1Il soggetto del mio intervento sarà, per riprendere il tema di questo convegno, lo spazio della religione e il senso del religioso nell’opera di Ignazio Silone, passando in rassegna, rapidamente e a ritroso, le sue opere a cominciare quindi dal suo ultimo romanzo: Severina. L’autore abruzzese ne cominciò la stesura nel 1977, ispirandosi alla figura di Simone Weil e al suo ardente, fervido messaggio religioso e sociale. Severina è l’ultima, ma anche l’unica, eroina protagonista di un romanzo siloniano. Ma l’interesse di questo romanzo risiede nel fatto che esso è anche, in un certo senso, il riepilogo, il punto di approdo della riflessione che Silone, “cristiano senza Chiesa e socialista senza partito” (Exp, 1961), ha condotto tutta la sua vita a proposito della difficile coesistenza, in una coscienza cattolica, tra fede, morale e istituzione religiosa (ma potremmo dire, come vedremo qui di seguito, tra fede, morale e istituzioni tout court). Tutta l’opera dunque, nonché tutta l’esistenza dell’autore fu imperniata intorno al “fatto religioso”. Già a quindici anni, orfano a causa del terremoto della Marsica del 1915, fu attirato dalla figura di Don Orione, fra i primi coraggiosi soccorritori delle vittime. Un prete “straordinario” che viveva il cristianesimo in modo autentico e che osò, senza chiedere, utilizzare le macchine del seguito del re in visita nella Marsica per accompagnare gli orfani del terremoto a Roma o addirittura suggerire all’allora papa Benedetto XV un’iniziativa cristiana per indurre i governi impegnati nella guerra a porre immediatamente fine al conflitto. Ciò che invece il giovane Silone non sopportava era l’ipocrisia e l’eccesso di formalismo di alcuni rappresentanti della Chiesa. Un bell’aneddoto ci è fornito proprio dalla biografia dell’autore. Un giorno egli assiste a una rappresentazione di marionette insieme alla sua classe di catechismo e ovviamente al parroco: si parla delle “drammatiche peripezie di un bambino perseguitato dal diavolo”. A un certo punto il bambino-marionetta appare sulla scena tremando dalla paura e per evitare che il diavolo lo trovi si nasconde sotto il letto. Il diavolo giunto a questo punto sulla scena si rivolge direttamente ai giovani spettatori e domanda loro se per caso hanno visto dove si sia nascosto il bambino che sta cercando. I ragazzi, sorpresi da questa domanda, spontaneamente dicono che è andato via. La reazione del prete è immediata: dopo lo spettacolo fa loro la morale perché, anche se a fin di bene, hanno detto una bugia. Ma il parroco di certo non si aspetta la domanda del giovane e perfido Ignazio che gli chiede: “Se invece di un bambino qualsiasi si fosse trattato di un prete, che dovevamo rispondere al diavolo?” Il prete lo farà restare in ginocchio fino alla fine della lezione. Dopodiché gli domanda: “Sei pentito?” e lui caparbiamente risponde: “Certo, se il diavolo mi chiede il vostro indirizzo, glielo darò senz’altro.” (UdS, pp. 806-808)
2Più tardi l’autore ricorda che, dopo aver avuto un’educazione religiosa, si allontanò dalla Chiesa a causa
[dell’]insofferenza contro l’arretratezza, la passività, o il conformismo dell’apparato clericale di fronte alle scelte serie imposte dall’epoca. […] In quel periodo di confusione massima, di miseria e disordini sociali, di tradimenti, di violenze, di delitti impuniti e d’illegalità d’ogni specie, accadeva che le lettere pastorali dei vescovi ai fedeli persistessero a trattare invece, di preferenza, i temi dell’abbigliamento licenzioso delle donne, dei bagni promiscui sulle spiagge, dei nuovi balli d’origine esotica e del tradizionale turpiloquio. […] Come si poteva rimanere in una simile Chiesa? (Quel che rimane, pp. 561-562)
3Nel 1956, in un articolo apparso su Tempo presente, Silone parla del suo interesse nei confronti dell’ordine religioso dei Petits frères du père Charles de Foucauld:
Questo è un singolare ordine che ha il suo noviziato […] nel deserto dell’Algeria, nell’oasi di Elobiot. Di lì i confratelli sono poi mandati per il mondo, non a rinchiudersi in monasteri o collegi, ma a vivere in mezzo alle maestranze operaie dei grandi centri industriali. Essi vi costituiscono piccole comunità di tre o quattro religiosi, a immagine della casa di Nazareth: ciascuno deve guadagnarsi il pane da sé, con un mestiere manuale, qualunque fosse l’attività che prima svolgeva. Non portano saio, né altri segni esteriori di distinzione, vestendo i panni adatti alla loro condizione proletaria. Né, tra gli operai, essi svolgono propaganda religiosa o altre forme d’apostolato, limitandosi a vivere con loro. (Agenda, p. 194)
4Queste citazioni ci fanno intuire l’essenza del “credo” siloniano: la sua è una religione vissuta intimamente, lontana dalle istituzioni, non contaminata da esse, e di cui egli critica spesso gli indegni rappresentanti (memorabili sono le pagine dei romanzi di Silone in cui la satira religiosa si attacca ai cattivi preti ingordi, opportunisti, affaristi, eccetera: Don Abbacchio in Fontamara, il suo primo romanzo, ne è un esempio palese).
- 1 Per quanto riguarda il manoscritto del romanzo, esso è conservato, dopo la donazione della vedova d (...)
5L’interesse per il fatto religioso diventa preponderante negli ultimi anni della sua vita visto che una decina d’anni prima di cominciare a scrivere Severina Silone pubblica un dramma teatrale dal titolo L’avventura di un povero cristiano, che narra la difficile scelta di Pietro da Morrone (papa Celestino V o il papa “che fece per viltade il gran rifiuto”, come lo definì Dante nel canto III dell’Inferno). Anche suor Severina, che ha enormi dubbi circa la sua vocazione, si trova di fronte a una scelta a dir poco difficile: testimoniare il falso per non perdere “il posto”. Purtroppo l’autore abruzzese morì l’anno seguente all’inizio della stesura di quello che Silone stesso definì (e che la cattiva sorte confermò) come il suo “ultimo romanzo”. In effetti, durante una conversazione con sua moglie Darina, verso la metà di giugno 1977, l’autore disse: “Sai, ho cominciato a scrivere il romanzo. […] Sarà il mio ultimo romanzo, una cosa breve, ma lo devo scrivere.” Alla reazione stupita (ma probabilmente fino a un certo punto, dato l’aggravarsi del suo stato di salute) della moglie: “Perché l’ultimo?” Egli rispose: “Non ho più romanzi in me. Dopo scriverò altre cose. Ma per ora penso solo al romanzetto” (Sev, p. 133)1. E fu proprio sua moglie Darina che lo pubblicò postumo nel 1981, riprendendo e decifrando gli appunti, riorganizzando e ritrascrivendo i ricordi delle conversazioni avute con suo marito; tutto ciò secondo quanto è stato riportato dalla stessa consorte nel documento allegato all’edizione Mondadori nella collezione “Scrittori italiani e stranieri” dal titolo: Storia di un manoscritto.
6Severina racconta la parabola dell’omonimo personaggio, per essere più precisi suor Severina, insegnante di latino e letteratura italiana all’Istituto Femminile “San Camillo de Lellis” in un piccolo e antico borgo abruzzese. Un giorno la giovane religiosa assiste, unica testimone oculare estranea ai fatti, all’atroce massacro perpetrato su un giovane “sovversivo” appartenente alla lega operaia del paese, da parte delle forze dell’ordine. Carabinieri e poliziotti in borghese intervengono durante un’assemblea della suddetta lega, non prima però di aver bloccato tutte le vie d’uscita della piazzetta sulla quale si affacciano i locali affidati dal comune alle leghe operaie. Tutto il terzo capitolo racconta il giorno in cui la giovane suora decide di testimoniare davanti al giudice che ha deciso di compiere un sopralluogo sulla piazzetta dov’è avvenuto il fattaccio. La testimone-chiave racconta che dall’interno del palazzo, adibito a sede della lega operaia, si sentirono “grida, lamenti e gemiti” (Sev, p. 45) e che altri agenti furono mandati dentro di rinforzo:
Gli uomini accorsi nell’interno riapparvero poco dopo sulla porta […]. Due di essi reggevano di peso, da sotto le ascelle, un giovane che non si teneva più in piedi. […] Appena fuori, il giovane così malridotto fu preso in consegna da altri del servizio d’ordine, che lo finirono a pugni e a calci. Sembrava che ognuno avesse il dovere di colpirlo. Egli non si difendeva più. Probabilmente era già morto. (Sev, p. 46)
7Fin qui tutto sembra normale: una giovane suora assiste a un linciaggio e la sua coscienza sembra non esitare un istante affinché giustizia sia fatta. Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di scoprire cosa succede in realtà. La Madre Superiora convoca Severina prima che quest’ultima renda testimonianza e le fa capire che se vuole salvare l’Istituto, che da anni cerca invano di ottenere la parificazione con le scuole statali, deve firmare il documento preparato ad hoc dal capo della polizia. Si tratta evidentemente di una falsa testimonianza, sotto forma di ricatto, che scagionerebbe i colpevoli e permetterebbe all’Istituto di ottenere la tanto auspicata parificazione. Severina, ultima creatura siloniana, non ha scelta: come tutti gli eroi dei precedenti romanzi di Silone è assetata di verità e di giustizia. Ma la reazione delle autorità ecclesiastiche non si fa attendere. La mattina dell’interrogatorio del giudice, la Madre Superiora convoca la giovane suora per parlarle:
Mi chiamò nello studio e inveì contro di me, ordinandomi di mettermi in ginocchio. Mi accusò di disobbedienza, di superbia, di arroganza, di esibizionismo, d’infatuazione diabolica, con una voce aspra che non le conoscevo. (Sev, p. 76)
- 2 Don Gabriele racconta a Severina che in realtà la sua vocazione non era altro che quella di sua mad (...)
8Comportamento quantomeno paradossale quello di una religiosa che prepone al trionfo della verità e della giustizia interessi di tipo “politico”. Inutile dire che la fede di suor Severina, dopo questo episodio, vacilla. Anche la sua vocazione, come quella del suo padre spirituale Don Gabriele2, si dimostrerà una mera illusione. La risposta della giovane alla confessione di Don Gabriele è:
Anch’io da molto tempo non credo in Dio. Forse non ci ho mai creduto. Mi ci sforzavo, come lei. Mi sono illusa, se no non sarei entrata in convento. […] Per ora, non mi preoccupo più: non può essere peccato seguire la propria coscienza. Penso che la verità sia più grande di noi […]. Di sicuro è che io l’amo, e appena una minima particella d’essa mi si rivela, una minima certezza, mi sforzo di servirla. […] Penso che la verità ci è [sic] in gran parte sconosciuta perché gli uomini non l’amano abbastanza. (Sev, p. 56)
- 3 In realtà, secondo Darina Laracy Silone, dietro la valorosa scelta di Severina si cela quella dell’ (...)
9Il quarto capitolo è fondamentale per comprendere i dubbi che sono alla base del coraggioso voltafaccia dei due personaggi nei confronti del clero regolare3. L’opinione di Severina è che
la Chiesa ha sostituito alla sete di giustizia il culto del quieto vivere […]. Dov’è la sua indignazione morale contro i veri scandali del mondo? […] Non riconosco alla Chiesa il diritto di dominare la mia ragione. L’oppressione che esercita la Chiesa è una storia antica ma è altrettanto antico lo spirito rivoluzionario da essa provocato e credo che i protagonisti attraverso i secoli di questa rivoluzione, e mi limito a citare solo alcuni dei nostri – Jacopone da Todi, Tommaso Campanella, Giordano Bruno – abbiano servito meglio la causa di Cristo. D’altronde Cristo stesso fu un rivoluzionario, è banale dirlo (Sev, p. 57).
10Quest’ultima citazione ci sprona a fare due considerazioni: la prima concerne la delusione dell’autore rispetto al ruolo della Chiesa ma anche, come abbiamo visto, di ogni istituzione che finisce prima o poi “con l’identificarsi col proprio fine e con l’anteporre sé al proprio fine” (Luce, p. 70). Dietro questa delusione si cela in realtà l’idea che l’autore ha dell’engagement:
[Nell’impegno] che si lega ad una organizzazione, si nasconde una gravissima insidia: la tendenza ad identificare l’ideale, l’assoluto, il bene, il bello ad una qualsiasi istituzione; cioè a confondere la letteratura, la poesia, la verità con un partito, con una chiesa, con uno stato. […] La vera condizione di esterno è la sola che permetta all’intellettuale un vero impegno. (Todisco, 1963)
11La seconda considerazione, che non è altro che il corollario della prima, è il ritorno ab origine, il ritorno ai valori fondamentali del cristianesimo promulgati dagli assetati di verità, di giustizia e di solidarietà. Come Severina, che preferisce testimoniare e abbandonare il velo, o come Pietro da Morrone, che una volta eletto papa resiste poco più di tre mesi e abdica quando scopre che il suo compito avrebbe dovuto essere quello “di ripartire equamente i privilegi, le dispense, le sinecure, gli appalti, le altre ruberie alle varie fazioni rappresentate nella curia” (Avventura, p. 667). I romanzi di Silone sono pieni di questo tipo di personaggi che non si piegano e che ancor meno si “sottomettono”, preferendo piuttosto “andare allo sbaraglio”: essi sono chiamati, sia dai “cafoni” che dai borghesi, i “pazzi”. Simone la faina, uno dei personaggi di un altro romanzo siloniano, Il seme sotto la neve, dice a proposito:
Non si può eliminare la pazzia tra gli uomini […]. Se è scacciata dalle strade si rifugia nei conventi; se è scacciata dai conventi si rifugia sotto terra; e se è scacciata da sotto terra si rifugia nelle scuole; o nelle caserme, o che so io. Pazzi, […] ve ne saranno sempre. (Seme, p. 888)
- 4 Sono rispettivamente i protagonisti dei seguenti romanzi di Ignazio Silone: Fontamara, Vino e pane (...)
- 5 Sono le parole pronunciate dalla stessa Severina che una volta uscita dal convento cerca lavoro com (...)
12E “pazzi” sono considerati i vari Berardo Viola, Pietro Spina, Rocco de Donatis, Andrea Cipriani, Celestino V e persino Severina4. Essi appartengono, ed è qui l’originalità dell’opera siloniana, alle due sfere: quella politica e quella religiosa. La loro vita è fatta di dubbi, di incertezze e il loro cammino spesso solitario, ma non per questo egoistico, oscilla attirato alternativamente ora dal “rosso”, ora dal “nero”. È l’itinerario dell’ultima creatura di Silone, Severina, che scopre di essere paradossalmente “perseguitata per aver detto la verità5” e che, liberata da una erronea vocazione, trova la morte durante una manifestazione di piazza. La stessa sorte toccherà a Pietro da Morrone, che nonostante il “gran rifiuto” sarà braccato, imprigionato e molto probabilmente fatto uccidere dal suo successore Bonifacio VIII. È infine l’itinerario di Pietro Spina, l’esule rivoluzionario antifascista protagonista dei due romanzi, Vino e pane e Il seme sotto la neve che, rientrato di nascosto in Italia, si traveste da prete e prende il nome di Don Paolo Spada (e qui il nome è il simbolo evidente della sua lotta) per sfuggire alla cattura. Ma in fin dei conti, l’itinerario dei suoi personaggi non è altro che quello dell’autore stesso: l’apparente dicotomia politica/religione si fonde in una sorta di sincretismo che darà luogo a uno slancio rivoluzionario e anarchico di cui i personaggi dei suoi libri sono le chiavi di lettura. La realtà religiosa e quella laica sono due aspetti consustanziali dell’opera e della biografia dello scrittore abruzzese. Non dimentichiamo che Ignazio Silone era originariamente uno pseudonimo scelto dall’autore. Dapprima, nel 1923, scelse il cognome, Silone, dal nome del capo della resistenza dei Marsi contro Roma, Poppedius Silo (simbolo dunque di rivolta, di autonomia e di libertà). In seguito, volle aggiungere Ignazio, ispirato da Ignazio di Antiochia e Ignazio di Loyola, “al fine di battezzare il cognome pagano” (Cronologia, LXXV). Ecco che la sintesi simbolica da lui sempre auspicata finalmente si realizzava: l’unione della realtà spirituale con quella terrena.
13Per concludere, l’interesse di Silone nei confronti della religione è presente fino alla fine della sua vita. Leggiamo quello che potrebbe essere considerato il testamento spirituale dell’autore:
- 6 Questo documento, pubblicato dalla vedova di Ignazio Silone insieme al romanzo, è un autografo dell (...)
(Credo) Spero di essere spoglio d’ogni rispetto umano e d’ogni altro riguardo di opportunità, mentre dichiaro che non desidero alcuna cerimonia religiosa, né al momento della mia morte, né dopo. È una decisione triste e serena, seriamente meditata. Spero di non ferire e di non deludere alcuna persona che mi ami. Mi pare di aver espresso a varie riprese, con sincerità, tutto quello che sento di dovere a Cristo e al suo insegnamento. Riconosco che, inizialmente, m’allontanò da lui l’egoismo in tutte le sue forme, dalla vanità alla sensualità. Forse la privazione precoce della famiglia, le infermità fisiche, la fame, alcune predisposizioni naturali all’angoscia e alla disperazione, facilitarono i miei errori. Devo però a Cristo, e al suo insegnamento, di essermi ripreso, anche standone esteriormente lontano. Mi è capitato alcune volte, in circostanze penose, di mettermi in ginocchio, nella mia stanza, semplicemente, senza dire nulla, solo con un (forte) sentimento d’abbandono; un paio di volte ho recitato il Pater noster; un paio di volte ricordo di essermi fatto il segno della Croce. Ma il “ritorno” non è stato possibile, neanche dopo gli “aggiornamenti” del recente Concilio. La spiegazione del mancato ritorno che ne ho dato, è sincera. Mi sembra che sulle verità cristiane essenziali si è sovrapposto [sic] nel corso dei secoli un’elaborazione teologica e liturgica di origine storica che le ha rese irriconoscibili. Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia. Solo facendo violenza su me stesso, potrei dichiarare di accettarlo; ma sarei in malafede. (Et in hora mortis nostrae, Sev, pp. 159-164)6