1Nella narrativa di Antonio Tabucchi la violenza collettiva è una presenza frequente. I suoi scritti, nell’opinione di una critica inglese, «nascondono una conoscenza acuta della crudeltà e della violenza nei rapporti umani che smentisce la loro superficie raffinatamente letteraria» (Burns, p. 61). Questa osservazione si applica in modo particolare alla più recente raccolta di racconti di questo autore, Si sta facendo sempre più tardi, del 2001. Il tema della violenza, e della violenza collettiva in particolare, non è però nuovo nella narrativa di Tabucchi. Già nel 1975, in Piazza d’Italia, il suo primo romanzo, gran parte dell’azione è ambientata durante le guerre ottocentesche del Risorgimento, le incursioni colonialistiche italiane in Africa, le guerre imperialistiche fasciste, e, alla fine, l’occupazione tedesca e la lotta armata contro il Fascismo fra il 1943 e il 1945. Nel romanzo forse più letto di questo autore, Sostiene Pereira, del 1994, un’altra guerra, quella civile in Spagna, è una presenza cruciale, anche se vista solo di scorcio in una narrazione ambientata non in Spagna ma a Lisbona nel 1938.
2In questa sede, però, gli episodi di violenza collettiva nella narrativa di Tabucchi che mi interessano sono in primo luogo quelli della Seconda Guerra mondiale in Italia e in secondo luogo quelli della violenza civile degli anni Settanta, gli anni di piombo. In questo intervento, vorrei esaminare due gruppi di racconti, tre che trattano della guerra e tre che trattano del terrorismo. I primi tre sono racconti degli anni Ottanta che esaminano (nella prospettiva degli anni Cinquanta) memorie della guerra che si è infuriata in Italia durante il decennio precedente. I racconti di questo gruppo sono I pomeriggi del sabato del 1981, Gli incanti del 1985, e Capodanno del 1991. Tutti e tre hanno come protagonisti non i partecipanti alle ostilità che si sono appena concluse, ma dei discendenti di tali protagonisti, ragazzi e ragazze che cercano di capire la natura e il significato della violenza che ha travolto e ucciso i loro padri.
3I tre racconti sugli anni di piombo che voglio qui esaminare sono: Piccoli equivoci senza importanza del 1985, Cambio di mano dello stesso anno e Il battere d’ali di una farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino? del 1991. In questi tre racconti i protagonisti hanno partecipato in prima persona ad atti di violenza in un periodo precedente. Nel corso dei racconti i tre «terroristi» riflettono, ciascuno in modo diverso, sulle loro azioni, in un momento che può essere detto di «pentimento», anche se non sempre nel senso corrente di questo termine giuridico-giornalistico.
4Vorrei cominciare la mia analisi del tema della violenza collettiva in Tabucchi con i tre racconti che trattano questo tema nel contesto del periodo più vicino a noi – i racconti sul terrorismo. Il primo testo di questo gruppo è Piccoli equivoci senza importanza. Il racconto si svolge in un’aula della giustizia. Siamo alla fine degli anni di piombo, e nel processo in corso sono coinvolti due uomini che erano stati molto amici durante i loro anni d’università ma che adesso occupano posizioni diversissime nella società. Uno, infatti, è il giudice, l’altro è l’imputato in un processo che riguarda, a quanto pare, il terrorismo. Tutta l’azione del racconto è osservata da un terzo personaggio, l’io-narrante, nel passato anche lui compagno d’università degli altri due. Quest’uomo, diventato giornalista, osserva il processo e ricorda i tempi felici quando leggevano l’Antigone di Sofocle insieme ad una donna amata da tutti e tre. Guardando i suoi amici che adesso hanno assunto ruoli diversi l’uno dall’altro, e così diversi da quelli sofoclei – rimasti molto vivi nella sua memoria – il giornalista sente un grandissimo rimpianto per ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto avvenire ma non si è mai verificato, a causa, forse di «piccoli equivoci» che a tutti allora sembravano, appunto, «senza importanza».
5Due aspetti di questo racconto sono importanti: l’ambientazione nell’aula di giustizia, e le motivazioni dei diversi ruoli. (Per «ruoli», intendo quelle caratteristiche personali provvisorie che siamo costretti ad assumere, anche per motivi che possono sembrare futili, ma che molto spesso finiscono per costituire le nostre identità.) A proposito dell’ambientazione giudiziaria, ricordiamo come per Tabucchi lo scrivere sia spesso simile ad un’investigazione di tipo poliziesco (Gumpert, p. 104). In molti suoi libri, aule di giudizio, processi e investigazioni hanno una funzione importante. Le investigazioni che si svolgono in questi libri, però, mirano non tanto a stabilire una verità – chi ha commesso il delitto e perché, come nei classici libri gialli – quanto a cercare di capire le motivazioni profonde di azioni di estrema malvagità altrimenti incomprensibili. Tabucchi cerca di capire, in altre parole, non chi ha compiuto un’azione determinata ma perché gli uomini (e in Si sta facendo sempre più tardi anche le donne) sentano il desiderio e abbiano la capacità di fare agli altri del male, un male estremo e spesso apparentemente immotivato. Si passa, in altre parole, da un’investigazione contingente e legale a considerazioni etiche e metafisiche.
6Una volta compiute le scelte fatte dai personaggi di Piccoli equivoci senza importanza, è impossibile tornare indietro. La vita, per chi la vive, è irreversibile. Ma per la mente che investiga, le cose stanno diversamente. La fantasia creativa e indagatrice è liberissima di tornare indietro e considerare ciò che sarebbe potuto essere se non ci fossero stati «piccoli equivoci» che al momento sembravano «senza importanza» ma che riuscivano lo stesso ad intrappolare in ruoli fissi e duraturi coloro che non avevano capito la loro importanza. L’importanza di questi ruoli è indicata dalla presenza nei tre testi di personaggi letterari i cui ruoli i personaggi tabucchiani momentaneamente assumono. In Piccoli equivoci essi provengono dall’Antigone di Sofocle, in Cambio di mano sono presi dal Rigoletto di Verdi, mentre in Il battere d’ali assistiamo a una «fiction» in costruzione, i cui creatori sono questa volta altri personaggi del racconto e non artisti famosi come Sofocle e Verdi.
7L’episodio centrale di Cambio di mano si svolge nel tempio dell’opera lirica, nel Metropolitan di New York durante una rappresentazione di Rigoletto. Nel racconto, però, l’assassino non è lo Sparafucile che recita sul palcoscenico ma una bellissima donna presente allo spettacolo, e che milita nella stessa organizzazione sovversiva di cui fa parte anche il protagonista. Questa donna, che si suppone complice del protagonista nello scambio di una somma di denaro necessaria alle loro attività politiche, alla fine del racconto uccide il suo complice, come Sparafucile avrebbe ucciso Rigoletto se non si fosse presentata Gilda, vittima alternativa compiacente e eroica. Il corriere ammazzato (o forse fattosi ammazzare come nel caso di Gilda) è un veterano di attività politiche di questo tipo. Ormai, però, è stanco di un ruolo che considera logoro e inutile anche se non riesce a liberarsene. Quando si ribella, rifiutando le regole del gioco dell’organizzazione clandestina, scopre che un’esistenza diversa gli è preclusa. Perciò non gli rimane altro che una morte immediata e violenta. Senza il ruolo di attivista sovversivo, scelto chissà quando e per chissà quali motivi, non ha più identità e perciò non può più vivere.
8Nel terzo racconto di questo gruppo, invece di un ruolo mutuato dalla letteratura classica o dall’opera lirica, si assiste alla costruzione di un ruolo politico molto più contemporaneo: quello del pentito. In questo caso il pentito è costruito da autorità politiche – non si capisce bene se governative, paragovernative, o anti-governative – in vista di un futuro processo in cui il loro pentito fornirà importanti testimonianze. In questo modo il «Signor Farfalla» di questo racconto diventa un personaggio fittizio, una figura due volte letteraria, costretta a trasformarsi da verme terrorista (come avrebbero detto i suoi sorveglianti) in farfalla pentita. Ciò che conta per coloro che lo manipolano non è la verità delle informazioni che un giorno Farfalla fornirà su certi atti terroristici (un assassinio politico, pare) ma la verosimiglianza della sua storia. In questo senso, veri terroristi sono coloro che tengono prigioniero il loro fantoccio politico, vere vittime sono i fatti storici travolti e distrutti dalla «farfalla».
9In questi tre racconti è evidente che a Tabucchi non interessa il terrorismo in sé. Non è tanto il terrorismo degli anni di piombo quanto i terrori della vita di tutti i tempi che gli stanno a cuore. È la nostra stessa esistenza che molto spesso ci assassina – magari anche senza l’insistenza dei duri che controllano il Signor Farfalla – incapsulandoci in identità che non ci lasciano realizzare i nostri sogni, per quanto incerti o banali essi siano. Nei racconti di Tabutcchi vediamo gente derubata del proprio passato e costretta a conformarsi a un’identità che non vuole o non vuole più assumere. Le nostre vite sono costruzioni che avrebbero potuto benissimo prendere tutt’altra direzione. Ma se è possibile, in un racconto, far tornare indietro il tempo e immaginare ipoteticamente, o al rovescio, un’azione o una serie di azioni diversissime da quelle che sono realmente accadute, non è così nella vita. Questa irreversibilità sostanziale delle nostre vite è un tema che sta al centro delle riflessioni filosofiche di Vladimir Jankélévitch, un filosofo caro a Tabucchi e da lui citato direttamente o indirettamente in diversi suoi scritti. Ma prima di soffermarmi più a lungo su Jankélévitch, vorrei brevemente parlare del secondo gruppo di racconti, quelli che prendono in considerazione la violenza, la brutalità e il male durante la seconda guerra mondiale in Italia.
10I tre racconti dedicati da Tabucchi alla seconda guerra mondiale hanno in comune il fatto di avere tutti e tre dei bambini come protagonisti. Così prima di tutto ne I pomeriggi di sabato del 1981. L’io narrante di questo racconto è un bambino ansioso di conoscere la storia di suo padre, uomo morto prima che il ragazzino avesse potuto veramente conoscerlo. La storia del padre morto in guerra è presentata in modo molto frammentario: si può dedurre tuttavia che doveva essere già un ufficiale nel’41, prima di partire per il servizio militare, quando era solo fidanzato con la mamma, visto che la servitù lo chiamava «il signorino ufficiale»; e che doveva essergli poi accaduta (durante o poco dopo la guerra) una «disgrazia», cioè la morte, morte probabilmente vergognosa e forse violenta.
11Ora, però siamo nel 1956, com’è evidente dall’allusione alla canzone «Banana Boat» di Harry Belafonte, che è del 1955, e da una seconda allusione al Generale De Gaulle e alla sua posizione durante la crisi di Suez (1956). In quest’epoca, il bambino avrà forse un po’ più di dodici anni, mentre si può supporre che il padre sia morto una diecina di anni prima, proprio alla fine della guerra. Nell’estate del 1956 il ragazzo si trova con la madre e la sorella più giovane in una villa della Toscana vicino al mare. Passa i caldi giorni estivi nella villa studiando il latino in vista di un esame di riparazione in autunno. Ma un sabato pomeriggio arriva un ciclista misterioso. Torna anche il sabato successivo, e questa volta parla in segreto non con il ragazzo curioso, ma con la sorellina. Del contenuto della conversazione s’impara solo che il ciclista «voleva qualcosa qui di casa» (p. 71). Messa al corrente da sua figlia della richiesta, la madre si affretta ad accontentare il visitatore misterioso.
12Benché non sia mai detto esplicitamente nel racconto, un lettore che decifri con un po’ di pazienza gli indizi sparsi qua e là nel testo (per tutta questa ricostruzione, si veda anche Palmieri, pp. 94-95) capisce che il ciclista è un ex-compagno di guerra del padre scomparso, e che ciò che egli vuole «dalla casa» è un suo cimelio, forse il basco militare portato dal padre durante la guerra. E questo berretto, volentieri consegnato dalla madre al ciclista il sabato successivo, è probabilmente quello degli ufficiali della X MAS, famosa flottiglia della marina italiana che durante la guerra ormeggiava nel vicino porto di La Spezia. La X MAS divenne, come noto, un’unità importante nell’esercito repubblichino di Salò.
13Il padre, dunque, era stato non solo fascista, ma fascista di Salò, e dunque fra i più irriducibili. Il bambino vorrebbe invece che fosse stato un eroe morto eroicamente dopo aver combattuto dalla parte giusta e non nel campo che dopo la guerra è considerato irrimediabilmente «sbagliato». In ogni caso, tutti i dettagli della vita delle motivazioni del padre rimangono misteriosi per il bambino, connessi come sono non solo alla guerra ma anche all’affetto fra i genitori, affetto documentato dalle foto della coppia felice sparse per la casa. Facendo parte sia del mondo della politica che di quello dell’amore, i particolari della vita del padre sono due volte tabù. Essendo morto il padre, tra la madre vedova ma tuttora bella e desiderabile e il bambino sulla soglia dell’adolescenza nasce una classica situazione edipica, ulteriormente complicata dalla vergogna del bambino per le attività politiche del padre, immerse in un alone di attrazione e di repulsione paragonabile a quello del mondo sessuale adulto. In questo racconto la guerra, con la sua violenza collettiva e individuale, è un trauma non solo per coloro che l’hanno vissuta, ma anche per le generazioni successive. Le colpe del padre – ma erano davvero colpe? – sono state trasmesse ad un bambino costretto a lottare con due materie scottanti, il mondo della politica e il mondo della sessualità, ambedue circondati da una vergogna tanto inspiegabile quanto attraente.
14Nel secondo di questi tre racconti sulla guerra, Gli incanti, del 1985, la situazione narrativa è analoga per molti rispetti a quella de I pomeriggi del sabato. Anche questo racconto è ambientato al mare durante l’estate, e ancora una volta l’io narrante è un bambino. Questa volta, però, la vedova dell’uomo morto in guerra è la zia del bambino, e la bambina che condivide con lui la vacanza al mare non è la sorellina ma una cugina più grande di qualche anno. E questa volta il combattente morto in guerra non era fascista bensì partigiano – almeno secondo le informazioni fornite al bambino dalla cugina, ragazza intelligentissima ma dalla fantasia incontrollata. Secondo la ragazzina, il padre è morto in seguito alla delazione fatta da un altro uomo, che secondo lei non è altro che il secondo marito della madre, persona peraltro simpaticissima. Alla fine del racconto, la fanciulla, turbata da quella che considera come un’ingiustizia mostruosa, e presa dalla smania di vendicare il padre morto, ricorre a pratiche magiche per eliminare il patrigno. Pur avendo letto moltissimo di magia, non è però una maga molto esperta. Le sue fatture, invece di colpire il patrigno, colpiscono la madre innocente che ne rimane gravemente e forse fatalmente ferita. Nasce poi alla fine il sospetto che, almeno per la bambina, la madre non sia affatto innocente: inconsciamente, essa ha veramente voluto punire la madre e così vendicare il padre tradito.
15In un certo senso, questo racconto è il «rovescio» del precedente, anche se il morto questa volta è il padre della cugina e non del narratore, e uno che aveva militato fra i partigiani invece che fra i fascisti. Queste differenze non hanno però un’importanza fondamentale. «Rovesciamenti» di questo genere suggeriscono al contrario che ciò che interessa Tabucchi non è la fede politica del genitore morto quanto il trauma lasciato nella generazione successiva dalla violenza della guerra civile. Questa ha creato una generazione «orfana e cieca» (Pierangeli, p. 70) di giovani incapaci di comprendere i destini scelti o imposti ai loro genitori morti per ragioni che sono per loro a un tempo oscure e affascinanti.
16Il terzo e ultimo racconto – incluso nella raccolta Angelo nero del 1991 – si intitola Capodanno. Anche qui al centro dell’azione abbiamo un bambino e un padre morto durante la guerra. In questo caso, però, non ci sono dubbi sulla sua fede politica né sulle circostanze della sua morte: è stato fascista, è stato giustiziato dai partigiani e poi buttato in un lago. Anche questa volta il racconto finisce con un atto di violenza compiuto da un bambino, l’avvelenamento della madre e dei suoi ospiti in occasione del cenone di Capodanno.
17Dei tre racconti, Capodanno è il racconto più «edipico». Proprio all’inizio c’è una visione onirica della madre nuda sott’acqua al centro di una gigantesca conchiglia d’ostrica. Durante la narrazione, inoltre «il bambino dà sfogo a un’ostilità molto vivace verso il padre morto a cui rimprovera di averlo abbandonato, lasciando spazio per le sue fantasie, riempite da un sosia del padre nelle vesti del Capitano Nemo del noto libro di Jules Verne. L’ostilità verso il mondo così generata trova sfogo in piccoli atti di violenza di cui sono vittime vari animali domestici e selvatici, un topo, un coniglio, un luccio, dei pesciolini rossi – animali osservati tutti con angoscia, anche quando non sono seviziati o uccisi dal bambino. Ma l’emozione che domina in questo racconto, come negli altri due, è l’ansia di capire, di capire come mai i padri siano morti di morte violenta, lasciando vedove le madri e orfani i figli.
18Il fatto che due dei tre racconti in questione terminano con atti di violenza perpetrati dai bambini contro gli adulti suggerisce in più che questi bambini sono stati contagiati dalla violenza della guerra, una violenza presentata come una pestilenza che continua a propagarsi non essendoci adulti capaci di arrestarla. Il pesce putrefatto che Duccio, il protagonista di Capodanno, intende usare per avvelenare gli ospiti di sua madre è un simbolo efficacissimo di questa velenosa putrefazione degli spiriti, di questo odio, e di questo male.
19Come altri testi di Tabucchi, Capodanno è un racconto «aperto» e senza una conclusione precisa. Non si sa esattamente cosa farà il piccolo protagonista alla fine della storia. Forse Duccio non ammazzerà gli ospiti. Forse si butterà nel lago alla ricerca del Capitano Nemo che gli ha fatto per tutto il racconto da surrogato del padre. Forse si ucciderà con la pistola che è stata di suo padre e con questo gesto raggiungerà il genitore nella morte. Ciò che è chiaro è che per il Tabucchi di questi racconti, finito il fascismo, non è finita la tendenza degli uomini – e neppure quella dei bambini – a fare il Male. Fatta la pace, il sospetto e l’odio fra gli uomini continuano a germogliare come piante selvatiche e velenose.
20Al centro di tutti e sei questi racconti – i tre che hanno per argomento il terrorismo e i tre che hanno per argomento la guerra civile – c’è la malvagità umana. Questa è una tematica fondamentale negli scritti di Tabucchi. In un’intervista rilasciata dallo scrittore all’inizio degli anni Novanta, cioè ai tempi dell’Angelo nero, raccolta di cui fanno parte Capodanno e Il battere d’ali, Tabucchi dichiara che per lui «il male esiste nella vita e… credo che uno scrittore debba affrontarlo» (Borsari, p. 2). E nella lunga e preziosa intervista con Carlos Gumpert Melmosa – adesso disponibile anche in traduzione francese – Tabucchi ha parlato delle differenze fra i romanzieri dell’Ottocento e quelli del Novecento in termini molto pertinenti per il nostro punto di vista. Fra le differenze che distinguono i grandi scrittori dell’Ottocento da quelli della sua generazione, Tabucchi non dà molta importanza alle scoperte filosofiche nei campi dell’epistemologia e dell’ontologia che altri studiosi hanno invece sottolineato. Egli designa quattro eventi storici che secondo lui definiscono in modo essenziale l’immaginario contemporaneo: l’Olocausto, il Nazismo, le bombe atomiche sul Giappone e la teoria di relatività einsteiniana. Di questi quattro eventi, solo uno, la teoria della relatività, è un cambiamento di paradigma nella storia del pensiero. Gli altri tre – l’Olocausto, il Nazismo, Hiroshima e Nagasaki – sono esempi della malvagità umana contemporanea, una malvagità che l’umanità, secondo Tabucchi, avrebbe ignorato prima del Novecento. «Cómo puede uno aspirar a entender todo esto?» si chiede retoricamente nella intervista con Gumpert (p. 105). Per un male di queste dimensioni è difficile trovare una categoria adatta nelle nostre immaginazioni.
21NelI’intervista con Borsari, Tabucchi ha osservato che «la letteratura è una lotta contro il tempo, è una forma di rimpianto» (p. 11). Forse il compito dello scrittore, davanti a violenze così immense e inspiegabili, è soltanto di rimpiangere l’accaduto. Nei suoi saggi filosofici Jankélévitch insegna che, vista l’impossibilità di tornare indietro nella vita, bisogna trasformare il rimorso per il passato in azione e tramutare in forza creativa quell’emozione che altrimenti potrebbe paralizzarci. I ruoli che assumiamo per ragioni spesso casuali o sciocche non possono essere abbandonati o sostituiti con altri ruoli che corrispondano meglio ai nostri desideri e ai nostri sogni. E anche le violenze della guerra civile in Italia non possono essere cancellate. I loro effetti continueranno a manifestarsi nelle generazioni successive, quelle degli anni di piombo e quelle di oggi. Spetta allo scrittore identificare queste violenze, compatirle pur non accettando la malvagità che ne è stata la causa, dedurre dall’intensità del proprio rimorso che le cose sarebbero potute andare diversamente e meglio, trasformando così la nostra cattiva coscienza in coscienza responsabile. Il Male c’è. L’uomo è malvagio – ma forse non è soltanto malvagio. Bisogna cominciare da queste constatazioni.