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Percorsi novecenteschi

Franco Garelli: l’importanza del disegno

Franco Garelli : l’importance du dessin
Franco Garelli: The Importance of Drawing
Pino Mantovani
p. 221-230

Résumés

Retraçant le parcours de Franco Garelli, chirugien et professeur d’anatomie artistique à l’Accademia de Turin et en même temps artiste actif de 1930 à 1970, l’auteur propose une réflexion sur le dessin, à la fois outil d’analyse scientifique et source d’excellence formelle. Par ses recherches dans le domaine de l’anatomie, Garelli a donné une impulsion essentielle à de nombreux élèves. Ses dessins, d’une très grande rigueur ont nourri de manière décisive son œuvre plastique. Apprécié et suivi par Renzo Guasco, Albino Galvano, Michel Tapié et Enrico Crispolti, Garelli a poursuivi pendant de longues années une des expériences artistiques les plus fécondes et les plus fascinantes de l’après-guerre, et l’on peut regretter qu’il ait été un peu oublié ces dernières années.

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Texte intégral

  • 1 Garelli insegnò Anatomia Artistica alla Accademia di Torino dal 1951 al 1963. Successivamente fu do (...)
  • 2 Garelli si laureò in Medicina nel 1933, conseguendo nel dopoguerra la Libera Docenza in Otorinolari (...)

L’incisore Francesco Franco, come pochi attento ai caratteri comuni e specifici dei linguaggi figurativi, afferma di aver ricevuto da Franco Garelli, nei primi anni Cinquanta suo docente di Anatomia Artistica all’Accademia Albertina di Torino1, «un’importante lezione di grafica», a complemento di quelle diversamente fondamentali di Felice Casorati, maestro di rigore progettuale, e di Marcello Boglione, maestro di rigore operativo. Di Garelli, esemplare la libertà con la quale, insegnando la sua materia, disegnava sulla lavagna: gessetto bianco per l’impalcatura ossea, gessetto rosa per la muscolatura — innesti, sviluppi, articolazioni — usando entrambe le mani con uguale perizia. Impressionante tanto la scioltezza quanto la precisione. Presupposto, la perfetta conoscenza dell’argomento, ma non era solo questo: se il chirurgo2 provetto trascriveva le nozioni in aguzza grafia, chiara e sintetica, era l’artista, naturalmente dotato e con una esperienza ventennale di segno e materia, che sapeva animare le strutture anatomiche con una agilità di gesto ai limiti dell’automatismo, per giunta comunicando un sentimento drammatico con marcata coloritura ironica dell’esistenza e della sua rappresentazione.

  • 3 Rimando in proposito ai numerosi interventi di Paola Salvi dell’Accademia di Brera sulla didattica (...)

1Mi sovviene, ben commentato dal professor Enrico Gravela in una monografia del 1989, il caso di Giulio Bizzozero, grande patologo dell’Università torinese nella seconda metà dell’Ottocento, che sistematicamente utilizzò il disegno per illustrare le proprie indagini istologiche, convinto della efficacia del mezzo grafico tradizionale (tuttora, del resto, insostituibile in ambito scientifico, pur essendosi perfezionate altre tecniche di registrazione e documentazione). Ma per Garelli il disegno non valeva (sol)tanto a fini esplicativi e didattici: la specie e la qualità del segno erano essenziali sia perché la dimostrazione si proiettava su studenti di arti visive che visivamente dovevano apprendere certe nozioni e fissarle attraverso una sistematica spazializzazione (da teatro della memoria), sia perché a lui proprio tale pratica serviva per analizzare le potenzialità espressive del mezzo, nell’occasione sollecitato dall’indagine perspicua della macchina umana. E qui, inequivocabilmente, il discorso attiene all’arte, sul filo di una tradizione di cui l’insegnamento accademico era solo l’ultima fase, sollecitata prima da un’esigenza di rigore da contrapporre alle approssimazioni dell’evocazione e agli schematismi dell’astrazione, poi da necessità in apparenza opposte, di fatto mirate all’oggettività dell’indagine linguistica3, e in particolare da un artista concentrato su una espressività oggettiva non meno che su una oggettività espressiva, disposto a mettersi provocatoriamente in gioco con generosità.

2Per Garelli l’uso in contemporanea delle due mani era, come per un musicista (e un chirurgo), esigenza collegata a rapporti di «simmetria dinamica», esemplari nel corpo vivente. Gli sviluppi del suo lavoro, a partire dall’immediato dopoguerra, presuppongono una disposizione che, scartando il cosiddetto «concretismo» spesso imbrigliato nella misurazione delle quantità (le quantità «pure» della geometria euclidea) invece punta sul ritmo, sulla simmetria dinamica: un’esperienza che si riconosce esemplarmente nella registrazione in traccia di una gestualità che usa le tattiche dell’immediatezza, dell’energia, della continuità, della velocità, ma anche la strategia dell’analisi dentro lo spessore dell’immagine. Il tutto mirato alla costruzione dall’interno — in senso letterale e metaforico — dello spazio. Garelli parla di «endospazio» come «verità strutturale», e ne fa risalire l’intuizione da una parte alla sua esperienza di medico/chirurgo, dall’altra a un suo modo fin da ragazzo di praticare la modellazione (di terra, cera, gesso), specie in grandi dimensioni, assegnando all’interno, al vuoto interno, un’importanza non minore che alla visione esterna. Sovviene, naturalmente, Arturo Martini che dichiara di «spingere dall’interno» i muscoli delle sue figure in terra; con ciò ricalcando i meccanismi di costruzione in natura, per esempio l’azione delle forze endogene che spingono da dentro e quindi necessitano le forme come sono percepite dall’esterno.

  • 4 «[…] La forma cessa di essere ospite dello spazio che la circonda, mentre questo invece la compenet (...)

3Non era certo un caso che Garelli fosse molto interessato alla danza, ammiratore in particolare di Bella Markmann Hutter, la danzatrice coreografa che dagli anni Venti, con la sorella Raja, i Sakharoff e Cyntia Maugham, in ambito Gualino era stata protagonista della danza moderna, caratterizzata dalla sperimentazione delle potenzialità del corpo umano a fini evocativi ed espressivi, corpo che vive proiettandosi a conquistare attraverso il movimento controllato, in un certo senso a creare il campo dell’azione, anziché semplicemente iscriversi in esso come contenitore dato4. Negli anni che ci interessano, Cinquanta e Sessanta, il testimone della danza moderna a Torino passa gradualmente ad Anna Sagna, allieva della Hutter, che sviluppa parallelamente una docenza della danza ed una interessante esperienza coreografica, che, fra l’altro, la porterà a collaborare con Jean Dubuffet.

  • 5 Mancano le prove di un interesse di Garelli per l’estetica fra Esistenzialismo e Fenomenologia, che (...)
  • 6 R. Guasco, Ogni scultura era per lui un percorso. In ricordo di Garelli, «Il Dramma», Torino, marzo (...)
  • 7 Ancora nel ’66, in una lettera del 18 maggio a E. Crispolti che sta preparando la monografia Scultu (...)
  • 8 Allo stesso Cripolti l’artista dichiara ancora: «[…] Il prodotto-scultura nasce dalla contemporanea (...)

4La bellezza delle mani di Garelli, che impressionava le allieve d’Accademia (testimonianza orale), dice il fascino della loro ritmica danzante, quella stessa che induce chi sia specialmente versato nel vedere a seguire quasi ipnotizzato il gesto del direttore d’orchestra, avvertendo il suono come miracolosa corrispondenza sinestetica della gestualità. Il corpo vivente comunque al centro, protagonista di tutte le proiezioni, siano tracce visive o sonore. È rivelatrice in tal senso la scelta che Garelli fa nel dopoguerra del modello Picasso, in particolare del disegnatore, cioè di una figurazione centrata sulla mobilità del corpo, e in seguito il privilegio dei processi «performanti» e della «forma aperta»5. Un picassismo, dunque, che nulla ha da spartire con la lettura all’epoca prevalente, «ideologica», dell’artista catalano, e che ne coglie invece soprattutto la materialità, la vitalità fisica e mentale, la ginnica potenza, anche, non marginalmente, la disposizione ironica che lo induce a ribaltare spesso le prospettive della figura e del senso. Estraneo a Garelli, invece, almeno per il momento, l’aspetto narrativo e dimostrativo del modello. Se, come rileva Renzo Guasco, «ogni scultura era per lui un percorso»6, e se lo stesso artista sentiva il fascino di Ulisse7, tanto da utilizzare quel nome o riferimenti al mito come titolo di alcune opere, il senso va coniugato con la «solitudine» del personaggio e con la sua complessità per così dire involuta e avvolgente, curiosa e provocatoria, visionaria. Ciò che risulta chiaro nel disegno, che mai si disperde in spaziosità atmosferico-pittoricistiche e incatena tutte le articolazioni ad un nucleo, spesso vuoto, non per questo meno energetico8.

  • 9 Però catalogati con un timbro che precisa la data d’esecuzione, all’interno di una ricerca senza so (...)
  • 10 Nell’arco del decennio, soprattutto nella prima parte, la pittura su tela o altro supporto di notev (...)

5La strumentazione utilizzata nella grafica in quegli anni — arco dei Cinquanta — è di una semplicità disarmante. Quasi tutti i disegni — delle serie «Pieno-vuoto» (’52/’53), «Nuove strutture» (’54/’58), «Figurazione» (’57/’58) — sono tracciati su carta povera, perfino paginette di notes9 (non è da sottovalutare che l’artista ancora doveva fare i conti con la professione medica, praticata ad alto livello fino all’inizio degli anni Sessanta, e che i disegni erano spesso realizzati negli intervalli di un lavoro molto impegnativo). Il mezzo prevalente è la penna biro, usata con una sicurezza definitiva e ricavandone una straordinaria varietà di segni. Presto, a cominciare dall’inizio dei Cinquanta, Garelli introduce il flo-master, uno strumento molto diffuso fra gli artisti anche a Torino, soprattutto nella seconda metà dei Cinquanta, per il tracciare morbido ma esente da sensibilismo, e più o meno largo. Peraltro, Garelli non si contentava dell’uso canonico del mezzo, sfruttando i diversi tipi di punta: quando gli servisse estraeva il feltrino dall’astuccio e lo usava di taglio in tutta la sua lunghezza, come una spatola, per saturare un campo e per modellare sinteticamente la forma. A volte, una stesura rapida di tempera diluita definiva un fondale o tocchi di anilina staccavano e caratterizzavano parti della figura10.

  • 11 Il dizionario segnico è piuttosto ricco: linee curve, spezzate, avvolgenti; tocchi che assumono for (...)

6A proposito di colore (tanto importante nelle ceramiche), inserirei un altro dato, a detta dei testimoni tipico dell’insegnamento per via grafica di Garelli: l’uso di differenti colori, non solo a fini illustrativi. Operando una sorta di autodidattismo concentrato sulla struttura dei linguaggi figurativi, Garelli non solo introduce elementi discriminanti circa la consistenza e la conseguente percezione delle tracce grafiche e pittoriche: attraverso i colori ed altre evidenze riconoscibili11, egli liquida il naturalismo di ricalco e guadagna una nuova ricchezza di segni plastici. L’argomento è centrato con molta finezza da Renzo Guasco già nel ’57:

Gli elementi occasionali e disparati […] (schegge di legno, bacchette, cortecce d’albero, pasta alimentare, vegetali, uniti fra loro con la cera e lo spago…) gli offrivano nuovi suggerimenti linguistici: «Io non so — diceva — quale sia il volto del nostro tempo, ed allora cerco di costruire un’immagine dell’uomo servendomi di oggetti del nostro tempo […]. Saranno queste cose a suggerirmi l’aspetto dell’uomo […]. Fascino della scelta […] emozione della scelta […] attesa della rivelazione […]. Mi rifornisco di ferraglia in quel certo magazzino, perché quei pezzi mi conoscono».

  • 12 R. Guasco, Una cocciuta fedeltà all’immagine uomo, «Notizie», marzo 1957. Lo stesso Garelli, scrive (...)

7In conclusione, riprende Guasco, «gli elementi di cui si serve […] sono sempre usati in funzione costruttiva ed espressiva, come elementi linguistici […]. Ciascuno dei frammenti impiegati ha, al di là della funzione costruttiva, un timbro individuale, che rende variato e ricco il discorso […]»12.

  • 13 Sull’argomento e su altri temi che riguardano Arturo Martini rimando al saggio di L. Caramel, La sc (...)

8Non posso esimermi dal ricordare che Arturo Martini, e prima di lui Medardo Rosso, avevano tentato di rilanciare la scultura oltre l’ostacolo della originaria sacralità, nobiltà e solitudine esclusive, e di calcare i passi già compiuti dalla pittura senza eludere peraltro le qualità specifiche del linguaggio13. Lo stesso Garelli, in una lettera a Crispolti del 19 aprile 1960, parla con proprietà di «idioma».

9Questo procedimento è sostenuto dal disegno, che serve a unificare dentro confini certi, ma non meno a distinguere, separare, come se gli strumenti traccianti operassero alla maniera di un bisturi, che affondi nello spessore dell’immagine, mirando a liberarne l’intima complessa struttura, anziché bloccarne irrimediabilmente la forma. Non è improbabile che gli studi medici abbiano favorito il metodo sperimentale di Garelli, infatti chirurgo per niente metafisico. Ma il disegno è anche la via più immediata per soddisfare la voglia che l’artista pone a fondamento del proprio fare, nella materia meno resistente eppure «reale» di un pezzo di carta, con uno strumento che trasmette in presa diretta le tensioni fisico/psichiche del corpo agente. Già in «Pesci rossi», Milano 1 ottobre 1949, Garelli scrive:

Ho sempre guardato con meraviglia, ma credo senza invidia, chi mi diceva di avere un quadro in mente da tempo o una scultura, e di contare di realizzarlo presto […]. A me capita in un altro modo. Mi capita ad un certo punto, di aver voglia, voglia, voglia, e allora mi succede di prendere colori o creta fra le mani […]. C’è intanto da tener conto di una precisa situazione, altrettanto seria, urgente e quotidiana, ed è in questa mia attività contemporanea di chirurgo, questo tutti i giorni trovarmi a tu per tu in uno stretto incontro con bambini, uomini e donne in quella condizione intima e nuda di chi si concede in modo totale. Quindi cacciarsi, sia pure col bisturi, nell’uomo, nell’uomo dentro, mentre nel cuore si creano delle stigmate che ti porti in giro per sempre […].

  • 14 La disponibilità alla condivisione delle esperienze è nota. Cito due casi significativi: l’amicizia (...)
  • 15 Tanto vale dichiarare il riferimento del quale mi servo qui, probabilmente solo in senso suggestivo (...)

10L’intreccio fra intelligenza e ricerca materiale è in parte chiarito da una ulteriore testimonianza di allievi d’Accademia. I disegni degli studenti — qui la didattica cede alla libera perfino provocatoria sperimentazione, addirittura di gruppo14 — venivano elaborati plasticamente nell’aula di Sandro Cherchi (dal 1948 al 1963 docente al Liceo Artistico dell’Accadema Albertina), affidando l’azione diretta a elementi spesso di recupero, di varia dimensione e consistenza, connessi con chiarezza per via di saldatura, a caldo o a freddo, non importa se precaria. La costruzione oggettuale sarebbe anche un modo per verificare la plausibilità della immagine fissata graficamente sulla superficie del foglio. D’altra parte, il confronto dell’oggetto con la pagina grafica confermerebbe l’intuizione di uno spazio mobile, anzi l’intenzione di «fare spazio», di aprire il luogo/cosa sulla libera vastità15, anziché occupare spazio fino alla saturazione, di «prender le misure» empiricamente, anziché «misurare» secondo modelli certi, come ha fatto spesso la scultura (Arturo Martini docet).

11Siamo oramai sul bilico di quella chance che, in due fasi distinte ma complementari, porta Garelli nel cuore della stagione informale. Le due fasi sono segnate da alcuni incontri chiarificatori: il primo con il gruppo Cobra ad Albissola (Savona) e con Pinot Gallizio ad Alba (ritorno alle origini: Garelli era nato ad Alba) tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta; il secondo, a breve termine, con Michel Tapié, teorico dell’Informel (sarà infatti nello studio di Corso Vittorio/via San Donato che si terrà, in assenza per il momento di altri spazi disponibili, la prima mostra organizzata da Tapié a Torino, quella del magico «disegnatore» alsaziano Wols).

12Eppure, a ben vedere, informel Garelli non è mai stato fino in fondo, nemmeno negli anni del dilagare dell’Informale in Italia; semmai dell’Informel ha utilizzato il lessico e un certo atteggiamento di estrema disponibilità e curiosità sperimentale. Lui stesso lo ripeteva, dando di sé una definizione che ricalcava il modello fondante nell’immediato dopoguerra, dico Pablo Picasso. Picasso che

  • 16 Dal fascicolo F. Garelli, Dipingere oggi, conversazione tenuta il 23 maggio 1949 alla galleria «La (...)

[…] guarda tutte le immagini che le tradizioni figurative passate gli offrono, che sviluppa un vero tumulto di immagini, di voci che giungono al cuore, alla mente, alle stesse mani […], Picasso, che caccia le sue tozze forti mani in tutte quelle cose. Prende, strappa, sradica quanto più può. Alza, tira, torce, spreme, stende, fissa. Che è la più grande, generosa, fantastica, entusiasmante orchestrazione che si possa immaginare16.

  • 17 Ricalco un tratto della lettera inviata da Garelli a Crispolti in data 12 febbraio 1958, unitamente (...)

13Così, la terra, il bronzo, il ferro, la pasta (proprio la pasta di grano sfruttata nelle sue molteplici forme), il berna (proprio il formaggio coi buchi), impasti vari a cominciare dal pane, e poi le resine, la gommapiuma, le reti ecc. erano per Garelli occasione per un dialogo stretto, un corpo a corpo con la «realtà materiale». Ma il suo «realismo» non consisteva, qualunque fosse il materiale, nel subirne le ragioni, invece nel conferire ad esso struttura («nuova struttura»), nel portarlo all’evidenza costruita della figura («nuova realtà»)17, dialogante con un «nuovo spazio», all’interno, comunque di una «proposta di linguaggio». A questo fine valeva, da parte dell’operatore, un pieno controllo, che di fatto presupponeva la chiarezza certificante del disegno. Disegno che era vedere con lo strumento in mano, usato avvertendone la specifica natura ma anche la valenza segnica in tutta l’ampiezza delle sue proiezioni; che era verificare per via d’intelligenza (Paul Valery, al disegno come lo aveva osservato nell’amico/maestro Degas, erede di Ingres, assegnava il primato dell’intelligenza); che era impostare i procedimenti che definissero con esattezza i rapporti di proporzione e governassero le tensioni. Senza che questo comportasse il venir meno di quel lavoro diretto, di presa immediata che abbiamo sottolineato essere scelta consapevole dell’artista Garelli. Secondo questo vettore, meritano specifica considerazione alcuni disegni di piccolo formato del ’57/’59, che presentano una quadrettatura, in vista del trasferimento della figura nelle dimensioni e nei materiali definitivi. Naturalmente lo studio in scala riguardava la struttura essenziale; ma non è raro il caso di poter verificare una corrispondenza sostanziale tra disegno e opera plastica. Il fatto è che l’artista ha bisogno di vedere subito, piuttosto che progettare, specialmente in un momento nel quale l’abilità o l’entusiastico attivismo potrebbero prender la mano.

14Insomma, quello che mi importa sottolineare è che fin qui — più o meno fino al ’60 — il disegno non è una schematica «illustrazione», eventualmente anticipata rispetto alla messa in opera plastica, ma è l’artificio principe che tiene insieme tutto, che permette di entrare nella pancia del caos e di uscirne (il mito racconta che un filo salvò Teseo dal labirinto), di incidere l’aria spaziosa, di salire scendere circolare senza nulla concedere all’approssimazione, che districa nodi per quanto complicati; il disegno è sapere dove stai, perché fornisce un efficace sistema di coordinate; il disegno è anche dove lo spazio vitale (fisico) e lo spazio mentale (logico) si integrano nello «spazio artistico», ovvero lo spazio esistenziale cede allo spazio attivo, con tutte le implicazioni che riguardano la organizzazione materiale e concettuale, passando da una dimensione paratattica ad una dimensione dialetticamente unitaria.

  • 18 «No al bronzo troppo commendatore», scrive Garelli a Crispolti in una lettera del 18 maggio 1966.
  • 19 Per Garelli esiste il problema di come sospendere i processi di alterazione della materia; ma anche (...)
  • 20 A parte la memoria di Picasso e Boccioni, vale soprattutto l’incrocio, avvenuto nel 1959, con la cu (...)

15Nel frattempo, Garelli sente di dover ridurre l’intervallo fra la sperimentazione in «materia povera» e la realizzazione conclusiva, che non è tanto «materia ricca e nobile»18, quanto stabilizzata19. In questa direzione valgono i «disegni plastici» in carta, cartone, legno e in genere materiali eterogenei assemblati20. Approfitto di un incontro fortunoso: mi è capitato di vedere la fotografia di una di queste rare «sinopie plastiche» (scattata nello studio di Garelli in via San Donato, quando lo lasciò agli amici artisti Lia Rondelli e Eddy Allen, fra l’altro suo insegnante d’inglese) e nel giro di pochi giorni di riconoscere l’oggetto, salvato per miracolo dal travaso materiale e sopravvissuto alla propria fragilità, nella galleria Rocca Tre di Torino.

16Ora, per quel che conosco, sono alquanto rare e forse rarissime le opere di Garelli del tipo appena segnalato, in quanto la pressoché totalità di esse, a parte la connaturata fragilità, furono fuse in bronzo e quindi materialmente annientate. Ricordo tuttavia che Garelli organizzò alcune mostre intorno al ’60, dove risultava caratterizzante la presenza di legni di recupero. Fu il Giappone — osserva Crispolti nel Catalogo Fabbri per l’Antologica di Torino 1989 — che insinuò «nuove meditazioni nell’immaginazione figurale di Garelli, […] soprattutto una maggiore sensibilità per la natura, […] una spinta a considerare […] l’energetico espandersi germinativo della natura, […] come anche ad avvertire un’intima vitalità della materia». Consistente la presenza dei legni nelle personali in Giappone e nella seconda mostra alla Galleria Blu di Milano nella primavera del ’63, successiva alle esperienze giapponesi.

  • 21 Rimando, per notizie analitiche al recente e ben documentato catalogo della mostra di Giorgio Piace (...)

17Segnalo inoltre, non foss’altro perché si tratta di un episodio poco noto e studiato nella vicenda dell’artista, che nella mostra organizzata a Lima in Perù del Gruppo Wegas (oltre Garelli, Wessel, Assetto e Giorgio Piacenza-Dassu), nel 1964, Garelli propose solo sculture realizzate in loco con materiali di recupero, assemblati con la resina («la pappa») fornita dal chimico Mario Piacenza, ospitante nella sua industria, «Tecnoquimica» per il lavoro, e nella galleria «Antiquariato», per l’esposizione21. La riduzione di distanza fra progetto ed opera comporta un doppio movimento: il «disegno» si carica di qualità, articolandosi spesso in collages ed assemblaggi polimaterici, e in un certo senso si completa in sé medesimo, sottraendosi ad un percorso finalizzato; mentre lo sperimentalismo applicato ai materiali sembra prevalere sulla intenzione fino a quel punto centrale di determinare una «figura».

18Ma ciò non è avvertito dall’artista come qualcosa di tragico e ansiogeno, anzi come una crescita di libertà (lo sottolinea con la solita limpidezza Renzo Guasco, che resta il miglior testimone, per vicinanza amicale e per metodo critico, del pensiero di Garelli), e di spazio, non come dato esterno ma come «elemento di embodiment in inglese o meglio di gutai in giapponese». Nelle grafiche di cui stiamo parlando non esiste una figura mobile nello spazio, ma una mobile spaziosità che essa stessa è figura. Addensamenti e rarefazioni evidenziano lo spazio, saggiano il vuoto con «ironia costruttiva».

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Notes

1 Garelli insegnò Anatomia Artistica alla Accademia di Torino dal 1951 al 1963. Successivamente fu docente di Figura Modellata al Liceo Artistico dell’Albertina.

2 Garelli si laureò in Medicina nel 1933, conseguendo nel dopoguerra la Libera Docenza in Otorinolaringoiatria, ed insegnando nel corso di Chirurgia Plastica presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Torino.

3 Rimando in proposito ai numerosi interventi di Paola Salvi dell’Accademia di Brera sulla didattica dell’anatomia nelle Accademie di Belle Arti tra Ottocento e Novecento; a ritroso, sull’importanza per gli artisti dello studio del corpo umano a partire dal Medioevo e sull’importanza degli artisti per lo studio del corpo umano.

4 «[…] La forma cessa di essere ospite dello spazio che la circonda, mentre questo invece la compenetra dando il via ad una accesa possibilità di sperimentazioni» (F. Garelli, Catalogo della mostra personale alla Galleria del Naviglio, Milano, marzo-aprile 1957).

5 Mancano le prove di un interesse di Garelli per l’estetica fra Esistenzialismo e Fenomenologia, che proprio a Torino produce i testi di Luigi Pareyson (a cominciare da Teoria della formatività, 1954), di Pietro Chiodi, studioso di Heidegger, di Albino Galvano (vari saggi pubblicati fra la fine dei Quaranta e l’inizio dei Sessanta), fino a U. Eco, Opera aperta, 1962; è comunque di Galvano la presentazione alla prima personale.

6 R. Guasco, Ogni scultura era per lui un percorso. In ricordo di Garelli, «Il Dramma», Torino, marzo-aprile 1957.

7 Ancora nel ’66, in una lettera del 18 maggio a E. Crispolti che sta preparando la monografia Sculture di Garelli, Torino, Minerva, 1966, l’artista dichiara, con riferimento all’anno 1940 e all’incontro con Arturo Martini, di preferire Ulisse a Michelangelo e di aver frequentato Spazzapan, non Casorati.

8 Allo stesso Cripolti l’artista dichiara ancora: «[…] Il prodotto-scultura nasce dalla contemporanea partecipazione di vuoti e di pieni, per esempio aria e ferro, una vera emulsione. Bisogna saperla vedere tutta la scultura, con i suoi vuoti attivi. Sapere essere presenti all’incontro vuoto-pieno proprio nell’affrontarsi delle facce, saper percorrere l’endospazio della scultura. È sul filo di quell’incontro che oggi possono vivere tutte le possibilità di opposizione, di attrazione, di catastrofe, di serenità ed infine della ritrovata fiducia» (F. Garelli, Catalogo della mostra personale, cit., marzo-aprile 1957).

9 Però catalogati con un timbro che precisa la data d’esecuzione, all’interno di una ricerca senza soluzione di continuità.

10 Nell’arco del decennio, soprattutto nella prima parte, la pittura su tela o altro supporto di notevoli dimensioni (oltre il metro quadro) continua ad accompagnare la ormai privilegiata scultura: è probabile che le «Figure» o «Figurazioni» cromaticamente ricche siano mirate alla pittura, mentre i disegni più incisivi si svilupperebbero nella scultura. Avviene relativamente tardi, intorno alla metà dei Sessanta, che le tracce assumano una consistenza materiale che va oltre la traccia grafica, sebbene persista il riferimento al piano: sono smalti, resine, collages polimaterici.

11 Il dizionario segnico è piuttosto ricco: linee curve, spezzate, avvolgenti; tocchi che assumono forme svariatissime tra il punto e il tratto breve, iterati fino alla saturazione di spazi definiti da un confine espresso o sottinteso.

12 R. Guasco, Una cocciuta fedeltà all’immagine uomo, «Notizie», marzo 1957. Lo stesso Garelli, scrivendo all’amico critico Crispolti (15 agosto 1962) precisa la sua relazione con l’informale: «So di essermi cacciato per certi versi […] nell’informale e anche con soddisfazione, ma ho anche sempre tenuto d’occhio una assoluta necessità di determinare il segno, magari fino alla pignoleria. Così la mia è da anni una continua proposta a nuove figurazioni per traslati, traslati che poi a un certo punto sono essi stessi punti di partenza per nuovi traslati […]» (cit. in F. Garelli, Catalogo, a cura di F. Crispolti, Milano, Fabbri, 1989, p. 31, n. 31).

13 Sull’argomento e su altri temi che riguardano Arturo Martini rimando al saggio di L. Caramel, La scommessa di Martini, che introduce La scultura lingua viva. Arturo Martini e il rinnovamento della scultura in Italia nella seconda metà del Novecento, Milano, Mazzotta, 2002, catalogo della mostra ad Acqui Terme (Alessandria).

14 La disponibilità alla condivisione delle esperienze è nota. Cito due casi significativi: l’amicizia collaborativa con Giorgio Piacenza (Dassu) che produsse, oltre che tre mostre collettive (a Lima in Perù nel ’64, a Biella e Genova nel ’67), uno scambio importante per entrambi, soprattutto centrato su comuni interessi tecnici (il plastic paint di Piacenza e il plamec di Garelli presentano evidenti analogie, almeno materiali); la collaborazione con il giovane scultore Riccardo Cordero e il tecnico Malorgio per approfondire le potenzialità delle materie plastiche.

15 Tanto vale dichiarare il riferimento del quale mi servo qui, probabilmente solo in senso suggestivo: M. Heidegger, Die Kunst und der Raum, St. Gallen, Erker-Verlag, 1969, trascrizione di una conferenza del ’64, che ho letto una quindicina d’anni fa nella traduzione italiana, Id., L’arte e lo spazio, Genova, Melangolo, 1979, con introduzione di G. Vattimo. Escludo che Garelli conoscesse il testo; ma il nocciolo della questione è spesso dibattuto dagli artisti e costituisce comunque, nella sostanza, un nodo centrale per la scultura, affontato per esempio in Scultura lingua morta di Arturo Martini, uscito in prima edizione nel ’45, ripubblicato nel ’48, e, con altri scritti, nel ’60 (qui non importano le edizioni successive) e nei Colloqui con Arturo Martini di Gino Scarpa, 1968. Tutti testi probabilmente noti a Garelli.

16 Dal fascicolo F. Garelli, Dipingere oggi, conversazione tenuta il 23 maggio 1949 alla galleria «La Bussola», Torino, Impronta, 1949.

17 Ricalco un tratto della lettera inviata da Garelli a Crispolti in data 12 febbraio 1958, unitamente al catalogo della Galleria Blu, e in cui annuncia la prossima mostra alla Bussola.

18 «No al bronzo troppo commendatore», scrive Garelli a Crispolti in una lettera del 18 maggio 1966.

19 Per Garelli esiste il problema di come sospendere i processi di alterazione della materia; ma anche più importante è «metter su questo disperato bisogno di non perdere spazio» (cito dal già ricordato articolo di Guasco in «Notizie», 1957).

20 A parte la memoria di Picasso e Boccioni, vale soprattutto l’incrocio, avvenuto nel 1959, con la cultura giapponese tradizionale e moderna (in particolare i Gutai), approfondito in ripetuti soggiorni e mostre in Giappone.

21 Rimando, per notizie analitiche al recente e ben documentato catalogo della mostra di Giorgio Piacenza, a cura di Claudio Daprà, Galleria del Ponte, Torino ottobre-novembre 2009.

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Pour citer cet article

Référence papier

Pino Mantovani, « Franco Garelli: l’importanza del disegno »Cahiers d’études italiennes, 18 | 2014, 221-230.

Référence électronique

Pino Mantovani, « Franco Garelli: l’importanza del disegno »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 18 | 2014, mis en ligne le 30 septembre 2015, consulté le 06 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/1894 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.1894

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Auteur

Pino Mantovani

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