Bibliographie
Augé Marc, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 2002.
Balestrini Nanni, Gli invisibili, (prima edizione 1987), ora in La grande rivolta, Milano, Bompiani, 1999.
—, Prendiamoci tutto: conferenza per un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1972.
Berman Marshall, All That is Solid Melts into Air, New York, Simon and Schuster, 1982.
Colombo Furio, «Voci di dolore sulle rovine del terrorismo», Tuttolibri («La Stampa»), 4 aprile 1987.
De Federicis Lidia, «Il selvatico sul cemento», L’Indice dei libri del mese, giugno 1987, n. 6.
Debord Guy, La société du spectacle, Paris, Gallimard, coll. «Folio», 1992 [1967].
Esposito Roberto, Le ideologie della neoavanguardia, Napoli, Liguori, 1976.
Gemelli M. e Piemontese F. (a cura di), L’invenzione della realtà. Conversazione su letteratura e altro, Napoli, A. Guida Editore, 1994.
Guglielmi Guido, «Nanni Balestrini. Gli Invisibili», Il Verri, n. 7, settembre 1988.
Gramigna Giuliano, «Una lingua costruita per dire cose vedute e patite», Corriere della sera, mercoledì 28 gennaio 1987.
Lefebvre Henri, The Production of Space, Oxford, Basil Blackwell, 1991.
Marcoaldi Franco, «L’Autonomia è un romanzo. Colloquio con Nanni Balestrini», l’Espresso, 18 gennaio, 1987.
Merrifield Andy, Metromarxism. A Marxist Tale of the City, New York-London, Routledge, 2002.
Nancy Jean-Luc, La città lontana, Verona, Ombre corte, 2002.
Pampaloni Geno, «La solida prosa di un eversore», Il Giornale, 21 febbraio 1987.
Renello Gian Paolo, «I labirinti di Balestrini», Il Verri, settembre-dicembre 1993.
Rossanda Rossana, «Storia crudele di Sergio l’invisibile», Il Manifesto, 12 febbraio 1987.
Rosato Italo, «Nanni Balestrini, Gli Invisibili», Autografo, n. 13, 1988.
Sanguineti Edoardo, «Come agisce Balestrini», Il Verri, vol. 7, 1963.
Spinazzola Vittorio, «Requiem per gli Invisibili», L’Unità, 22 febbraio 1987.
Tadiotto Antonio, «L’orda invisibile di Nanni Balestrini», in N. Roelens e I. Lanslots (a cura di), Piccole finzioni senza importanza. Valori della narrativa italiana contemporanea, Ravenna, Longo, 1993.
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Notes
Nanni Balestrini, Gli invisibili, (prima edizione 1987), ora in La grande rivolta, Milano, Bompiani, 1999, propongo di aggiungere fra parentesi quadre: [infra Balestrini] a causa dei successivi rimandi alla stessa opera, p. 261.
Rossana Rossanda, «Storia crudele di Sergio l’invisibile», Il Manifesto, 12 febbraio 1987, p. VII.
A tale proposito Italo Rosato sottolinea, prendendo come spunto la «lucida e nostalgicamente cattivante» prefazione di Calvino al Sentiero dei nidi di ragno, la differenza sostanziale che separa questa generazione da quella del periodo resistenziale: «I protagonisti del decennio trascorso hanno assistito alla dispersione delle loro utopie e – nei casi peggiori – assistono alla dissipazione delle loro esistenze individuali… Anche solo per la volontà di rompere il silenzio – ma certo non solo per questo – l’operazione di Balestrini […] ci sembra di grandissima importanza.» (Italo Rosato, «Nanni Balestrini. Gli Invisibili», Autografo, n. 13, 1988, p. 116)
Giuliano Gramigna, «Una lingua costruita per dire cose vedute e patite», Il corriere della sera, mercoledì 28 gennaio 1987.
Lidia De Federicis, «Il selvatico sul cemento», L’Indice dei libri del mese, giugno 1987, n. 6, p. 8.
Rossanda, «Storia crudele di Sergio l’invisibile», art. cit.
De Federicis, «Il selvatico sul cemento», art. cit.
Balestrini, op. cit., p. 93.
Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 2002, p. 37 (Titolo originale: Non-lieux. Introduction à une anthropologie de l’espace, Paris, Seuil, coll. «Librairie du xxe siècle», 1992).
Jean-Luc Nancy, La città lontana, Verona, Ombre corte, 2002, p. 51. (Titolo originale: Los Angelès ou la ville au loin, Paris, Mille et une nuits, 1999).
In questi termini infatti l’autore descrive più avanti la condizione di alienazione e di sfruttamento all’interno della fabbrica: «io non sapevo bene cos’era quella fabbrica la vedevo dall’esterno come una cosa mostruosa e sporca che scaricava fumi nell’aria e liquidi puzzolenti nel fiume che gli scorre di fianco l’impressione che ho avuto la prima mattina di lavoro è stata dura […] mi hanno indicato dove dovevo andare e già lì subito mi è venuto voglia di andarmene via di girare le spalle e via uscire di lì e andarmene quando ho visto il mio reparto una specie di corridoio lungo e stretto senza finestre c’erano solo dei grandi lucernai in alto e una puzza tremenda di solventi […] gli operai avevano tutti dei grembiuli neri tranne il caporeparto che aveva un grembiule bianco e che stava nel suo ufficio in fondo al corridoio chiuso da una vetrata da dove poteva vedere controllare tutto il reparto.» (Balestrini, op. cit., p. 203)
Balestrini, op. cit., p. 96.
Augé, op. cit., p. 95 e 101.
Balestrini, op. cit., p. 99.
Scrive Lefebvre: «Representational space… may be directional, situational or relational, because it is essentially qualitative, fluid and dynamic.» Henri Lefebvre, The Production of Space, Oxford, Basil Blackwell, 1991, p. 42 (Titolo originale: La production de l’espace, Paris, Anthropos, 1986, rist. 2000).
Lefebvre, Critique of Everyday Life, citato in Andy Merrifield, Metromarxism. A Marxist Tale of the City, New York-London, Routledge, 2002, p. 83.
Secondo Marc Augé «La surmodernità trova naturalmente la sua espressione completa nei nonluoghi […] nei nonluoghi vi è sempre un posto specifico per delle curiosità presentate come tali». Ecco allora perché, continua Augé, a differenza della modernità, «lo spazio della surmodernità è invece segnato da questa contraddizione: esso ha a che fare solo con individui ma questi sono identificati, socializzati e localizzati solo all’entrata o all’uscita» (Augé, op. cit., p. 99-101).
Balestrini, op. cit., p. 110.
Scrive a questo proposito Balestrini: «Si cercava di dormire nelle case di quei compagni che si ritenevano meno conosciuti meno esposti o meglio ancora nelle case di amici che non c’entravano niente o nelle case di amici di amici le manifestazioni e le feste di piazza erano finite da un pezzo il movimento era come un fantasma assente ripiegato su se stesso rintanato nei suoi ghetti la scena adesso era occupata dallo stillicidio di azioni armate clandestine rivendicate da decine di sigle di organizzazioni combattenti che si facevano concorrenza la vita del movimento era finita ma per i compagni non era finita non è che potevano mettersi da parte e dire aspettiamo stiamo a vedere perché per la repressione tutti erano coinvolti non si facevano troppe distinzioni.» (Balestrini, op. cit., p. 104).
Guy Debord, La société du spectacle, Paris, Gallimard, coll. «Folio», 1992 [1967], p. 166 [§ 172].
Balestrini, op. cit., pp. 101-102.
Scrive Balestrini: «E allora a questo punto non mi ricordo più dove ero rimasto in tutta questa storia anche perché ci sono un sacco di cose che non mi ricordo che non mi ricordo più bene precisamente come sono successe e ci sono anche un sacco di cose che non si possono ricordare che si possono solo dimenticare non è che qui io voglio raccontare tutta la storia della mia vita e neanche voglio raccontare tutto quello che è successo in questo periodo in cui sono successe tante cose diverse di tutti i tipi contraddittorie che metterle tutte insieme cercare di dargli un senso mi sembra proprio impossibile ma quello che mi interessa qui adesso è soltanto raccontare ma così dal mio punto di vista naturalmente queste storie che mi sono successe così perché forse adesso vale la pena di raccontarle.» (Balestrini, op. cit., p. 181).
L’immagine agghiacciante della repressione all’interno del carcere è resa emblematicamente attraverso la rappresentazione «realistica» di un corpo ancora una volta martoriato, offeso e violato: «picchiavano con manganelli con bastoni con spranghe di ferro e questo compagno che era piccolo lo hanno proprio massacrato di botte poi un’altra scena che ho visto è stato uno che l’hanno preso per i capelli dopo averlo pestato a terra l’hanno tirato su per i capelli e l’hanno messo contro il muro e poi uno con una spranga di ferro gliel’ha data sulla faccia proprio così un colpo con la spranga di ferro così di traverso sulla faccia e gli hanno spaccato il naso e la fronte […] queste erano le cose che si vedevano mentre stavamo lì al buio dietro la rete metallica impotenti» (Balestrini, op. cit., p. 170). Mi sembra importante sottolineare a questo proposito come lo «spettacolo» del massacro riproponga anche qui una dinamica tra il dentro e il fuori: «fuori» cioè si trova anche il lettore, estraneo alla vicenda, ma che visualizza impotente la scena, come impotenti sono i prigionieri di fronte alla violenza «legalizzata» della polizia e dello Stato.
Balestrini, op. cit., p. 124.
Augé, op. cit., p. 80.
E’sintomatico ciò che afferma a questo proposito il protagonista: «[…] io penso e anche tanti come me lo pensano che in fondo non abbiamo mai avuto non solo non abbiamo mai avuto nessuna idea né voglia di vincere ma nemmeno nessuna idea che c’era qualcosa da vincere da qualche parte e poi sai se ci penso bene adesso a me la parola vincere mi sembra proprio uguale come a morire.» (Balestrini, op. cit., p. 131)
Non è un caso infatti che la storia con China cominci proprio durante l’occupazione del Cantinone: «China la prima volta che l’ho conosciuta è stato quando c’è stata l’occupazione del Cantinone e lì che l’ho vista per la prima volta China era arrivata lì non so quando e stava aiutando Gelso a fare il murales che Gelso aveva deciso di fare sulla parete più grande aveva un grande pennello e lo intingeva in un secchio di tempera bianca ma lo intingeva troppo e la pittura schizzava dappertutto e colava giù sul pavimento io ho visto quel disastro e sono andato lì per farle vedere come doveva fare ma anche perché mi sembrava molto carina.» (Balestrini, op. cit., p. 117).
Scrive infatti Balestrini: «intanto altra gente cominciava a arrivare arrivavano a gruppi gli studenti che già sapevano della cosa e poi arrivavano i primi curiosi arrivavano operai e disoccupati che avevano visto i nostri manifesti e i volantini si era sparsa la voce e la gente arrivava entrava e si aggirava per lo stabile guardando dappertutto noi spiegavamo perché abbiamo occupato cosa vogliamo fare adesso e la gente discuteva domandava […] c’erano i bambini che correvano su e giù per il salone salivano nelle stanze sopra c’era dappertutto un caos completo.» (Balestrini, op. cit., p. 119)
Marshall Berman, All That is Solid Melts into Air, New York, Simon and Schuster, 1982, p. 321.
Balestrini, op. cit., p. 126.
Guido Guglielmi, «Nanni Balestrini. Gli Invisibili», Il Verri, n. 7, settembre 1988, p. 138.
Balestrini, op. cit., pp. 259-260.
Debord, op. cit., p. 166 (§ 172).
Ecco perché il movimento assume per il protagonista i contorni di una grande famiglia: «il mio ruolo è quello di uno che sta andando in galera adesso pensavo ai compagni e questo mi consolava perché pensavo che adesso tutti si stavano mobilitando si stavano dando da fare per me non mi avrebbero lasciato solo e ero orgoglioso del fatto che avevo tutti questi compagni questa grande famiglia che si prendeva a carico la mia situazione i miei problemi che avrebbero pensato a tutto […] sentivo che non ero solo facevo parte di una forza collettiva e questo mi dava una grande forza […]» (Balestrini, op. cit., p. 179).
Merrifield, Metromarxism. A Marxist Tale of the City, New York-London, Routledge, 2002, p. 181.
Vittorio Spinazzola, «Requiem per gli Invisibili», L’Unità, 22 febbraio 1987.
Furio Colombo, «Voci di dolore sulle rovine del terrorismo», Tuttolibri («La Stampa»), 4 aprile 1987.
Balestrini, op. cit., p. 207.
N. Balestrini, Prendiamoci tutto: conferenza per un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 16.
Augé, op. cit., p. 110.
Rosato, art. cit., p. 121.
Balestrini, Gli invisibili, op. cit., p. 261.
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