L’armata degli adolescenti che pagò il conto della storia: Stili e caratteri della letteratura di Salò
Texte intégral
[…] sono venuto quassù cercando la libertà, e invece ho trovato l’odio.
G. Rimanelli, Tiro al piccione.
- 1 Cf. M. Halbwachs, La memoria collettiva (1950), a cura di P. Jedlowski, Milano, Unicopli, 1987.
1In un saggio pubblicato postumo oltre cinquant’anni fa, il sociologo francese Maurice Halbwachs definiva la memoria come una forma di ricostruzione parziale e selettiva del passato che necessita imprescindibilmente per la sua attualizzazione dell’esistenza di un gruppo capace di fungere costantemente da referente della sua elaborazione1. L’immagine del passato non si conserva e la memoria non è una sua semplice riviviscenza, ma piuttosto una sua visibile rielaborazione in funzione del presente, mancando la quale l’eredità parziale di un gruppo è fatalmente destinata all’oblio o almeno ad una minoritaria marginalità.
- 2 Sono soprattutto legate all’ambiente del neofascismo, rifiorito dalle ceneri della RSI e istituzio (...)
- 3 Scrive a questo proposito Giovanni Tonelli, uno dei più attivi interpreti dell’elaborazione dell’« (...)
- 4 Per «zona grigia» intendiamo «la compatta presenza, sia nelle città che nelle campagne, di comport (...)
- 5 Di questa esclusione, ben documentata anche dagli odierni manuali di letteratura italiana del Nove (...)
- 6 Ma vanno qui ricordati, in una campionatura che non ha alcuna pretesa di esaustività o omogeneità (...)
- 7 Cf. S. Martelli, Introduzione a G. Rimanelli, Tiro al piccione, Torino, Einaudi, p. XIV. La prima (...)
- 8 Cf. G. Soavi, Nota dell’autore, in Il banco di nebbia, Milano, BUR, 1974 (prima edizione, Milano, (...)
- 9 Dopo l’uscita del suo romanzo più noto (A cercar la bella morte, Milano, Mondadori, 1986, poi Vene (...)
2L’autobiografia di una nazione, se volesse aspirare ad una narrazione dei suoi conflitti e delle sue diversità, dovrebbe garantire dunque le medesime condizioni di ospitalità agli interpreti delle sue storie contrapposte, integrando e offrendo medesimi diritti di cittadinanza ai sentimenti e alle ragioni di parte – anche quelle sconfitte, che ci appaiono oggi insostenibili – della propria multiforme memoria nazionale, del proprio contraddittorio patrimonio di identità collettive. Le conseguenze della guerra civile, scatenatasi nell’Italia del Nord all’indomani dell’otto settembre, hanno legittimato, invece, l’esistenza di un unico referente a cui destinare la trasmissione e la conservazione degli ideali della lotta partigiana e dell’epica vicenda resistenziale, neutralizzando quando non ancora oscurando del tutto la testimonianza della parte sconfitta e sbagliata, il ricordo parziale dei reduci e dei protagonisti della militanza repubblichina2. Le condizioni imposte dalla cultura vittoriosa e dai suoi apparati editoriali, spesso ideologicamente chiusi a proteggere una letteratura civile da interventi poco ortodossi rispetto alle norme di un codice a volte scaduto al rango di vulgata, hanno in buona sostanza scoraggiato i contributi legati alla costruzione della memoria di Salò, sopravvissuta per lo più nei rimasugli di una memorialistica oleografica, ottusamente celebrativa o recriminatoria, proiettata in una risentita e polemicamente orgogliosa rivendicazione di un’esperienza rimossa o dileggiata3. Sicché non stupisce che, anche in una sede letteraria, davvero di rado ci si sottragga all’unanimismo piuttosto omogeneo della celebrazione resistenziale e che rimangano assai sporadici sia i tentativi di illuminare la «zona grigi»4 del disimpegno morale e ideologico di una parte non trascurabile della popolazione italiana sia le testimonianze narrative della letteratura di Salò, ospitata per lo più nei cataloghi di case editrici dalla limitatissima circolazione e relegata nel limbo dei circuiti alternativi o costretta ad affrontare censure e ostracismi dalla cultura ufficiale nelle trasgressive ed episodiche occasioni in cui questa si è prestata a presentarla5. Ed è quest’ultimo il caso dei tre romanzi qualitativamente migliori6, da Tiro al piccione di Giose Rimanelli ad Un banco di nebbia di Giorgio Soavi al più recente A cercar la bella morte di Carlo Mazzantini: il primo, pubblicato nella «Medusa» mondadoriana, ma dopo l’annullamento di un regolare contratto di edizione firmato tre anni prima, sotto gli auspici di Pavese, con l’Einaudi7; il secondo, inviato come inedito al premio Hemingway nel 1954, ma non premiato, a dispetto del quasi unanime apprezzamento, a causa del giudizio di un giurato (Fernanda Pivano) che lo aveva indicato come «un romanzo fascista o comunque tale da esaltare le gesta di coloro che avevano […] fatto il servizio di leva nella Repubblica di Salò»8; il terzo, presentato al pubblico da Mondadori dopo essere stato rifiutato per anni dai maggiori editori italiani9.
- 10 G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, p. 41.
- 11 Sulla «negazione del futuro» e sul combattere per il passato, si veda S. Guerriero, 1943-1945: la (...)
- 12 Cf. B. Fenoglio, Una questione privata, Milano, Garzanti, 1965.
- 13 L. Meneghello, Nota, in I piccoli maestri, Milano, Mondadori, 1986, p. 265 (La prima edizione è Mi (...)
- 14 Si tengano presenti le riflessioni del commissario partigiano Kim, secondo il quale «basta un null (...)
- 15 G. Comisso, Gioventù che muore, Milano, Milano-sera editrice, 1949, p. 148.
- 16 Cf. C. A. Mezzacappa, «Il primo Rimanelli tra negatività esistenziale e speranza», Misure critiche(...)
- 17 C. Pavese, Lettere 1926-1950, a cura di L. Mondo e I. Calvino, vol. II, Torino, Einaudi, 1996, p. (...)
- 18 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p. 133.
- 19 «Puoi arruolarti con noi e buona notte, la tua pratica si archivia. Ma se commetti una piccola fes (...)
3Non mancano, beninteso, altri romanzi in cui la guerra civile è vista dall’ottica fascista: è il caso, ad esempio, di Gioventù che muore di Giovanni Comisso: ma qui la vicenda è segnata, molto più che dall’esperienza di guerra, dalle spinte giovanilistiche del protagonista che lo portano a «vivere pericolosamente» e, nel vagabondare confusionario delle proprie emozioni, a simpatizzare per i partigiani ma a lavorare per i tedeschi, indolentemente refrattario ad ogni norma morale precostituita, superbamente ostile ad ogni irreggimentazione ideologica. Nei romanzi di Rimanelli, Mazzantini e in misura minore di Soavi, invece, il resoconto emblematico e sofferente di un percorso generazionale è racchiuso nella prigione morale di una memoria senza risarcimento e nella tensione di un difficile recupero di una normalità su cui gravano il giudizio della storia e il folle, ineludibile riverberarsi di una traumatica avventura, angosciosa e senza riscatto. Le esperienze dei protagonisti autobiografici delle vicende narrate non nascono mai da un convincimento ideologico preciso, da una scelta motivata e razionale: a giustificare la loro viscerale scelta di campo sono pulsioni dettate dall’istinto, in cui non compare la prospettiva consolatoria e ottimistica dell’ideale palingenetico di una nuova, radiosa e finalmente libera società che nutre tutta la narrativa neorealistica. Nei solitari rivoltosi della Resistenza, Giorgio Falaschi ha scritto che germogliano l’«archetipo» di un «vuoto»10 apertosi alle loro spalle e, contemporaneamente, l’esigenza di colmarlo grazie ad una lotta fiduciosa e rigenerante, tutta lanciata alla costruzione su basi nuove di una società senza più alcun nesso col passato; nei giovani dei romanzi repubblichini, invece, quell’archetipo si è rovesciato e il presente esiste solo come propaggine del passato11: si pensi a Carlo, il protagonista di A cercar la bella morte, che sceglie di combattere per ridare vita alle eredità che la moltitudine vuole rimosse e cancellate, non certo per il futuro, che anzi appare già segnato da incognite e prodromi indecifrabili e angoscianti, svuotato da ogni speranza di ricostruzione individuale e collettiva. La decisione di combattere nella Repubblica Sociale non è, in altre parole, sostenuta da quella tavola di valori che colora le motivazioni degli interpreti letterari della lotta partigiana, anche di chi, come Fenoglio o Meneghello, pure per molti versi l’hanno demitizzata, rendendola «una questione privata»12 o divulgandola «in chiave anti-retorica e anti-eroica»13. È, piuttosto, il frutto di quel clima di disorientamento e confusione di cui parla anche Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno14 o lo stesso Comisso in Gioventù che muore, allorché l’incertezza, l’assenza di codici oggettivi e onnicomprensivi di interpretazione di ciò che accedeva rendeva per tutti la vita «come una porta uscita dai cardini», che «non si apriva, né si chiudeva più» e non rimaneva, confusamente e fatalisticamente, che «affidarsi al destino»15. A squadernare ancor più ogni ipotesi di razionale inquadramento delle vicende, contribuisce poi la naturale miopia di giovani bruscamente desiderosi di offrire alla loro istintiva volontà di rottura la soluzione di una fuga polemica dal compromesso o da un’accettazione supina della realtà. In questo modo, ad esempio, il destino di Marco Laudato, il protagonista del romanzo di Rimanelli, si traduce nell’abbandono della propria realtà opprimente, della soffocante e torpida gora paesana, in cui ha trascorso l’adolescenza, riempita dalla violenta tetraggine del padre, dalla frenetica, ma inappagante avventura sessuale con una ragazza del paese e dalla noia dell’inutile e ripetitivo vagabondare coi coetanei16; ma la sua è una fuga che non ha nulla di politico, essendo semplicemente quella, per usare le parole di Pavese, di «un giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un’idea»17, che lo porta, inconsciamente, «solo in mezzo ad una guerra che non capiv[a] »18. La stessa militanza è frutto di circostanze non cercate (si arruola nella RSI solo per sottrarsi alla fucilazione in quanto catturato per essere scappato da un campo di lavoro nazista)19 e se il viaggio verso Nord su un camion tedesco si rivela come un atto di ribellione contro le anguste strutture del paese e della famiglia che lo tengono avvinto ad una adolescenza indolente e involuta, l’incontro con la guerra appare in tutta la sua accidentale casualità, mentre gli stessi vessilli delle Brigate Nere che è costretto a indossare restano emblemi sconosciuti e incomprensibili.
- 20 G. Soavi, Un banco di nebbia, op. cit., pp. 152-153.
4Anche Brizzi, l’io narrante del romanzo di Soavi, si trova arruolato a Salò senza alcuna motivazione ideologica: solo che qui, la scelta che in Marco è ispirata da una logica di fuga e, allo stesso tempo, di rifiuto dell’ambiente in cui era cresciuto, si rovescia in un conformistico adeguarsi ad un mondo mai messo in discussione. Integrato in una realtà di provincia che gli appare la migliore possibile per dar corpo ai valori prosaici di una piccola borghesia meschina e materialisticamente soddisfatta delle proprie prerogative, Brizzi accoglie la destituzione di Mussolini come un’improvvisa abiura di quel sistema in cui si era da sempre acriticamente immedesimato. Il repentino e inatteso crollo del fascismo rappresenta per lui la fine di un ordine che gli educatori gli avevano prospettato come un modello indiscutibile e senza alternative: «Ero nato con quel che Mussolini aveva creato, credevo proprio di essere uno dei suoi giovani migliori e mi venne da piangere perché sentii un terremoto dentro di me»20. La fine della dittatura coincide con l’inopinata interruzione della sua crescita spensierata e serena nella realtà periferica e appagante di un tempo «davvero felice e miracoloso» (p. 129), scandito dalle varie fasi della sua arcadica iniziazione alla vita. È solo il brutale epilogo della guerra voluta dal fascismo a determinare in lui una crisi che rimane, tuttavia, sempre limitata al campo della sfera emotiva, non imponendogli mai una più rigorosa riflessione ideologica sugli eventi che l’hanno determinata. Sicché a Soavi non si presenta niente di meglio che giustificare il disorientamento suo e dei suoi coetanei con l’alibi dell’impossibilità di capire, di formarsi un’idea alternativa a ciò che supinamente aveva recepito dal suo ambiente adolescenziale:
- 21 Ibid., p. 132. L’immagine stessa del «banco di nebbia» con cui Soavi dà titolo alla propria narraz (...)
Non c’era di meglio, ma non c’era nemmeno dell’altro che promettesse il contrario di quanto avveniva; né, credo, la gente del nostro popolo, gli insegnanti, gli amici dei nostri genitori, tutto insomma il mondo dei nostri contatti con la gente di quel tempo, dava a vedere di avere qualcosa che non andasse bene21.
5E ciò spiega, su un piano narrativo, come tutta la prima metà del libro si configuri come una lunga introduzione motivata dall’ansia dell’autore di fornire una giustificazione a quello stato d’animo senza coordinate e all’approvazione della guerra intesa come la logica, conseguenziale accettazione di un ordine che fino a quel momento era stato il malinteso garante del benessere e della giustizia: «la nostra educazione, il desiderio di aggredire altri paesi suonarono per noi giovani come una parola giusta» (p. 151).
6Alla sbigottita veemenza del protagonista di Mazzantini, all’istintiva volontà di fuga di quello di Rimanelli, subentra nell’antieroe di Soavi un affidarsi casuale a scelte non meditate, ma solo figlie di osservazioni contingenti consigliate da ignoranza e superficialità:
- 22 Ibid., p. 177. Del resto, le urgenze del momento non costringevano i più a indirizzi radicali; anz (...)
A noi non mancò la volontà di decidere, una cosa sbagliata, o una cosa giusta, mancò invece, nei più vecchi, una parola di spiegazione. […] Io e i miei amici eravamo indecisi, e chiedevamo a questi e a quelli che cosa si doveva fare. Poi comparvero sui muri i manifesti di chiamata alle armi e fummo in molti a ritrovarci nei battaglioni che si andavano formando in quei mesi22.
- 23 Cf. R. Liucci, La memoria letteraria della «zona grigia», art. cit., p. 140.
7I suoi coetanei, che «all’ultimo momento» (p. 170) scelgono la via della ribellione partigiana e decidono di andare in montagna, gli sembrano mossi anch’essi da suggestioni provvisorie e da pulsioni effimere e perciò sono destinati a cambiare idea, a tornare sui loro passi; e lui stesso se opta per combattere dalla parte dei fascisti, lo fa non certo per una convinta maturazione, ma solo per convenienza o per un rassicurante rispetto della legalità: «Io mi sentivo a posto, protetto dalla legge, dai manifesti che comparivano sui muri, dalla stessa gente di cui facevamo parte» (p. 171). Il protagonista è, insomma, cooptato inconsciamente all’interno di una comunità militare a cui però rimane estraneo e di cui gli sfuggono le più elementari motivazioni: non condividendo né furori ideologici, né desideri di vendetta, né aspirazioni ideali, logico alla fine vederlo defilarsi, assentarsi da una guerra civile che ha affrontato col vuoto e con l’inconsapevolezza di chi rimane solo preoccupato di autoassolversi e fornire un giustificazionista perché alla propria confusione, al proprio immaturo sottostare a logiche emotive o a irrazionali ragioni psicologiche23.
- 24 Mentre Marco se ne sta incollato alle finestre a fantasticare vedendo le colonne dei camion transi (...)
- 25 C. Mazzantini, A cercar la bella morte, op. cit., p. 13.
8L’ampia narrazione dal tono didascalico in cui si dipanano i passaggi del lineare Bildungsroman del protagonista è motivata dall’intenzione di fornire le pezze d’appoggio alla sua logica e naturale evoluzione in un impianto difensivo che suona spesso ripetitivo e stucchevole, ma che riflette indubbiamente una costante di tutta la letteratura di Salò, nascente sempre da un dissidio con l’autorità degli adulti. Se in Soavi la polemica è genericamente contro i maestri e gli educatori forse solo perché il padre del protagonista è già morto, nei romanzi di Rimanelli e Mazzantini la figura paterna assume un valore centrale per comprendere la genesi dei percorsi eretici e ribelli dei figli. Nel primo caso, il padre è del tutto incapace di cogliere le insoddisfazioni e le esigenze di Marco, a cui reagisce solo con ottusa violenza24; nel secondo, diventa il simbolo colpevole di una generazione mediocre e senza dignità. Mentre il 25 luglio segna la brusca interruzione di una crescita generazionale e l’impietosa cesura di giovani vite sconvolte e traumatizzate, la reazione di Carlo e dei suoi amici si traduce in un’esplosione liberatoria di rabbia, diretta proprio contro chi, come il padre, prima era stato acritico, conformista sostenitore del regime e ora non faceva nulla per mantenerlo in vita. Insieme alla testa di gesso di Mussolini, che «rotola […] sul selciato presa a calci dalla gente»25 viene metaforicamente calpestata e ingiuriata la testa di quanti quella stessa effigie ora derisa e umiliata avevano, per qualunquismo o per omologazione, celebrato e idolatrato. La fine di Mussolini equivale ad una degenerata rivoluzione che cancella filiazioni e senso di appartenenza, arresta e ridiscute l’ordinario sostituirsi delle generazioni, comporta la dismissione dell’autorità di chi in lui aveva riposto la ragione della conservazione di un criterio, di una logica tradizionale. Ora che quella figura, che aveva incarnato il quintessenziale riferimento di una società regolare e armonica, viene violentemente cancellata e oltraggiata, i genitori devono ammettere la loro destituzione, incapaci ormai di fornire spiegazioni di eventi di cui sono gli unici responsabili. Il padre di Carlo non può, allora, che presentarsi al figlio trasformato di colpo, quasi il suo prestigio e le prerogative di genitore fossero state annullate dalla caduta di chi ne era complice e garante: non può più imporre nulla, né proibire, è diventato un’altra persona, svestita della sua dignità e del suo ruolo carismatico, «rimpicciolito, inadeguato» dinanzi alle macerie di un mondo che sembrava eterno e ora invece era ridotto ad un «presepio […] andato a scatafascio» (p. 9), «a capitombolo» (p. 11). Consapevole della propria impotenza, incapace di spiegare al figlio i motivi di un capovolgimento epocale, a cui è chiamato a rendere conto come sul banco degli imputati di un tribunale che di colpo processa insieme a lui tutta la sua generazione, egli non riesce a non sentirsi in colpa, reagisce allo sguardo del figlio con un inutile sfogo autoassolutorio, si chiude in un angoscioso silenzio, in attesa del colpo di scena che riabiliti lui e il sistema in cui si era riconosciuto. Improvvisamente i suoi occhi paiono ad un certo punto avere un sussulto di vita al pensiero che un «miracolo […] avrebbe rovesciato la situazione», proprio come nella Grande Guerra, quando dopo Caporetto «ci aggrappammo alla sponda [del Piave] e li fermammo, buon Dio!… Non passarono!… E poi li ributtammo indietro…». E invece, dinanzi alle dimissioni di Mussolini, niente può più essere recuperato e al cospetto di quel disastroso rovesciamento dell’«ordine dell’universo» non si può che piangere, singhiozzare e rassegnarsi a non poter «fermare tutto questo e riportare le cose indietro» (p. 12).
9La scelta di Carlo nasce quindi proprio da qui: dal desiderio di riscattare la vergogna di un trasformismo amorale e opportunistico, ma soprattutto nasce dall’estremo tentativo di redimere la storia sua e dei suoi coetanei, di ricomporre un io andato in frantumi, provando ad uscire dal trauma di chi sente di aver perduto definitivamente il riferimento e l’esempio morale della figura paterna. Proprio come in Rimanelli, anche in Mazzantini la decisione di andare a combattere risponde in primo luogo all’esigenza di fare terra bruciata dell’ambiente cinico e gretto in cui è cresciuto, riponendo un’ambizione di rifondazione morale nella propria fuga, nell’assecondare quel cieco, irrazionale e del tutto antiideologico proposito di «abbandonare quella gente pesta e rassegnata», che lo aveva educato col «frastuono di parole», con «le bandiere, le fanfare», seguendo quindi quell’«impulso ad andartene» che era in fondo fomentato da null’altro che dal «sentimento di aver subito un torto da parte loro» e dalla «volontà rabbiosa di trovare un responsabile a tutti i costi, su cui sfogare la tua delusione e il risentimento per essere stato ingannato» (p. 192).
- 26 La Venezia in cui sbarca Marco Laudato è una città caliginosa e nebbiosa, nordica e spettrale (cfr(...)
10Certo, nel protagonista del romanzo di Mazzantini si affaccia confusamente un sentimento di revanscismo nei confronti di tutti coloro che disinvoltamente hanno cambiato casacca di appartenenza politica iscrivendosi a giochi fatti alle liste antifasciste solo per tornaconto personale, rivelando la natura ipocrita e strumentale del loro comodo consenso di facciata negli anni del fascismo trionfante; ma sulla scelta di combattere da una parte che si rivela da subito fatalmente destinata alla sconfitta, incide soprattutto il disperato, illogico e anacronistico gesto di non assistere alla propria repentina trasformazione, di non vedere le eredità ricevute di colpo annullate, di intraprendere, smarriti, quel viaggio verso Nord come un recupero dell’infanzia e di una nuova epoca da integrare fedelmente e con continuità con la vecchia, senza cesure o brusche sospensioni. Anche in questo caso al partito preso non è data investitura positiva: si combatte per non essere (o, per meglio dire, per non cambiare, tentando vagamente di ricercare un possibile criterio di ricomposizione, una forma di ordine tradizionale nel confuso marasma del momento), proprio come in Rimanelli per evadere e poi per non morire o in Soavi per non sapere cos’altro fare; e l’unica enfatizzazione possibile è solo il tragico mainstream della violenza, il ripetitivo canovaccio di una guerra imposta solo dai frammenti irrazionali di un volontarismo senza scopo. Non che manchino – specie in Mazzantini – coloro che insorgono furiosamente al presunto tradimento degli altri italiani, avversari in quella contrapposizione insensata, ostentando la cieca risposta di una esaltazione belluina, disposti a intingere la propria esistenza nel sangue della vendetta impietosa, della brutale contrapposizione. Ma solitamente nei soldati repubblichini descritti da questi scrittori la rassegnata nevrosi, la paura e lo smarrimento prevalgono sull’agonismo della guerra, il trauma di un’esperienza sgomenta e irredimibile e la labilità delle loro fumose certezze su ogni possibilità di livore ideologico. L’angoscia cosciente del massacro si rifrange nella penosa austerità di un universo plumbeo e sommerso26, in cui è cancellato sia ogni residuo di mitizzazione della guerra che il giovanilistico e baldanzoso anarchismo lanzichenecco di una certa concezione della guerra scapigliata e guascona di non poche avanguardie primonovecentesche. A sancire la rimozione di ogni velleitaria persistenza dei più consunti stereotipi di guerra, non c’è neppure spazio per una rinfrancante e salvifica utopia di qualche tipo, se non politica o ideologica, almeno consolatoria o formativa: una tragica finalità, almeno, in cui sublimare la titanica e solitaria irrazionalità di chi si sente disprezzato e incompreso da tutti.
- 27 Ma, confrontati con i protagonisti della Resistenza, i soldati repubblichini evidenziano altre, so (...)
- 28 M. Corti, Neorealismo, in Il viaggio testuale, op. cit., p. 67.
- 29 L. Meneghello, Premessa a I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 7-12.
- 30 Cf. A. Casadei, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Roma, Caro (...)
- 31 R. Liucci, La memoria letteraria della «zona grigia», art. cit., p. 127.
- 32 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p. 37.
- 33 Ibid., p. 83. Nel romanzo dello scrittore molisano, alla morte si va incontro con una ineluttabile (...)
- 34 Ibid., p. 158. I corsivi sono nel testo.
- 35 C. Mazzantini, A cercar la bella morte, op. cit., p. 39.
11Di quest’armata di adolescenti – radunati come un’accozzaglia indistinta di uomini invano protesi almeno alla consolazione del miraggio cameratesco della comunanza e di una solidarietà composita, aggregata da esperienze soggettive tanto diverse l’una dalle altre – vengono per lo più descritte debolezze, incertezze e angosciose domande su un’identità sfilacciata e ignota anche a loro stessi: del tutto differenti, questi soldati, dagli eroi positivi dell’epopea resistenziale, fiduciosi nell’avvenire e legati dalle sicure aspirazioni di un mondo migliore e di una palingenesi a portata di mano27. La guerra stessa non è il male necessario ed inevitabile per far trionfare i valori della lotta partigiana («Uomo, Solidarietà degli umili e degli oppressi, Speranza nel futuro, Fede nella rinascita»28), né è l’oggetto mitico e fantastico del favolistico epos calviniano: e se nell’autore del Sentiero dei nidi di ragno, la presenza di un rassicurante diaframma tra sé e il racconto rende l’esperienza di guerra in qualche modo meno tangibile, frammentata dagli evocativi bagliori di echi e suggestioni lontane, la narrazione degli scrittori repubblichini è forse, per sua natura e logica interna, più accostabile a quella del Meneghello de I piccoli maestri, basata sulla nuda «verità stessa delle cose29» o alle visioni fenogliane, in cui parimenti manca ogni astrattezza o quella prospettiva assolutizzante, che invece condiziona il manicheismo descrittivo su cui si fondano l’autenticità metastorica dell’essere uomini e l’antiumanità senza contingenze del non essere enunciato e spiegato più che raccontato dal Vittorini di Uomini e no30. La guerra – così come per il Pavese de La casa in collina – si rivela solo per quello che è, un pasticcio insensato, una carneficina inutile e feroce, una rinuncia della ragione, un tragico disvelamento di quanto sia ingannevole ogni «visione progressista e teleologica della storia»31. E tutte le retoriche imbellettature, ideologiche o simboliche, con le quali viene ornato l’armamentario bellicistico formato da slogan o parole d’ordine, è decostruito in tutta la sua natura mistificante e assurda. Il Marco rimanelliano può così a chiare lettere dire che a lui «non importava niente della divisa»32, le prospettive di avanzamento gerarchico che gli vengono prospettate sono liquidate con una prosaica e indifferente distanza emotiva; finanche l’idea della «bella morte», che compare nella trascendente religio mortis volontaristica dei soldati di Mazzantini, è qui vanificata dalla disfatta materialità del morire «a pezzi»33, da un’agonia senza fine a cui nessuna illusione eroica può dare riscatto. Le medaglie non sono altro che «patacche» che «danno a tutti» (125), gli ingannevoli ottimismi retorici della propaganda sull’«immancabile vittoria» o sull’imminenza dell’«ora di Hitler»34 sono derisi e demistificati e anche il sesso, sempre presente nei romanzi repubblichini come l’ultima, residua traccia di un giovanilismo ribaldo e freneticamente virile, ha qui ben poco della piacevolezza carnale di un’iniziazione liberatoria, degradando piuttosto ad esigenza fisiologica e meccanica o ad un livello laido e disgustoso di certe figurazioni che espressivamente ricordano le scene dei quadri di Otto Dix: una prostituta è descritta mentre russa «con la bocca aperta, il viso stirato e grasso», con una «bolla di bava all’angolo della bocca» in cui fa capolino un «dente d’ottone bianco» (p. 59); oppure Anna, la bella infermiera che si occupa di Marco ferito, è destinata a sprecare la propria giovinezza e a diventare penosamente «un fossile inutile intorno a uomini storpi che hanno solo il desiderio di scoppiare, giacché non possono ottenere più nulla dalla bellezza» (p. 124). Nessuna riparazione oleografica, in altre parole, può fornire una giustificazione consolante ad una lotta imposta da altri e subìta senza alcuna consapevolezza se non quella della sua inevitabile, fatale conclusione: «ci hanno vestito di stracci […], di noi hanno fatto le nuove legioni, ci hanno riempita la bocca di canti e ci hanno detto di andare. Andare! Ma andare dove? Non abbiamo mai saputo dove dovevamo andare. Ci hanno mandati a morire, morire massacrati, tutti insieme» (pp. 138-139). Persino la patria, la più stereotipata immagine mobilitata dalla precettistica ufficiale, invece che esaltare e galvanizzare, è svilita a riferimento astratto e distorsivo, a parola intangibile e insignificante, caricata artificiosamente di simboliche e suggestive allusioni, a cui si aggrappano, giorno dopo giorno, gli utilizzi più strumentali, le utilità più opportunistiche e funzionali: «qual è la nostra Patria?» (p. 80), si chiede Marco; di più: dinanzi alla folla di ciechi e mutilati, al cospetto delle sole visibili conseguenze della guerra, gli verrebbe voglia di gridare: «Idioti, siamo tutti degli idioti! È la patria che ci ha ridotto così, la Patria ci ha uccisi, ci ha atterrati come rettili» (p. 132). E in Mazzantini, la causa per cui si ritrovano i giovani di Salò, che cos’è se non l’insieme intrecciato di nichilismi e misticismi, astratte idealità e confuse idee di riscatto? Ma è anche uno stimolo assolutamente individuale, un impasto policefalo che impedisce di dare senso collettivo a idee e parole, al punto che il «fascismo», per la cui difesa molti si ritrovano lì tra le montagne, è un fumoso concetto senza più relazioni riconoscibili, «non significa più una cosa precisa e univoca», ma solo «un’idea personale»35, mentre sfuggono, ormai, anche gli obiettivi, le finalità di quell’orgoglioso, testardo e illogico rimanere a combattere: «Vittoria? Sconfitta? […] Riguarda gli altri: i tedeschi, gli alleati. Noi ne siamo fuori. A noi non resta, non ci è lasciata che la nostra sorte individuale» (p. 40).
- 36 G. Soavi, Un banco di nebbia, op. cit., pp. 214-215.
- 37 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p. 223.
12Unica realtà di fatto, denunciati i luoghi comuni affollati nei nebbiosi interstizi della retorica e nelle false e meschine impalcature dell’ideologia, è quindi l’espressiva iconografia del disastro, lo scandaglio sanguinoso e caotico nelle tenebre insensate della guerra, per di più della guerra tra fratelli, contro un avversario che – diversamente da quanto accade in buona parte dei resoconti letterari resistenziali – riesce difficile considerare come un nemico: il protagonista del romanzo di Soavi dice che lui in guerra era «andato con entusiasmo», ma che la sua doveva essere solo «una guerra tra nazioni, tra stranieri che ci bombardano e noi che ci difendiamo», ma di «uccidere dei partigiani o venire assediato da loro, questo non [gli] va»36; il partigiano è, per Rimanelli, un giovane «andato a combattere per la libertà alla stessa maniera con cui» lui era andato «a combattere per il fascismo»37, è un’ombra che, però, rivela nel momento della morte gli stessi lineamenti del soldato fascista caduto. Né è possibile esaltare la propria avventura militare, accostandola alla militanza di un Enrico Toti come a un certo punto fa un repubblichino, perché per l’eroe della Grande Guerra tutto «era diverso»: lui «combatteva contro gli Austriaci» (p. 69), non contro i suoi stessi fratelli, non, infine, in una guerra in cui sia possibile operare una manichea distinzione tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra colpevoli e innocenti.
- 38 I. Calvino, I libri degli altri, Torino, Einaudi, 1991, p. 22.
- 39 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p 75. Conviene ricordare che, a suggellare una significa (...)
13Proprio l’assenza di questo netto spartiacque senza eccezioni e l’impossibilità di conferire alla lotta un’estetica positiva e collettiva rendono queste narrazioni come stenografici e impietosi reportages, sgomente ricognizioni tra macerie indistinte e aberranti che fanno dire al rimanelliano sergente Elia che «una schifezza di guerra come questa» (p. 79), lui non l’ha vista mai. Logico che in tali realistiche ed espressive autobiografiche sceneggiature, la scrittura non possa che essere acerba e brutale, immergersi nelle viscere dell’inorganico, assecondare una diretta, corporale spontaneità orale. E non sorprende che Calvino proprio «questo senso di carnaio spietato e osceno»38 rivelasse nel libro di Rimanelli, dinanzi a immagini come queste: «Noi vedemmo in aria schizzare la faccia della ragazza, in aria pezzo di carne come spezzoni rossi»39, «Le mitraglie arcuavano le zampe con le bocche nere aperte contro l’invisibile, e dai loro fianchi i nastri metallici s’allungavano come budella» (p. 188); o che l’espressionismo di Mazzantini si traduca nella abnorme dilatazione della percezione visiva attraverso la catalogazione di oggetti e sensazioni e un’accumulazione nominale e semantica costante, in una ridondanza stilistica che si spiega con l’esigenza di esprimere senza mediazioni le ferite del vissuto e le attese angoscianti davanti ad eventi così straordinari e stravolgenti.
- 40 Cf. R. Gigliucci, «Espressivismo di destra. Appunti introduttivi», Sincronie, a. VI, n. 12, pp. 71 (...)
- 41 C. Mazzantini, A cercar la bella morte, op. cit., p. 204.
14Forse la «deformazione dolorosa» di una realtà sfigurata, cancerosa e in alcun modo riscattabile, la quale è sembrata ad alcuni come un tratto costitutivo dello stile di una letteratura di destra che attraversa, anche al di fuori dell’Italia, tutto il Novecento, non può essere espressa che con un iperbolico repertorio iperespressivo, quasi fosse per statuto correlato ad un sentire ideologico o, per meglio dire, emotivo40. Ma la sensazione, nel complesso, è che l’opulenza descrittiva e l’intensificazione nominale – tipica soprattutto di Mazzantini – con cui ossessivamente viene tradotta l’immagine del male e dell’orrore sia la conseguenza di una volontà di non disertare e di testimoniare la propria partecipazione come un dato sensoriale e corporeo, come un’autentica immersione nella tragica couche della guerra senza lo spazio di sicurezza dell’ideologia, senza il rassicurante diaframma di una soltanto delle catartiche costanti mitiche, celebrative ed evocative delle storie del neorealismo resistenziale. E senza, soprattutto, quella consolazione di essere stati dalla parte giusta, mentre al contrario si affaccia, nel romanzo di Mazzantini, la minaccia del dopo, la tragica prospettiva di vedere la propria storia e la propria memoria né accettate, né comprese e la propria condizione come quella di «figli di nessuno»41, privati di ogni eredità e appartenenza, semplici figurine ostracizzate rimaste a sopravvivere come il macabro e turpe ricordo di una parentesi bestiale e infamante della storia.
Notes
1 Cf. M. Halbwachs, La memoria collettiva (1950), a cura di P. Jedlowski, Milano, Unicopli, 1987.
2 Sono soprattutto legate all’ambiente del neofascismo, rifiorito dalle ceneri della RSI e istituzionalizzato intorno alla nascitura forza politica che lo riaggrega (MSI), le iniziative editoriali che pullulano nel disperso e semiclandestino universo dei reduci repubblichini, testardamente schierati a difendere la loro storia rispetto al nuovo clima e ai valori costituzionali ai quali si contrappongono con irriducibile alterità. La memorialistica che sin da subito comincia a diffondersi, certo incentivata dalla sentenza di proscrizione che appare loro emessa dalla cultura e dalla politica vittoriosa, è, d’altra parte, incoraggiata da una mancanza di «elaborazione del lutto»: si tratta della «rivendicazione di cittadinanza di chi, dopo essersi sentito per molti anni come l’interprete principale delle ragioni profonde dell’Italia, si vede posto nella condizione di “esule in patria”, personaggio additato al pubblico ludibrio per aver voluto tenere in piedi un regime fantoccio mettendosi al servizio dell’occupante tedesco» (M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, intervista di A. Carioti, Milano, Rizzoli, 1995, p. 28).
3 Scrive a questo proposito Giovanni Tonelli, uno dei più attivi interpreti dell’elaborazione dell’«altra» memoria, direttore de «La Rivolta Ideale», il più importante settimanale neofascista all’indomani della guerra (cf. S. Frontini, «“La Rivolta ideale”: la rilettura di Oriani in un periodico del neofascismo italiano», I Quaderni del “Cardello”, n. 11, 2002, pp. 103-109): «Il sangue di migliaia di innocenti morti nelle battaglie o nei campi di concentramento in Europa, in Africa e in Asia nel nome sacro d’Italia, non ha splendore di sacrificio ma è invece motivo di dileggio e di ingiuria alla memoria dei morti, ai parenti sopravvissuti e a tutti gli Italiani che in quei fratelli si riconoscono» (G. Tonelli, Chi si ferma è perduto, Roma, Editrice La Rivolta Ideale, 1946). D’altra parte, come ha giustamente notato Mario Isnenghi, dal naufragio fascista – quello del ’45 più che quello del ’43 – «questo si è finora sicuramente salvato: la fierezza e la capacità di non lasciarsi annullare, di coltivare la propria memoria di gruppo. Essendo la palingenesi repubblicana del fascismo, dopo l’8 settembre, essa stessa, per tanta parte, memoria e fedeltà a una memoria – personale, familiare e di partito –, non meraviglia che il presidio del proprio passato abbia retto. A circolazione solo interna, come sappiamo; e forse anche per questo, con più risentito bisogno di restare fedeli a se stessi, facendo quadrato attorno alla immagini e ai personaggi della propria devozione» (M. Isnenghi, «La guerra civile nella pubblicistica di destra», Rivista di storia contemporanea, fasc., 1, gennaio 1989, a. XVIII, pp. 106-107).
4 Per «zona grigia» intendiamo «la compatta presenza, sia nelle città che nelle campagne, di comportamenti e valori che trovano la loro ragion d’essere in tradizioni di lungo periodo, essenzialmente prepolitiche, comunque in larga parte estranee alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo. La zona grigia, fuor da interessate valutazioni o da preconcette denigrazioni, si rivela come il principale collettore di coni d’ombra dell’attendismo, del disimpegno civile, della volontaria sottrazione a qualsiasi impegno attivo nella guerra, della diserzione, anche metaforica, da compiti e responsabilità istituzionalmente richieste all’individuo» [R. Liucci, La tentazione della «casa in collina». Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana (1943-1945), Milano, Unicopli, 1999, pp. 15-16]. All’atteggiamento degli intellettuali dinanzi agli eventi della guerra, Liucci ha dedicato studi di grande lucidità, concentrando la propria analisi soprattutto su quanti hanno lasciato, in forma romanzesca o memorialisticamente autobiografica, la testimonianza di una diffusa – più di quanto si creda o di quanto si voglia far credere – resistenza alle ideologie, che motivavano la partecipazione attiva nell’uno come nell’altro schieramento: si veda soprattutto, oltre al testo già citato, «La memoria letteraria della “zona grigia”. Appunti per una storia da scrivere», Italia contemporanea, a. 1997, n. 206, pp. 125-147.
5 Di questa esclusione, ben documentata anche dagli odierni manuali di letteratura italiana del Novecento, potrebbe con una certa fondatezza essere chiamata a sostegno la considerazione della non elevata qualità letteraria delle testimonianze narrative dei reduci di Salò, ancor più evidente se si pensa all’esempio per molti versi parallelo della letteratura collaborazionista francese che «aveva potuto vantare alcuni tra i migliori nomi della cultura, da Drieu La Rochelle a Rebatet, da Brasillach a Céline» (F. Germinario, «Esuli in patria? Qualche osservazione sulla recente saggistica della Destra italiana», Teoria politica, a. XI, n. 3, 1995, pp. 137-145). Ma si converrà che, fatte salve le eccezioni di poche, riconoscibili opere di grandi autori, la letteratura resistenziale si è prodotta in una mole impressionante di opere, semplicemente memorialistiche o romanzate, il cui valore è stato artatamente sopravvalutato per il semplice modello esemplare, valoriale o ideologico che offriva: vedendosi con questo premiata ad una nobiltà artistica e ad un rango di valutazione critica francamente inaccettabili.
6 Ma vanno qui ricordati, in una campionatura che non ha alcuna pretesa di esaustività o omogeneità qualitativa, altri volumi in cui il discrimine tra narrativa e memorialistica riabilitante è spesso davvero sottile (sulla mescolanza di questi due generi, si veda P. Fussel, La Grande Guerra e la memoria letteraria inglese, in La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e C. Zadra, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 218-220, ma anche le opportune considerazioni di Maria Corti, secondo la quale anche il denunciare dei testi documentari è «un denunciare narrativamente»: cf. M. Corti, Neorealismo, in Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, Einaudi, 1978, p. 52), dal bel libro di Enrico de Boccard Donne e mitra, Roma, L’Arnia, 1950 (ora come Le donne non ci vogliono più bene, a cura di G. De Turris, Andria, Sveva, 1995) a G. M. Bergamo, Addio a Recanati, Bologna, Cappelli, 1974, poi Torino, Einaudi, 1981; quindi, in ordine sparso, U. Franzolin, Il repubblichino, Milano, Il Falco, 1985, ora Roma, Settimo Sigillo, 1995; G. Cattaneo, Da inverno a inverno, Milano, Il Saggiatore, 1968, ora Bologna, Il Mulino, 1993; B. Delisi, Gavetta nera, Roma, L’Arnia, 1950; A. Ceracchini, Bandiera proibita, Roma, L’Arnia, 1951; S. Ruinas, Pioggia sulla Repubblica, Roma, Corso, 1946; A. Bolzoni, La guerra questo sporco affare, Roma, De Luigi, 1946 (poi come La guerra dei neri, Roma, Ciarrapico, 1981); A. Guerin, L’ultima raffica, Monfalcone, Sentinella d’Italia, 1980; L. Del Bono, Il mare nel bosco, Roma, Volpe, 1980. Una prima sintetica, ma significativa, rassegna della letteratura e della memorialistica dei vinti è in R. Liucci, «Scrivere e ricordare Salò. La Repubblica sociale italiana tra storia, memoria e letteratura», Studi piacentini, n. 20, 1996, pp. 35-70.
7 Cf. S. Martelli, Introduzione a G. Rimanelli, Tiro al piccione, Torino, Einaudi, p. XIV. La prima edizione del romanzo è del 1953: qui si citerà da quella einaudiana.
8 Cf. G. Soavi, Nota dell’autore, in Il banco di nebbia, Milano, BUR, 1974 (prima edizione, Milano, Rizzoli, 1955: le citazioni riportate si riferiscono all’edizione BUR).
9 Dopo l’uscita del suo romanzo più noto (A cercar la bella morte, Milano, Mondadori, 1986, poi Venezia, Marsilio, 1995, da cui si cita), Mazzantini ha continuato a pubblicare volumi incentrati sulla vicenda della guerra civile, dal pamplhet I balilla andarono a Salò ai romanzi Ognuno ha tanta storia e Amor ch’al cor gentil: eccellente, soprattutto, il primo, nell’attraversare con uno sviluppo non lineare, ma davvero suggestivo tutta la storia d’Italia, dal suo formarsi come nazione ad oggi, in una narrazione disposta «su più livelli che continuamente si intersecano e intrecciano, entro un complessivo andamento da “romanzo di formazione”» (E. Paccagnini, in Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2000). Su A cercar la bella morte, rimando a L. Isernia, Carlo Mazzantini o della scelta eretica, in <http://www.rivistasinestesie.it/letteratura/letteratura.php>, luglio-agosto 2002 e al mio «Carlo Mazzantini e l’espressionismo dell’altra memoria», Studi novecenteschi, a. xxix , n. 63-64, giugno-dicembre 2002, pp. 393-414, i cui spunti ho ripreso anche in questo intervento.
10 G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, p. 41.
11 Sulla «negazione del futuro» e sul combattere per il passato, si veda S. Guerriero, 1943-1945: la guerra in Italia e la sua rappresentazione letteraria, in Scrittori di fronte alla guerra. Atti delle giornate di studio, Roma, 7-8 giugno 2002, a cura di M. Fiorilla e V. Gallo, Roma, Aracne, 2003, p. 217.
12 Cf. B. Fenoglio, Una questione privata, Milano, Garzanti, 1965.
13 L. Meneghello, Nota, in I piccoli maestri, Milano, Mondadori, 1986, p. 265 (La prima edizione è Milano, Feltrinelli, 1964, la seconda, in cui compare per la prima volta la Nota introduttiva è Milano, Rizzoli, 1976).
14 Si tengano presenti le riflessioni del commissario partigiano Kim, secondo il quale «basta un nulla, un passo falso, una impennata dell’anima e ci si trova dall’altra parte» (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1947, p. 151); oppure le stesse considerazioni dell’autore in prefazione ad un’edizione successiva del romanzo: «Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile» (Id., Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, pp. 18-19).
15 G. Comisso, Gioventù che muore, Milano, Milano-sera editrice, 1949, p. 148.
16 Cf. C. A. Mezzacappa, «Il primo Rimanelli tra negatività esistenziale e speranza», Misure critiche, a. XVII-XVIII, n. 65-67, 1987-1988, p. 69. Ma su un ritratto complessivo e sintetico dello scrittore molisano, si veda R. Liucci, «Giose Rimanelli», Belfagor, a. LIII, n. 6, novembre 1998, pp. 673-685, a cui si rimanda anche per la bibliografia critica.
17 C. Pavese, Lettere 1926-1950, a cura di L. Mondo e I. Calvino, vol. II, Torino, Einaudi, 1996, p. 725.
18 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p. 133.
19 «Puoi arruolarti con noi e buona notte, la tua pratica si archivia. Ma se commetti una piccola fesseria andrai al muro quant’è vero che c’è Dio», gli dice il tenente, che gli prospetta l’arruolamento come via d’uscita alla prigione e alla fucilazione. «Va bene, farò il vero italiano»: ma l’assicurazione di Marco non è il frutto di una matura e consapevole assunzione di responsabilità nuove, come dimostra di lì a pochissimo il suo tentativo di fuggire (ibid., pp. 65-66).
20 G. Soavi, Un banco di nebbia, op. cit., pp. 152-153.
21 Ibid., p. 132. L’immagine stessa del «banco di nebbia» con cui Soavi dà titolo alla propria narrazione trova continuo riscontro nella plateale excusatio con cui viene mobilitata l’esigenza di scagionarsi dalle improvvide scelte dettate da ingenuità e inconsapevolezza: un atteggiamento in cui a giusto diritto Franco Fortini rivela una psicologica – fastidiosa e immutabile – «compiacenza di sentirsi “cucciolo”» (F. Fortini, in Comunità, a. IX, n. 31, giugno 1955, p. 55).
22 Ibid., p. 177. Del resto, le urgenze del momento non costringevano i più a indirizzi radicali; anzi un cinico disinteresse sostenuto dagli appigli di una acritica mentalità testardamente e opportunisticamente diffidente di ogni novità o cambiamento li rendeva ancor più sordi ad ogni ipotesi di compromissione ideologica e di volontà militante: «In fondo, ribellarsi in massa al fascismo, ora che i fascisti erano nuovamente protetti dai tedeschi, era impresa di enorme fatica, e i più decisero di non adattarvisi» (ibid., p. 179).
23 Cf. R. Liucci, La memoria letteraria della «zona grigia», art. cit., p. 140.
24 Mentre Marco se ne sta incollato alle finestre a fantasticare vedendo le colonne dei camion transitare, il padre, maledicendo i «figli che diventano bastardi», non sa fare altro che gridargli: «Vorrei svegliarti io, sai? Ti farei passare la voglia delle puttane e la malattia dei camion»; «sbuffando come se il suo petto non potesse contenergli tutta la collera», si sfoga con suo figlio, colpevole di una tempra incostante e indolente, che neanche i «preti» del seminario frequentato da adolescente sono riusciti a correggere: «Ti ho fatto per primo, e per arrivare a questa bella conclusione: non sei né baccalà, né stocco» gli rinfaccia, «Non sei niente. Niente! Fuorché un porco» (in G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p. 14). Di contro, la madre assiste, impotente e affranta, tanto alla snervante mania di Marco quanto alle nevrotiche sfuriate del marito: «Dio, come sono sventurata! Prima te ne torni al collegio. Dici che farti prete non ti va, dici che hai perso la vocazione stando coi preti. Tuo padre si fa cattivo, grida e insulta tutti. Ma adesso ci mancava la storia dei camion per completare l’opera?». Ed è proprio l’inerme sofferenza della madre ad acuire ancor più in Marco il disagio e l’istinto della fuga: «Era allora, con mia madre che piangeva, che mi sentivo più infelice e ingombrante. E quel rumore di camion mi spaccava il cranio, mi pareva di ballare in un vuoto d’aria, e sentivo più insistente in me la voglia di seguire quei rumori» (ibid., p. 7).
25 C. Mazzantini, A cercar la bella morte, op. cit., p. 13.
26 La Venezia in cui sbarca Marco Laudato è una città caliginosa e nebbiosa, nordica e spettrale (cfr. G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., pp. 35-37), mentre la mortuaria e ombratile geografia mazzantiniana delle caserme, l’irreale e tenebrosa natura in cui gli avvenimenti sono calati paiono riflettere il silenzio di una solitudine oppressiva e cristallizzata.
27 Ma, confrontati con i protagonisti della Resistenza, i soldati repubblichini evidenziano altre, sostanziali e, diremmo, strutturali diversità: i primi, per cominciare, assumono solitamente, nell’eroismo della loro epica, nomi fittizi di battaglia che, però, non fanno venir meno il loro anonimato (il coraggio e il riscatto non sono espressioni individuali, ma di una comunità collettiva riconoscibile), i secondi, un nome lo hanno sempre; i partigiani provengono quasi sempre dal popolo e la loro estrazione sociale ci è sempre nota (si pensi ai racconti di Marcello Venturi stampati sull’«Unità» nell’immediato dopoguerra), mentre i combattenti di Salò appaiono come singole, casuali espressioni di una militanza sostanzialmente interclassista: dalla borghesia media e acculturata dei protagonisti dei romanzi di Mazzantini a quella provinciale e molto grossolana di Brizzi di Un banco di nebbia al ceto contadino meridionale del Marco di Rimanelli; i primi, ancora, si muovono in imprese, anche se non di rado notturne e avventurose, implicitamente approvate da un pubblico spettatore (sono talvolta donne e bambini, a cui l’azione viene didascalicamente sottoposta come ad una involontaria committenza: si pensi ancora a Venturi, ma anche a Silvio Micheli), i secondi si gettano in gesta solitarie e perciò senza neanche la teorica possibilità di essere condivise. Per una ricognizione dei topoi della letteratura partigiana, cf. G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, op. cit., pp. 63-64.
28 M. Corti, Neorealismo, in Il viaggio testuale, op. cit., p. 67.
29 L. Meneghello, Premessa a I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 7-12.
30 Cf. A. Casadei, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Roma, Carocci, 2000, p. 76.
31 R. Liucci, La memoria letteraria della «zona grigia», art. cit., p. 127.
32 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p. 37.
33 Ibid., p. 83. Nel romanzo dello scrittore molisano, alla morte si va incontro con una ineluttabile, stoica rassegnazione, come ad un liberatorio annullamento di ogni agonistica possibilità di resurrezione: «qualche volta mi domando perché sono finito in guerra. Ho cercato, può darsi, tutte le avventure, anche le più disoneste, meno però di finire in guerra. Ed ecco che vi sono entrato fino al collo, fino allo schifo, fino al desiderio di finire ammazzato come tanti altri, anziché seguitare a vivere così, con una divisa e un fucile» (ibid., p. 199).
34 Ibid., p. 158. I corsivi sono nel testo.
35 C. Mazzantini, A cercar la bella morte, op. cit., p. 39.
36 G. Soavi, Un banco di nebbia, op. cit., pp. 214-215.
37 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p. 223.
38 I. Calvino, I libri degli altri, Torino, Einaudi, 1991, p. 22.
39 G. Rimanelli, Tiro al piccione, op. cit., p 75. Conviene ricordare che, a suggellare una significativa corrispondenza espressiva sotto il segno della truculenza, la copertina progettata per il volume einaudiano poi mai pubblicato avrebbe dovuto presentare la nota pittura di Francisco Goya Los fusilamientos del 3 de mayo.
40 Cf. R. Gigliucci, «Espressivismo di destra. Appunti introduttivi», Sincronie, a. VI, n. 12, pp. 71-86.
41 C. Mazzantini, A cercar la bella morte, op. cit., p. 204.
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Référence papier
Giuseppe Iannaccone, « L’armata degli adolescenti che pagò il conto della storia: Stili e caratteri della letteratura di Salò », Cahiers d’études italiennes, 3 | 2005, 193-207.
Référence électronique
Giuseppe Iannaccone, « L’armata degli adolescenti che pagò il conto della storia: Stili e caratteri della letteratura di Salò », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 3 | 2005, mis en ligne le 15 décembre 2006, consulté le 09 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/287 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.287
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