1La catabasi agli inferi – avventura ricorrente di conoscenza e tramite con l’Aldilà per gli eroi dei poemi epici classici (Odisseo e Enea tra i più noti) e per le figure mitologiche come Orfeo – viene implicitamente riproposta negli autori contemporanei con la funzione di indicare un percorso in una realtà terrena tanto dolorosa e aliena da essere percepita e descritta in forma non realistica, ma deformata e visionaria, come un incubo o, più propriamente, come un vero e proprio viaggio in inferno. Sto pensando, ad esempio, a Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, in cui il ritorno nel cuore dell’isola natale (“in quelle solitudini”, “così lontano nello spazio”, in quella “terribile estate” senza un’ombra, con “le cicale scoppiate al sole, le chiocciole vuole, ogni cosa al mondo diventata sole”, pp. 224-225), ha per il protagonista, Silvestro, il significato allegorico di una visione infernale (Bianconi Bernardi, 1966, pp. 164-165; Shapiro, 1975). Ed è in quel “mondo offeso” che egli discende, guidato dalla madre, per fare la conoscenza degli emblematici personaggi che lo rappresentano (risvegliando così la propria coscienza sopita, gli “astratti furori”, verso “altri doveri”).
2Una simile rappresentazione della realtà ricorre nell’opera di Aldo Nove ad animare quel “realismo visionario” che gli viene riconosciuto come carattere distintivo (Pagliarani, 2003, p. 7; Senardi, 2005, pp. 46-55 e 76) – “realismo alterato”, lo definisce Gemma Gaetani nella Postfazione alla raccolta di poesie Fuoco su Babilonia, “emotivo e ‘neo-orfico’” (Gaetani, 2003, p. 139). Su questa discesa orfica, però, ritengo vadano fatte alcune precisazioni, che distinguono la catabasi di Nove proprio da quella tradizione precedente a cui si è fatto riferimento. Innanzitutto, credo che l’aspetto più originale dei suoi testi di prosa e, soprattutto, di poesia (perché su questi ultimi, a mio avviso di gran lunga più efficaci dei romanzi, concentrerò la mia attenzione) non consista soltanto nella rappresentazione visionaria e allucinante – come del resto è nella pop art e nella maggior parte delle esperienze letterarie del secondo Novecento – di una realtà dove si è confusa la distinzione tra coscienza e oggetto, tra per sé e in sé, per dirla con Sartre, ancora netta e centrale nella catabasi di Conversazione in Sicilia. Piuttosto, negli scritti di Nove non solo l’inferno coincide con tutta quella realtà mercificata in cui lo scrittore stesso sprofonda (dove tutto, uomini compresi, è in sé), ma soprattutto si nota come gli inferi siano stati “colonizzati” a un tempo dagli dèi pagani e dalle figure del paradiso cristiano. Entrambi, seppure in modo diverso, formano la realtà e generano visioni.
3In un tale paesaggio infernale, sono le merci, trionfanti attraverso la pubblicità e la televisione (Montani, 2001-2002; Hofmeister, 2001), ad avere subito una metamorfosi in potenti idoli pagani che guidano le nostre vite, mentre le immagini sacre costituiscono un “principio speranza” che in quell’inferno ha lasciato solo una diffusa e confusa traccia memoriale, una nostalgia impossibile e soffocata, oppure un desiderio di ordine che però sfocia sempre nel caos presente e lì, confondendosi, si dissolve. Nel romanzo Amore mio infinito (2000), ad esempio, quando l’infanzia – narrata con l’artificio della regressione tipico della letteratura realista (niente di molto nuovo, quindi, sotto questo aspetto) – finisce, il punto di vista cambia bruscamente e il protagonista dapprima esprime il sogno di tornare al ventre materno, poi propone uno strano flashback in cui tutta la storia dell’umanità passa tra le mani di Dio. Nel primo caso, il desiderio è affidato a una macchina. Ciò evidenzia l’accettazione di quella inevitabile convivenza tra il potere dell’idolo meccanico e la sacralità vergine e incontaminata della madre perduta (la cui morte è narrata nel romanzo stesso):
Mi chiamo Matteo.
Ho quasi ventotto anni.
Penso. Vorrei che ci fossero delle macchinette per tornare nell’utero, come quelle per farsi le fotografie per la carta d’identità, tu ti siedi inserisci i soldi e torni nell’utero, sei dentro tua madre e per cinque minuti devi ancora nascere, non hai la minima idea di dover pagare l’affitto ma senti gli scambi di liquido c’è soltanto l’immenso respiro di tua madre non hai nessuna idea di niente non ti interessa sapere che ci sono i saldi al Coin non ti interessa sapere per quale motivo la Fiat è stata venduta alla General Motors sei nella pancia di tua madre hai un diametro visibile tra i quindici e i venticinque centimetri un peso di cinquecento seicento grammi la base cribriforme dell’osso etmoide del tuo cranio comincia a prendere forma […] mentre tua madre respira respiri non ci sono ancora stati il panico di avere cinque anni di trovarsi completamente soli non hai ancora pensato di avere speso inutilmente le tredicimila lire di un biglietto di un film […] dall’arteria dalla vena uterina arrivano appena velate informazioni chimiche del mondo che ti aspetta pieno di numeri di telefono cotolette puntate dello Zecchino d’oro incidenti stradali proteine vitamine silenzio. (AMI, p. 133-134)
4Il pensiero prodotto dalla visione a posteriori – un po’ banalmente reso dalla solita diffusissima procedura joyciana del monologo interiore di Molly Bloom senza punteggiatura – sancisce anche l’impossibile ritorno alla purezza, a una Stimmung silenziosa e solitaria tra la madre (e la Natura) e il figlio, proprio perché il desiderio è affidato a un dio pagano, a una macchina, ed è inquinato dai pur rimossi (ma doppiamente presenti e ingombranti) grandi miti del consumismo contemporaneo, Coin, Fiat e General Motors, da cotolette e Zecchino d’oro che pure presentano un significato di inevitabile piacevolezza.
5Alla permanenza e all’uscita dal ventre materno, rappresentate con la lucidità di un linguaggio spietatamente scientifico, da libro di biologia, che segue il formarsi del corpo fino alla sua morte (e il suo intrecciarsi con quegli orizzonti di inevitabile mercificazione che sempre vi si fondono), corrispondono le poche pagine in cui Dio stringe sotto le sue mani tutta la storia:
Dio muove le mani sopra le acque prova il ritmo delle glaciazioni la forma delle successioni delle stagioni le caratteristiche morfologiche del paesaggio la fusione dei ghiacciai quaternari che hanno sommerso vasti tratti di costa in tutto il mondo scatenando circa settantamila chilometri cubici di pioggia […]. (AMI, p. 139)
6Ironicamente, però, l’orizzonte si restringe sempre di più è la storia su cui Dio muove le proprie mani diventa quella della Lombardia, di una piccola porzione di “milanesità” e dintorni: dalle glaciazioni al popolo gallico dei Biturgi, dall’età del ferro ai Goti e ai Longobardi, Milano non cessa di imporsi, anche tra le mani di Dio, come un crogiolo di sacralità e di commerci. Così, in questo allucinato e visionario excursus storico – una sorta di visione dall’alto delle rovine e degli avanzi di civiltà, come nel volo del topo nei Paralipomeni di Leopardi – si dice che:
tra continue instabilità tumultuose inquietudini si impiantavano botteghe artigiane si tenevano fiere e mercati in occasione di feste religiose si scambiavano pelli carni salate formaggi tra il vi e il v secolo a.C. (ibidem).
7In un unicum che è storia, esistenza, inferno e paradiso, ulteriormente si ridisegna l’immagine di sacro nella stridente convivenza delle figure di Dio e della Madonna con quei feticci o idoli che sono i veri e propri dèi di questo olimpo, orditori del nostro destino e delle nostre avventure ben di più delle consuete figure della teologica “provvidenza”.
8Di conseguenza, come la prospettiva del testo leopardiano rovescia ogni antropocentrismo di fronte al misero finale di tutte le civiltà, anche il punto di vista del personaggio di Amore mio infinito segna uno spazio dove, oggi più che mai, l’uomo stesso è poca, pochissima cosa, per sé e per Dio, il quale sembra non potersi curare di lui, ma preferisce lasciare spazio all’azione degli dèi pagani. È forse per questo che Nove, nell’intervista con Senardi, dichiara di non essere interessato all’“umanesimo” come fenomeno astratto. Anche in rapporto con l’uomo, infatti, il suo dio resta absconditus e confuso con tutto il resto, come testimoniano ancora più chiaramente le liriche di Santi, Pornostar & (1992-1995), o – soprattutto – di Madre di Dio (1995). È qui invocata – e desiderata, sin dal perentorio esordio Voglio e fino al finale liturgico Madre di Cristo ascolta: “una madre grande / e troia come un fiume / di luce che si slaccia / dal sole e cade dentro / questa giornata morta: // Che spacchi le vetrine dei negozi, che si contorca dentro / il cuore dei passanti, / inondato di sangue / il centro di Milano e l’universo” (FB, p. 116). Anche le preghiere si confondono con l’urgente violenza di un reale che si impone d’abord, sempre e comunque, così come in esso sprofonda (e vi si dissolve dimenticandosi) l’Eterno:
L’Eterno facilmente si
trascura…
L’Eterno facilmente si trascura negli
occhi arrossati
degli astri affogati
in una coppa di champagne, in una
coppa di champagne…
L’Eterno facilmente si
abbandona, facilmente si abbandona nei
titoli di coda di una trasmissione di Rete 4 a
mezzanotte l’Eterno
si sovrappone
ai titoli di coda di una trasmissione
di Rete 4 la vita si dimentica di
L’Eterno si trascura facilmente,
si dimentica di
L’Eterno facilmente si trascura, non esce dal suo
cerchio di
La vita si dimentica. (FB, p. 120)
9Il Salve Regina, nelle sue formule tipiche appena variate (“Eterna regina, nostra avvocata, / madre di misericordia salve”), è pronunciato “Sgranando / rosari e / treni, abissi // conti correnti liste della spesa” (FB, pp. 118-119). Alla Madre è inoltre invocata l’Apocalissi (intesa come distruzione) che dà il titolo alla raccolta; a lei, assente ma vista “nei gorghi dei millenni”, si implora un’improbabile salvezza che riporti al silenzio (come prima, nello stesso ventre materno) con un furore distruttivo, da violenza veterotestamentaria:
Fuoco su Babilonia!
Fuoco sopra le case viggiutesi,
su Nabucodonosor e Milano
come un rostro potente il fuoco scenda
[…] Divampino le fiamme sugli abbracci,
sugli amori di plastica
cancella
nulla di quanto scivola nel nulla […]
Fuoco su Babilonia, su Castagna
e Cecchetto, su Prodi e Claudia Schiffer:
brucino ad una ad una le mie vene,
il giorno si inabissi nel silenzio […]. (FB, pp. 121-122)
10La Madre invocata con formula da rosario è, infine, ironicamente coincidentia oppositorum, nel senso che è “Madre di Clivio e di Gerusalemme, / Madre di Betsabea e Baranzate, / Madre delle Bustecche e di Betlemme, / Madre del Monte Nero e di Malnate”, congiunzione di città bibliche e mitiche da una parte e, nuovamente, dall’altra, di quei meschini centri lombardi e varesotti, di quella “Svizzera dei poveri” protagonista dei microcosmi narrati anche in Woobinda e Superwoobinda (rispettivamente 1996 e 1998), e in Puerto Plata Market (1997).
11Ma ancora una poesia fissa questo connubio. Questa volta è tratta dalla sua prima raccolta, My Nation Underground (1984-1986), ed è ambientata nel ristretto orizzonte di Mendrisio:
Mio zio litiga sempre con mia zia;
mia zia litiga sempre con mio zio,
perocché in fondo in fondo esiste Dio,
e tutto torna sulla retta via.
Mio zio lavora in Svizzera, a Mendrisio,
non sa nulla di Kant né di Platone,
ma non è deficiente né coglione,
e nell’Olimpo opta per Dionisio
(infatti beve): troppo descrittivo?
Come poesia, però, non è scadente:
almeno testimonia che sono vivo
e che ragiono, o forse no (la gente
capisce poco di quello che scrivo
ma quello che capisce è sufficiente). (FB, p. 21)
12Non è certo questo uno dei migliori componimenti di Nove, ma è interessante che si tratti di un sonetto (come la lirica successiva e come molte nella raccolta Santi, Pornostar &) con schema ABBA / CDDC / EFE / FGF, in cui “zio” fa rima con “Dio”, “Platone” con “coglione”, “Mendrisio” con “Dionisio”, sempre in questa “infernale” dialettica di contrasti, o “rollio degli opposti”, come scrive Gaetani nella Postfazione all’intera raccolta (FB, p. 137). D’altronde la parola, quella poetica in particolare, da Tornando nel tuo sangue (1988-1989), tocca a Prometeo, il dio colpevole di avere rubato il fuoco, condannato a vedersi rodere il fegato, che per Camus – nel racconto L’Été – diventa il simbolo della dura “ostinazione” dell’uomo nella ribellione contro gli dèi e nella lotta. Anche in questo componimento è colui il quale, discendendo nella tomba (e, ancora, all’inferno), riporta la parola dolorosamente alla luce, poiché “A fegato puntualmente roso, / vieppiù calando nella tomba, / bisogna parlare” (FB, p. 27).
13Nella lirica O lapide, da questa stessa raccolta, la regressione al concepimento e alla nascita, quindi la vita stessa, implica ancora una volta l’invocazione di una contraddittoria corrispondenza tra preghiera che si trasforma in bestemmia e viceversa, e così la stessa reversibile metamorfosi tocca a spiritualità e brutale mercificazione, come a segnare un destino dove la speranza, in terra, si dilegua non appena è evocata:
[…] O lapide
Gesù, nel paradiso
untuoso dei bollettini cristiani della
nonna come crescevi
nel suo suicidio gentile, fatto
di pere cotte e preghiere
con l’urinale per la notte, la porta
chiusa a chiave dell’esistenza battezzata.
O lapide puttana
E leccata mentre pensava alla tariffa
da applicare,
tra le cosce della fuga dal mondo
citofonavi. E
padroni dell’intermezzo che dura per sempre,
fino a che il sangue fiotta alla bocca
dei pronipoti,
un’arte qualunque spiega,
scendiamo vent’anni o una morte. (FB, pp. 29-30)
14Sono queste le “metafore ossessive” (Mauron, 1976) di Aldo Nove che accorpano mitologie cristiane e pagane e le buttano tutte a un solo tempo in quel calderone che è la vita e la dannazione di ogni uomo.
15Una seconda operazione compiuta da Aldo Nove è quella di considerare questo inferno l’unico spazio possibile in cui l’uomo si adatta a vivere come un animale mutato geneticamente. Per quanto non sia quello il suo habitat naturale, finisce per aderirvi, proclamando – certo in modo paradossale e provocatorio: “io ti amo vuoto immenso / io ti amo mia vita” (FB, p. 85), quand’anche il dio sia Berlusconi, come in Poeta di regime da Santi, Pornostar &, invocato dopo avere messo “120 grammi / di penne Buitoni” nel piatto: “O Berlusconi, dio mio, dammi // le 200 cosce dei miei sogni / quotidiani! Supplicai” (FB, p. 100). Ed è in questa raccolta, come si diceva, che trovano maggiore spazio gli idoli del commercio e del denaro, gli dèi pagani a cui consacrare l’esistenza, anche laddove non dovrebbero esistere, cioè nell’adolescenza e nell’amore (L’amore al tempo delle discoteche), popolati invece da Den Harrow e Toyota, borse Mandarina Duck e Naj Oleari, Timberland, Craxi e tutto l’indistinto universo di paninari e anni Ottanta. Sono loro che decidono.
16La distruzione auspicata in Madre di Dio non si verifica e gli idoli pagani continuano a esistere, a convivere con la trinità guidando il mondo. In merceterna (l’ultima raccolta di Fuoco su Babilonia, 1990-1996) i formaggini Tigre creano la triplice sinestesia “dalla rifrazione / volatile di creme al latte un caldo / frastuono alle narici / perviene”. Sono le loro allucinazioni a definire l’umanità che li desidera:
Allora la massa è più vago
tumore tattile alla vista
infrangersi di tigri gialle
svizzere come pacchi. (FB, p. 128)
17Non c’è da stupirsi, quindi, nel racconto che apre Superwoobinda, della tragedia grottesca in cui si uccide per il bagnoschiuma Vidal, per un idolo, per un dio pagano in cui il protagonista identifica la libertà (Gagliano, 2001). Idolo non per la sua forza, ma per la sua pigra e indifferente inevitabilità, indiscussa come la televisione, che incanta e impigrisce, fagocita. Orfeo è qui ancora il (benché Super) Woobinda, come scrive Ottonieri: “Quasi un novello Kaspar Hauser […] (il ragazzo svizzero perso nella savana della serie televisiva), uscito da una savana quasi-svizzera dalle parti di Malnate o di Viggiù, sempre sul punto di scomparirvi di nuovo in una rapinosa attrazione all’anonimo, all’afasico, auto dissolto.” (Ottonieri, 2000, p. 115; Matas Gil, 2000)
18Anche in Puerto Plata Market (1997), la piattezza di prospettive in cui si cala (o verso cui vola, ma non fa molta differenza) Michele, il protagonista, assorbe altri due spazi identificati come paradisi: Santo Domingo e l’Ikea. Nel primo fugge, in crisi amorosa dopo avere sorpreso la donna amata impegnata in un atto di sesso orale in un parcheggio con un altro, nella speranza di trovare “un equilibrio”, e soprattutto una donna diversa da quella italiana, che trasmette “disagio”, sempre intenta – come “quella troia di Marina” – a parlare di sé, “che ha sempre in testa di vivere nella performance”:
MARINA PARLAVA SEMPRE DI SE STESSA, del suo lavoro, di quello che avrebbe fatto.
Marina, viveva nello spettacolo della sua vita. (PPM, p. 17)
19Santo Domingo è il “principio speranza”, il sogno di tutti, dove “chi non ha mai chiavato chiava più di Sgarbi e di Ratz Degan”, dove è ancora l’uomo a decidere di chi innamorarsi, e quando trova la novia, allora la sposa (PPM, p. 18). In questo paradiso, ovviamente, non c’è un rovesciamento degli idoli di partenza, ma una loro esaltazione, in un ulteriore abbrutimento fatto di cataloghi di prostitute e di nuove epifanie memoriali di dèi occidentali (le cose buone del Mulino Bianco: biscotti locali che ricordano Grisbì, Bounty, Mars e Ciocorì: PPM, pp. 64-66). E anche qui, tra paradisi agognati e “inferno” (così definito il turismo sessuale di Sosua, PPM, p. 69), come in Amore mio infinito in fondo la storia – che pure chiama in causa Carlo V e Cristoforo Colombo – finisce per dare a quello spazio l’identità di “una piccola e deliziosa svizzera dominicana” (PPM, p. 85).
20Poi, finalmente, parafrasando Dante, si esce “a riveder le stelle”. Michele torna da Santo Domingo e conquista l’ultimo, reale paradiso: Made in Heaven. Ikea – il capitolo con cui si conclude il romanzo, e nel quale si celebra il matrimonio di Michele con la dominicana Francis. Un paradiso che sancisce nuovamente il rovesciamento, tramite la loro estrema affermazione, di tutte le utopie, i sogni, gli idoli di questo olimpo trasformato in centro commerciale: non solo Ikea, ma McDonald’s, e ancora Armani, Permaflex e Le Ore, pornografia devastante e ipocrisie New Age. Le visioni dantesche e orfiche si trasformano in continua negazione – e, se vogliamo, bergsoniana o freudiana doppia affermazione – di luoghi comuni.
21E quindi resta un dubbio: che dopo la indiscutibile originalità e verve delle liriche, dopo Woobinda, a poco a poco quell’apparente “bassa risoluzione autoriale” di cui parla Ottonieri non nasconda una certa povertà di immaginazione, ma anche un punto di vista estremamente snobistico, per quanto così sapientemente occultato da questo artificio della regressione che arriva al grado zero dei corpi e del linguaggio. Insomma, che dietro questi uomini mutati geneticamente così vicini alle cose, che nel loro ristretto orizzonte hanno assorbito e confondono inferno e paradiso, ci sia un narratore onnisciente, nettamente distinto e colto, che si diverte a stigmatizzare i luoghi comuni degli ignoranti del Varesotto o del Canton Ticino, e molto altro non lasci immaginare fuori dal ricordo dei mitici anni Settanta e Ottanta. A questo proposito non posso che condividere, infatti, quanto scrive Barenghi nella recensione, pubblicata sull’Indice dei libri del mese, a La più grande balena morta della Lombardia (2004), ovvero che per quanto Nove rimanga “comunque uno degli scrittori più ragguardevoli in circolazione oggi in Italia”, tuttavia
a conti fatti, di cose da raccontare non ne ha poi gran che. E quando ci fa provare l’emozione di trovare sulla pagina di un libro Einaudi i nomi dei giocattoli o dei giornalini di quando eravamo bambini anche noi, compie un’operazione non molto diversa da quella di un Fabio Fazio che invitava a Quelli che il calcio l’interprete (cinquantenne, ormai) di Pippi Calzelunghe.
22Il problema si estende comunque a un’intera generazione:
una generazione intera che, dopo aver nutrito un’ingenua fiducia nelle proprie capacità di cambiare il mondo, ora cede un po’ troppo spesso e un po’ troppo volentieri alla tentazione di ripensarsi in chiave ironico-nostalgica, di rappresentarsi in un’indulgente luce di elegia che qualche lampeggio di violenza o cattiveria non basta a riscattare. È un gioco che può piacere, per un poco, che diverte, anzi: ma è bene interromperlo in fretta. Primo, perché espone al rischio del troppo facile, anche sul piano della scrittura: valga ad esempio una certa maniera di rimboccare il periodo su se stesso […]. Secondo, perché quando si comincia a invecchiare, raccomandano concordi i dietologi, è bene limitare il consumo di zuccheri; e niente aumenta la glicemia quanto gli indugi sentimentali sul passato.
23In questa indulgenza nel reale (e nel realismo, inevitabilmente), inoltre, si perdono aspetti che, forse fuori dal Varesotto e da Milano (ma credo anche lì), fuori dal provincialismo (per usare un termine decisamente fuori moda: “disimpegnato”) della disoccupazione italiana (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, 2006) esistono ancora: la passione, la fantasia – pur nell’ironia della loro impossibilità di successo (come nella scrittura di John M. Coetzee e in Philip Roth, ad esempio) – oppure quella folle ostinazione del Prometeo di Camus che i versi di Nove lasciavano balenare.
24Anche rispetto alle qualità messe in luce da Senardi e da Ottonieri, quindi, pur con il rispetto delle solide premesse filosofiche e letterarie da cui parte la prosa di Nove (da Labriola ad Adorno, da Folengo a Beckett, Ballard, Sanguineti, Palazzeschi, ecc.: Senardi, 2005, p. 161), c’è il rischio sia di un rovesciamento di queste stesse premesse intertestuali, sia di una progressiva perdita di efficacia: il rischio che, in sintesi, la pietas diventi accondiscendenza, la monologia del grado zero si trasformi in noia, in quei discorsi da sabato sera in birreria che fanno inorridire persino Caparezza (nella canzone rap Fuori dal tunnel (del divertimento): “Ricostruisco gli argini di una giornata ai margini della disco / e mi stupisco / quando si uniscono al banchetto che imbastisco che dopo mischiano il brachetto e non capisco / com’è che si finisce a parlare di Jeeg Robot e delle Strade di San Francisco”).
25Insomma, i cannibali non fanno più molta paura, né i loro dèi, né i loro idoli. E dopo le catabasi, ci si aspetta qualche nuovo slancio, forse accogliendo quella sfida lanciata da Julia Kristeva nel saggio Au risque de la pensée, dove è espressa la necessità che la letteratura continui a rivendicare la libertà di pensare, di sospettare, e (perché no?), di domandarsi “che cosa siano il bene e il male”, senza adattarsi semplicemente “alla logica di causa ed effetto”. C’è da sperare, infine, che il linguaggio letterario (soprattutto nella letteratura italiana contemporanea, che a mio avviso troppo indugia nel marcio sociale, attraverso ipocrite ma compiaciute forme mimetiche) abbia ancora forza di inventare qualcosa di nuovo, senza limitarsi a una forma di compiaciuto camaleontismo mimetico che inevitabilmente lo trascina in quel soffocante vortice delle cose – televisive e pubblicitarie – che tentano di assorbirlo distruggendolo.