migrazione di ritorno verso il sud, non solo a causa della crescita della rendita immobiliare nelle metropoli, ma anche grazie a un nuovo schema dei desideri e dello stile di vita destinato alle classi popolari che ne prevedeva la suburbanizzazione. Entro le mura, invece, operavano ristrutturazioni urbanistiche, svuotamento delle aree industriali, terziarizzazione, gentrification, primi rivoli d’immigrazione straniera. Si imponeva pertanto un nuovo rapporto egemonico, ancor più che meramente quantitativo, tra classi medie produttive urbane e classe operaia; questo produsse effetti ben al di là dei posizionamenti gerarchici dei gruppi sociali, entro i quali potevano comparire settori più garantiti e altri in cui cresceva un’area di insicurezza e precarietà anche tra i ceti medi. Di conseguenza, i centri sociali – assai più nelle pratiche concrete che non nelle retoriche politiche – colmarono spazialmente e culturalmente alcuni di questi vuoti, e rispetto all’attivismo urbano degli anni Settanta spostarono progressivamente l’enfasi dai “quartieri” a un territorio sempre più diffuso (reti relazionali, reti culturali e via media, scene costituite tra soggetti affini e assai meno con la popolazione circostante) e a referenti sociali frutto del cambiamento in atto: precari, marginali, ma anche soggetti inseriti nei processi produttivi di terziarizzazione che erano, del resto, anche abili manipolatori di simboli e significati culturali, per quanto in una prospettiva underground. Questo fece dei centri sociali, nel corso degli ultimi anni del decennio, degli spazi pubblici sempre più abitati da comunità elettive48. Queste, anche grazie alla crescita biografica degli attivisti e delle attiviste, portarono nell’autogestione un variegato flusso di risorse e di popolazione, specie a partire dai primi anni Novanta49: ancora giovani, senz’altro, ma più differenziati per età, includendo studenti, lavoratori/trici dei servizi e disoccupati, madri e padri, precari e/o attivi nei settori informali dell’economia, sia a bassa che a elevata qualificazione; avvicinando gli attivisti sempre più a un’utenza di frequentatori di diventava variegata e di massa. Il rapporto tra lo spazio urbano e l’innovazione culturale si può pertanto osservare anche nei centri sociali degli anni Ottanta-Novanta50, laddove si realizzarono diverse sperimentazioni intorno all’autoproduzione culturale e musicale, all’uso e alla diffusione dell’informatica sociale, dei nuovi media e delle arti performative e audiovisive; tutti elementi che, complici il disinteresse istituzionale e un mercato culturale – specialmente musicale – ancora per certi aspetti primitivo, confinarono attività, competenze e saperi d’avanguardia in un campo sociale scarsamente visibile e poco interattivo con l’esterno, e certamente non con il mercato. Da qui l’importanza di un’autodefinizione che emerse a quel tempo nei centri sociali, quella di underground, che bene rappresenta l’ambivalente posizione di marginalità e di forza creativa di queste esperienze51.

  • 52 Periodizzanti possono essere considerate due autogestioni milanesi: quella del Virus, centro social (...)

20È stata pertanto la combinazione tra contesti socio-culturali e urbani in mutamento, risorse istituzionali e di mercato bloccate e le chance dal Do It Yourself a dar vita all’affermazione della prima generazione di centri sociali italiani, all’incirca tra il 1982 e il 198952. Le differenze di attitudine verso l’ambiente circostante fecero di ciascun centro sociale uno spazio pubblico e di identità giovanile assai specifico: alcuni si orientarono a mantenere uno stretto “rapporto con il territorio”, specie se sostenuto da legami comuni di classe, di cultura e idioma sociale. Ma prevalentemente essi nacquero su forte base generazionale e culturale. In questi la collettività di riferimento era semmai quella dei propri pari e le reti – anche di lunga distanza e internazionali – che si venivano a stabilire. Questa duplice anima fece dei centri sociali degli anni Ottanta luoghi in fondamentale tensione tra l’interno e l’esterno: tra promozione di sé, ovvero autorealizzazione delle proprie inclinazioni culturali – principalmente virando in termini controegemonici le culture giovanili del tempo – e mantenimento dei legami sociali e territoriali che andavano via via allentandosi. Questo atteggiamento è evidentemente in rottura con l’attivismo precedente, dal momento che la fonte per l’identità di opposizione viene ora attinta non tanto dal posizionamento di classe, quanto dalla mascherata e dal rovesciamento dell’individualismo consumistico delle culture giovanili, articolate in una nuova resistenza culturale.

  • 53 D. Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia. 1960-1995, Roma-Bari, Laterza, 1 (...)
  • 54 B. De Sario, «“Lo sai che non si esce vivi dagli anni Ottanta?”. Esperienze attiviste tra movimento (...)

21Tuttavia, l’originalità delle esperienze italiane di autogestione dei giovani sta nell’articolazione che si diede con fenomeni ed eventi più ampi, e in un percorso di formazione, apprendimento e politicizzazione inedito. Tale funzione di (3) catalizzazione politica e attivazione della protesta, successiva alla creazione di una scena culturale e generazionale, si realizzò in una costellazione di eventi diversi. Resta vero che i cicli dei movimenti e dell’azione collettiva hanno visto negli anni Ottanta un arretramento, certamente delle forme classiche di opposizione politica53. Il movimento del ’77, tuttavia, non è certo l’ultima fiammata di massa; nel 1979 vi furono accese manifestazioni studentesche, e nei primi anni Ottanta l’opposizione all’istallazione dei missili nucleari nella base militare statunitense di Comiso, in Sicilia, avrebbe riacceso dimostrazioni e proteste per la pace e contro il nucleare militare e civile, a cui seguirono le campagne culminate nel referendum che portò alla chiusura delle centrali nucleari, nel 1987. Parallelamente, un vasto associazionismo sociale e culturale indipendente54 – tale soprattutto rispetto alle associazioni collaterali alle subculture politiche postbelliche, social-comunista e cattolica – mosse i propri passi proprio a partire dalla seconda metà dei Settanta, segnando i caratteri di quello che è oggi considerato il “terzo settore”.

22Anche l’attivismo giovanile attraversò queste campagne di movimento, vivendole come momenti di crescita, esperienza e formazione: ad esempio, i campeggi antinucleari del 1983-1984 per la scena punk politicizzata; il movimento degli studenti delle scuole superiori e il movimento antinucleare tra 1985 e 1986 per i primi centri sociali romani e l’area dell’autonomia operaia di altre città; la contestazione delle ristrutturazioni urbane e della gentrification del quartiere Ticinese per gli attivisti milanesi di fine anni Ottanta.

  • 55 Su questo tema, devo menzionare le ricerche iniziali e non ancora pubblicate svolte da G. Panvini.

23Al volgere del nuovo decennio, un ruolo fondamentale ebbe il movimento universitario della “Pantera”, che nel 1990 contestò la riforma dell’università promossa dal sesto governo Andreotti e dal ministro dell’università e ricerca scientifica Antonio Ruberti. Al di là del merito delle parole d’ordine, centrate sulla difesa dell’università pubblica contro la “privatizzazione”, un’analisi critica di tale movimento va ancora realizzata e potrebbe procedere proprio da alcuni caratteri condivisi ampiamente con l’attivismo radicale e la società civile degli anni Ottanta: l’attitudine a un associazionismo diffuso e civico, l’emergere di un ceto medio istruito potenzialmente impoverito ma culturalmente e socialmente attivo, insieme ad attitudini controculturali che mediante la musica rap e reggae e la cultura giovanile avrebbero fecondato anche altre culture dell’attivismo, come quelle degli studenti delle scuole superiori nel corso degli anni Novanta55.

  • 56 Si tratta di una costellazione di circa 100-200 spazi occupati, in città metropolitane e piccole ci (...)
  • 57 F. Adinolfi, Suoni dal ghetto, Genova, Costa & Nolan, 1989; C. Branzaglia, P. Pacoda e A. Solaro, P (...)

24Gli anni Ottanta si sono chiusi in maniera eclatante per i centri sociali: nell’agosto-settembre del 1989 lo sgombero del centro sociale Leoncavallo di Milano e la reazione che ne seguì inaugurarono un ciclo di forte espansione, che si sarebbe concluso intorno alla metà del decennio successivo56. Tra il 1990 e il 1992 cambiò radicalmente il rapporto con l’esterno, specialmente grazie a una giovane generazione di attivisti e di pubblico che si riversò nei centri sociali sull’onda – di riflusso – del movimento studentesco della Pantera e con l’esplosione della musica indipendente: dallo ska al reggae, dal raggamuffin’ all’hip-hop e in seguito le musiche elettroniche57.

  • 58 P. Moroni, D. Farina e P. Tripodi (a cura di), Centri sociali: che impresa! Oltre il ghetto: un dib (...)
  • 59 Diversamente dall’economia sociale e dal commercio equo e solidale odierni, che si sono soffermati (...)

25L’apparente successo raggiunto vide però il venire al pettine di alcuni nodi irrisolti di lunga data. Anzitutto, sul piano culturale la forte capacità dei centri sociali di attrarre i nuovi fenomeni creativi, specie giovanili, stava venendo meno passo dopo passo, anche per la progressiva cattura della creatività giovanile nel campo delle attività economiche di mercato – e di conseguenza nel lavoro precario. Su altri piani, un fragile dibattito sull’opportunità di sviluppare “imprese sociali e politiche”, ovvero soggetti produttivi in qualche modo federati e inclusi negli spazi autogestiti, venne rapidamente messo ai margini, fondamentalmente per motivi di natura ideologica58, mentre sarebbe stato approfondito nel corso degli anni Novanta e nel decennio successivo da nuove esperienze attivistiche59. In terzo luogo, vi è una dimensione soggettiva che nei primi anni Novanta è entrata in crisi nei centri sociali: il passaggio di consegne generazionale, ovvero la possibilità di una convivenza dei diversi bisogni e delle esperienze di diverse generazioni di attivisti in cooperazione tra loro. Ciò che è stato possibile – o maggiormente e più profondamente sperimentato – altrove in Europa, ad esempio la legittimazione e la ricomposizione dei bisogni di diversi soggetti (lavoratori dipendenti e autonomi, persone di differenti generazioni o provenienze geografiche, di appassionati di pratiche culturali diverse da quelle egemoni nei centri sociali di fine anni Ottanta/primi Novanta) in Italia è stato assai più sofferto, almeno fino agli anni più recenti.

26In sostanza, la mancanza di una economia autogestionaria sostenibile e di una politica radicale delle differenze che, insieme, sostenessero la fiducia nelle attitudini cooperative delle persone coinvolte, ha occultato un tema chiave che pure ha attraversato la vicenda dei centri sociali autogestiti, almeno per il periodo andato dai primi Ottanta alla metà degli anni Novanta: il tema dell’autorealizzazione. Si tratta di una parola stridente e probabilmente assente, nei fatti e nelle fonti, dal vocabolario della sinistra radicale e autonoma; un termine forse impronunciabile soprattutto negli anni Ottanta del rampantismo, dello yuppismo e dell’individualismo acquisitivo. Queste ultime declinazioni, tuttavia, hanno rappresentato solo la dimensione egemone di soggettività emergenti assai variegate, non cancellando del tutto altre possibilità alternative. L’autorealizzazione, ad ascoltare le biografie e gli accenti di soggettività dei protagonisti, è apparsa un’aspirazione a lungo presente nelle pratiche di giovani e meno giovani attivisti. Ciò ha rappresentato un’invenzione preziosa nella lunga ed eterogenea vicenda dei centri sociali italiani: una declinazione di nuove aspirazioni al cambiamento sociale radicale nell’utopia della piena espressione di sé.

Conclusioni

  • 60 J. W. Scott, «La storia delle donne», in P. Burke (a cura di), La storiografia contemporanea, Roma- (...)

27L’accostamento tra la riflessione sulle precondizioni di una storia degli anni Ottanta italiani, svolta nei primi due paragrafi, e l’analisi di una scena politica specifica e per certi versi minoritaria, si può motivare partendo da entrambi i punti della relazione. Da una parte, le esperienze raccontate possono essere lette come più che semplici fenomeni marginali o nostalgicamente legati ai movimenti radicali degli anni Settanta. Al contrario, tali progetti giovanili hanno ipotizzato una risposta controegemonica al mutamento culturale e ideologico del nuovo decennio, raccogliendo la sfida neoliberista fondata sull’individualismo, l’autorealizzazione, la valorizzazione di nuovi campi dell’esperienza non strettamente legati al conflitto socio-economico di epoca fordista; tentandone a loro volta una decodifica e un rovesciamento da un punto di vista d’opposizione, su un piano di attivismo culturale. Per l’altro verso del discorso sviluppato nell’articolo, tra le condizioni di una storia degli anni Ottanta italiani vi è senz’altro la necessità che la storiografia immetta tematiche e fonti nuove, che portino un supplemento, teorico e politico al tempo stesso, ai quadri generali della ricerca storica; analogamente a come la storia delle donne60, la storia di genere o gli studi postcoloniali sono intervenuti nel campo delle scienze umane e sociali, a partire dalla destabilizzazione dei confini disciplinari, delle domande di ricerca e dalla presa di parola dei soggetti sociali.

  • 61 D. Della Porta, I new global. Chi sono e cosa vogliono i critici della globalizzazione, Bologna, il (...)

28Ma cosa resta dell’attivismo giovanile del decennio Ottanta? Se lo osserviamo come elemento mediatore e di traduzione culturale, si possono formulare diverse ipotesi e tracce di ricerca. Anzitutto, ad esso si devono alcuni caratteri dell’attivismo radicale odierno: networking, culturalismo, transnazionalità, politicizzazione di campi e dimensioni della vita sociale inediti, controegemonia invece che antagonismo. In secondo luogo, sulla sua scia si può intravedere un incompleto, parziale ma vitale far fronte alle impasse ereditate dagli anni Settanta, alle sue sconfitte e contraddizioni storiche, nonché – con i limiti del caso – anche il confronto con il lutto personale e generazionale, con l’ossessione culturale e il trauma civile che aleggiano ancora nel discorso pubblico a proposito del «decennio dei movimenti». Infine, emerge una relazione ambivalente ma altrettanto sostanziale con la società civile e il ceto medio riflessivo, tra riconoscimento e aria di famiglia, che ha portato oggi alla legittimazione di politiche non istituzionali e alla politicizzazione di beni comuni e nuove forme della vita sociale, sebbene vi siano state distanze tra le aree dell’attivismo che a lungo si sono fondate ideologicamente, specie prima dell’ambiente di scambio rappresentato dal movimento alterglobalista, con il ciclo di protesta inaugurato nel 1999 con la “battaglia di Seattle” e poi esteso in Europa con le dimostrazioni contro il G8 di Genova nel 200161.

29Ma, infine, di cosa parliamo quando parliamo di attivismo anni Ottanta? Della fine dei conflitti sistemici, economici e di status sociale, a favore di politiche dell’identità, movimenti tematici o puramente culturali e governance amministrante da parte delle istituzioni? Un’ipotesi storiografica su questo genere di fenomeni potrebbe dialogare ma anche distinguersi dalle più nette categorizzazioni della sociologia, storicizzandone alcuni aspetti. Ad esempio, l’attivismo giovanile si è caratterizzato per una divaricazione dalle dinamiche evolutive dello stato e del sistema politico, e piuttosto per una maggiore sintonia con l’evoluzione della cultura e con la società civile organizzata in una dimensione transnazionale; questo dovrebbe spingere anche la storiografia ad aprirsi a una maggiore comparazione su scala europea e a riflettere su nuove declinazioni dei concetti interpretativi, proprio a partire da quelli di partecipazione e politicizzazione e dal nesso politica-cultura. Ciò non solo confidando in esperienze concrete di attivismo ritornate oggi meno particolaristiche, specie sull’onda lunga dei movimenti “alterglobalisti” fino all’anticapitalismo risorgente nei movimenti contro la crisi economico-finanziaria globale, ma soprattutto per una considerazione meno angusta di temi e aspetti della vita – come quelli culturali, esperienziali, di modello di sviluppo sociale e di soggettività – che tra la fine dei Settanta e gli anni Ottanta erano in gestazione; allora ampiamente interpretati come segni della fine dell’universalismo, e in sostanza come sintomi di crisi della politica moderna per come l’avevano conosciuta le generazioni postbelliche, specie in occidente.

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Notes

1 Per le interpretazioni generali: G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003; P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, 1945-1990, Bologna, il Mulino, 1991; S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 1992; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1988 (London 1990); Id., L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Torino, Einaudi, 1998 (London 2001). Per le letture politico-istituzionali, in particolare S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons e G. Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.

2 E. Galli Della Loggia, L’identità italiana, Bologna, il Mulino, 1998.

3 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell'Italia attuale, Roma, Donzelli, 2009, p. 73.

4 Si veda il volume di S. Woolf (a cura di), L’Italia repubblicana vista da fuori (1945-2000), Bologna, il Mulino, 2007.

5 Soprattutto nella pubblicistica di stampo giornalistico, anche di buona qualità; un caso recente, P. Morando, Dancing days. 1978-1979, i due anni che hanno cambiato l'Italia, Roma-Bari, Laterza, 2009.

6 G. De Cataldo, Romanzo criminale, Torino, Einaudi, 2002; G. Genna, Dies irae, Milano, Rizzoli, 2006; Wu Ming 5, «Prima degli anni Ottanta. Appunti da un cono d’ombra», Zapruder, n. 21, 2010, pp. 134-137.

7 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Venezia, Marsilio, 2010.

8 U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani, 1964.

9 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, op. cit., pp. 13-14.

10 S. Hall, «The Meaning of New Times», in S. Hall e M. Jacques (a cura di), New Times, London, Lawrence and Wishart, 1989.

11 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, op. cit., p. 15.

12 Che non si può limitare al contesto degli anni Settanta e Ottanta, e al mancato riconoscimento e sostegno al mutamento allora in atto, ma va collocato entro un più duraturo logoramento del rapporto di fiducia tra cittadini e stato repubblicano; si veda S. Woolf, «Introduzione. La storiografia e la repubblica italiana», in Id., (a cura di), L’Italia repubblicana vista da fuori, op. cit.

13 E. Laclau e C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, London New York, Verso, 2001; vedere anche J. Butler, E. Laclau e S. Žižek, Contingency, Hegemony, Universality. Contemporary Dialogues on the Left, London-New York, Verso, 2000; P. Gilroy, “There ain’t no Black in the Union Jack”. The Cultural Politics of Race and Nation, London, Hutchinson, 1987.

14 C. Mouffe, On the Political, London-New York, Routledge, 2005, p. 18.

15 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, op. cit., pp. 139-140.

16 J. Foot, Milan since the Miracle. City Culture and Identity, Oxford-New York, Berg, 2001.

17 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, op. cit., in particolare cap. IV.

18 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, op. cit., p. 59 sgg.

19 S. Hall, «The crisis of labourism», in J. Curran (a cura di), The Future of the Left, Cambridge, Polity Press & New Socialist, 1984, pp. 23-36; Id., «Authoritarian Populism. A Reply to Jessop et al.», in R. Jessop, K. Bonnet, S. Bromley e T. Ling (a cura di), Thatcherism. A Tale of Two Nations, London Polity Press, 1989, pp. 99-107 (entrambi i testi ora in S. Hall, Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, Milano, Il Saggiatore, 2006, cap. 4 e 5).

20 P. Capuzzo, «New times? Soggettività e percorsi di politicizzazione nell’Inghilterra thatcheriana», Zapruder, n. 21, 2010, pp. 42-55.

21 È l’elemento di trasgressione intrinseca ai sistemi di potere, che in epoca postmoderna si manifesta in una esorbitante dimensione emozionale della politica, mediata con difficoltà dalle pratiche dello stato di diritto o dal conflitto basato sullo status sociale; consulatre S. Žižek, Il godimento come fattore politico, Milano, Cortina, 2001.

22 G. McKay, Senseless Acts of Beauty. Cultures of Resistance since the Sixties, London-New York, Verso, 1996.

23 C. Cooper, Sound Clash. Jamaican Dancehall Culture at Large, London, Palgrave Macmillan, 2004; H. Campbell, Rasta and Resistance. From Marcus Garvey to Walter Rodney, Hertford, A Hansib Publication, 1986.

24 D. Hebdige, Subculture. The Meaning of Style, London, Methuen, 1979.

25 A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008,

26 G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, Feltrinelli, 2009.

27 Ibid., pp. 133-134.

28 Ibid., p. 203.

29 M. Tullio Giordana, La meglio gioventù, Italia, 383’, Bibi film.

30 E. Betta e E. Capussotti, «“Il buono, il brutto, il cattivo”. L’epica dei movimenti tra storia e memoria», Genesis, n. III/1, 2004, pp. 113-123; concetto ripreso per gli anni Settanta italiani da P. Braunstein («Possessive Memory and the Sixties Generation», Culturefront, estate 1997, pp. 66-69).

31 G. De Luna, Le ragioni di un decennio, op. cit., p. 208.

32 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, op. cit., pp. 71-72.

33 Id., Il paese mancato, op. cit.

34 D. Della Porta e M. Diani, Movimenti senza protesta? L'ambientalismo in Italia, Bologna, il Mulino, 2004.

35 P. Marcasciano, Antologaia. Sesso, genere e cultura degli anni ’70, Milano, Il dito e la luna, 2007; F. Cavarocchi, «Orgoglio e pregiudizio. Note sul movimento gay e lesbico in Italia», Zapruder, n. 21, 2010, pp. 78-87; A. R. Calabrò e L. Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni ’60 agli anni ’80, Milano, Franco Angeli e Fondazione Badaracco, 2004 (1984); F. Paoli, «Diversità fantastiche. Periodici del femminismo romano nei primi anni Ottanta», Zapruder, n. 21, 2010, pp. 24-40.

36 B. De Sario, Resistenze innaturali. Attivismo radicale nell’Italia degli anni ’80, Milano, Agenzia X, 2009; M. Grispigni, «“Qualcosa di travolgente”. I conflitti impolitici», in M. Ilardi (a cura di), La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Genova, Costa & Nolan, 1990.

37 B. De Sario, Resistenze innaturali, op. cit.

38 R. Guha e G. Chakravorty Spivak (a cura di), Selected Subaltern studies, Oxford, Oxford University Press, 1988.

39 D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, Princeton University Press, 2000.

40 M. Grispigni, Il Settantasette, Milano, Il saggiatore, 1997.

41 A. Melucci (a cura di), Altri codici. Aree di movimento nella metropoli, Bologna, il Mulino, 1984.

42 Fino a riproporsi in bizzarre rappresentazioni, come nei resoconti in cui prefetti e questori tentavano di illustrare la scena delle “subculture spettacolari” di Milano, intorno alla metà degli anni Ottanta: si veda E. Francescangeli, «Creste, borchie e panini. Le subculture «spettacolari» milanesi nelle carte di polizia (1984-1985)», Zapruder, n. 21, 2010, pp. 106-113.

43 Di cui vi sono tracce anche in letteratura: P. V. Tondelli, Un week-end postmoderno. Cronache degli anni ’80, Milano, Bompiani, 1990.

44 Per un resoconto biografico: Militant A, Storie di Assalti frontali. Conflitti che producono banditi, Roma, DeriveApprodi, 1999.

45 In particolare un ruolo decisivo fu svolto da Primo Moroni, intellettuale radicale e libraio milanese, e dalla sua libreria Calusca; consultare J. N. Martin e P. Moroni, La luna sotto casa. Milano tra rivolta esistenziale e movimenti politici, Milano, Shake edizioni Underground, 2007; a proposito delle relazioni di più lunga distanza tra controculture, si veda il caso dello sviluppo del cyberpunk italiano e tedesco: F. Balestracci, «Cyberpunk. Reti alternative tra Italia e Germania», Zapruder, n. 21, 2010, pp. 8-23.

46 O. Rubini e A. Tinti, Non disperdetevi. San Francisco, New York, Bologna. Le zone libere del mondo, Roma, Arcana, 2003; F. Scozzari, Prima pagare poi ricordare. Da “Cannibale” a “Frigidaire”. Storia di un manipolo di ragazzi geniali, Roma, Coniglio, 2004; S. D’Onofrio e V. Monteventi, Berretta Rossa. Storie di Bologna attraverso i centri sociali, Bologna, Pendragon, 2011.

47 G. Martinotti, Metropoli. La nuova morfologia sociale delle città, Bologna, il Mulino, 1993.

48 F. Adinolfi (a cura di), Comunità virtuali: i centri sociali in Italia, Roma, Manifestolibri, 1994.

49 Aaster, Centro Sociale Cox 18, Centro Sociale Leoncavallo, Primo Moroni, Centri sociali: geografie del desiderio. Dati, statistiche, progetti, mappe, divenire, Milano, ShaKe Edizioni Underground, 1996.

50 Pur nella differenziazione dovuta a storie urbane diverse: ad esempio, un’innovazione culturale più controegemonica, ambiziosa e aperta alle contaminazioni nella dinamica Milano degli anni Ottanta; più chiusa e separatista, per quanto non meno creativa, nella Torino di inizio decennio, nel clima di forte ridimensionamento delle culture di opposizione in seguito alla sconfitta operaia del 1980, nel conflitto che oppose la dirigenza Fiat e i sindacati metalmeccanici contro i progetti di downsizing dell’azienda.

51 «Una nuova modalità di comunicazione ‘underground’ adatta agli anni ’90» viene definita l’attitudine della controcultura del tempo, in Decoder, n. 2, 1988, p. 66.

52 Periodizzanti possono essere considerate due autogestioni milanesi: quella del Virus, centro sociale di giovanissimi punk, tra 1982 e 1984, e lo sgombero del centro sociale Leoncavallo, nella sede di via Leoncavallo, nell’agosto del 1989, occupato fin dal 1975.

53 D. Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia. 1960-1995, Roma-Bari, Laterza, 1996.

54 B. De Sario, «“Lo sai che non si esce vivi dagli anni Ottanta?”. Esperienze attiviste tra movimento e associazionismo di base nell'Italia post-’77», Interface: a journal for and about social movements, n. 2, 2009, pp. 108-133.

55 Su questo tema, devo menzionare le ricerche iniziali e non ancora pubblicate svolte da G. Panvini.

56 Si tratta di una costellazione di circa 100-200 spazi occupati, in città metropolitane e piccole città di provincia, che a partire dalla fine degli anni Ottanta avrebbe coinvolto diverse migliaia di attivisti. Con l’affermazione culturale e l’uscita dallo stretto ambito underground e mediante la promozione di pratiche culturali di qualità (specie con l’autoproduzione musicale e l’organizzazione di concerti), i centri sociali avrebbero raggiunto un bacino di “utenza” giovanile di decine di migliaia di persone, richiamando così l’attenzione dei media mainstream e di un sistema di produzione culturale in trasformazione (dalle etichette musicali alla stessa Mtv Italia), e per un certo tempo fungendo da “gatekeeper” della cultura alternativa.

57 F. Adinolfi, Suoni dal ghetto, Genova, Costa & Nolan, 1989; C. Branzaglia, P. Pacoda e A. Solaro, Posse italiane. Centri sociali, underground musicale e cultura giovanile degli anni ’90 in Italia, Firenze, Tosca, 1992.

58 P. Moroni, D. Farina e P. Tripodi (a cura di), Centri sociali: che impresa! Oltre il ghetto: un dibattito cruciale, Roma, Castelvecchi, 1995.

59 Diversamente dall’economia sociale e dal commercio equo e solidale odierni, che si sono soffermati su tutta la filiera produttiva: dal finanziamento etico alla distribuzione e al rapporto tra produttori e consumatori.

60 J. W. Scott, «La storia delle donne», in P. Burke (a cura di), La storiografia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1993.

61 D. Della Porta, I new global. Chi sono e cosa vogliono i critici della globalizzazione, Bologna, il Mulino, 2003; K. McDonald, Global Movements. Action and Culture, Oxford, Blackwell, 2006; M. Wievorka, Un autre monde... Contestations, dérives et surprises dans l’antimondialisation, Paris, Balland, 2003; B. De Sario, «Narrazioni transnazionali. Rappresentazione e racconto nei movimenti alterglobalisti, tra traduzione culturale e attivazione della protesta», Partecipazione e conflitto, n. 2, 2009, pp. 135-162.

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Pour citer cet article

Référence papier

Beppe De Sario, « Cambiamento sociale e attivismo giovanile nell’italia degli anni Ottanta: il caso dei centri sociali occupati e autogestiti »Cahiers d’études italiennes, 14 | 2012, 117-138.

Référence électronique

Beppe De Sario, « Cambiamento sociale e attivismo giovanile nell’italia degli anni Ottanta: il caso dei centri sociali occupati e autogestiti »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 14 | 2012, mis en ligne le 15 septembre 2013, consulté le 09 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/416 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.416

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