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“E come si può adorare ciò che strazia?” Sacro e religiosità in Sciascia e Pasolini*

Alessandro Bosco
p. 91-104

Texte intégral

  • * Ringrazio Tatiana Crivelli per la paziente rilettura e le sempre attente e preziose osservazioni cr (...)

[…] sentivo come un muro che ci separasse una parola a lui cara, una parola-chiave della sua vita: la parola “adorabile”.
L. Sciascia, AM, p. 12.

1In un articolo apparso sul quotidiano Il Tempo il 26 agosto 1973, Pasolini, parlando dei Promessi sposi, scriveva:

A nessuno è balenato neanche lontanamente per la testa che il Manzoni è in realtà una delle forme storiche che ha assunto l’Anticristo: niente infatti è stilisticamente più contrario al Vangelo che l’umorismo. Cristo non era né bonario né spiritoso (né, naturalmente, sentimentale). (IPS, p. 1865)

Secondo Pasolini dunque l’umorismo esprime qualcosa di diametralmente opposto al cristianesimo e di inconciliabile con un determinato concetto di religiosità.

2Nel 1964, analizzando i motti di spirito di papa Giovanni XXIII, Pasolini aveva dato una definizione di umorismo che sarebbe restata immutata negli anni: “Caratteristica dei motti di spirito”, scriveva, “è quella di essere ‘riduttivi’, cioè di abbassare, col sorriso incredulo, i grandi fatti e le grandi idee della vita: in questo senso il motto di spirito è tipicamente borghese” (MPG, p. 122). Definizione che ritroviamo identica, e con qualche preziosa sfumatura in più, in un testo del ‘73 raccolto negli Scritti corsari:

[…] scherzare su tutto, riduttivamente, […] a proposito anche dei fatti più tragici e difficili, è proprio la caratteristica prima del rapporto linguistico con la realtà del piccolo-borghese. […] La prima regola del [suo] comportamento è non dir mai sul serio niente, ridurre tutto umoristicamente; e, a fortiori, volgarmente. (SC, p. 200)

3L’umorismo rivela dunque agli occhi di Pasolini il rapporto del borghese con la realtà, che non solo è di riduzione ma è anche di distacco: “L’umorismo è distacco dalla realtà, atteggiamento contemplativo di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà.” (SoCe, p. 1443)

  • 1 Cfr. in particolare il seguente passo: “D.: Ciò che Lei esprimeva già in maniera diversa dicendomi (...)
  • 2 Cfr. M. Eliade (SP, p. 18). Per un’analisi più approfondita e articolata del concetto di sacro in P (...)

4Ora, tale modo di essere è per chi, come Pasolini, ha un rapporto “ierofanico1“ con la realtà quanto di più contrario possa esserci alla religiosità. Infatti se da un lato il ridurre i grandi fatti della vita è un modo per dissacrare la realtà, dall’altro, come spiega Mircea Eliade, l’esperienza sacra del mondo implica nell’homo religiosus il desiderio costante di vivere il più possibile in intimità col sacro, cioè con quella che per l’homo religiosus è la realtà per eccellenza2. A testimonianza del fatto che proprio tale fosse il rapporto di Pasolini con la realtà e che la sua opera altro non sia che una costante ricerca di intimità col sacro, ecco un passo molto significativo in proposito:

Già il dialetto era per me il mezzo di un approccio più fisico ai contadini, alla terra, e nei romanzi “romani” il dialetto popolare mi offriva lo stesso approccio concreto, e per così dire materiale. Ora, ho scoperto molto presto che l’espressione cinematografica mi offriva, grazie alla sua analogia sul piano semiologico […] con la realtà stessa, la possibilità di raggiungere la vita in modo più completo. Di impossessarmene, di viverla mentre la ricreavo. Il cinema mi consente di mantenere il contatto con la realtà, un contatto fisico, carnale, direi addirittura sensuale. (SoCe, p. 1413)

  • 3 “Cosa volete immaginare di più rivoluzionario nella Chiesa, nella Chiesa che si è sempre posta come (...)

5Riduttività e distacco non sono tuttavia gli unici aspetti che fanno dell’umorismo un modo d’essere totalmente opposto alla religiosità di Pasolini. Un terzo elemento lo si evince ancora tornando ad analizzare il sopra citato articolo su papa Giovanni i cui motti, secondo il ragionamento di Pasolini, andrebbero distinti dall’umorismo borghese in generale (o tipico): se quest’ultimo, infatti, “prende in giro in prima istanza gli altri […] Papa Giovanni prendeva in giro prima di tutto se stesso […], e solo molto poco e con molta umiltà gli altri” (MPG, p. 122). Così facendo – preciserà Pasolini in una conferenza dal titolo Marxismo e cristianesimo – papa Giovanni compiva “l’atto profondamente altamente democratico di sorridere di se stesso in quanto autorità” (MC, 795)3. Stando all’analisi pasoliniana, questa eccezionale democraticità deriva a papa Giovanni XXIII dal fatto che per la prima volta egli “ha vissuto all’interno della Chiesa, nel profondo del suo spirito cristiano, la grande esperienza laica e democratica della borghesia. Ha vissuto cioè, la reale realtà del suo tempo” (ibidem). Proprio quest’esperienza profonda della realtà toglie dallo sguardo di papa Giovanni “ogni possibile manicheismo” (MPG, p. 124) e con questo la capacità di operare delle discriminazioni, indicandone pertanto l’autentica religiosità:

Uno che sia veramente cristiano e sia veramente democratico non è capace di fare delle discriminazioni. Quindi, quando si rivolgeva a dei comunisti si rivolgeva veramente a delle persone come lui; non riusciva a concepirli manicheisticamente come degli esseri diversi con cui non fosse possibile avere dei rapporti. E questo lo faceva con la massima naturalezza, appunto per aver vissuto profondamente la realtà del suo tempo. (MC, p. 796)

6Il rapporto con la realtà di papa Giovanni si differenzia dunque da quello della borghesia in genere proprio per l’assenza di una visione manicheistica. Ai due aspetti già enucleati (la riduttività e il distacco) se ne aggiunge così un terzo (il manicheismo), l’assenza dei quali fa sì che papa Giovanni realizzi una forma di religiosità che si avvicina in parte a quella dell’homo religiosus.

  • 4 Cfr. OCNY, p. 620: “apprendo a sorridere di me stesso, come usano fare le autorità”. Ma anche SoCe, (...)
  • 5 Sul rapporo di Pasolini con l’istituzione ecclesiasitca cfr. G. Conti Calabrese (PS, in particolare (...)

7Tuttavia anche l’eccezionalità di papa Giovanni rimane confinata all’interno di una logica borghese: il sorridere di se stessi è sì un segno di democraticità, ma è allo stesso tempo espressione di potere. In una nota alla poesia dal titolo A un’ora e cinquanta da New York Pasolini scriveva: “il mio pensiero è che l’umorismo sia tipico della civiltà borghese, e che dipenda dunque dal razionalismo borghese ‘dissacratore’. Le epoche mitiche, sacrali, non ‘sorridevano di se stesse’” (OCNY, p. 624). A “sorridere di se stesse”, scrive Pasolini in quella poesia riferendosi tra l’altro a se stesso, sono invece “le persone autorevoli”4. L’umorismo, in quanto fenomeno borghese, denota insomma in ogni caso il potere, dal quale il sacro va difeso: “Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere, ed è la più minacciata dalle istituzioni delle Chiese” (SoCe, p. 1480)5. Il potere dunque è per definizione opposto alla religiosità, ed è in base a questo ragionamento che Pasolini avrebbe negli Scritti corsari più volte attaccato la Chiesa: “La Chiesa ha insomma fatto un patto col diavolo, cioè con lo Stato borghese. Non c’è contraddizione più scandalosa infatti che quella tra religione e borghesia, essendo quest’ultima il contrario della religione” (SC, p. 20). Si capisce da queste parole come quello che Pasolini chiamava “l’imborghesimento del mondo” combaciasse per lui con la profanazione della realtà. Sintomatica in questo senso la lettura che egli dà di Renzo, concepito (per motivi che vedremo fra poco) come sola figura sacra del romanzo manzoniano, ma che proprio nelle ultime battute viene dissacrata:

[…] solo proprio alla conclusione Renzo diventa un padrone, e arricchisce approfittando di un bando governativo che permette di tener basso il salario degli operai. Questo sarebbe il reale lieto fine del romanzo! E qui, nelle ultime righe, Renzo diventa di colpo odioso, un piccolo ometto tutto pratico, un lombardo pieno di buon senso certo destinato a diventar moralista per difendere i suoi beni, esattamente come coloro che son stati alleati dei cinici potenti che l’hanno perseguitato. (IPS, p. 1861)

8L’imborghesimento di Renzo ne segna la definitiva profanazione, rispecchiando agli occhi di Pasolini la tragedia del fatale e inarrestabile imborghesimento del mondo.

9La religiosità di Pasolini si manifesta, e abbiamo già avuto modo di vederlo, in modo abbastanza evidente nelle sue opere. Come bene ha mostrato il già citato Mircea Eliade, per l’homo religiosus l’existence n’est pas donnée par ce que les modernes appellent “Nature”, mais […] elle est une création des Autres, les dieux ou les Êtres semi-divins” (SP, p. 80). La vita, in quanto opera di Dio, costituisce così il mistero centrale del mondo. Ora, per conoscere e capire una realtà così concepita, per instaurare un rapporto col divino, c’è un solo modo: adorare. Pasolini lo dice chiaramente in una lettera del 3 marzo 1970:

Dio è la Realtà; e la realtà è un Dio tirannico che del suo dispotismo fa la chiave per arrivare, anche se parzialmente, a lui; e dunque bisogna adorare la realtà, mettere l’intelligenza fra le cose vecchie, aumentare la pietà verso se stessi e gli altri. (L, p. 669. Corsivo aggiunto)

10Il sacro non è afferrabile tramite l’intelligenza, non è intelligibile, è mistero, contraddizione, ambiguità. La predilezione che tra i personaggi dei Promessi sposi Pasolini nutre per Renzo si spiega proprio col fatto che nel romanzo egli – a differenza di Don Abbondio e Gertrude che prendono “rilievo sull’abisso del male” – non è moralisticamente decifrabile:

Renzo […] traspare e prende rilievo sull’unica zona neutra su cui si fondano i Promessi sposi: una zona che non è definita né dal bene né dal male, ma è una mescolanza di bene e di male, una penombra ambigua, un’eterna sfumatura. (IPS, p. 1862)

  • 6 Nel film Medea il Centauro osservando la natura intorno a sé dice: “eh sì, tutto è santo, ma la san (...)
  • 7 Proprio riferendosi a questo passo, Sciascia nell’Affaire Moro si domanda: “e come si può adorare c (...)

11Questo fa di Renzo agli occhi di Pasolini una “figura straordinariamente poetica” (ibidem), una figura sacra. Nella concezione “ierofanica” dell’esistenza male e bene sono inscindibili6, il che implica un rapporto con la realtà che “evita il giudizio morale, il giudizio definitivo” – tipico invece della borghesia e basato sul principio manicheistico e razionalistico di distinzione e opposizione dei due opposti – “per rispetto verso un certo mistero dell’esistenza, delle cose e degli esseri” (SoCe, p. 1524). È da questo rapporto con la realtà che scaturiscono versi quali “amando il mondo che odio” (CG, p. 819) o ancora frasi come “adorabili perché strazianti” (LL, p. 9)7. Non solo la poetica della “sineciosi” (Fortini) è dunque un riflesso della religiosità pasoliniana, ma anche e soprattutto la tecnica della “sospensione del significato”, alla quale Pasolini dedicherà negli ultimi anni una crescente attenzione critica. Per opposizione a quella di Brecht, Pasolini definisce la sua come “una sospensione di carattere esistenziale; è teoricamente qualcosa che si potrebbe definire come l’astensione dal giudizio dinanzi al mistero dell’esistenza” (SoCe, p. 1524). Al contrario dell’ambiguità solo parziale delle opere brechtiane, Pasolini mira a un’ambiguità assoluta, che costituisca una via al “nuovo impegno”. Nel ‘66, rifacendosi alle note riflessioni di Barthes, Pasolini aveva estesamente affrontato la questione nel fondamentale saggio intitolato La fine dell’avanguardia, proponendo di porre “delle domande in opere anfibologiche, ambigue, a canone “sospeso” […]: ma niente affatto, in questo, disimpegnate, anzi!” (FA, p. 1425), e avanzando anche una nuova definizione di impegno: “‘Sospendere il senso’: ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore” (FA, pp. 1422-1423). Un’opera come Teorema testimonia sin dal titolo una ricerca in questo senso. Ma è significativo che Pasolini parli retrospettivamente di “sospensione del significato” anche per opere quali Ragazzi di vita e Accattone, quasi a indicare nella propria religiosità la sorgente prima di tutta la sua produzione.

12Se per Pasolini dunque l’umorismo costituisce in sostanza una minaccia per il sacro ponendosi agli antipodi del concetto di religiosità, diverso è il caso di Sciascia, il quale, in netta opposizione al giudizio pasoliniano su Manzoni, considerava “I promessi sposi come l’opera letteraria, dopo il Don Chisciotte, la più indefettibilmente cristiana che il mondo cristiano abbia prodotto” (RAM, p. 109). Non solo Sciascia paragona il romanzo di Manzoni a un libro apertamente umoristico quale il Chisciotte, ma addirittura ne parla come dell’opera “la più indefettibilmente cristiana”, dopo il Chisciotte. Se per Pasolini umorismo e cristianesimo sono due termini non solo inconciliabili, ma addirittura opposti, dove uno necessariamente esclude l’altro e viceversa, per Sciascia invece essi non solo sono perfettamente conciliabili ma sembrano addirittura implicarsi a vicenda.

13Posti dunque i termini della discordia, bisognerà ben capire cosa Sciascia intendesse per “cristianesimo” o meglio per religiosità. Il saggio più importante che egli dedica alla questione risale al 1965 e reca il titolo Feste religiose in Sicilia. In esso Sciascia denuncia “la fondamentale refrattarietà al cristianesimo” (FRS, p. 1158) dei Siciliani, individuandone la radice “in un profondo materialismo, in una totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica” (FRS, p. 1155), nonché in “un fondo invincibilmente scettico” (FRS, p. 1157). Secondo Sciascia la pratica minuziosa di tutto quello che attiene al culto esterno nasconde in realtà una profonda irreligiosità: Si può dire, dei siciliani di fronte alla religione cristiana, quel che Sainte-Beuve diceva di Montaigne: che poteva benissimo essere apparso come un buonissimo cattolico, ma il fatto è che non era per niente cristiano (FRS, p. 1156). “Nessun popolo al mondo,” – prosegue rincarando la dose – “tra quelli considerati ufficialmente cristiani, ha forse mai operato dall’interno una così totale disgregazione dei valori cristiani” (FRS, p. 1158). A conferma del suo ragionamento, rievoca un libro di Guastella, e precisamente una raccolta di racconti popolari intitolata Le parità e le storie morali dei nostri villani. I racconti di questo libro, che Sciascia definisce “un organico antivangelo”, contengono secondo il Nostro “crudi rovesciamenti della morale cristiana, prescrivono – avallati dai santi e dal Signore in persona – comportamenti inflessibilmente asociali e antisociali: il Signore che confida ai poveri che il principale loro male è lo sbirro” (FRS, p. 1162) è solo uno dei numerosi esempi elencati.

  • 8 Sulla natura del cristianesimo di Sciascia e sul suo rapporto col cattolicesimo si veda anche G. Gi (...)

14Sciascia insomma discute il cristianesimo in chiave etico-morale, sociale e terrena, prescindendo dalla trascendenza. L’irreligiosità dei Siciliani consisterebbe in primo luogo non nella refrattarietà al trascendente – propria del resto allo stesso Sciascia – ma nel violare sistematicamente, negandolo, un ideale codice etico-morale e civile. L’irreligiosità si misura in relazione a quella che Sciascia definì “una morale senza aggettivi” (PPC, p. 141), e in questo senso il suo si potrebbe definire – riprendendo una formula che egli applica a canzoni – “un cristianesimo vissuto come sistema morale” (RAM, p. 109)8. La stretta connessione tra religiosità e realtà socio-politica è espressione di un certo carattere luterano della riflessione sciasciana. Rispondendo sul quotidiano L’Ora alle critiche che il saggio gli procurò, Sciascia sottolinea proprio quest’aspetto:

dove non c’è religione non ci sono rivoluzioni religiose: e un popolo che non ha fatto una rivoluzione religiosa difficilmente farà una rivoluzione civile. E la storia e la condizione della Sicilia l’abbiamo sotto gli occhi: per come volevasi dimostrare. (SR, p. 51)

  • 9 Cfr. CSC, p. 18: “Con questo mio stretto conterraneo ho avuto, si può dire, un rapporto molto somig (...)
  • 10 Famose le pagine che aprono L’affaire Moro e in cui tra l’altro si legge: “Fraterno e lontano, Paso (...)

15La religiosità è dunque una premessa alla rivoluzione civile. La condizione dell’uomo religioso è quella dell’uomo solo, che quotidianamente si scontra con un mondo che nega la religiosità. Questa immagine, che definisce per intero l’opera di Sciascia, la ritroviamo proiettata su due autori a lui molto cari: il primo, Pirandello, connesso alla figura paterna9; il secondo, Pasolini, figura fraterna10. In quella specie di summa della sua lunga riflessione su Pirandello che è l’Alfabeto pirandelliano (1989), Sciascia, riprendendo il discorso sull’irreligiosità dei Siciliani, sottolinea

quanto drammatico e traumatico possa essere l’impatto di chi autenticamente sente e intende il cristianesimo nella sua essenza evangelica (a parte la trascendenza e la dottrina che la regge), con una realtà che di fatto visceralmente lo stravolge, lo nega. È, a guardar bene, quel che accade a Pirandello, anima naturaliter cristiana che si scontra con un mondo soltanto nominalmente […] cristiano. Perciò crediamo si possa agevolmente sostituire, e con vantaggio, nel discorso di Bontempelli Pirandello o del candore […] la parola cristianesimo alla parola candore (AP, p. 475. Corsivi nel testo).

16Quanto sia significativa questa sostituzione lo si capisce facilmente considerando la centralità e il peso che la parola “candore” assume nell’opera di Sciascia che in questo passo definisce, più che quello di Pirandello, il proprio concetto di religiosità. L’immagine dell’uomo religioso che lotta, solo, contro una realtà che quotidianamente nega la religiosità, si ritrova poi proiettata anche su Pasolini:

Pasolini è uomo religioso. Da religiosità, sicuramente. Da religione, forse. Tutte le sue dichiarazioni, tutte le sue prese di posizione in questi ultimi anni, muovono coerentemente da questo semplice fatto: che è un uomo religioso. […]
Ora, il punto è questo: perché le reazioni di Pasolini suscitano tanta reazione? La sola scoperta che è un uomo religioso, non dovrebbe suscitarne: e sarebbe oltretutto tardiva. Anche a fare un passo più in avanti e a scoprire che la sua religiosità è religione, religione cattolica, in un paese cattolico la cosa non dovrebbe suscitare né meraviglia né sospetto né dileggio. A meno che, non si ritenga meraviglioso:
sospetto e da dileggiare il fatto che tra milioni di cattolici nominali ce ne sia uno effettivo. (NDC)

17Questa riflessione su Pasolini – e si noti en passant come il discorso sulla effettiva cattolicità non si restringa più esclusivamente alla Sicilia – avrebbe poi trovato sviluppo e compimento nella lettura dell’assassinio del poeta, in occasione del quale Sciascia parlò di “una morte in cui gli elementi ‘libertari’ sono sovrastati e annichiliti dagli elementi ‘cattolici’” (DDS, p. 778). Per essere compreso, il passo va integrato con una nota di diario, in cui si legge: “la sua morte […] io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del Mondo, una lettera a Italo Calvino” (NSN, p. 774). In quella lettera, Pasolini aveva denunciato il silenzio “cattolico” di Calvino e di altri intellettuali italiani, colpevoli ai suoi occhi di non essere intervenuti nella ricerca dei “perché” di una violenza giovanile sempre più diffusa, al fianco di chi quei “perché” cercava di spiegare. “Cattolico” il silenzio, dunque, in quanto complice del potere, di qualsiasi potere, il che è poi il cattolicesimo nominale denunciato da Sciascia. E proprio per opposizione a questo cattolicesimo di facciata si autodefiniva Pasolini: “Lascia che ti dica che non è cattolico, invece, chi parla e tenta di dare spiegazioni magari da vivo, e circondato dal più profondo silenzio” (LLIC, p. 180). Ecco: proprio in questa condizione di Pasolini, Sciascia poteva cogliere quella che secondo lui era la dimensione religiosa dell’uomo, leggendone la morte come un delitto perpetrato dallo stato inquisitore (cattolico e irreligioso) ai danni dell’eretico, che religiosamente lotta per la libertà. È in questo senso che secondo Sciascia la morte di Pasolini si configura come “una tragica testimonianza di verità”: la verità insita in quella denuncia del cattolico silenzio degli intellettuali che segna la condanna a morte dell’eretico. Pasolini, nell’ottica sciasciana, finisce così per rassomigliare al protagonista del racconto Morte dell’inquisitore, Fra’ Diego La Matina, condannato a morte dalla Santa Inquisizione: e – sottolinea Sciascia alla fine di quel libro – Diego La Matina non muore da martire, bensì “da uomo, che tenne alta la dignità dell’uomo” (MI, p. 705).

  • 11 Cfr. C. Ambroise (P). Ambroise giustamente sottolinea come l’opera di Sciascia sia pervasa dalla vo (...)

18Come ha mostrato Claude Ambroise, che della questione si è lungamente occupato in un importante saggio11, la negazione del martirio è un elemento fondamentale nel tentativo di definire il concetto di religiosità in Sciascia. In relazione alla questione del martirio infatti, la riflessione di Sciascia sulla morte di Cristo è rivelatrice: “Ma è davvero il dramma del figlio di Dio fatto uomo che rivive, nei paesi siciliani, il Venerdì Santo? O non è invece il dramma dell’uomo, semplicemente uomo, tradito dal suo vicino, assassinato dalla legge?” (FRS, p. 1165). Il dramma di Cristo è terreno, il problema è giuridico e morale. Ma proprio il dramma della Passione, così inteso, suscita secondo Sciascia

nel popolo siciliano un momento di autentico afflato religioso: ma in realtà si appartiene a una contemplazione della morte quale può esprimere un mondo assolutamente refrattario alla trascendenza. Se è possibile parlare di religione senza il trascendente, allora è religiosa questa contemplazione della morte che trova nella Passione la sua più acuta rappresentazione (FRS, p. 1166. Corsivi nel testo).

Siffatta lettura della Passione, dove Cristo muore non da martire ma da “uomo che tenne alta la dignità dell’uomo”, rende conto di come il concetto di religiosità tenda in Sciascia a combaciare con il proprio moralismo.

  • 12 Per una dicussione di questo giudizio pasoliniano si veda in particolare G. Traina (APSP).

19Fu Pasolini a sottolineare come il moralismo meridionale di Sciascia si fondasse non sulla falsa morale cattolica (falsa “in quanto appartenente al mondo del potere”), ma “su una più arcaica morale dell’onore”, dalla quale derivava il “carattere civico” del moralismo sciasciano. Il giudizio sul mondo – dal quale secondo Pasolini derivava il sentimento che guidava i romanzi di Sciascia – era un “giudizio legale”, il “giudizio di un tribunale finalmente giusto”, che “formula la sua condanna” consultando “un codice ideale” (BCUS, pp. 2219-2224)12. Ebbene proprio la base manicheistica che fonda tale moralismo (la distinzione dei “buoni” dai “cattivi”), sommata all’implicito distacco di chi giudica, rende percorribile a Sciascia la via dell’umorismo. E di più: il fatto che moralismo e religiosità tendano in Sciascia a combaciare, spiega come l’umorismo per Sciascia non solo non si opponga alla religiosità, ma ne sia addirittura la più compiuta espressione stilistica.

20Il discorso sulla religiosità ci ha messi insomma di fronte a due modi molto diversi di concepire il mondo e di rapportarsi alla realtà, a due modi molto diversi di concepire la letteratura. E, forse, un quadro sintetico di quest’analisi comparata si può ricavare dal ruolo che il dramma della Passione rispettivamente assume nell’immaginario dei due scrittori.

  • 13 In una acuta analisi Ambroise coglie nei testi di Sciascia l’intenzione di “piegare la scrittura a (...)
  • 14 Il punto del “vivere disvivendo” corrispondeva secondo Sciascia al “punto […] più vicino alla morte (...)

21Abbiamo già osservato come nella riflessione di Sciascia si operi uno spostamento del focus: al centro del suo interesse non sta il dramma di chi muore, né la sofferenza della vittima, ma il dramma di chi, distaccandosene, contempla non senza sgomento la morte. Questa concezione della Passione come “contemplazione della morte” è intimamente connessa all’idea dello scrivere come morire, o – come amava ripetere Sciascia – “all’idea della letteratura come altra cosa che la vita, dello scrivere come disvivere” (NSN, p. 762)13. Da questo distacco dalla vita e da questa contemporanea vicinanza alla morte che è la letteratura secondo Sciascia è possibile cogliere tutto il senso della vita14: la letteratura in quanto “contemplazione della morte” è concepita dunque come una via razionale alla verità. Ed è proprio la riflessione sulla verità che secondo Sciascia attinge al momento più alto del dramma della Passione:

Nel Vangelo di Giovanni, quando Gesù dice di essere venuto al mondo per render testimonianza alla verità, Pilato domanda: “Che cosa è la verità?” […] Il potere ne vuole spiegazione allo stesso modo che della menzogna in cui si inscrive può darne. Pilato domanda. Gesù non risponde. (NSN, pp. 814-815)

Risponde invece Sciascia: “alla domanda di Pilato – Che cos’è la verità? – si sarebbe tentati di rispondere che è la letteratura” (NSN, p. 815). Letteratura e verità, dunque, come negazione della menzogna, come negazione razionale del potere.

22Questa concezione illuministica della letteratura, caratterizzata dalla fede nella ragione e dall’amore per la verità, è incompatibile con la religiosità di Pasolini. Recensendo se stesso, questi infatti notava:

Parlando genericamente […] si potrebbe […] dire che Pasolini ama la realtà: ma, parlando sempre genericamente, si potrebbe forse anche dire che Pasolini non ama – di un amore altrettanto completo e profondo – la verità: perché forse, come egli dice, “l’amore per la verità finisce col distruggere tutto, perché non c’è niente di vero”. (PRP, p. 2580)

  • 15 Già Sciascia, recensendo il film su “Rinascita”, ne aveva colto la chiave in questa frase (cfr. DDS(...)

23L’amore per la verità – nel senso assoluto e non relativo del termine – in quanto frutto del razionalismo borghese è di per sé dissacrante, in quanto irrispettoso del fragile mistero del sacro. Ed è proprio questa concezione “ierofanica” della realtà che porta Pasolini a vedere nella Passione la rappresentazione di un martirio: il martirio dell’esistenza profanata dall’“uso aberrante e mostruoso” della razionalità. In questo senso l’ultimo film di Pasolini, Salò o le centoventi giornate di Sodoma, altro non è che una colossale trasposizione del dramma della Passione nell’era del neocapitalismo. Al centro del film, l’urlo “Dio, perché ci hai abbandonati!15“, emesso da una delle vittime dell’orrendo razionalismo dei carnefici, rievoca l’urlo di Cristo sulla croce, nel momento che immediatamente precede la sua morte. Uno dei significati dichiarati del film è proprio la condanna del razionalismo illuministico, da cui la scelta di De Sade – ”questo meraviglioso provocatore che, attraverso la razionalità illuministica, ha dissacrato non solo ciò che che l’Illuminismo dissacrava, ma l’Illuminismo stesso, attraverso l’uso aberrante e mostruoso della sua razionalità” (EONS, pp. 2004-2005). Insomma, Pasolini interveniva con questo film per l’ennesima volta in difesa del sacro, esprimendo artisticamente un sentimento che aveva formulato negli Scritti corsari, e nel quale intravedeva la sola alternativa al dilagare del nuovo potere: “penso che – senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica – non bisogna aver più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore.” (SC, p. 159)

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Bibliographie

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EONS “L’estetica dell’osceno per un nipotino di Sade”, Il Tempo, 8 marzo 1974, poi in id., Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino, Einaudi, 1979, col titolo Guido Almansi, “L’estetica dell’osceno”, ora in id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., II, pp. 2002-2007.

FA “La fine dell’avanguardia”, “Nuovi Argomenti”, n. 3-4, luglio-dicembre 1966, poi in id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, ora in id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., I, pp. 1400-1428.

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Notes

* Ringrazio Tatiana Crivelli per la paziente rilettura e le sempre attente e preziose osservazioni critiche.

* * Da notare il titolo affibbiato dal titolista del Corriere, e che esprime esattamente il contrario del senso dell’articolo sciasciano.

1 Cfr. in particolare il seguente passo: “D.: Ciò che Lei esprimeva già in maniera diversa dicendomi che da bambino in poi la natura non ha mai cessato di apparirle “ierofanica”; P.: È proprio strano, vede, ero convinto di avere inventato io l’aggettivo, e invece mi sono imbattuto in questa terminologia in un’opera di Mircea Eliade, che tratta della storia dei miti; D.: Nell’Eterno ritorno, o nell’Aspetto del mito?; P.: Nella Storia delle religioni. Egli dice esattamente la stessa cosa: che la caratteristica delle civiltà contadine, e quindi delle civiltà sacre, è di non trovare la natura “naturale”. Mi pare, sotto questo aspetto, di non aver fatto altro che riscoprire una cosa già conosciuta.” (SoCe, p. 1480. Corsivi nel testo)

2 Cfr. M. Eliade (SP, p. 18). Per un’analisi più approfondita e articolata del concetto di sacro in Pasolini cfr. G. Conti Calabrese (PS).

3 “Cosa volete immaginare di più rivoluzionario nella Chiesa, nella Chiesa che si è sempre posta come autoritaria, come paternalistica, come dogmatica e come antiliberale e antidemocratica nel fondo?” – proseguiva Pasolini.

4 Cfr. OCNY, p. 620: “apprendo a sorridere di me stesso, come usano fare le autorità”. Ma anche SoCe, p. 1443: “Gli eroi non hanno mai il senso dell’umorismo, a differenza delle persone autorevoli.”

5 Sul rapporo di Pasolini con l’istituzione ecclesiasitca cfr. G. Conti Calabrese (PS, in particolare pp. 27-51).

6 Nel film Medea il Centauro osservando la natura intorno a sé dice: “eh sì, tutto è santo, ma la santità è insieme una maledizione: gli dèi che amano nel tempo stesso odiano.” Giuseppe Conti Calabrese (PS, p. 88) a proposito di Petrolio parla di un “Dio” che “rivela la sua duplicità non integrabile, ma coesistente e inintelligibile nei suoi opposti caratteri”.

7 Proprio riferendosi a questo passo, Sciascia nell’Affaire Moro si domanda: “e come si può adorare ciò che strazia?”

8 Sulla natura del cristianesimo di Sciascia e sul suo rapporto col cattolicesimo si veda anche G. Giudice (LSSR, pp. 81-102). Secondo Giudice quello di Sciascia “è un cristianesimo laico, non evangelico, vissuto a un livello intellettuale distaccato, aristocratico, attraverso Manzoni, Pascal e anche Bernanos e Graham Greene” (ibidem, p. 97).

9 Cfr. CSC, p. 18: “Con questo mio stretto conterraneo ho avuto, si può dire, un rapporto molto somigliante a quello del figlio col padre. Anche il fascismo di Pirandello lo vedo oggi come un errore del padre, che il padre (e anche mio padre che lo è stato per quieto vivere) non poteva non fare.”

10 Famose le pagine che aprono L’affaire Moro e in cui tra l’altro si legge: “Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenze.” Ma si veda in proposito il bell’articolo di A. Sofri (SSR).

11 Cfr. C. Ambroise (P). Ambroise giustamente sottolinea come l’opera di Sciascia sia pervasa dalla volontà di “negare fino in fondo l’ideologia della Passione. Niente, nessun ideale, per quanto giusto, nessun progresso, deve poter giustificare, dar senso positivo al supplizio. La ragione non ha bisogno di redentori” (ibidem, p. 133).

12 Per una dicussione di questo giudizio pasoliniano si veda in particolare G. Traina (APSP).

13 In una acuta analisi Ambroise coglie nei testi di Sciascia l’intenzione di “piegare la scrittura a contemplazione della morte. La scrittura – la prassi scrittoria di Sciascia – quale viene restituita dal testo, coincide con la volontà di cogliere il farsi della morte in un uomo e cioè la sua Passione […] di un voler far coincidere la scrittura e il morire. La scrittura diventa allora coscienza del morire, del vivere morendo” (P, p. 129).

14 Il punto del “vivere disvivendo” corrispondeva secondo Sciascia al “punto […] più vicino alla morte ma in cui si raccoglie tutto il senso, tragico quanto si vuole, della vita” (cfr. QDLS, p. xvii).

15 Già Sciascia, recensendo il film su “Rinascita”, ne aveva colto la chiave in questa frase (cfr. DDS, p. 777). Ma si veda ora il bel saggio di A. Tricomi (TO).

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Pour citer cet article

Référence papier

Alessandro Bosco, « “E come si può adorare ciò che strazia?” Sacro e religiosità in Sciascia e Pasolini »Cahiers d’études italiennes, 9 | 2009, 91-104.

Référence électronique

Alessandro Bosco, « “E come si può adorare ciò che strazia?” Sacro e religiosità in Sciascia e Pasolini »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 9 | 2009, mis en ligne le 15 janvier 2011, consulté le 09 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/193 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.193

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Auteur

Alessandro Bosco

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