- 1 Le avventure militari all’estero iniziano quasi in sordina nell’estate 1979, quando una divisione (...)
1La prima guerra del golfo ha segnato per l’Italia una tappa importante nell’evolversi della psicologia collettiva. Per la prima volta dopo quasi mezzo secolo il Paese si è trovato coinvolto, prima ancora psicologicamente che materialmente, in una vera e propria guerra, cioè in un’azione armata mossa da diversi stati sovrani contro un altro stato sovrano per la risoluzione di una controversia internazionale dovuta a conflitti di interessi ideologici e economici, veri o presunti e comunque parziali. In precedenza c’erano stati, quasi a rompere il ghiaccio, gli interventi in Libano e in Somalia1. Ma s’era trattato sempre della partecipazione alle cosiddette forze di interposizione, cioè a spedizioni di forze multinazionali, anche se non autorizzate dalle Nazioni Unite, miranti a operare all’interno di determinati paesi per neutralizzare situazioni di guerra civile, appunto interponendo delle forze «neutrali» tra le diverse parti in lotta. Prescindiamo qui completamente dalla valutazione dell’intervento italiano in Libano e in Somalia, su cui troppo ci sarebbe da dire. Ci preme mettere in evidenza il fatto che la partecipazione alla coalizione capeggiata dagli Stati Uniti durante la prima guerra del Golfo ha costituito per l’Italia un vero e proprio salto di qualità. Non si è trattato di un episodio isolato, casuale. E la dimostrazione è data dal fatto che dopo di esso c’è stata la partecipazione italiana alle guerre balcaniche. Se ancora la guerra di Bosnia poteva essere considerata una sorta di guerra civile, e se quindi la presenza di truppe italiane poteva essere presentata come rispondente ai classici fini dell’interposizione tra le opposte fazioni, nel caso della guerra di Serbia si è trattato palesemente di una guerra mossa da diversi stati sovrani contro un altro stato sovrano. Non si vogliono qui esprimere giudizi sul senso e sul significato politico di queste guerre, né si vuole entrare nel merito della diatriba tra chi parla di operazioni di polizia internazionale, ovvero di missioni di peace keeping. Resta il fatto che gli italiani si sono man mano abituati all’idea di inviare propri militari fuori dai confini e non solo in zone di un qualche interesse geopolitico immediato, quale poteva essere, per esempio, la necessità di tenere sotto controllo l’afflusso di immigrati clandestini dalle coste adriatiche della ex Yugoslavia e dell’Albania.
- 2 Si fa riferimento all’episodio, avvenuto il 12 novembre 2003, del camion esploso nel quartiere gen (...)
2La tuttora perdurante seconda guerra del golfo dimostra che la direzione segnata dalla partecipazione alla prima guerra del golfo ha continuato a essere seguita tanto dalla politica governativa, quanto dagli orientamenti profondi della popolazione. È vero che la stragrande maggioranza della popolazione si è sempre dichiarata, e anche rumorosamente, contraria alla guerra, e che l’atteggiamento prevalente è sempre stato quello del no alla guerra senza se e senza ma, tuttavia bisogna pur ammettere che i recentissimi avvenimenti hanno permesso l’emergere di un sentimento nazionale e forse si potrebbe dire tout court nazionalistico, di cui si stentava a credere possibile l’esistenza. La morte dei 12 carabinieri, dei 5 soldati dell’esercito e dei due civili in seguito all’attacco di Nassiriya2 ha spinto milioni di italiani a manifestare il loro cordoglio, con la platealità che da sempre ha contraddistinto il nostro sfortunato Paese: prima ancora dei solenni funerali di stato che hanno per giorni paralizzato la capitale, i comandi dei carabinieri, i mille monumenti al milite ignoto sparsi per tutta la penisola, sono stati letteralmente sommersi, da fiori in ghirlande, mazzolini e sciolti, da lettere e disegni. Grandi e piccoli hanno sentito il dovere di rendere esplicito il loro sentimento di gratitudine verso questi soldati che li hanno resi «fieri di essere italiani». Un partito politico ha tappezzato i muri della capitale con la scritta «onore ai militari italiani caduti per la pace e nella lotta contro il terrorismo», dove ci preme rilevare le connotazioni militariste della parola onore. E se ciò potrebbe essere visto come un moto irriflesso degli strati meno culturalmente agguerriti della nazione, questa impressione si rivela subito fallace allorquando si leggono le prime pagine dei giornali più prestigiosi e diffusi. Un esempio particolarmente ricco di significato è forse quello di Piero Ostellino che sul «Corriere della Sera» del 16 novembre invita gli Italiani a esporre alla finestra il Tricolore, beninteso accanto alla bandiera della pace. Ma ancor più allarmante è l’editoriale apparso sulla «Repubblica» del giorno successivo dall’eloquente titolo «Carabinieri d’Italia» nel quale il recente acquisto della squadra di Scalfari, l’ala destra Francesco Merlo, dopo aver aperto con un lapidario «La retorica fa male ai carabinieri» si profonde in uno scritto trasudante la più vieta magniloquenza di stampo cadorniano e supera se stesso nell’arte del paradosso lanciando dal suo freddo schermo digitale un assurdo appello a lettori e lettrici, invitandoli a imitare i carabinieri, cioè a farsi ammazzare, per la Patria beninteso. Sappiamo che lo Stato ama farsi chiamare Patria quando vuole compiere assassini di massa, ma televisioni e stampa non fanno distinzioni sottili e dopo aver dato il via a questa ondata di orgoglio nazionale alimentato dal cordoglio, hanno ben provveduto a alimentarla ulteriormente con la continua riproposizione delle immagini del popolo, anzi della «gente», in lutto, dei disegni dei bambini delle elementari, delle affermazioni tratte dai temini scritti per l’occasione dagli studenti delle scuole medie e superiori, degli sfoghi di tele e radioutenti ai microfoni e davanti alle telecamere avidamente sguinzagliate.
- 3 Nata nel 1969 a Porto San Giorgio (Ascoli Piceno), ha pubblicato il suo primo racconto nel 1990 in (...)
- 4 . Il volume del 1992 è ora in Romanzi e racconti a cui faremo riferimento d’ora in poi indicando so (...)
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- 6 Esilio incominciato con una clamorosa fuga dall’isola di Lipari, dove era stato confinato in segui (...)
- 7 Mi riferisco ai seguenti testi: Giovanni Comisso, Giorni di guerra (Milano-Verona, Mondadori, 1930 (...)
- 8 Ci si riferisce naturalmente a Henri Barbusse, Le Feu (Paris, Flammarion, 1916) apparso in italian (...)
- 9 Si veda Falaschi, art. cit., p. 171.
3Questa evoluzione, la cui portata è sotto gli occhi di tutti, ha avuto un momento chiave in quella prima guerra del Golfo che aleggia nel romanzo del 1992 di Silvia Balestra3, La guerra degli Antò4, pur senza forse esserne l’oggetto principale. Si tratta di una delle poche opere di narrativa italiana di un qualche rilievo che abbia dato uno spazio rilevante al tema di quella guerra. Nell’affrontare la lettura di un libro in larga misura incentrato sulla guerra, il pubblico italiano non può sfuggire al confronto con l’opera narrativa che unanimemente viene considerata la più alta testimonianza della partecipazione a una guerra, Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu5. È chiaro che non si intende qui istituire un raffronto tra due opere abissalmente diverse e dunque incomparabili. Si tratta piuttosto di misurare la novità di un approccio letterario a un tema, volenti o nolenti, centrale per l’intera società, mediante l’accostamento critico a un’opera considerata paradigmatica nel suo genere. Un anno sull’altipiano fu scritto tra il 1936 e il 1937 quando Lussu si trovava costretto all’immobilità in un sanatorio presso la cittadina svizzera di Davos. Si tratta di un’opera nata durante una pausa forzata dalla sua attività di organizzatore politico della lotta antifascista nel suo esilio francese 6 e che ha dunque, potremmo dire inevitabilmente, una forte attualità politica. Il libro racconta in chiave autobiografica una fase della prima guerra mondiale, e precisamente il periodo tra il giugno 1916 e il luglio 1917, trascorso dall’autore in qualità di ufficiale di fanteria sul fronte italo austriaco sull’altipiano di Asiago. Il racconto delle vicende belliche, condotto in prima persona è fatto per così dire in presa diretta, come se il raccontare, che in realtà ha luogo circa venti anni dopo, fosse contemporaneo alla materia del racconto. L’autore rifugge da una presentazione grandiosa e enfatica della guerra e disdegna altresì un travestimento intimistico o estetizzante di quell’esperienza. Il linguaggio è piano, semplice, immediato, attento a evitare ogni tentazione di accensione retorica che possa sembrare un’esaltazione di quei valori bellici e patriottardi che nel 1936, quando Lussu scrive, erano ormai irrimediabilmente compromessi col fascismo. Lo stesso io narrante sembra a prima vista relegato nel ruolo di semplice testimone, specola di un punto di vista collettivo. Anche solo per questo il libro di Lussu si differenzia radicalmente dagli altri più importanti libri italiani nati dall’esperienza della guerra, come quelli di Soffici, di Comisso, di Stuparich, di Malaparte, di Jahier e di Gadda7, e può essere accostato solo alle grandi opere della letteratura europea sulla Grande Guerra, che d’altra parte è probabile Lussu conoscesse, quali i romanzi di Remarque e Barbusse8. Si è detto probabile, e tuttavia si tratta quasi di una certezza, data la nota scrupolosità di Lussu nel documentarsi prima di stendere i suoi scritti e data la notorietà di questi autori. Nel caso di Remarque, per esempio, è nota la fama internazionale che raggiunse subito dopo la pubblicazione del suo romanzo nel 1929 e soprattutto dopo l’uscita, già nel 1931, della versione cinematografica, All Quiet On The Western Front, con la regia di Lewis Milestone. Se si pensa poi che Mondadori pubblica tempestivamente la traduzione italiana nel 1931 e che lo scrittore di Osnabrück era una delle piccole glorie della cittadina di Davos, dove risiedette a lungo tra il ’29 e il ’31, cioè proprio dei luoghi in cui Lussu scrisse il suo libro pochi anni dopo, parrebbe davvero strano che lo scrittore sardo, che mirava a un pubblico internazionale9, non abbia tenuto conto dell’opera di Remarque. Infatti a questa sembra essersi ispirato per un certo numero di tecniche narrative, temi e di motivi, fra i quali possiamo enumerare il racconto in prima persona e in presa diretta, il linguaggio secco e ironico, il tema dell’entusiasmo per la guerra che crolla in seguito all’esperienza atroce, crudele e insensata del fronte, quello della solidarietà fra commilitoni e perfino col nemico, i motivi della fame, dei piccoli furti per sfamarsi, degli alcolici distribuiti prima degli attacchi, del ritorno a casa in licenza, ecc.
- 10 Ecco la pagina finale del romanzo, dove il narratore Paul Bäumer, giunto alla fine della guerra or (...)
4L’intento di Remarque, dichiarato persino in epigrafe, era quello di «raffigurare una generazione la quale, anche se sfuggì alle granate, venne distrutta dalla guerra», cioè di rappresentare come la guerra avesse messo in una condizione di stallo esistenziale senza speranza la generazione dei sopravvissuti alla grande carneficina, non solo e non tanto per le terribili esperienze fisiche e psichiche fatte al fronte, quanto perché quelle esperienze avevano fatto crollare proprio quel mondo di valori che li aveva portati pieni di entusiasmo alla guerra 10. Lussu invece, come si vedrà, non indaga nel romanzo gli effetti che la guerra avrà sui combattenti superstiti, ma si limita a mostrare come la guerra si riveli ai combattenti, e in particolare agli interventisti, come un inutile sterminio. Per lui, di fatto, la guerra costituisce l’elemento catalizzatore capace di rendere i combattenti sardi consapevoli della propria identità.
5Anche per quanto riguarda Le feu di Barbusse, che in pochissimo tempo superò le 200 mila copie e fu tradotto in quasi sessanta lingue, molte sono le somiglianze ideologiche, strutturali e stilistiche che suggeriscono che questo libro abbia avuto una forte influenza sul libro dello scrittore sardo. Certo, quando quest’ultimo dà la parola ai soldati della Brigata, non li fa parlare in dialetto, come invece avviene con i protagonisti del romanzo francese, che parlano in argot. Tuttavia, in entrambi i romanzi la guerra è rappresentata in modo molto critico, dal basso, da un autore partito come volontario. Il breve dialogo che segue è rappresentativo del libro di Barbusse:
— Après tout, qu’est ce qui fait la grandeur et l’horreur de la guerre ?
— C’est la grandeur des peuples.
— Mais les peuples c’est nous !
— […]
— C’est avec nous seulement qu’on fait les batailles. C’est nous la matière de la guerre. La guerre n’est composée que de la chair et l’âme des simples soldats. C’est nous qui formons la plaine des morts et les fleuves de sang, nous tous – dont chacun est invisible et silencieux à cause de l’immensité de notre nombre. Les villes vidées, les villages détruits, c’est le désert de nous.
— Oui, c’est vrai. C’est les peuples qui sont la guerre ; sans eux, il n’y aurait rien, rien que quelques criailleries de loin. Mais c’est pas eux qui la décident. C’est les maîtres qui les dirigent. (Barbusse, p. 366)
6Ed ecco un dialogo tra i soldati di Lussu:
— Eh! Muoiono anche loro. Si dice che la ferita del generale è grave.
— Peggio per lui. Non era pagato per fare il generale?
[…]
— Ma vedrete che non morrà. Di quella gente non ne muore uno sul serio.
— Quelli stanno bene anche da morti.
— Se morissero tutti staremmo meglio anche noi.
— Se morissero tutti la guerra sarebbe finita. (p. 100)
7Entrambi i testi evidenziano la differenza di interessi tra truppe e ufficiali e l’artificiosità della guerra, dovuta non a sostanziali diversità fra i popoli, ma all’interesse delle classi dominanti. Sia in Le feu sia in Im Westen Nichts Neues i narratori in prima persona, Barbusse personaggio e Paul Bäumer, tendono a farsi portavoce delle opinioni e dei sentimenti del piccolo gruppo di cui fanno parte e a omologarsi a esso, sia che si tratti di quello omogeneo dei compagni di scuola tedeschi giunti insieme al fronte, sia che si tratti di quello eterogeneo dei compagni di ventura di Barbusse, formato da uomini di tre diverse generazioni e provenienti dalle più svariate parti della Francia. E la tendenza a fare di quella del protagonista, come si accennava, una sorta di voce corale è in parte presente anche nel romanzo di Lussu.
8Non che la figura del protagonista occupi davvero una parte secondaria nell’economia del libro; semplicemente la sua centralità non viene esibita bensì fatta emergere tra le righe dalla forza stessa delle vicende narrate. Un ruolo preminente nella costruzione narrativa di Lussu ha infatti, come è stato da tempo riconosciuto, la categoria molto sarda della balentìa. Il balente nella cultura tradizionale sarda è una figura spesso ambigua. Il termine designa fondamentalmente il possesso delle virtù competitive – forza, coraggio, determinazione, capacità di comando – virtù che, come è chiaro, possono essere messe al servizio del bene collettivo (quindi al servizio delle virtù «collaborative», onestà, giustizia, generosità e solidarietà), oppure servire a una pura affermazione personale, al di là e eventualmente a dispetto di ogni virtù collaborativa. L’ufficiale Lussu, che nel corso di un anno di combattimenti passa dal grado di sottotenente a quello di capitano, è una personificazione del balente nell’accezione positiva del termine. Egli ha capacità di comando in virtù del suo coraggio, ma anche per via del suo senso della misura. È ammirato, rispettato e amato dai suoi sodati che costantemente vedono in lui un saldo punto di riferimento, un uomo capace di prendere in considerazione, nei limiti che gli sono consentiti, le loro esigenze, e addirittura di tenere testa agli alti ufficiali, quasi tutti contraddistinti da incompetenza, irresponsabilità, bassa ambizione e egoismo.
- 11 Kalos kai agathos vuol dire bello e buono nel senso di valoroso, ma kaloi kai agathoi erano per de (...)
- 12 Rientrato in Sardegna nel ’19 Lussu partecipa alla fondazione del Partito Sardo d’Azione, la cui n (...)
9Il protagonista – io narrante rientra con tutta evidenza, in quanto balente, nella categoria della kalokagathia omerica11 e si adatta benissimo al taglio epico che lo scrittore dà alla narrazione e che da più parti è stato riconosciuto come caratteristica del libro. Per Lussu, che scrive nel 1936, rievocare l’anno trascorso sull’altipiano insieme con gli uomini della Brigata Sassari non significa semplicemente aggiungere molto in ritardo la propria testimonianza a un coro già ricco delle voci più varie. Si tratta piuttosto di scrivere un’opera epica, cioè un’opera che metta in evidenza e crei in qulache modo le fondamenta morali e culturali costitutive di una particolare comunità, la nazione sarda, all’interno di una più ampia nazione italiana12. Ecco dunque che attraverso ciò che l’ufficiale Lussu vede e sente, vengono alla ribalta le voci e le azioni non solo degli altri ufficiali, ma anche e soprattutto quelle dei soldati, tutti o quasi tutti sardi, ma pienamente compresi della propria italianità. Sono uomini che scoprono e valorizzano le qualità migliori della loro gente, la sobrietà, lo spirito di sacrificio, la fermezza, il coraggio, la generosità, proprio combattendo come italiani.
10Si pensi al momento in cui i soldati, durante una marcia di trasferimento, passano in mezzo ai profughi, a una sorta di dolente coro di vecchi, bambini e soprattutto donne che ben conoscono il pericolo di rimanere preda del vincitore: Lussu racconta qui l’episodio di un vecchio contadino del luogo che chiede ai soldati in marcia un po’di tabacco e questi, ma mano che gli sfilano davanti, gli regalano, tutti, l’intera razione ricevuta da ciascuno di essi:
Un vecchio contadino, seduto avanti, con le gambe pendoloni, guidava i buoi. Egli fermò i buoi e chiese, ad un soldato, tabacco per la pipa.
— Fumate, nonno! – gli gridò il caporale che marciava in testa, e senza fermarsi, gli pose fra le mani tutto il suo tabacco.
I soldati l’imitarono. Il vecchio, le mani ingombre di pacchetti e di sigari, guardava, sorpreso, tanto inaspettata ricchezza. La colonna continuava la marcia, in silenzio. Come se un ordine fosse stato dato a tutti, i soldati che seguivano lanciavano sul carro il loro tabacco. Il vecchio chiese:
— E voi che fumerete, ragazzi?
La domanda ruppe il silenzio. Per tutta risposta, uno intonò un’allegra canzonetta del repertorio di marcia, e la colonna continuò in coro. (pp. 31-32)
11È qui particolarmente evidente il modo in cui Lussu ottiene degli effetti di altissimo pathos usando strumenti di estrema semplicità, senza impennature di linguaggio, ma anche senza ricorrere a quella forma di enfasi rovesciata che è l’ostentazione della asciuttezza. Non si nasconde che si tratta di momenti commoventi, che rimangono particolarmente impressi nella memoria forse proprio perché nella letteratura italiana sono largamente dominanti i moduli retoricamente insistiti o per iperbole o per antiiperbole.
12Alla caratterizzazione epica contribuisce anche il particolare uso della prima persona plurale. Tutte le esperienze belliche, tanto quelle dei momenti particolarmente intensi come gli assalti, quanto quelle della vita quotidiana di trincea, sono quasi sempre presentate attraverso il «noi». Che si tratti delle misere popolazioni in fuga, incrociate dai soldati in marcia, oppure della quotidiana minaccia costituita dai cecchini appostati a martellare le trincee, ufficiali inferiori e semplici soldati hanno le stesse reazioni, provano i medesimi sentimenti. Si pensi per esempio a quando uno degli ufficiali superiori, il maggiore Melchiorri, credendo erroneamente di trovarsi di fronte a un ammutinamento, ordina la decimazione degli indisciplinati, ma il plotone spara alto:
L’ira del maggiore esplose irreparabile. Con la pistola in pugno, fece qualche passo verso i condannati, il viso stravolto. Si fermò al centro e gridò:
— Ebbene, io stesso punisco i ribelli!
Egli ebbe il tempo di sparare tre colpi. Al primo, un soldato colpito alla testa stramazzò al suolo; al secondo e al terzo caddero altri due soldati, colpiti al petto.
Il capitano Fiorelli aveva estratto la pistola:
— Signor maggiore, lei è pazzo.
Il plotone d’esecuzione, senza un ordine, puntò sul maggiore e fece fuoco. (p. 196)
13Oppure si vedano le seguenti descrizioni, dove paura, terrore e timor panico dominano prima e durante gli assalti:
— Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il capitano era sempre chino sull’orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. Io mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra. Ma quegli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono.
— Pronti per l’assalto! – ripeté ancora il capitano.
Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più terribile. (p. 107)
La traiettoria produceva un rumore speciale, un boato gigantesco, che s’interrompeva […] fino all’esplosione finale. Trombe di tera, sassi e frantumi di corpi si elevavano, altissimi, e ricadevano lontani. […] io ricordo l’idea dominante di quei primi momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi. (p. 52)
14Sono condivisi da tutti anche l’immenso sollievo e la felicità nei rari momenti di temporaneo allontanamento dall’immediato pericolo:
Il riposo non fu molto lungo. Durò solamente otto giorni. Ma quella settimana fu un incantesimo. Da un anno, dopo Aiello, i soldati non avevano più vissuto in mezzo alla popolazione civile. […] Quei giorni furono, per il battaglione, fra i più lieti di tutta la guerra. I soldati erano felici. […] Anch’io mi sentivo felice. (pp. 188-189)
15Anche qui Lussu rivela una rara capacità di misura e equilibrio. Egli non finge mai una uguaglianza tra sé e i soldati di truppa, che sarebbe stata una frivolezza demagogica. Egli è e rimane un borghese colto, un capo. Ma sia lui che i suoi soldati provano gli stessi fondamentali sentimenti umani. Un esempio tra i tanti che possono illustrare questo punto è l’episodio del capitolo 19, quando il protagonista e un suo caporale hanno raggiunto una postazione da cui possono vedere da vicino, non visti, una trincea nemica:
Io facevo la guerra fin dall’inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò e io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.
L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.
Certo, facevo coscientemente la Guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita […] Perché non avrei, ora, tirato io sull’ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. (pp. 136-138)
16Lentamente nella riflessione del protagonista il senso del dovere lascia spazio a un senso di responsabilità umana diversa.
Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il sole si annunciava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!
Cominciavo a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: «Ecco, sta’fermo, io ti sparo, io t’uccido» è un’altra. È assolutamente un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo così, è assassinare un uomo. (p. 138)
17L’eroe della Brigata Sassari obbedisce a un codice diverso da quello dell’esercito e decide di non sparare. Tuttavia ciò che rende questo episodio significativo dell’atteggiamento di Lussu è la sua conclusione. E per capirne meglio la portata lo potremmo mettere a confronto con un passo di uno dei testi europei sulla prima guerra mondiale, scritti da ex combattenti, ai quali Lussu voleva affiancare la sua versione italiana. Lo si trova nell’autobiografia del poeta inglese Robert Graves, Good-bye to All That, pubblicata nel 1929 e divenuta immediatamente un best seller. È probabile che Lussu conoscesse questo libro e ne abbia ripreso alcuni temi e motivi adattandoli al suo discorso. Il protagonista dell’autobiografia è anch’egli critico verso la guerra, nonostante si fosse arruolato come volontario. Ma ecco il brano che ci interessa. Vi descrive il proprio comportamento nelle trincee del fronte occidentale:
- 13 Robert Graves, Good-Bye to All That: An Autobiography, Providence, Rhone Island, Berghahn Books, 1 (...)
I only once refrained from shooting a German I saw, and that was at Cuinchy about three weeks after this. When sniping from a knoll in the support line where we had a concealed loop-hole I saw a German, about seven hundred yards away, through my telescopic sights. He was having a bath in the German third line. I somehow did not like the idea of shooting a naked man, so I handed the rifle to the sergeant who was with me and said: «Here, take this. You’re a better shot than me.
He got him, he said; but I had not stayed to watch13.
18Questa invece la conclusione dell’episodio di Un anno sull’altipiano:
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
— Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi?
Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
— Neppure io.
Rientrammo carponi in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi. (p. 139)
- 14 Sul Graves narratore di guerra si veda Paul Fussell, The Great War and Modern Memory (London-New Y (...)
- 15 Sulla somiglianza tra il Lussu personaggio e il Lussu «reale» così come appariva agli altri combat (...)
19Né Lussu né Graves commentano il fatto che i loro sottoposti rispettivamente rifiutino o accettino di compiere un’azione che il loro senso morale impediva o permetteva loro di eseguire. Come hanno già fatto in tante altre parti del loro racconto, essi lasciano che i fatti parlino da soli14. E davvero, dagli eventi narrati si deduce molto chiaramente che il poeta Graves, che pure nei momenti di pausa della guerra in trincea si diletta a scrivere versi contro la guerra, e che pure, come Lussu, è altamente critico del modo in cui gli alti comandi conducono la guerra, facendone un inutile massacro, non ha tuttavia la più pallida intenzione di riconoscere al suo sergente la stessa nobiltà d’animo che attribuisce a se stesso. C’è in Graves, o per lo meno nel personaggio della sua autobiografia, la tendenza a evidenziare la propria differenza rispetto agli altri personaggi. Lussu invece non solo riconosce all’umile caporale la capacità di provare sentimenti del tutto simili ai suoi, ma, a distanza di anni quasi non si capacita di come gli fosse potuto venire in mente che un altro uomo della sua brigata avrebbe potuto fare ciò che per lui, in coscienza, era inaccettabile15.
20Questa comunanza che mira, come si è detto, a costruire un’identità sardo italiana, è rafforzata dall’atteggiamento di disprezzo verso gli ufficiali superiori che mostrano nel libro sia Lussu che i suoi subalterni. Una specie di compendio della stupidità e della nocività di questi alti comandi è costituito dalla figura tragicamente macchiettistica del generale Leone, alla cui completa negatività nulla toglie il coraggio personale. Si noti il forte sarcasmo della rappresentazione:
Un uomo così ardimentoso come il generale Leone non poteva rimanere inoperoso. Noi non avevamo ancora un sol pezzo d’artiglieria sull’Altipiano. Egli ordinò ugualmente l’assalto di Monte Fior […].
Il generale, intrepido nella guerra di posizione, lo fu ancor più nella guerra di movimento. Egli ordinò che le nostre truppe non perdessero mai, né di giorno né di notte, il contatto con la retrogurardia nemica, e impose al generale comandante di brigata di prendere personalmente posto con le nostre avanguardie. Il comandante della brigata, malgrado la sua età avanzata, si mise alla testa della prima compagnia di avanguardia e fu ucciso in un combattimento di pattuglie. Fu un lutto per tutta la brigata: i soldati lo amavano.
Quando il comandante della divisione seppe della sua morte, raddoppiò d’ardimento.
— Bisogna vendicarlo! – diceva in mezzo ai reparti. – Bisogna vendicarlo il più presto possibile! […]
Il generale abbandonò la sua calma abituale. Arrampicatosi ad un abete, vi si era installato in cima, come un comandante di battello su una coffa di comando, e gridava:
— Avanti! Prodi soldati, avanti! Vendichiamo il comandante di brigata! […]
Se nei nostri soldati fosse esistita una determinazione feroce, questa sarebbe stata mitigata dall’ilarità che provocarono gli incitamenti del generale, gridati da una posizione così straordinaria. (pp. 65-66)
- 16 Emilio Lussu, La teoria dell’insurrezione, Milano, Jaka Book, 1976 [1936].
21Questo modo di presentare la figura forse più negativa di tutto il libro, aiuta a capire meglio la fisionomia del balente in positivo quale Lussu intende delinearla col proprio esempio. Non bastano cioè le virtù competitive, occorrono quelle collaborative, e nel caso di posizioni di comando, prima di tutto il senso della responsabilità verso gli altri. La caratterizzazione in toto negativa degli alti comandi significa anche una valutazione assolutamente negativa del modo in cui la guerra nel suo complesso veniva condotta. Lussu era stato un convinto interventista, si era arruolato volontario e anche a distanza di anni non rinnegò mai quella sua scelta. Nel libro ritenne necessario dedicare una sezione, il famoso capitolo 25, alle discussioni di tipo politico-ideologico tra gli ufficiali minori: sulla guerra, sul suo senso, sulla sua necessità, sulla sua utilità. Nel corso di questa discussione ha un particolare rilievo l’intervento del tenente Ottolenghi che esprime un pensiero certamente non solo suo: un pensiero che si può riassumere nella nota formula della guerra come inutile strage. Il discorso di Ottolenghi è tanto più importante in quanto egli non si limita a rigettare la guerra in corso da un punto di vista meramente pacifistico. Piuttosto egli contrappone al reciproco massacro di masse fatte muovere da alti comandi sostanzialmente identici, la possibilità di un’azione violenta, rivoluzionaria, condotta da quelle stesse masse contro i loro veri nemici, e tra gli altri, contro quegli stessi alti comandi che le spingevano al massacro. È il punto di vista che Lussu nel’36 aveva sostenuto nel suo saggio teorico-politico, Teoria dell’insurrezione16 al quale, come si è detto, egli attribuiva importava ben maggiore rispetto agli altri suoi scritti «artistici». Per onestà intellettuale nei confronti del proprio passato, e per lealtà verso amici e compagni di strada come Salvemini, coi quali condivideva la lotta contro il fascismo, Lussu fa tuttavia confutare le tesi rivoluzionarie di Ottolenghi, nello stesso capitolo 25, dal Capitano della Decima compagnia, cioè dal se stesso di allora. In realtà questa dichiarazione programmatica costituisce una specie di posizione di sicurezza, in cui si riassumono le istanze ideologiche di adesione a un determinato mondo di valori al cui interno l’azione militare nazionale trova una sua giustificazione. In pratica, una volta fissata tale posizione ideologica nel capitolo 25, non v’era più necessità di lasciarla circolare nel resto del libro, che infatti non se ne ispira minimamente. L’impressione che il libro suscita universalmente nei lettori è piuttosto quella di una totale assurdità della guerra, presentata come una carneficina nella quale non conta, per quanto riguarda i risultati, né il coraggio personale o collettivo, né la strategia militare, né alcuna motivazione ideale. L’esito degli eventi è sostanzialmente affidato al caso e quindi non tollera nessun legame con l’etica e con la razionalità.
- 17 La misteriosa o per lo meno strana invulnerabilità di Marrasi ricorda quella del cinghiale del dia (...)
22Ma appunto, come si diceva, lo scopo principale del narratore non è celebrare la guerra quanto piuttosto mettere in luce i risvolti positivi che ha avuto l’esperienza di una militanza comune, a dispetto di tutto. È indicativo che il mondo della Brigata Sassari, quale Lussu lo descrive, sia così variegato e composito. Tra i soldati impegnati sul fronte ci sono uomini di ogni tipo. Sono in genere uomini abituati a lavorare duramente e a condurre una esistenza spesso stentata e sempre faticosa, una vita non molto più agiata di quella cui li costringeva la trincea. Non per niente Lussu sottolinea più volte che gli unici veri momenti di stacco radicale rispetto alla vita quotidiana, perfino nella sua versione «civile», sono quelli degli assalti in cui la guerra è «finalmente» guerra. Le caratteristiche dei diversi tipi umani che costituivano la brigata emergono nel corso della narrazione sia quando si descrive la routine della trincea sia tutte le volte che il cuore accelera i battiti, l’adrenalina si scatena e i soldati vengono spinti a quei grandi macelli che erano gli assalti insensatamente programmati dagli Stati maggiori. Tra i tanti spicca senza dubbio la figura di un soldato, quella del fante Marrasi. Che non si tratti di una comparsa marginale è assicurato, a prescindere da ogni altra considerazione, dallo spazio a essa dedicato. Il soldato Marrasi compare una prima volta nel capitolo III, quando viene catturato dagli uomini della compagnia di Lussu mentre tenta la diserzione e viene scambiato, col favore del buio, per un austriaco. Lussu potrebbe, e forse dovrebbe, farlo fucilare ma si limita a una breve ramanzina, e Marrasi riprende il suo posto. Un secondo tentativo di diserzione (capitolo V) viene fermato dai carabinieri che lo deferiscono a un maggiore, e questa volta Marrasi sfiora la fucilazione, ma ne è salvato da un repentino mutamento d’umore del maggiore che già lo aveva condannato, e ancora una volta se la cava. Egli si fa poi trasferire nelle retrovie (capitolo XXI) dichiarando falsamente di conoscere il tedesco per poter essere impiegato come telefonista. Quando anche questa menzogna è svelata, il povero Marrasi viene rispedito al fronte e qui tenta ancora una volta la diserzione. Questa volta Lussu non ricorre a brevi riassunti, a rapidi cenni, ma descrive la vicenda con dovizia di particolari, ed è una vicenda che si tinge di un alone surreale. Marrasi avanza nella neve marciando verso le linee nemiche sotto il fuoco furibondo dei suoi compagni abbandonati. In un crescendo di suspense egli riesce a arrivare fino a un primo sbarramento di cavalli di Frisia. Con qualche difficoltà e esitazione lo supera e procede spedito verso il secondo sbarramento, a ridosso della trincea austriaca. Contro di lui sembrano inefficaci le armi dei migliori tiratori italiani, così come sembra inefficace il fuoco concentrato di tutta la compagnia di esperti combattenti. Nel frattempo la notizia della diserzione si è sparsa per tutto il fronte, ha raggiunto i vari livelli di comando, scatenando una reazione parossistica non solo da parte dei compagni che gli sparano addosso, ma anche da parte del comando del battaglione e del comando del reggimento che seguono con apprensione la vicenda e premono perché venga lavato nel sangue l’onore italiano. Anche i soldati semplici e graduati che dalle trincee assistono alla disperata fuga di Marrasi sentono che il loro onore è in pericolo, e si sforzano di colpire il fuggitivo per impedirgli di portare a compimento il disegno che se per lui rappresentava la salvezza, per loro comporta vergogna e abominio. Alla fine, quando già sta per superare il secondo e ultimo ostacolo che ancora lo separa da una trincea per lui non più nemica, ecco che Marrasi viene colpito e cade sul reticolato nella neve17. Non per questo si ferma il fuoco furibondo degli italiani che continuano come in uno spasimo incontrollabile a crivellare di colpi il corpo riverso. L’unico che in tutto questo putiferio sembra mantenere nervi saldi e soprattutto un supremo distacco emotivo è proprio il Lussu personaggio e narratore. Intanto si fa beffa del panico per l’onore perduto, che inopinatamente accomuna bassi e alti gradi dell’esercito, e fa un unico fascio dei soldati che sparano furiosamente e dei comandanti che altrettanto furiosamente tempestano l’ufficiale responsabile di richieste di notizie e aggiornamenti. Rispetto a questi ultimi, l’ufficiale Lussu prende le distanze facendo sì che s’interrompa la linea telefonica; rispetto ai subalterni si adopera perché nessuno metta a repentaglio la propria vita per tentare di fermare a tutti i costi il disertore. E il narratore Lussu dal canto suo non manca di inserire una breve notazione sommessamente ironica che smonta del tutto l’inane agitazione:
Il sergente rientrò. Venne da me, coperto di sudore. Parlava a fatica:
— Che vergogna! Che disonore! – diceva ansante. — Il 2° plotone è disonorato.
Il 2° plotone era disonorato. La compagnia era disonorata. Il battaglione era disonorato. Fra poco, si sarebbero considerati disonorati il reggimento, la brigata, la divisione, il corpo d’armata e, con ogni probabilità, tutta l’armata. Marrasi continuava a avanzare. (p. 152)
23Ma Lussu narratore non si accontenta di questo climax sardonico. Quando il maggiore, comandante del battaglione, riesce finalmente a raggiungere il luogo del delitto per accertarsi con i propri occhi dei fatti e ingiunge al capitano Lussu di inviare una pattuglia, comandata nientemeno che da un ufficiale, per recuperare il corpo del traditore, il capitano Lussu rifiuta citando due versi dell’autore forse più ironico della letteratura italiana, Ludovico Ariosto: «Che sarebbe pensier non troppo accorto/Perder dei vivi per salvar un morto».
24Questo episodio ci deve far riflettere. Non soltanto la vicenda di Marrasi, anzi la sua stessa presenza nella Brigata, giova a completare il quadro dei tipi umani presenti in questo mondo che ora, nel fango della trincea, si riconosce unito al di là delle varie differenziazioni e come tutti i mondi, piccoli o grandi, contiene in sé buoni e cattivi, uomini fedeli e traditori, coraggiosi e vigliacchi. Ma c’è qualcos’altro. C’è il contrasto tra le reazioni generali e quelle dell’eroe, del balente. E si tratta di un’emergenza ancora più rilevante se si considera che in genere Lussu tende piuttosto, come si è visto, a mettere in risalto, nei momenti chiave, la sua comunanza di intendere con gli uomini della truppa. Questa volta no. Questa volta si tratta di un punto troppo importante e delicato, troppo gravido di conseguenze perché possa essere semplicemente raccontato o lasciato passare inosservato.
25L’agitarsi esasperato e esagerato, parossistico, di folle di soldati e alti ufficiali di fronte alla diserzione mette in evidenza il diverso comportamento di Lussu. Egli non ha bisogno di reagire alla tentata diserzione di Marrasi con un sovrappiù di eccitazione emotiva. Non deve dimostrare né agli altri né a se stesso il proprio senso dell’onore, il proprio attaccamento alla comunità di cui in quel momento fa parte. Appunto per questo egli non perde di vista la portata estremamente limitata dell’atto disperato di un povero disgraziato, le cui motivazioni sono fin troppo comprensibili. Tanto comprensibili da spiegare, appunto, la reazione eccessiva che scatenano. Gli spari furibondi dei soldati, la rabbia vendicatrice dei comandanti non sono altro che il tentativo, non meno disperato della fuga infelice di Marrasi, di nascondere a se stessi e così reprimere quelle stesse pulsioni di diserzione e abbandono che sentono fremere dentro di sé.
26Dispiace dover guardare oggi, nel novembre del 2003, a tanti anni di distanza, a questa pagina di Lussu come a un insegnamento mai davvero recepito, mai penetrato in profondità. Quando Lussu scriveva non poteva non avere fin troppo chiare davanti agli occhi le modalità con le quali il regime fascista era stato capace di suscitare, nelle masse italiane, reazioni di esaltazione nazionalistica in parte autoalimentate, in parte abilmente fomentate dalla propaganda. Oggi troviamo attorno alle bare degli italiani morti a Nassiriya una spaventosa fioritura di esaltazione retorica nella quale l’autentica e sincera commozione, di certo presente, nulla toglie alla falsità dei sentimenti collettivi che vengono tanto pomposamente sbandierati. Quando i mass media ripetono all’infinito frasi fiorite «spontaneamente» sulla bocca della «gente», come quelle con cui si ringraziano i carabinieri morti perché finalmente ci fanno sentire italiani, uniti e fieri, è perché in realtà non si hanno veri motivi di sentirsi tali.
27L’impegno a cogliere gli aspetti comunque positivi di quella esperienza era ancora plausibile quando Lussu scriveva, nonostante la quasi ventennale dittatura fascista e l’incombenza della seconda guerra mondiale. Col passare degli anni, e nonostante il grandioso processo di istruzione e di democratizzazione del paese, un simile sforzo risulta sempre più arduo e impraticabile. In una società dominata dai mass media, anche un fenomeno tragico e immediatamente coinvolgente come la prima guerra del Golfo, carica di morti e di distruzioni, assume contorni del tutto fantastici e si lascia piegare a effetti di pura farsa. Non più la macchiettistica tragedia del generale Leone e dei suoi simili, ma pura e semplice farsa, gag televisiva.
- 18 Un altro interessante volume sull’argomento è La guerra, il cuore e la parola, a cura di Adele Cam (...)
28La televisione infatti domina incontrastata nel romanzo di Silvia Ballestra La guerra degli Antò, una delle poche opere italiane di narrativa che in qualche modo faccia i conti con la prima guerra del Golfo18. Ballestra racconta le vicende di un gruppo di amici punk della provincia abruzzese al tempo della prima guerra del Golfo. Delle loro vicende non è dato trarre un racconto epico, ma solo una mock epic che l’autrice definisce Buriniade. Il titolo è volutamente ambiguo: da un lato designa il modo in cui i protagonisti, quattro giovani di nome Antonio, vivono quella che, come si è detto, è stata la prima vera e propria guerra cui l’Italia ha partecipato, dopo 50 anni di teoria e pratica di ripudio della guerra; dall’altro designa invece la guerra personale combattuta dagli Antò contro tutto e tutti – la famiglia, la società, se stessi. La guerra contro l’Iraq dà l’avvio al racconto in quanto è per sfuggire alla chiamata alle armi che uno degli Antò espatria clandestinamente e va a raggiungere, a Amsterdam, un altro Antò che si trova nella città olandese nel tentativo di dare un senso alla propria esistenza inquieta e insoddisfatta. La guerra, vissuta dai personaggi attraverso i resoconti televisivi, fa anche da sfondo alla vicenda che narra appunto della fuga dei due Antò, dei tentativi fatti dalle famiglie per farli tornare a casa attraverso appelli lanciati alla televisione in programmi del tipo «Chi l’ha visto?», e del ritorno a casa dei due falliti fuggiaschi, che hanno scoperto l’inutilità della loro fuga, uno perché ha trovato all’estero una realtà più squallida di quella in cui viveva in Italia e l’altro perché ha scoperto di non essere un vero disertore: la cartolina di chiamata alle armi che aveva ricevuto era infatti falsa, era una beffa fattagli da alcuni buontemponi.
- 19 Per una collocazione della narrativa della Ballestra nel quadro della scrittura sperimentale degli (...)
29Si tratta di un romanzo dal taglio decisamente sperimentale, in tono con il rinnovamento introdotto nella narrativa italiana dalla generazione di giovani romanzieri affacciatasi alla ribalta letteraria italiana alla fine degli anni ottanta19. L’attributo giovani in questo caso non è soltanto legato all’età anagrafica, in genere bassa, di questi scrittori, ma esprime un tratto peculiare della loro opera narrativa. Sono scrittrici e scrittori che scrivono con un linguaggio da giovani, di un mondo di giovani e si rivolgono, almeno idealmente, a un pubblico di giovani: nel nostro caso appunto un gruppetto di punk abruzzesi. Vano sarebbe cercare nella Guerra un capo e una coda. La narrazione prende e lascia i diversi personaggi in diversi luoghi e in diverse circostanze con una tecnica di flash giustapposti. Gli eroi principali, se così li si può chiamare, sono i quattro Antò, novelli tre moschettieri, che, come nell’originale, sono in realtà quattro. O forse, più che ai quattro moschettieri, bisognerebbe rifarsi al gruppetto costituito, nell’omonimo fumetto, da Tex Willer e dai suoi tre pard: con questo termine la Ballestra designa in effetti in diverse occasioni i quattro amici. L’immaginario fumettistico è certamente più indicato per rappresentare il mondo di questi giovani punk di quello letterario, feuilleton compreso. Come nel modello classico, in ogni caso, anche tra gli Antò si delinea nettamente la bipartizione tre più uno. Dei quattro il ruolo di D’Artagnan tocca senz’altro a Antò Lu Purk, che già aveva svolto la parte del protagonista in un breve romanzo, La via per Berlino, di cui La guerra degli Antò costituisce una sorta di sequel. La posizione privilegiata di Antò Lu Purk è garantita dal fatto che le sue gesta vengono narrate in seconda persona. La narratrice si rivolge a lui con delle vere e proprie apostrofi e racconta quello che fa, pensa, ed è come se lo stesse raccontando proprio a lui. Basti come esempio l’incipit del libro:
Pescarese. Segno zodiacale: maniaco. Uno virgola sessantacinque di altezza per 79 chili. Non slanciato, certo, però ben proporzionato: brevilineo. Qualche somiglianza generica con Maradona – anche se non hai mai giocato a pallone in vita tua – Da meno di cinque mesi hai subito un’amputazione alla gamba destra. […] Hai avuto, fin qui, una vita preoccupante. […] Ignaro, continui a guardare l’airone dalla finestra. Lo scruti partecipe, commosso; incartavetrato nella tua ontologia da fotoromanzo […] fissi l’acqua scura dei canali, i tuoi simili olandesi, intenti a contrastare i sensi di colpa dell’Occidente, adoprandosi in piccole attività domestiche, minuscoli riti di ogni giorno. (pp. 85-86)
30L’uso della seconda persona si accorda all’estrema disinvoltura con la quale l’autrice entra e esce dal romanzo, dove si presenta direttamente, tanto in prima quanto in terza persona, col suo nome o con una storpiatura del tutto simile a quella da essa impiegata per altri suoi titoli. Assistiamo così al paradosso per cui la narratrice, nelle vesti di testimone privilegiato della vita dei punk protagonisti del racconto e del contesto sociale e politico in mezzo al quale le loro vicende hanno luogo, occupa nella storia uno spazio maggiore di quello riservato allo stesso Lu Purk, pur presentato come personaggio principale.
31In realtà nella Guerra degli Antò, Antò Lu Purk compare direttamente soltanto in rare occasioni. Per lo più viene utilizzato come punto di riferimento per raccontare ciò che accade ai familiari e agli amici che si è lasciato, per altro temporaneamente, alle spalle. Egli è una sorta di fulcro virtuale attorno a cui ruotano le azioni e i pensieri dei diversi personaggi. E contribuisce così, in maniera coerentemente sconclusionata, alla peculiare unità di questo romanzo senza né capo né coda. Lu Purk è infatti sempre evocato negli incontri degli altri tre Antò, Lu Zorru, Lu Zombie e Lu Malatu. Questi rimpiangono la sua assenza, che ha fatto perdere mordente e compattezza alla piccola banda. E uno di loro, Lu Zorru, come già abbiamo accennato, si rifugia da lui, nella lontana Amsterdam, dopo aver ricevuto un richiamo alle armi che lo spinge alla diserzione. Antò Lu Purk è il termine di riferimento obbligato per i due filoni narrativi principali intorno ai quali, sia pure in modo sussultorio, si organizza la narrazione: la guerra e la televisione.
32Il romanzo inizia con Lu Purk a Amsterdam, o meglio comincia con Lu Purk che, tra uno sballo e l’altro, tristemente vegeta in una grigia Amsterdam, in uno squallido ostello. Ha ripiegato nella città olandese dopo aver tentato l’avventura nella mitica Berlino, e tra le brume del mare del Nord, si è incagliato precipitando in una situazione di stallo. Ma quel che qui ci interessa è che egli non dà notizia di sé alla famiglia, che quindi lo dà per disperso e si attiva per ritrovarlo. Una diffidenza atavica verso lo stato e in particolare verso le forze di polizia spinge i familiari di Lu Purk a cercare vie alternative. Paradossalmente, chi rifiuta assolutamente di andare dai carabinieri è la madre del ragazzo, che non vuole trascinare nel fango il nome del figlio. La soluzione escogitata con l’aiuto di un prete è quella di andare in televisione e di farsi aiutare dal popolarissimo programma «Chi l’ha visto?» Questa mossa, date le premesse, potrebbe sembrare strampalata. Non lo è affatto. È anzi perfettamente coerente con il brodo culturale nel quale la famiglia di Lu Purk, come la stragrande maggioranza delle altre famiglie italiane, è ormai immersa. Il ricercato dai carabinieri è per definizione un sospetto; il ricercato dalla televisione è invece un eroe del piccolo schermo, il cui splendore riverbera su parenti e amici che approfittano dell’occasione per farsi inquadrare dalle telecamere e vivere il proprio attimo di gloria. Giustamente si dispera Franca, la sorella di Antò, alla quale uno spaventoso ingorgo stradale impedisce di partecipare al programma. Era l’occasione della sua vita e l’ha sciupata.
33Antò Lu Purk è dunque il centro e in qualche modo il protagonista di un universo scardinato, disordinato, squilibrato, in cui i viaggi che i giovani compiono all’estero sono viaggi di «formazione» e in cui le molteplici letture sono fonte di confusione mentale (esemplare la descrizione della biblioteca di Fabio di Vasto, uno degli studenti del milieu bolognese degli Antò). Un mondo squinternato si riflette in una narrazione parimenti squinternata il cui punto di forza consiste proprio nella libertà di saltare continuamente di palo in frasca. Una spinta considerevole in questa direzione la dà l’uso endemico che la Ballestra fa dei lacerti televisivi più vari. Sia il piccolo mondo di Montesilvano, il paesino d’origine degli Antò, sia quello degli ambienti studenteschi di Bologna, brulica di televisioni perennemente accese, circondate da telespettatori ora attenti ora distratti, ma sempre legati a filo doppio al piccolo schermo. La sconclusionatezza forse è in realtà più apparente che reale. La fantasmagoria di presentatori televisivi, di ballerine seminude, di inviati speciali, di ospiti d’onore, di esperti ecc. che permea tutti gli spazi della narrazione può essere vista come uno specchio fin troppo realistico della quotidianità italiana, e non certo solo giovanile, tanto della fine degli anni Ottanta quanto dell’inizio del nuovo millennio. Non si pensi però che la Ballestra intenda demonizzare la televisione in quanto tale. Essa è fonte di «sformazione» ma anche di «informazione». Non mancano nel romanzo giornalisti e programmi capaci di offrire a chi lo voglia anche punti di vista differenziati e critici.
34Ma se la Ballestra rifiuta di fare della televisione un mostro onnivoro, che porta l’intera responsabilità dell’involuzione nel nostro vivere sociale, non tace però il fatto che essa contribuisce in maniera determinante a costruire degli stati d’animo collettivi, delle identità comunitarie del tutto fasulle ma non perciò meno forti. Prendiamo come esempio la trasmissione «Chi l’ha visto?», seguendo la quale milioni di telespettatori, nella realtà frantumati, separati e chiusi ciascuno nella sua monade, si ritrovano uniti dalla loro partecipazione comune alle vicende di una persona a loro del tutto estranea, e questo per il solo fatto che la televisione si è fatta cassa di risonanza per i sentimenti dei suoi parenti e amici, o addirittura ha fatto nascere tali sentimenti, li ha creati di sana pianta.
35In secondo luogo la televisione contribuisce a trasformare ogni evento in spettacolo. Nelle case frequentate dagli Antò e dalla Ballestra – per esempio quella del giovane politicamente impegnato Fabio di Vasto – la televisione spesso e volentieri è accesa. L’argomento più frequente, soltanto saltuariamente intervallato da quiz e varietà, è costituito dai reportage e dai commenti sulla guerra del Golfo.
36È infatti tramite la televisione che gli italiani (e non solo loro) hanno vissuto questa guerra. Ecco perché essa ci viene sempre presentata attraverso lo schermo della televisione. I cieli di Bagdad oscurati nel coprifuoco e attraversati dai razzi traccianti della contraerea irakena o dalle scie luminose dei bombardamenti chirurgici operati dagli alleati costituiscono, visti in televisione, uno spettacolo di rara suggestione. A prescindere dalle intenzioni dei reporter che hanno procurato quelle immagini, dei registi che le montano e mandano in onda, e dei telespettatori che le guardano per imparare qualcosa sull’argomento – a prescindere insomma da ogni soggettiva intenzione – quelle immagini finiscono per collocarsi all’incirca sullo stesso piano di quelle di una partita di calcio o di un filmino pornosoft trasmesso da qualche rete televisiva di provincia.
37Se l’approccio televisivo è ormai l’unico possibile, non ci si può meravigliare che il modo di guardare alla realtà della guerra sia estremamente confuso e incerto anche quando tocca più da vicino i destini personali. La guerra del Golfo coinvolge il destino degli Antò, e in particolare quello di uno di essi, Lu Zorru (che vuol dire «la volpe»). Questi, chiamato così per antifrasi, ha del servizio militare e della guerra un’idea tanto mitica e confusa da poter credere autentica una cartolina di precetto che gli intima di prendere immediatamente servizio sull’incrociatore Duse in partenza per il Golfo. Con questa cartolina in mano, che crede vera nonostante la palese impossibilità, Lo Zorru si sfoga con i due Antò che gli sono rimasti, Lu Zombi e Lu Malatu. È questa una delle pagine più interessanti del romanzo. Tutti e tre gli Antò sono d’accordo sul fatto che la partenza di Antò Lo Zorru non può che nuocere ai suoi interessi privati. Sul piano dei principi però, le cose si pongono in maniera diversa. Qui si delinea una divergenza insanabile tra Lu Zorru e Lu Zombie da una parte e Lu Malatu dall’altra. Inaspettatamente, visto che si tratta pur sempre di un punk, Lu Malatu sostiene che la guerra è moralmente giusta e necessaria perché difende gli interessi vitali dell’Occidente e dell’Italia. Bisogna riprendersi «lu petroliu nostru» iniquamente rubato dal tiranno che egli si ostina a chiamare Saddà Mussein. L’atteggiamento de Lu Malatu è la conseguenza, quasi inevitabile, del bombardamento mediatico a cui l’intera popolazione occidentale è stata sottoposta in quei mesi, ma volendo addirittura da anni. Del destino che incombe su tutti e quattro gli Antò quello de Lu Malatu è forse il meno glorioso, è infatti un cedimento totale ai condizionamenti che con forza preponderante assediano i singoli e la collettività. Posto di fronte all’idea che l’intervento della coalizione filoamericana in Iraq sia essenziale perché gli italiani in generale, e lui, Lu Malatu, in particolare, possano mantenere inalterato il loro livello di vita, il giovane punk non esita a optare per macchina e benzina, piuttosto che per la difesa degli ideali fino a quel momento sbandierati in maniera del tutto gratuita. Antò Lu Purk e Antò Lu Zorru, incontratisi nell’ostello di Amsterdam, finiscono col dar fuoco all’ostello nel corso di maldestri preparativi per un tradizionale piatto di spaghetti. Questo li fa scoprire, e sono allora rimpatriati a forza tramite l’ambasciata. Tornano al paesello con la coda tra le gambe, ma Antò Lu Purk ha ancora un ultimo guizzo di grandezza punk quando, dopo aver causato danni per milioni di lire e aver fatto rischiare una catastrofe, pretende, peraltro senza successo, che gli vengano restituiti gli effetti personali di infimo valore da lui lasciati nell’ostello.
38È significativo che tra queste povere cose perdute e inutilmente reclamate ci fossero anche dei bulbi destinati alla mamma, degni veramente del bravo ragazzo di buona famiglia in gita in Olanda. Maggiori speranze offre forse Antò Lu Zombie che resiste al fascino divorante dell’apparizione televisiva. La sua irruenza travolge le cautele registiche e il suo animato dialogo con gli operatori si risolve in un’esemplare cacciata dagli studi e in una registrazione zeppa di improperi oscurati dalla censura. A suo modo egli fa parte di quel distretto drappello di personaggi per i quali la Ballestra sembra ancora sperare che esista una possibilità di salvezza.
39Questo mondo di giovani emerso dal lungo riflusso degli anni ’80 non appare, nelle pagine della Ballestra, un soggetto politico e sociale in cui si possano riporre grandi speranze, e tuttavia la conclusione del libro rifugge da ogni pessimismo. Guardare in faccia la realtà, anche se confusa e spesso spiacevole, permette di individuare possibilità di impegno e slancio ideale che costituiscono la vera ricchezza della società italiana.
40Quello che nel corso del libro era apparso come un personaggio secondario, il giovane Fabio di Vasto, descritto senza pietà dal punto di vista fisico (il corpo tozzo e cubico, le mani a mazzzocchetta, ecc.) e con molte riserve dal punto di vista intellettuale, diventa protagonista di una delle pagine conclusive del romanzo, quando si reca a casa della Ballestra per invitarla pressantemente a partecipare l’indomani a una grande manifestazione contro la guerra in Iraq.
41Se in Lussu, a onta delle dichiarazioni teoriche, la guerra finiva comunque, per forza di scrittura, come una carneficina assurda e inutile, nella Ballestra la guerra si è trasformata ormai definitivamente in un lontano idolo televisivo, attorno al quale si celebrano i riti più svariati, ma un idolo al quale ormai nessuno si può affidare con innocenza.