La Mafia da Sciascia a Calaciura: Dalla narrazione impossibile all’eruzione delle metafore narrative
Texte intégral
- 1 Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961; Milano, Fabbri editori, 1995, p (...)
- 2 Giosuè Calaciura, Malacarne, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.
1Questa riflessione è uno studio della rappresentazione del fenomeno mafioso compiuto in riferimento alla violenza collettiva ma anche e soprattutto nella prospettiva di un’evoluzione narratologica quale emerge dal confronto tra Il giorno della civetta1 di Leonardo Sciascia e Malacarne2 di Giosuè Calaciura, opera sulla quale ci soffermiamo più a lungo per almeno due motivi essenziali. In primo luogo perché è più recente, dunque sintomatica delle nuove tendenze del romanzo italiano, in secondo luogo perché, proprio in quanto tale, alimenta una fortuna critica in itinere, a differenza della produzione sciasciana ampiamente celebrata anche all’estero.
2Il quarantennio che separa sia la cifra anagrafica di questi autori entrambi siciliani sia le due opere in esame, apparse rispettivamente nel 1961 e nel 1998, costituisce forse uno iato minore rispetto alla trasposizione letteraria della mafia che essi compiono.
- 3 Così Leonardo Sciascia, in L’Ora, 15-16 aprile 1965.
3Nel 1965, in un’intervista rilasciata al quotidiano palermitano L’Ora, lo stesso che ha visto per anni la firma di Calaciura in calce a diversi articoli di cronaca mafiosa, Sciascia afferma testualmente: «La mafia è un problema nostro. Io ne ho fatto un’esemplificazione narrativa»3. Che cosa intende Sciascia per «esemplificazione narrativa»? Innanzi tutto – come egli stesso precisa nel corso della medesima intervista – l’aver posto l’accento su questo problema in un’opera narrativa di largo consumo.
- 4 Leonardo Sciascia, Il mare color del vino, Einaudi, Torino 1973.
- 5 Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni in Saggi sulla letteratura e sull’arte (a cura di (...)
4Ma porre l’accento su un problema, se ne esplicita l’evidenza e ne amplifica la portata, non ne spiega necessariamente la fonte. Come ha osservato Pasolini nella recensione a Il mare color del vino4 raccolta in Descrizioni di descrizioni, «Non c’è personaggio di Sciascia che non abbia come perno del proprio comportamento questa categoria mentale della mafia, e la cui psicologia non ne sia stata inizialmente e una volta per sempre determinata 5». La mafia dunque è una costante, ma anche un’incognita, dal momento che l’autore non la definisce, né cerca di risalire alle sue fonti, salvo quelle etimologiche, come testimonia Filologia, racconto incluso in Il mare color del vino, dove si legge un inventario delle possibili derivazioni del termine, dall’arabo maehfil e mohafat, dal toscano smàferi, dal francese mafler.
5In realtà, l’universo sciasciano è pervaso dalla storia della Sicilia alla quale la mafia inerisce ab aeterno. E questa dimensione ontologica non sfugge all’illuminista Sciascia che si rende conto, come ha notato Pasolini, «di non poter esprimere oggettivamente una condizione storica e umana non razionalizzabile».
- 6 Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, Torino, Einaudi, 1966.
- 7 Id., Il contesto, Torino, Einaudi, 1973.
6Corollario dell’inesprimibilità della mafia è la sua inestinguibilità: mancando l’origine, mancherà anche la fine. Di qui il fatalismo dei personaggi spesso allignati nella trincea omertosa connaturata a «Cosa nostra», o allora eterni perdenti, incapaci di provare con i fatti la verità intuita, come avviene al capitano Bellodi del Giorno della civetta o al professor Laurana di A ciascuno il suo6 o ancora al commissario Rogas del Contesto7.
- 8 Id., Todo modo, ibid.., 1974.
- 9 Cfr. Giuseppe Traina, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 142.
7Nell’impossibilità di risalire alle cause di questa materia non razionalizzabile, lo sguardo dello scrittore si concentra sugli effetti di questo motore immobile che incancrenisce e occulta la verità. Bellodi fallisce perché alla sua inchiesta si sovrappone la falsa testimonianza di un mafioso al di sopra di ogni sospetto, e al capitano parmense rimane l’amara intuizione che «tutta l’Italia va diventando una Sicilia», che profetizza le collusioni mafia-politica del Contesto e di Todo modo8, presenti pure in Malacarne. In tal senso, Giuseppe Traina ha osservato che «la mafia viene persa di vista come specifico fenomeno siciliano», con la conseguente metafora della palma che «va a Nord», ma non è «Cosa nostra» a risalire la penisola, bensì il potere centrale che ne assimila i comportamenti9.
- 10 Jean-Noël Schifano, Désir d’Italie [1990], Paris, Gallimard, 1996, p. 249. Tra le traduzioni, rico (...)
8Per Sciascia la mafia è «una ‘metafora’dello sfruttamento, dell’abuso di potere e della violenza nel mondo», come ha dichiarato a Jean-Noël Schifano, traduttore francese di alcune sue opere10.
9Di questo carattere universale della mafia si fa carico anche il romanzo di Calaciura, ma con dimensioni diverse e per certi aspetti ancora più ampie. In Malacarne la cronaca esplode in metafore: mediante il linguaggio, Calaciura attraversa la «notizia» per approdare ad una coscienza più profonda e universale del Sud.
- 11 Ecco un esempio (Malacarne, p. 115): «Rimirammo le costellazioni del nostro cervello, contammo una (...)
10Se Sciascia narratore tende a eclissarsi dinanzi ad una constatazione dei fatti asettica quanto inoppugnabile, Malacarne traduce uno scempio che non si limita ad investire un’intera nazione, ma esplode in un dramma collettivo che travolge perfino la sintassi dell’autore, come si evince da lunghi periodi dalla punteggiatura anarchica culminanti in una sequenza di venti righe di cui cinque senza virgole11.
11A differenza di Sciascia, Calaciura uncina il personaggio trivellandolo nell’intimo per cavarne non la verità ma l’identità.
12Malacarne si apre sull’affermazione di una consapevolezza devastante che un «malacarne», cioè un mafioso, ribadisce ad un giudice muto con una frequenza ossessiva: «Non eravamo più niente». Con questa negazione assoluta comincia il racconto in prima persona di un’«ammazzatina» o dei processi di «scannatina» ricostruendo «Cosa nostra» sin dal «patto scellerato delle morti bibliche», e scavando oltre, «con una fatica della memoria che ci riportò neonati scalzi nel ventre delle nostre madri», come si legge a p. 100. Questo percorso a ritroso fino al ritorno nel liquido amniotico a piedi nudi, spogliati dunque sin dalle estremità, esprime la volontà di azzerare il processo di disgregazione dell’identità che travolge la persona alienandola da se stessa, poiché finisce per alterarne i connotati più degli abili camuffamenti esterni: «Non eravamo più noi stessi signor giudice. Irriconoscibili più che nelle occasioni di clandestinità» (p. 40).
- 12 Cf. Malacarne, p. 78.
- 13 Giuseppe Ungaretti, «In memoria» da L’Allegria 1914-1919, [1942], Milano, Mondadori, 1962, p. 35. (...)
13L’impellenza di raccontare il proprio dramma irrompe nella progressione narrativa che diviene una sorta di trance trascendentale dove si fondono fantasia e realtà. Dal killer infallibile nato in una grotta da genitori di passaggio, visionaria incarnazione di un Gesù assassino12, all’eco del maxiprocesso, della voce di Buscetta «nell’aula grande di giustizia dove fu chiamato a inchiodarci con quella sua registrazione monocorde della verità» (p. 132), che risuona come evidente metafora della crocifissione. E questo delirio svela anche il sovrapporsi frequente tra autore e personaggio in un falsetto che si esplicita nella «terra attonita» (p. 150) di manzoniana memoria o nel leopardiano «è funesto a chi nasce il dì natale» (p. 48), ma che contrae il debito maggiore con Moammed Sceab, il giovane arabo espatriato in Francia cantato da Ungaretti13 e riesumato da Calaciura nel sicario tunisino dal «nome impronunciabile che sembrava insieme un sibilo e uno starnuto» (Malacarne, p. 93) e che «non sapeva sciogliere il canto del suo abbandono bevendo caffè nella tenda dei suoi» (p. 94).
14La reiterazione continua della perdita d’identità è il prologo di una tragedia da cui scaturisce un flusso verbale incontenibile che sfocia nella prosopopea del personaggio narrante morto ammazzato. Di lui sappiamo che è un mafioso, ma la sua storia trascende il vissuto personale: più che l’appartenenza all’«onorata società», il suo delirio rivendica una stretta parentela con il genere umano alla deriva. Benché ogni spunto del romanzo prenda le mosse dalla Palermo degli anni 80, dal maxiprocesso e dalle confessioni dei boss Buscetta e Mannoia, la voce narrante ricalca solo in apparenza la figura del «pentito», poiché dal suo racconto non emerge nessuna ritrattazione, ma solo un’unica lancinante ossessione: «Non eravamo più niente».
15E in realtà questo «cuntastorie» che ritma il nichilismo cosmico sull’efferatezza mafiosa è privo d’identità anche agli occhi del lettore: Calaciura non gli dà nome, ma solo voce per raccontare all’infinito, ne fa un aedo dei nostri giorni condannato a cantare in eterno il proprio epos.
16Al contrario, in Sciascia ogni personaggio è ben radicato nel proprio contesto. Nel Giorno della civetta, persino il cane in cui s’imbatte il capitano Bellodi, intento a setacciare il chiarchiaro di Gramoli, ha un nome indicativo del suo abbaiare rabbioso, come traspare da questo scambio di battute:
- 14 Il giorno della civetta, p. 94.
«Barruggieddu si chiama» disse il vecchio
«E che vuol dire?» domandò il capitano.
«Vuol dire uno che è cattivo» […].
Il vecchio disse che forse il nome giusto era Barricieddu, o forse Bargieddu: ma in ogni caso significava malvagità, la malvagità di uno che comanda; ché un tempo i Barruggieddi o Bargieddi comandavano i paesi e mandavano gente alla forca, per piacere malvagio.
«Ho capito» disse il capitano «vuol dire Bargello: il capo degli sbirri»14.
17Per un attimo Bellodi si riconosce in quel bastardino di «pelo marrone» (Il giorno della civetta, p. 93): «“Bargello” pensò il capitano “bargello come me: anch’io col mio breve raggio di corda, col mio collare, col mio furore”» (p. 94). Ma qui l’immedesimazione fugace esprime il disappunto di un ufficiale dello Stato che si ritrova imbrigliato nell’espletare i suoi poteri. Al contrario, in Malacarne le metafore inerenti al regno animale sottendono ben altre implicazioni:
- 15 Malacarne, p. 47.
Imparammo com’è diversa da come s’immagini l’anatomia degli uomini. Ci stupiva il colore rosso del sangue che non è proprio rosso, ci stupiva il colore biancastro dei cervelli schizzati sull’asfalto, le ossa candide scheggiate dalle pallottole, le sembianze di animali scuoiati con le budella lunghissime che si muovevano da sole anche dopo la morte15.
18Dalla perizia cromatica dell’anatomia umana all’autonomia delle viscere alimentate dall’espressionismo di una scena che fonde fantasia e pulp. Eppure, il dramma di questa mattanza umana non risiede tanto nella strage quanto nei tratti ferini che l’uomo palesa nella morte come nella vita: «Siamo animali della metropoli, belve di città, bestie di vicolo in agguato ai quadrivi dell’infinita caccia ai nostri simili da artigliare con un balzo, da sbranare membra dopo membra» (Malacarne, p. 88). L’uomo avido predatore si rivela nella mostruosa antropofagia di questa sequenza, dove si nota una volta di più l’eruzione di un magma linguistico che affluisce nella pagina e si cristallizza in un effetto tridimensionale, ben esemplificato dalle seguenti metafore:
Nei periodi lunghi di solitudine aveva le stalattiti delle sue stesse lacrime di coccodrillo carcerario che gli pendevano dagli occhi che guardavano le stalagmiti di pianto sul pavimento di cemento sporco e dovettero abbatterle con i mazzuoli degli sfondamenti edili perché i sedimenti delle sue lacrime erano più indistruttibili della roccia. (Malcarne, p. 55).
19Neanche una virgola frena questa colata di immagini sontuosamente barocche sbozzate nel vulcanismo sintattico e lessicale dell’autore.
- 16 Filippo La Porta, La nuova narrativa italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 288.
20Secondo il critico Filippo La Porta, tali peculiarità rendono Calaciura «apocalittico e iperrealistico, metafisico e dantesco e la sua pagina ha sempre una potenza espressiva insolita nella narrativa attuale16».
- 17 Così Calaciura, da me intervistato il 9 maggio 2003.
21Se il movente letterario di Sciascia risiede nella ricerca della verità e nell’impalcatura di un delitto che faccia della morte un’esperienza narrabile, quello di Calaciura ruota intorno alla spersonalizzazione umana come metafora di una inquietante devianza letteraria che traspare chiaramente da questa sua affermazione: «La letteratura degli ultimi anni sulla mafia, o più in generale sulle cose del Meridione, è una scrittura che vuole diventare cinema o televisione, […]. Con i miei due romanzi ho tentato solo di riconsegnare la scrittura alla pagina narrativa17».
- 18 Giosuè Calaciura, Sgobbo, Milano, Baldini & Castoldi, 2002.
22Attraverso Malacarne e Sgobbo18, apparso nel 2002, l’autore si propone dunque di ristabilire le proporzioni di rapporto, quello del testo scritto e della sua forma, che appare sbilanciato verso l’immediatezza del mezzo visivo e sonoro: la pagina scritta nasce geneticamente modificata dal calco del grande e piccolo schermo, e questa vocazione mortifica sia il linguaggio narrativo sia l’originalità di cinema e TV. Ma «riconsegnare la scrittura alla pagina narrativa» significa innanzi tutto ricucire un’identità lacerata. Se quella umana appare seriamente compromessa, il tessuto narrativo è suturato da metafore che traducono la cronaca ai limiti del verso poetico, come dimostra il passaggio seguente:
- 19 Malacarne, p. 43.
Signor giudice, imparammo a dormire da svegli con gli occhi aperti come le civette, appollaiati sul nostro ramo di terrore, e segavamo le sbarre alle finestre delle nostre camere da letto per lasciarci una via di fuga, imparammo a fumare le nostre sigarette di panico aspirando con il braciere in bocca per non fornire bersagli luminosi […]19.
23In questa serie di immagini di notevole impatto emozionale che si stagliano all’orizzonte del linguaggio si consuma con ogni evidenza lo scarto tra fiction e non-fiction. Sintomatico in tal senso l’epilogo del romanzo: la narrazione ha verosimilmente fine solo se si estirpa alla radice quel timbro inconfondibile che la espande «en boucle». E il «malacarne» descrive la propria «ammazzatina» con la solita perizia del gesto tecnico: «Mi puntò l’arma in bocca affinché morissi muto» (p. 150). In realtà, corazzato da questa singolare messinscena della scrittura, neanche la morte gli ha impedito di «sciogliere il canto del suo abbandono».
Notes
1 Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961; Milano, Fabbri editori, 1995, per l’edizione di riferimento in questa analisi.
2 Giosuè Calaciura, Malacarne, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.
3 Così Leonardo Sciascia, in L’Ora, 15-16 aprile 1965.
4 Leonardo Sciascia, Il mare color del vino, Einaudi, Torino 1973.
5 Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni in Saggi sulla letteratura e sull’arte (a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con un saggio di Cesare Segre; cronologia di Nico Naldini), Milano, Mondadori, coll. «I Meridiani», 1999, p. 1840.
6 Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, Torino, Einaudi, 1966.
7 Id., Il contesto, Torino, Einaudi, 1973.
8 Id., Todo modo, ibid.., 1974.
9 Cfr. Giuseppe Traina, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 142.
10 Jean-Noël Schifano, Désir d’Italie [1990], Paris, Gallimard, 1996, p. 249. Tra le traduzioni, ricordiamo in particolare: Pirandello et la Sicile, Grasset, 1980 (Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia 1961); La disparition de Majorana, Maurice Nadeau, 1976 (La scomparsa di Majorana, Einaudi 1975); L’affaire Moro, Grasset, 1978 (L’affaire Moro, Sellerio 1978).
11 Ecco un esempio (Malacarne, p. 115): «Rimirammo le costellazioni del nostro cervello, contammo una per una le stelle di bambagia della nostra immaginazione per ingannare il tempo, trovammo sorgenti naturali e fontanelle gentilizie per saziare l’arsura da siccità della nostra sete preistorica, spogliammo le ninfette della testiera del letto che ci offrivano la frutta esotica dei loro cesti nel dormiveglia della paura cianotica, accarezzammo le tigri addomesticate delle stampe indiane sui muri per allietare la sofferenza fetale dei nostri anfratti di un metro per un metro e che ansimavano un respiro caldo di stufa elettrica, vedemmo i putti di gesso che svolazzavano come pipistrelli impazziti alla fine del tramonto affollando gli incubi della nostra claustrofobia, scovammo arsenali intatti con le armi micidiali della nostra vendetta da addormentati dove uccidemmo gli incubi dei nostri tradimenti riconoscendo gli amici per la lama nascosta nella calza dei loro travestimenti di incoraggiamento, trovammo i fuochi ardenti del nostro inferno personale e vedemmo l’alba abbagliante del giorno bellissimo che era quello dopo la nostra morte con una tale nitidezza di attendibilità che ci sentivamo più sollevati dalla certezza che comunque tutto sarebbe finito in un modo o nell’altro, sperando nell’inesistenza di Dio e della sua vendetta postuma.»
12 Cf. Malacarne, p. 78.
13 Giuseppe Ungaretti, «In memoria» da L’Allegria 1914-1919, [1942], Milano, Mondadori, 1962, p. 35. Ecco il testo integrale: Si chiamava/Moammed Sceab / Discendente/di emiri nomadi/suicida/perché non aveva più / Patria / Amò la Francia/e mutò nome / Fu Marcel/ma non era Francese/e non sapeva più/vivere/nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena/del Corano/gustando un caffè / E non sapeva/sciogliere/il canto / del suo abbandono / L’ho accompagnato/insieme alla padrona dell’albergo / dove abitavamo a Parigi / dal numero 5 della rue des Carmes/appassito vicolo in discesa / Riposa / nel camposanto d’Ivry / sobborgo che pare /s empre/in una giornata / di una / decomposta fiera / E forse io solo / so ancora / che visse.
14 Il giorno della civetta, p. 94.
15 Malacarne, p. 47.
16 Filippo La Porta, La nuova narrativa italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 288.
17 Così Calaciura, da me intervistato il 9 maggio 2003.
18 Giosuè Calaciura, Sgobbo, Milano, Baldini & Castoldi, 2002.
19 Malacarne, p. 43.
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Référence papier
Stefania Ricciardi, « La Mafia da Sciascia a Calaciura: Dalla narrazione impossibile all’eruzione delle metafore narrative », Cahiers d’études italiennes, 3 | 2005, 57-63.
Référence électronique
Stefania Ricciardi, « La Mafia da Sciascia a Calaciura: Dalla narrazione impossibile all’eruzione delle metafore narrative », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 3 | 2005, mis en ligne le 15 décembre 2006, consulté le 11 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/272 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.272
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