L’afflato dell’ospitalità lenisce la sferza della Storia
Plan
Haut de pageTexte intégral
1Impostare un discorso letterario sulla violenza nella scrittura delle vicende belliche o degli scontri sociali non può essere avulso, stando alla nostra prospettiva, da una riflessione sul tema dell’ospitalità. Essa ovviamente esula da una interpretazione meramente sociologica per sviscerare il dilemma del confronto ineludibile fra identità e alterità, fra particolare e universale, fra crogiolarsi solipsistico ed estrinsecazione della propria umanità.
2Nella fattispecie, la nostra disamina verterà innanzitutto, a mo’di premessa, sul modo con cui Carlo Sgorlon va inserito nella cornice delle cosiddette marche di frontiera. In sostanza, si tratterà di palesare la svolta che il romanziere friulano ha impresso alla rappresentazione dei conflitti che hanno coinvolto un territorio non solo posto in un punto nevralgico dello spartiacque europeo, ma altresì agognato e conculcato da un certo irredentismo (ancora oggi in auge).
3Il secondo caposaldo consisterà nello studio dell’incidenza della Storia (macrostoria) latrice di miti cogenti e di una violenza istituzionalizzata, all’occorrenza militare. Potremmo evocare qui il dilemma del romanzo a sfondo storico e soprattutto ribadire il fatto che Sgorlon propugna una concezione alquanto sconsolata di tale processo, senza peraltro tralasciare sul piano della scrittura la dovizia di accenni referenziali, gli accenni alla vita dei suoi conterranei, e anche una levigatura idiosincratica.
4Il terzo nucleo permetterà di porre in risalto da un lato l’imperversare della violenza in luoghi sovradeterminati nel tessuto diegetico e quindi pervasi da notevoli elementi simbolici e dall’altro il regime di alcuni personaggi che risultano spesso riecheggiamenti inter- o intra-testuali.
5Infine, dulcis in fundo, proveremo a vedere come di fronte agli esponenti della forza belluina e delle ideologie antropocentriche, scaturisca la linfa dell’ospitalità cristallizzata soprattutto nelle figure emblematiche, archetipali o mitiche delle donne sgorloniane.
Violenza e guerra nella letteratura friulana e giuliana
6Lungi da noi l’idea di stabilire una graduatoria della letterarietà dei romanzi secondo il metro della riflessione etica. Tuttavia, oltre i pregi estetici e formali di un’opera, è doveroso soffermarsi sulla perennità, sulla leggibilità nonché sul recepimento di essa a lunga scadenza. In altre parole, più platealmente, ci sembra che nel 2003 occorra scrollarsi di dosso la soma di un certo retaggio critico che continua a imbastire lodi sperticate alla metanarrativa, allo sperimentalismo, mentre stronca inesorabilmente gli autori che hanno scelto una scrittura epica non scevra di intenti civili. Costoro sono condannati all’oblio o si vedono appioppare l’epiteto inviso di scrittori «edificanti». Oggi ci si può sollazzare solo con una letteratura di mero diletto fruibile nei cenacoli altolocati? Insomma, andando al dunque, come possiamo mettere in non cale il fatto inoppugnabile che la letteratura nazionale e quella del nord-est hanno quasi sempre rimosso la rappresentazione del rapporto controverso e conflittuale con l’alterità ossia col mondo germanico e soprattutto slavo o sloveno, oppure hanno partecipato all’irrobustirsi dell’irredentismo e del nazionalismo? Si è fatto un gran bel discorrere di romanzieri mitteleuropei che fungevano da tramite tra l’Italia e l’impero austro-ungarico, insistendo sul nesso esistente tra Svevo e Musil come emanazione del clima imperante nella capitale bicipite; ma non ci si è soffermati su quello che accadeva sul Carso, a Gorizia e in Friuli, forse perché questo turbava un’ermeneutica troppo ben collaudata. Prima e dopo il maggio radioso, sia un vociano come Scipio Slataper che Marinetti, tuttora così venerati, non si sono peritati di fare un’apologia stomachevole della violenza e della guerra contro, guarda caso, il mondo slavo o sloveno tanto capillarmente quanto complessamente presente in Sgorlon. In quanto prodotto sociale siffatta letteratura costituiva un fomite di violenza come il Fichte nei tascapane dei soldati hitleriani. Alla stessa epoca, con Svevo e Michelstaedter la letteratura dello scandaglio interiore, spia di un disagio sociale e esistenziale oltre che versata nel flusso di coscienza, ha ignorato il confronto con l’alterità che stava entro le mura di Trieste. Ci imbattiamo anche in testi improntati alla metaforizzazione, all’impennata lirica, ad una sublimazione estetica che finiscono comunque per annacquare il dibattito sulle stigmati della guerra e del fascismo. Un romanzo di Tomizza come La ragazza di Petrovia riesce indubbiamente avvincente, ma rimane assai allusivo o addirittura criptico circa il dramma delle cosiddette foibe. Analogamente, il Pasolini delle Poesie a casarsa, proietta gli spasimi del proprio strazio in una lingua romanza, il friulano, ritenuta ubertosa per i suoi significanti, il suo ritmo, insomma una metalingua ad uso prettamente poetico. Somma perizia formale quella di Pasolini, ma oltre ai ragazzetti guizzanti sui greti dei fiumi e alla messinscena narcisistica della propria diversità, non rimane quasi nulla per la raffigurazione della violenza armata che pure aveva falcidiato il fratello Guido. Aggiungiamo che dal carteggio di Pasolini si evince il dramma di un poeta che non aveva voluto o potuto trattare né il tema della Resistenza né quello della responsabilità dei vertici comunisti nell’eccidio della malga di Porzûs. Non ci spetta il compito di dirimere vertenze ermeneutiche sul poeta di Casarsa, riteniamo tuttavia che al di là del recepimento della sua opera occorra districarsi da una supinità eccessiva nei suoi riguardi.
7In compenso, un romanziere come Sgorlon, ritenuto marginale, stando alle sentenze apodittiche della critica onnisciente, ha scritto una mole di romanzi il cui pregio è stato riconosciuto da giurie nazionali e da folte schiere di lettori. È fuorviante affibbiare a Sgorlon la qualifica di romanziere nostalgico di un universo arcaico e grottesco, poiché egli non rimane affatto impelagato nella visione di un Friuli che sarebbe inesorabilmente asserragliato nelle secche di un’identità paranoica esclusiva e stantia. Per non dilungarci oltremodo in questa sede, ci soffermeremo su due romanzi – L’armata dei fiumi perduti (1985) e La malga di Sîr (1997) – in cui spicca con maggior forza l’intreccio fra violenza, guerra e Storia da un canto e virtù dell’ospitalità dall’altro.
La coazione della macrostoria
8Sgorlon si è cimentato col genere del romanzo storico condividendo se non una scrittura quanto meno una concezione del divenire umano estranea a qualsiasi dialettica hegeliana o di stampo materialistico. Alla stregua dei due ipotesti che possiamo individuare in I promessi sposi e in La storia, L’armata dei fiumi perduti e La malga di Sîr propongono mutatis mutandis innanzitutto una reinterpretazione degli eventi politici e bellici che ribalta un certo conformismo nell’analisi delle vicende storiche. Si apre così un dibattito che pur travalicando il campo testuale ha il merito di affidare alla letteratura una funzione euristica ossia una paratopia surrogatrice delle manchevolezze riscontrabili in sede politica e culturale. Peraltro, come in Manzoni e in Elsa Morante, la macrostoria sembra dover stritolare i personaggi romanzeschi. Se alcuni trovano il riscatto, la vera via per uscire dai miti ideologici e dalle escatologie di stampo laico, altri ne rimangono succubi. I due romanzi di Sgorlon potrebbero sembrare di primo acchito un’epopea dei vinti in cui la Storia esercita una violenza, un imbestialimento dell’uomo che non offre scampo. Senonché questa violenza che raggiunge il suo apice nei frangenti della guerra consente anche la lotta, per dirla come Manzoni, fra una sublimazione di virtù e un rigurgito di abiezione. Ragione per cui l’ospitalità riempie una funzione di contraltare e perfino di appiglio salvifico.
9L’incipit in medias res dell’Armata dei fiumi perduti ci offre uno spaccato sintomatico a questo riguardo. La Storia appare una calamità, un cataclisma che si avventa con tutta la sua carica devastante come fosse un fenomeno ciclico che deve mietere le sue vittime. I personaggi di Esther, di Anita e di Arturo non incarnano solo i reietti che soggiacciono a eventi contingenti bensì una realtà universale. Ci pare lecito parlare di personaggi permeati di una dimensione antonomastica. Personaggi in balia di un complesso ossidionale, assillati e presto dilaniati dalle fauci del mostro storico.
- 1 Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, Milano, Mondadori, 1985, p. 8.
Guardava con diffidenza chiunque mettesse piede dentro l’antica casa, acquistata in un paesetto di montagna quando le persecuzioni contro gli ebrei avevano cominciato a prendere corpo e sostanza, e dopo che suo figlio Caleb era morto precipitando da una scarpata, nel tentativo di sfuggire in bicicletta a una banda di giovinastri che lo inseguivano1.
Marta aveva amato Arturo perché era allegro, pieno di vita e carico di un’arguta saggezza popolana, ma anche perché l’aveva visto come un’immagine del «povero soldato», vittima di tutte le guerre. (ibid., p. 9)
10Dovremmo aggiungere che l’incipit de L’armata dei fiumi perduti offre non poche similitudini con l’esordio de La storia di Elsa Morante e particolarmente col personaggio di Ida Ramundo. In entrambi i romanzi troviamo questo smarrimento e perfino questo logoramento che travaglia gli umili, tuttavia occorre anche rilevare che in Sgorlon il romanzo è subito improntato a una tonalità corale che tende a inserire il dramma individuale in una prospettiva collettiva. Nei brani citati, l’accenno alle leggi razziali del 1938 e allo squadrismo è abbastanza esplicito, detto ciò gli eventi contingenti non vengono staccati da una concezione ciclica della Storia, da una specie di Maelström che periodicamente racchiude nel suo vortice il Friuli: «L’invasione dei tedeschi […] non era per Marta che una riedizione di antiche occupazioni di popoli stranieri, che erano cominciate in Friuli con l’inizio stesso della sua storia» (ibid., p. 10).
11Non deve perciò stupirci l’ottica in cui Sgorlon presenta i cosacchi. Indubbiamente si tratta anche di invasori, ma la loro condizione sostanziale è quella di apolidi sballottati dalla Storia, insieme oppressori ed oppressi, votati ad assurgere a capri espiatori per i contendenti. Questa loro caratteristica ambivalente viene già suggerita dal titolo stesso, per cui i cosacchi rappresentano il popolo errabondo per antonomasia scaraventato nel pelago della Storia, e non solo un’armata esogena che si insedia in Friuli.
12Ovviamente la macrostoria esercita la sua coazione deleteria con l’ausilio di ideologie totalitarie che costituiscono il bersaglio polemico dei due romanzi esaminati. Giova comunque notare che mentre nell’Armata dei fiumi perduti viene soprattutto scoccato uno strale contro il nazifascismo, nella Malga di Sîr nazifascismo e comunismo vengono equiparati nella loro carica di violenza devastante.
- 2 Cf. Fernand Braudel, L’identité de la France. Espace et Histoire, Paris, Arthaud, 1986.
13Per quanto riguarda il referente che contraddistingue il genere del romanzo storico, bisogna osservare che L’armata dei fiumi perduti dimostra un ancoramento più esile o comunque meno martellante, anche perché l’arco temporale spazia dalla destituzione di Mussolini all’armistizio dell’8 maggio 1945. In compenso, La malga di Sîr prende le mosse dalla prima guerra mondiale per giungere all’avvento della Repubblica nata dalla Resistenza. La problematica storica è assai più elaborata e acuminata nella Malga di Sîr, come se ci trovassimo di fronte all’«onda lunga» teorizzata da Fernand Braudel2. In questo romanzo lo scatenarsi della violenza da parte dei partigiani comunisti contro i partigiani verdi, apice emblematico di tutta la diegesi, viene inserito in una prospettiva storica di ampia mole. Le vicende nazionali e locali convergono verso una specie di apice che combacia con la drammatizzazione diegetica. Il fascismo è presentato come un regime dedito al sopruso e all’aggressione, come indica l’accenno alla guerra di Spagna e d’Etiopia, alle leggi razziali, all’invasione della Jugoslavia e all’Armir. Lo stesso vale per il nazismo e per il suo Führer farneticante. Ma il divampare della violenza storica viene reso ancora più acuto con l’evocazione di una toponomastica che designa battaglie e carneficine, svolte di epoca e di civiltà. Ci limiteremo a citare Caporetto/Kobarid, la Bainsizza, Stupizza, lembo estremo della valle del Natisone, ed infine il monte Matajûr, reso famoso sia dal re longobardo Alboino nel 568 che da Erwinn Rommel nel 1917.
14Sul piano attanziale bisogna notare che esiste una dicotomia fra i personaggi che paiono arrendevoli anche se non indifferenti di fronte al dilagare della violenza e quelli che innestano la violenza esogena su una violenza intrinseca.
15Per la prima categoria, il caso più paradigmatico ci pare il personaggio di Ivo Novak nella Malga di Sîr in quanto la cogenza della macrostoria assume qui valenze polimorfe. Poco oltre l’incipit, la comparsa di questo personaggio dà adito ad un’analessi che permette di ritrarre l’esperienza dell’emigrazione in Belgio prima dello scoppio del primo conflitto mondiale. I sogni di promozione sociale del minatore friulano, suggellati da uno sposalizio esogamo ed eterogamo con la figlia di un imprenditore belga, sono infranti prima dalle distruzioni belliche e poi dal rimpatrio consecutivo alla morte del suocero. Il fallimento professionale va di pari passo con l’identità duplice di cui Ivo Novak è l’esponente suo malgrado. Friulano delle valli del Natisone, egli si sente in preda ad un dissidio interiore, linguisticamente percettibile nella diglossia, che oppone la componente italiana o friulana a quella slovena. Ma nessuna delle due ha il sopravvento sull’altra, sebbene questa duplicità identitaria, questo essere comunque sclâf, venga vissuto come un marchio di diversità in certo qual modo ingombrante, in un’epoca in cui l’italianità icastica è in auge. Se Ivo Novak subisce una prima violenza storica diciamo generica alla stregua della generazione che ha vissuto la bufera bellica, ne patirà una maggiore con l’italianizzazione coatta del suo cognome, colpo inferto alla spia più appariscente della sua identità. Anziché ribellarsi, Ivo Novak appare quale un reietto il quale nel corso della diegesi rimane tagliato fuori dalle vicende adagiandosi in un’accidia che si risolve un’accettazione fatalistica della propria condizione sociale ed esistenziale:
- 3 Carlo Sgorlon, La malga di Sîr, Milano, Mondadori, 1994, p. 18.
Che Marianna fosse studentessa, poi, gli pareva una cosa eccellente, una delle poche cose riuscite nella sua vita, mentre le altre erano tutte un mezzo disastro perché lui, Ivo Novak, era un uomo sfortunato. Il regime l’aveva costretto a mutare il suo nome in Novacco, ma lui nell’intimo non aveva mai accettato la cosa3.
L’imperversare della violenza: figure e spazi emblematici
16Vi sono però personaggi che non solo vengono aggrediti da una violenza storica istituzionalizzata, quindi esogena, ma diventano fautori di violenza a loro volta. Più precisamente, il manifestarsi della violenza viene determinato sia da un sopruso di natura sociale che da uno scatto innato, ridestato ed ingigantito. In certi casi la rivalsa individuale non prescinde da una violenza atavica che sembra ineludibile e che viene comunque potenziata dalle contingenze storiche.
17I personaggi di Fabio Timäus e di Branko Bosni™ nella malga di Sîr riescono particolarmente eloquenti a questo riguardo. Fabio è uno dei rampolli di una famiglia patrizia di origine ebraica che diventa un transfuga. La sua traiettoria sovversiva va paragonata con quella di Davide Segre nella Storia di Elsa Morante, il quale ha in uggia la classe sociale donde proviene. Indubbiamente, l’odio che hanno in comune contro la borghesia scaturisce in entrambi i casi dall’aver assistito ad una scena ignominiosa che simboleggia l’oppressione inferta al proletariato. Nella Malga si tratta dello sfratto di una famiglia di mezzadri in seguito ad un sciopero. Se approfondiamo l’addentellato tra il Fabio della Malga e Davide Segre, ci accorgiamo che il protagonista sgorloniano non indulge ad un nichilismo di stampo anarcoide. Fabio è un ferreo seguace del comunismo concepito come palingenesi delle condizioni infrastrutturali e sociali, come riscatto del proletariato al quale viene affidata una funzione chiaramente soteriologica. Egli mira a diventarne il capostipite. Nel romanzo, Fabio spicca in quanto figura iconoclasta e noncurante dei sentimenti ritenuti quali relitti del perbenismo borghese.
18L’ideologia comunista viene equiparata ad un fideismo prometeico, quindi immanente, per cui l’etica viene subordinata al raggiungimento della dittatura del proletariato. Insomma Fabio assurge a prototipo dell’intellettuale zdanovista ligio al più bieco stalinismo. Per costui, la lotta resistenziale antifascista significa liberazione e soprattutto avvento della rivoluzione ad ogni costo. L’alleanza coi partigiani titini del IX Korpus e l’eccidio perpetrato contro i verdi ossia gli osovani moderati vanno intesi in questa logica manichea. Ma è Fabio soltanto un calcolatore cinico impaniato nell’ideologia? In realtà il personaggio non assume un aspetto granitico, un’unica valenza attanziale. L’eccidio compiuto nella malga di Sîr innesca in Fabio uno sgretolamento delle certezze dogmatiche che sfocia in una rottura con il totalitarismo sovietico. La fine del romanzo ci mostra un Fabio fuggiasco e ramingo che ripara nell’estremo oriente alla ricerca affannosa del mito comunista dileguatosi dalle terre natie.
19Branko Bosni™ simboleggia invece piuttosto lo scoppio di una violenza indomita e atavica. Fin dalle prime pagine del romanzo egli fa capolino non solo come la vittima di un’angheria padronale, ma pure come un individuo dedito alla violenza più efferata. Questo personaggio è raffigurato come l’antonomasia di una nebulosa balcanica, quasi incarnasse una reviviscenza di un’alterità tribale e barbara. Tale ritratto raccapricciante si staglia in tutta la sua pregnanza nelle scene più parossistiche della diegesi, cioè il momento dello scempio nella malga di Sîr. Alla violenza atavica e all’odio generato dal sopruso padronale e fascista si aggiunge il condizionamento ideologico comunista. Branko Bosni™ è certo colui che rappresenta l’anima nera alla quale i mandanti politici affidano le azioni più sanguinose, salvo poi far prova di palinodia. Branko Bosni™, il cui nome di battaglia diventerà Ivan il terribile nonché Rasputin, rappresenta quindi il lato ignominioso di ogni sistema totalitario che vuole scaricare le nefandezze su esecutori subalterni e in apparenza gregari. Occorre insistere sul fatto che Branko Bosni™ viene presentato come il prodotto della dottrina comunista staliniana che adopera i sofismi di sentenze mistificatorie per giustificare il delitto più nefando. Anziché rifuggire dalla violenza Branko Bosni™ vi si compiace con tetra voluttà che si manifesta sia nel suo assaporamento fantasmagorico che in una perfidia oratoria che ricalca il famigerato discorso del bivacco. B. Bosni™-Rasputin tuttavia non significa solo la violenza aborrita che si deve rimuovere, egli assurge anche a mito, anzi ad archetipo, che corrisponde ad un modello certo mostruoso ma non per questo meno equivocamente affascinante. Bosni™ sfoggia infatti doti non comuni che lo rendono quasi simile a un eroe teriomorfo. Pugnacia, tempestività, mitridatismo, rusticità plasmano un personaggio insieme animalesco e sovrumano che incute il terrore di un’alterità regressiva nata e sviluppatasi comunque nella comunità autoctona.
Aveva nonostante i suoi anni, grande familiarità con costumi semibarbari, come maneggiare il coltello, andare a cavallo, anche senza sella, cacciare il cinghiale, avvicinarsi al nemico senza produrre il minimo rumore. Era forte come un orso. Aveva ucciso tedeschi e repubblicani di Salò senza sciupare una sola cartuccia. Li assaliva alle spalle, torcendo l’osso del collo con le braccia […]. (ibid., p. 226)
Aveva anche fama di immortale, nel senso che le cose che ammazzavano gli altri a lui provocavano sì e no un’indigestione […]. (ibid., p. 228)
Rasputin? Lo chiamavano Rasputin? E, per caso, costui aveva tentato di ammazzare un segretario comunale della Bassa, accusandolo di aver danneggiato la sua famiglia nell’assegnazione delle terre di bonifica? […]. (ibid.)
20Come abbiamo accennato, l’imperversare della violenza viene inserito in una cornice precisa, ossia in uno spazio che nel corso della diegesi viene corroborato attraverso isotopie e anacronie narrative. La malga di Sîr non compare ex abrupto nel romanzo, vi ricorre anzi più volte coinvolgendo i personaggi che si trovano in un antagonismo attanziale, ossia Marianna Novak, emblema dell’ospitalità, e Branko Bosni™, aguzzino e seguace del comunismo. Lo spazio della malga viene prima suggerito allusivamente per assumere nel corso della diegesi un’incidenza sempre più esplicita. La malga diventa quindi uno spazio sineddotico che sta per tutti gli spazi bellici del romanzo e addiritura uno spazio antonomastico che esprime non solo la violenza circoscritta hic et nunc, ma pure la guerra civile e la volontà di sopraffazione dei partigiani comunisti.
21Se esaminiamo ora le ricorrenze precise di questo spazio nel romanzo, notiamo dapprima che attraverso il personaggio di Ivo Novak, prototipo del vinto e dell’osservatore disingannato, la malga è descritta come un ambiente segnato irremediabilmente dal delitto. Un territorio montano arcadico, votato alla pastorizia, rimane quindi deturpato e sprofonda nello squallore. L’anamnesi della protagonista Marianna diventa una premonizione della carneficina. L’agguato e l’uccisione bestiale dei verdi da parte della masnada di Branko Bosni™-Rasputin, sono preceduti da una violenza che viene assaporata mentalmente, con fantasmi di concupiscenza nei confronti di Marianna. L’avversario politico subisce una reificazione, l’uomo diventa un mero mezzo per appagare la bramosia di violenza. Il passaggio dal giorno alla notte palesa altresì un ottenebramento della coscienza. All’ellissi sullo svolgimento preciso dell’eccidio subentra la focalizzazione interna, ossia lo sguardo di un testimone nel momento simbolico dell’alba. Il giorno dopo, appunto, la luce mattutina segna il venire a galla della coscienza di fronte alla realtà. I corpi straziati avvolti nell’ombra della notte iemale, spacciati dapprima per tronchi d’albero, acquistano via via sembianza umana, i partigiani macellati e seviziati stanno a dimostrare il naufragio dell’uomo come fine. La violenza si traduce stilisticamente in una dovizia di particolari e in un’enfasi interrogativa resa da uno stile diretto narrativizzato. Il paragone referenziale: «roba da nazisti e da repubblicani di Salò» (ibid., p. 269), insiste certo sui fautori più temibili di genocidio ma tende a provare che la violenza bellica contraddistingue in sostanza ogni schieramento politico-ideologico.
22Nell’armata dei fiumi perduti spicca la figura del cosacco Burlak, in balia di una violenza indomita che si estrinseca nella guerra concepita come un rito omicida esaltante. In una prospettiva trasversale Burlak va incluso in quella compagine di personaggi sgorloniani che esprimono la violenza atavica dei balcanici e dei turchi, sia nella malga di Sîr, che in romanzi come Il traumaturgo e l’imperatore o Il processo di Tolosa. Se comunque ci preme anche una visione intertestuale, allora dovremmo collegare Burlak all’Argante della Gerusalemme liberata. Ambedue i protagonisti sono caratterizzati dalla loro origine circassa e dalla loro fede musulmana, che significano fisico erculeo, irruenza travolgente, caparbietà indefessa.
- 4 Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, Milano, Rizzoli, 1982. Canto secondo, ottava LIX, p. 64.
L’altro è il circasso Argante, uom che straniero
Se’n venne a la regal corte d’Egitto;
[…]
impaziente, inessorabil, fero,
ne l’arme infaticabile ed invitto,
d’ogni dio sprezzatore, e che ripone
ne la spada sua legge e sua ragione4.
- 5 Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, op. cit., pp. 59-60.
Un giorno Urvàn, con Gavrila, Ghirei, Burlak, un circasso fortissimo e grande, finito tra i cosacchi del Terek, e un gruppo del presidio fecero una ricognizione a cavallo per tutta la valle. […] Burlak sguainò la scimitarra affilatissima e menò un colpo, troncando di netto teneri rami di noccioli, che crollarono giù decapitati5.
23Burlak è un personaggio smanioso, che deve assolvere un rito distruttivo radicato nell’inconscio collettivo delle sua stirpe circassa e del popolo cosacco. Lo strazio di arboscelli nel passo citato anticipa la decapitazione dei tedeschi prepotenti e le frustate a sangue del partigiano Ugo catturato. In tutto il romanzo Burlak non si discosta da un contegno grifagno reso tangibile dai paragoni zoomorfi che vengono inseriti. La morte di Burlak nell’Armata dei fiumi perduti chiarisce di nuovo gli addentellati con il personaggio di Argante nella Gerusalemme liberata.
Burlak con un drappello di fedelissimi, aveva deciso per conto suo la resistenza ad oltranza. Lui non era un contadino del Terek ma un circasso nato per la guerra. […] Sparava senza respiro e provava un’onda di gioia ogni volta che vedeva cadere un nemico. […] «Arrendetevi! Non avete più scampo!» «Che la peste vi colga!» era la risposta. (Ibid., p. 272-274)
- 6 Gerusalemme liberata, op. cit., canto XIX, ottave XXI e XXVI, pp. 686-688.
Cedimi, uom forte, o riconoscer voglia
me per tuo vincitore o la fortuna;
[…]
Terribile il pagan più che mai soglia,
Tutte le furie sue desta e raguna;
[…]
Moriva Argante, e tal moria qual visse;
Minacciava morendo e non languia.
Superbi, formidabili e feroci
Gli ultimi moti fur, l’ultime voci6.
24Nei due testi, il circasso va allo sbaraglio per non venir meno alla sua vocazione bellica. Cedere equivarrebbe ad in impulso fedifrago sicché il combattente rimane impavido in questo duello all’ultimo sangue. Tuttavia, gli attimi estremi di Burlak lasciano filtrare uno sprazzo di resipiscenza. In punto di morte, la focalizzazione interna fa trapelare l’introspezione del protagonista che è ormai consapevole dell’inanità della sua ferocia.
- 7 L’armata dei fiumi perduti, op. cit., pp. 275-276.
Sentiva le grida di vittoria dei partigiani e stranamente gli pareva di non odiarli più. […] Si ricordò della morte di Alda, di Ugo ucciso a frustate, del partigiano che avevano evirato ed era morto dissanguato. Una parte di lui, diventata ormai debolissima, desiderava che quelle cose non fossero avvenute mai perché gli recavano una sorta di noia e di fastidio7.
25Il trapasso verso la morte fa spiccare una catarsi metafisica che si libra al di sopra delle contingenze esistenziali. Il corpo boccheggiante di Burlak rende l’oscenità della morte, ma il suo spirito osserva libero da ogni atavismo la derelizione umana.
L’afflato dell’ospitalità
26Nell’armata dei fiumi perduti, Il confronto tra violenza e ospitalità è percettibile nella scena dell’incontro tra il reparto cosacco e il personaggio del Salvadi nella malga di Madrojas. Premettiamo che stavolta lo spazio della malga non viene subito stravolto dalla violenza endogena. L’uso della parola friulana di Salvadi per il personaggio che viene definito un «re pastore» eccede ovviamente la civetteria linguistica fine a sé stessa. Salvadi significa oltre a selvaggio, selvatico o selvaggina, l’uomo in connubio con la natura, tagliato fuori dalla civiltà urbana, l’esponente di una società estemporanea ed inespugnabile nonostante il flagello della guerra. Questa latitanza rispetto alla norma civile non impedisce la virtù dell’ospitalità, anzi. Perché il Salvadi non condivide la sfiducia ed il sospetto dei valligiani che sembrano chiusi nella loro identità. Quella del Salvadi è meno una propensione all’atarassia che una volontà adamantina di contrastare il dilagare dell’odio e della violenza, almeno in certe circostanze.
27Il primo incontro tra i cosacchi e il Salvadi travalica l’antagonismo tra partigiani autoctoni e occupanti. Mentre Burlak deve smaltire una delusione cocente per la mancata battaglia, i cosacchi Gavrila e Urvàn vedono nel Salvadi una figura epica simile alle leggende del loro popolo. Perciò l’ospitalità viene suggellata sia da uno scambio di sguardi che esprime affiatamento e stima reciproca che da uno scambio di doni accettati. Il Salvadi offre un agnello sgozzato al capo cosacco, il quale a sua volta trasformerà la pelle dell’animale in un colbacco bianco e lo regalerà al suo benefattore.
28Il secondo incontro avviene tra il Salvadi che ha rivestito i panni del partigiano e il giovane cosacco Ghirei che viene in visita nella malga di Madrojas per saggiare la sua valentia e le sue doti di centauro. Ghirei non viene equiparato dal capo partigiano Vento a un nemico ma a un giovane focoso e spensierato che può diventare il tramite per un contatto con i cosacchi avversi alla guerra. Dal canto suo, Ghirei si avvede che l’essere umano non può essere ridotto a un’appartenenza identitaria esclusiva, sente cioè di condividere con i partigiani una condizione universale che richiede appunto l’ospitalità, il confronto magari difficile ma necessario con l’altro. Ospitalità significa quindi anche ascesi individuale e svincolamento dalle pastoie del mito della violenza e della sopraffazione.
Era contento di non aver sparato ed ucciso, e di non essere stato ammazzato a sua volta. […] Aveva scoperto che i partizany erano uomini come lui, che avevano degli amici, degli affetti, una donna da salutare. Se non l’avevano ucciso voleva dire che non erano sanguinari e terribili come si diceva… (ibid., p. 160)
29Rifiutare la violenza e convertirsi all’ospitalità che può albergare nell’umanità significa andare oltre le parvenze per accedere alla conoscenza della sostanza del nostro essere al mondo. A questo proposito le protagoniste Marta e Marianna, rispettivamente nell’Armata dei fiumi perduti e nella Malga di Sîr, ci offrono uno squarcio emblematico.
30Il primo nucleo da considerare qualora si vogliano prospettare gli spazi dell’ospitalità in questi due romanzi riguarda la relazione con le case in grado di offrire accoglienza materiale e soprattutto affetti umani nei frangenti della Storia. Le donne sgorloniane pervase dalla pietà nei confronti di altrui trascendono un rigido abbarbicamento locale, poiché compendiano sia l’appartenenza friulano-slovena che l’apertura verso quegli apolidi per eccellenza che sono gli ebrei o gli zingari. Nelle fattispecie la casa spesso antica, depositaria delle memorie familiari e storiche materializza una specie di continuità trascendentale, un microcosmo in cui l’ospitato mantiene i legami spirituali con gli ospitanti scomparsi: «Si sentiva la custode della villa e di ciò che che essa conteneva, che avrebbe restituito a Esther quando fosse ritornata» (ibid., p. 18).
31Marta viene accolta da Esther, che come abbiamo visto è deportata dai tedeschi, mentre Marianna diventa la sposa di un giovane ebreo la cui famiglia subisce in parte la stessa sorte. Prima di ospitare tutti i naufraghi della guerra, Marta offre un riparo a Haha, lo zingaro che è rimasto l’unico superstite del suo gruppo. Sembra dunque che ci si muova nell’ambito della regola antropologica del dono. Tuttavia, la donna sgorloniana palesa una propensione all’ospitalità che supera di gran lunga il mero schema sociale.
32Intanto, la donna sgorloniana possiede una capacità vulneraria che non si limita a sanare le ferite della guerra ma si spinge fino al dono totale di sé. Si pensi per esempio alla figura del partigiano Ivos nell’Armata dei fiumi perduti o del giovane sbandato repubblicano nella Malga di Sîr. L’ospitalità non va concepita soltanto come un surrogato temporaneo alla violenza, ma come una disposizione metafisica e spirituale, il raggiungimento di una saggezza universale.
- 8 Mythes et représentations de l’hospitalité, a cura di Alain Montandon, Clermont-Ferrand, Presses d (...)
33Inoltre, sul piano intertestuale, la donna sgorloniana riecheggia due personaggi evangelici, la samaritana e Maria-Maddalena, il che sembra indicare che l’afflato dell’ospitalità scaturisca da un contegno religioso di fronte al mondo e all’alterità. Alain Montandon ha chiamato teoxenia questa forma d’ospitalità che possiamo già rilevare in Omero ma che è trasfigurata dal cristianesimo8. Dire che l’ospite è sacro equivale a affermare che l’ospitante lo accoglie come se fosse un inviato di Dio, qualunque siano il suo aspetto e la sua identità apparente. Secondo Alain Montandon, da Boccaccio in poi la letteratura occidentale ha recepito e rielaborato il mito di San Giuliano, emblema di un’ospitalità che in casi estremi giunge all’annichilimento. Nel corpus sgorloniano, la figura di Isabella nella Regina di Saba corrisponde a questo sacrificio di sé in favore dell’umanità sofferente. Precisiamo che sacrificio non significa autodistruzione, inghiottimento nel baratro del nichilismo come accade nel romanzo Aracoeli di Elsa Morante. La donna sgorloniana è permeata di una fede cristallina che infonde speranza ed operosità foriera di giubilo condiviso.
- 9 L’armata dei fiumi perduti, op. cit., p. 231.
Poi rispuntava la Marta di sempre, piena di slanci e di temperamento, la donna che niente poteva abbattere in modo definitivo, e meno che mai riusciva a difendersi dalla marea sempre montante della pietà. Tutti le facevano compassione, sempre di più, sicché lei non sapeva come difensersi da quel sentimento, che minacciava di travolgerla. […] Tutti cercavano un mantello di difesa, una campana di vetro, che poi nel loro pensiero diventava la Provvidenza, la fiducia in Dio, la speranza di essere protetti da Lui. E in che cosa si doveva sperare, altrimenti, di fronte a fatti come i campi di sterminio, dove avevano trovato la morte la signora Esther, o la famiglia di Haha9?
- 10 Cf. K. Jaspers, La foi philosophique, Paris, Plon, 1952, pp. 86-95.
34Marta e le donne sgorloniane sembrano esprimere quanto propugnava il filosofo Karl Jaspers in un’epoca in cui le ideologie totalitarie sfregiavano l’umanità10. Se l’incontro tra immanenza e trascendenza avviene nel mondo, questo implica che il soggetto può essere in grado di ricevere se stesso come dono per dare un senso alla propria esistenza ed accogliere quella altrui. Mentre l’ideologia o la credenza esclusiva in un ideale non colgono il bisogno di assolutos cui è improntata la condizione umana. Sul piano diegetico questo anelito verso l’assoluto racchiude simbolicamente il romanzo La malga di Sîr. Difatti, poco dopo l’esordio il canto dei salmi viene deriso da Fabio, vero e proprio araldo dell’ideologia materialista e comunista. L’ultima pagina del romanzo ci mostra i superstiti della famiglia ebrea dei Timäus intenti a cantare insieme a Marianna il salmo del giusto che muore, accogliendo la parola divina come vera speranza.
35Ribadire e magnificare l’ospitalità come alternativa universale alla guerra e alla violenza ripropone il dilemma del romanzo storico che dovremmo concepire meno all’insegna di un mimetismo referenziale che nell’alveo di una raffigurazione idiosincratica. Sarebbe fuorviante leggere L’armata dei fiumi perduti o La malga di Sîr alla stregua della Storia della colonna infame, e da questo punto di vista la diatriba che ha accompagnato la pubblicazione dei due romanzi di Sgorlon appare alquanto esagerata. È ingiusto definire lo scrittore friulano revisionista o qualunquista. Egli ha mirato a sfatare l’agiografia resistenziale, sulle orme di Elsa Morante, e ha inoltre affermato che la nostra finitezza umana deve indurci al massimo rispetto della vita nostra e altrui: entrambe sono infatti un dono. Egli sostiene inoltre che la pace va ricercata non nelle contingenze ideologiche ma nell’ascesi interiore. Certo, l’intentio lectoris potrebbe far notare che Sgorlon ha sottovalutato il peso della persecuzione fascista nelle zone di confine, la profonda levatura morale di dissidenti come Monsignor Ivan Trinko, e il fatto che perfino i parroci renitenti furono accusati dopo 1945 di essere slavocomunisti avversi agli italiani. Notiamo tuttavia che Sgorlon ha rappresentato la rinascita identitaria slovena con il teatro popolare e con la somma figura del poeta Simon Gregor™i™. Altri affermeranno che il non aver posto il problema delle propaggini di Gladio o del neoirredentismo in un’opera che evoca gli strascichi della resistenza antifascista dia un’immagine distorta della realtà friulana.
36Ciononostante, un romanzo come La malga di Sîr, che doveva intitolarsi mir in vojna, costituisce un omaggio vibrante alla letteratura russa e quindi esprime sul piano intertestuale un aggancio che supera di gran lunga i topoi circa la letteratura mitteleuropea. Marianna, la friulano-italo-slovena che legge Guerra e pace di Tolstoj incarna la funzione euristica e paratopica della letteratura attraverso una specie di mise en abyme della lotta indefessa tra le forze della guerra e quelle che cercano affannosamente la pace.
Notes
1 Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, Milano, Mondadori, 1985, p. 8.
2 Cf. Fernand Braudel, L’identité de la France. Espace et Histoire, Paris, Arthaud, 1986.
3 Carlo Sgorlon, La malga di Sîr, Milano, Mondadori, 1994, p. 18.
4 Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, Milano, Rizzoli, 1982. Canto secondo, ottava LIX, p. 64.
5 Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, op. cit., pp. 59-60.
6 Gerusalemme liberata, op. cit., canto XIX, ottave XXI e XXVI, pp. 686-688.
7 L’armata dei fiumi perduti, op. cit., pp. 275-276.
8 Mythes et représentations de l’hospitalité, a cura di Alain Montandon, Clermont-Ferrand, Presses de l’université Blaise Pascal, 2001.
9 L’armata dei fiumi perduti, op. cit., p. 231.
10 Cf. K. Jaspers, La foi philosophique, Paris, Plon, 1952, pp. 86-95.
Haut de pagePour citer cet article
Référence papier
Jean-Igor Ghidina, « L’afflato dell’ospitalità lenisce la sferza della Storia », Cahiers d’études italiennes, 3 | 2005, 209-222.
Référence électronique
Jean-Igor Ghidina, « L’afflato dell’ospitalità lenisce la sferza della Storia », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 3 | 2005, mis en ligne le 15 décembre 2006, consulté le 11 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/289 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.289
Haut de pageDroits d’auteur
Le texte et les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés), sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Haut de page