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Dal Rinascimento all’Ottocento

Celebrazioni risorgimentali e storia dell’arte

Célébrations du Risorgimento et histoire de l’art
Risorgimento’s Celebrations and History of Art
Sandra Pinto
p. 163-183

Résumés

Puisant, entre autres, dans ses souvenirs de haut fonctionnaire chargé de la conservation du patrimoine culturel et artistique, l’auteure retrace les étapes successives — marquées par des films, des expositions, des célébrations et des anniversaires — d’une réappréciation de l’art italien du xixe siècle qui a permis de renverser le jugement globalement négatif selon lequel l’histoire de l’art italien prenait fin avec Tiepolo. Cette rédécouverte de l’Ottocento artistique italien a atteint son apogée avec le film de Mario Martone Noi credevamo et avec les célébrations du 150e anniversaire de l’Unité italienne.

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Texte intégral

1Premetto: vado a memoria. Per me l’argomento — celebrazioni risorgimentali, storia dell’arte, cioè storia della imprevista, e quasi casuale, fortuna critica dell’arte dell’Ottocento italiano, fortuna iniziata esattamente a cento anni dall’Unità d’Italia — è stato vita vissuta dai primissimi anni ’70. Ne posso parlare come si parla, da vecchi, di ricordi di tanto tempo prima, in questo caso di quaranta anni fa, chissà mai si desse l’eventualità di un volenteroso tentato da un supplemento di ricerca e di valutazione storica.

2Un suggerimento che mi sembra dei più utili per i prossimi addetti ai lavori è quello di passare a verificare puntualmente ciò che a me, rivangando, pare evidente, e precisamente, quanta parte, del florido stato attuale, vuoi di popolarità vuoi di specialismo, della storia dell’arte del nostro Ottocento, sia in debito con le maggiori celebrazioni di centenari risorgimentali occorse negli ultimi quarant’anni. Caso ha voluto che alle radici del fenomeno — nel 1973 e nel 1982 — per me di inizio carriera, mi capitasse di prendere parte attiva. Altro caso ha voluto che quegli anni siano gli stessi durante i quali, con Laura e Antonio, abbiamo triangolato di più tra Firenze, Torino, Parigi, con altri amici storici in comune, diversi dei quali si ritroveranno nominati in queste pagine. Spero che la nostalgia per la felicità di quel periodo, che ha avuto Laura diretta testimone a Firenze, me a Parigi, entrambe a Torino, per quel che musei e mostre andavano presentando di nuovo e di aggiornato a quel tempo, non abbia pesato sull’attendibilità della rievocazione.

3Iniziando, credo inoltre di dover portare allo scoperto almeno due chiavi di lettura per fenomeni che mi hanno aiutato ad impalcare la memoria sulle basi che meglio le convengono tra quelle dimostrabili come ormai comunemente accertate.

4La prima. La sfortuna critica dell’Ottocento italiano. Nel secolo scorso, all’altezza del secondo dopoguerra, per l’Italia, repubblicana e democratica, liberata dal fascismo e dalla monarchia, non è la storiografia artistica, sono il cinema neorealista e il settore realista dell’arte e della critica militante comunista a dare voce all’impegno ideologico, con una buona partenza nella seconda metà degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50, quando l’ideologia oltrepassa le sue iniziali scelte figurative, vale a dire l’espressionismo e il picassismo degli anni ’30 e inizi ’40 e porta orgogliosamente in primo piano opere-manifesto di comunismo — tra le immediatamente citabili, i quadri della Biennale del 1950, per esempio quelli di Guttuso e di Zigaina, Occupazione delle terre incolte, e di Pizzinato, Un fantasma percorre l’Europa — con riferimenti diretti sia all’eredità marxiana sia al realismo degli artisti del presente staliniano in URSS. Altri loro colleghi però, pur professandosi ugualmente comunisti o socialisti, non si sentono di abbracciare il realismo e, con buona parte della critica di impostazione storico-modernistica, capostipite Lionello Venturi, daranno una totale adesione al credo della modernità, indicato a volte come «formalismo marxista». Che consiste nel classico «scordarsi del passato», eccettuate le avanguardie di inizio secolo, re-iniziate in direzione internazionale nell’ambito di quelle tendenze europee e americane che si definiranno «Neoavanguardie», e che si porranno, dagli anni ’50 in poi, in diretto confronto e competizione con esse. Dal prevalere della modernità consegue il rigetto senza appello dell’Ottocento artistico italiano, del resto già condannato in prima istanza a inizio secolo come vecchiume provinciale. Marcata dal cliché dell’«Italietta», l’arte pre- e post-unitaria viene quindi destinata a quello che tecnicamente si chiama «archivio morto».

5«L’arte italiana», come si disse e si continuò a dire, «finiva con Tiepolo».

6La seconda. Lo sbocco della ricerca nelle esposizioni. Preceduta e sorretta soltanto da un buon manuale einaudiano del 1960, ancora oggi di proficua lettura, La storia dell’arte in Italia 1785-1943, di Corrado Maltese, di intonazione marxista — ma senza rifiuti preconcetti per le indicazioni europee e americane provenienti dalla sede cui lo studioso era allora applicato e dove effettuava in massima parte la sua ricerca, ovvero la Galleria Nazionale d’Arte Moderna — soltanto negli anni ’70, come si dirà, la storiografia dell’Ottocento avrebbe acceso e scaldato un motore capace di affrontare il lungo e sistematico percorso entro il quale la troviamo impegnata a tutt’oggi. Strumenti privilegiati saranno sin dall’inizio la forma-catalogo di esposizioni temporanee, e la ripubblicazione integrale o antologica di fonti per la «storia della storia dell’arte». Generalizzando si potrebbe dire che la restante produzione, saggistica, specialistica, delle riviste, dell’opera monografica, sarebbe rimasta, metaforicamente, sugli scaffali più alti, come materia al livello ultimo dei risultati della ricerca. Le presentazioni espositive pubbliche delle opere ottocentesche riscoperte o rivalutate avrebbero assunto a sorpresa un ruolo protagonista, portandosi all’attenzione generale, per un apprezzamento critico non soltanto specialistico, ma anche del grande pubblico che si cercava così di allontanare, con buon metodo, dal dominio di canoni non verificati, impartiti da inattendibili manuali liceali. Nel giro di un paio di generazioni tuttavia quel quadro verrà alterato, anche se, grazie al cielo, non del tutto, da fenomeni di segno negativo, ancora perduranti. Il maggiore di questi: l’offerta «imprenditoriale» non solo di mostre di disegno storico, ma soprattutto, e in concorrenza, di mostre indicate come «tematiche»: termine che configura una sorta di abuso d’ufficio, data la valenza esclusivistica ritenuta necessaria a delegittimare le tematiche storiche. Offerta maggioritaria, rispetto a quella fuori mercato delle pubbliche istituzioni sempre più indebolite, nonché sotto misura riguardo ai tempi e ai modi di gestazione se confrontati con quelli necessari alla ricerca. La manovra devierà spesso la pratica espositiva — lo sta ancora facendo — da strumento di assimilazione culturale in forme e dosi appropriate, a forme consumistiche, magari meno dannose di altre per quanto riguarda un pubblico assoggettato ormai a tutte le mode di massa ma, e va sottolineato con vigore, soprattutto tentatrice pericolosa per ricerca e ricercatori. Non pochi di questi saranno troppo spesso tratti in inganno e, causa la fretta e la sovrapproduzione, diluiranno la sostanza della ricerca facendole perdere profondità, originalità, autenticità, al punto da non saper più distinguere tra missione etica della storia e manipolazione. Altri ancora si risparmieranno candidamente la fatica di veri progressi non distinguendo la ricerca dalla trouvaille.

7Per concludere la premessa resta ancora da aggiungere che il racconto procede con un numero ridottissimo di punti di sosta, cinque in tutto, quattro dei quali mi coinvolgono in forma piena. Proprio nel momento in cui la nuova storiografia dell’arte italiana dell’Ottocento vince la gara a ostacoli dei suoi progressi e inizia la fase matura, registrando riconoscimenti e successi, io mi ritrovo sbalzata verso nuovi compiti di servizio e di studio, che mi spingono di qua e di là, verso l’Oriente come verso il Settecento, infine in avanti di nuovo, dall’Ottocento al presente. Gli incontri con Laura si fanno più radi, mai però semplicemente occasionali, al contrario sempre legati ai ruggenti anni ’70.

I. Dal dopoguerra al post-Sessantotto. Cinema e arti visive: qualche considerazione chiave a monte della riconsiderazione storiografica dell’Ottocento italiano

8Un film da ricondurre al ruolo di fonte è La pattuglia sperduta di Piero Nelli, regista piemontese allora esordiente, che lo realizza tra il 1952 e il 1954. La vicenda, ambientata nelle nebbie invernali delle gelide risaie piemontesi nel 1849, dove otto volontari si ritrovano tragicamente isolati dal resto dell’esercito sabaudo, adombra analoghi momenti della Resistenza negli stessi luoghi, rimasti identici, un secolo dopo. Il sacrificio di valorosi dell’Ottocento riscattato dai discendenti del Novecento: bel film, in uno scelto bianco e nero di puro stile neorealista, ultimamente ripresentato nel 2011. Che precede, con i meriti di un messaggio primario — il ritorno, nella vicenda della Resistenza, degli ideali repubblicani e democratici del migliore tra i «due Risorgimenti» — gli assai più noti capolavori di tema risorgimentale di Visconti e Rossellini. Il Viva l’Italia di quest’ultimo, nel 1961 (primo centenario dell’Unità), intende anch’esso mantenere il fuoco ideologico del neorealismo della prima ora. Il racconto va dallo sbarco dei Mille in Sicilia all’incontro a Teano ovvero alla cessione della vittoria al potere sabaudo; ma, come faceva svelatamente intendere il primo titolo dell’opera, Paisà 1860, era il richiamo allo sbarco americano in Sicilia nel 1943 la vera ragione del film, legato idealmente al precedente Paisà dello stesso regista nel 1946. Filologico, non meno che ideologico, il neorealismo del grande Visconti. Non mordenti accostamenti tra passato e presente, ma immagini-verità (nuove e da molti all’inizio malcomprese come superamento del neorealismo) tratte da documenti letterari e figurativi, che rappresentavano le ombre, le viltà, gli accomodamenti, il cinismo, sia sofferto sia tout court, insomma i vizi inguaribili, eterni, di una sottospecie ineliminabile di homo italicus: penso a Senso, tratto dal racconto omonimo di Camillo Boito, del 1954 e al Gattopardo del 1963 (il romanzo di Lampedusa era uscito postumo nel 1958). Non solo per ciò che si è detto, ma anche per aver elevato il gusto italiano a scelte di cultura non ancora praticate dal cinema, familiarizzandolo col mondo figurativo, oltre che letterario, del proprio Ottocento, il cinema viscontiano svolgerà una funzione di imprescindibile rivalutazione storico-critica della cultura figurativa italiana del secolo XIX.

II. 1973. Primo centenario della morte di Francesco Domenico Guerrazzi

9Il 1970, data di nascita delle Regioni italiane, porta il PCI al governo in Toscana. La missione della cultura viene definita dal compito primario di dare un segnale forte di cambiamento sul piano nazionale e insieme di riconoscimento puntuale dei valori territoriali; le sue figure di spicco sono storici della politica e storici dell’arte. Per le Celebrazioni guerrazziane del 1973 non ci si limita al focus comunale, Livorno, ma si punta su Firenze, capitale regionale. Si deve al suggerimento diretto di Giovanni Previtali, Ernesto Ragionieri e Sergio Romagnoli, membri del comitato del centenario, che stavano già considerando la scelta del tema «Guerrazzi romanziere», di invitare la Soprintendenza — cioè me, dalla fine del 1969 funzionario di prima nomina presso la Galleria Moderna di Palazzo Pitti — a progettare una mostra sul romanzo storico, raccontato dalla pittura accademica coeva per richiamarne le allegorie patriottiche. Nell’estate 1972 una grande accoglienza di pubblico aveva infatti festeggiato a Palazzo Pitti l’inizio del riordinamento della Galleria Moderna e il lavoro era stato accompagnato da un catalogo al quale per l’occasione avevo ritenuto di dare un avantitolo da mostra: Sfortuna dell’Accademia. L’impresa era stata tenuta sotto osservazione amichevole da Previtali, cui è dovuta ad esempio la proposta di Arnaldo Salvestrini per la nota storica in catalogo sulla Toscana di Restaurazione, e da Paola Barocchi, della quale, a inizio 1972, era uscita la prima preziosa antologia di fonti dell’Ottocento, Dal Bello Ideale al Preraffaellismo. La ricognizione inventariale e d’archivio, mai prima di allora effettuata in Soprintendenza, aveva riportato alla luce un centinaio di opere accademiche neoclassiche e romantiche, disperse, e spesso da reidentificare, tra depositi interni e invii fuori sede, imponendone un riconoscimento non soltanto in senso materiale ma anche storico-critico del tutto inaspettato. Pochi mesi dopo, al completamento, da parte della Soprintendenza ai Monumenti, del restauro della villa — eretta dai Lorena e rimessa a nuovo per Vittorio Emanuele — detta La Meridiana, annessa a Palazzo Pitti, la medesima sorpresa veniva destata dalle volte dipinte delle sale, e in particolare da due di esse, con soggetti tratti da I Promessi Sposi e da L’Assedio di Firenze, autori rispettivamente Nicola Cianfanelli, in epoca lorenese, e Annibale Gatti, a Firenze liberata. Il concepimento della mostra Romanticismo storico andava perciò a termine, per dir così, senza travaglio, alla Meridiana, e veniva registrato da un catalogo che raccordava tre censimenti: delle arti figurative documentate nei cataloghi delle esposizioni d’epoca, di cui presenti in mostra cento opere, la stragrande maggioranza delle quali ignorate da un secolo o poco meno; delle recensioni e altre fonti che ne documentavano origini e prime ricezioni; delle contemporanee fortune dei temi romanzeschi nel melodramma. Paola Barocchi e Fiamma Nicolodi venivano invitate a prendere su di sé rispettivamente il secondo e il terzo censimento. Marisa Conti Forlani rendeva conto in una Nota del restauro architettonico da lei diretto.

10La ricezione della mostra, prescindendo dal gradimento del pubblico, che fu generale, divise invece vivacemente il mondo degli addetti italiani in scandalizzati e fautori; ma in sostanza il consenso dei più avvertiti colleghi anche stranieri del mondo museale e universitario si manifestò, subito e lungo il decennio, con la messa in atto di diversi progetti metodologicamente analoghi, che ampliarono via via la geografia della ricerca. Mancava alla novità portata dalla mostra il collegamento che avrebbe potuto esserci, tanto coetaneo era, con altri aspetti della cultura storico-politica molto più presente nel settore cinematografico: ricordo che ormai a mostra aperta, due film, Bronte di Vancini, uscito nel 1972, ma da me visto ad una proiezione speciale per il centenario guerrazziano e, soprattutto, Allonsanfan dei Taviani, del 1974, con la controinformazione che li motivava, portando all’attenzione il massacro di Bronte per opera dei garibaldini guidati da Nino Bixio nel primo caso, il tradimento che sorprende il nobile Carlo Pisacane alla mortifera spedizione di Sapri nel secondo, mi fecero invidiare l’intero cinema italiano di ambito post ’68 per il vanto che poteva attribuirsi di primo portavoce di un Romanticismo storico e allegorico «rinato nel 1970». Del resto non c’è bisogno di far notare che la ricognizione della mostra, se relativamente avanzata in alcune aree geografico-politiche (Toscana granducale, Piemonte e Liguria sabaude, Lombardo-Veneto, Parma, Modena, Lucca), restava puramente accennata là dove la ricerca, meno omogenea quanto a strutturabilità, avrebbe impegnato ricercatori non ancora in vista e tempi maggiori: nello Stato Pontificio e Legazioni, Napoli e il Sud. Ma il fronte era sfondato, l’emersione dal sommerso era tale da rendere irreversibile il processo di recupero di una cultura vuoi dimenticata, vuoi incompresa se non anche vilipesa, persino nei suoi massimi rappresentanti, Hayez per primo.

III. Da un centenario all’altro: 1973-1982

11Di seguito alla «sveglia» venuta dal centenario del Guerrazzi, molti sono gli eventi del decennio che via via arricchiranno la riacquisizione dell’Ottocento artistico alla nostra storia dell’arte, e, allo stesso tempo, la riacquisizione della stessa storia dell’arte all’Ottocento politico. Ma per i volenterosi cui accennavo all’inizio dovrà bastare la rapida citazione di qualche punto focale specialmente connesso con la svolta critica del 1973.

12Per cominciare, la mostra de I Macchiaioli al Forte Belvedere, nell’estate del 1976 e, alla fine dello stesso anno, il secondo capitolo del riordinamento, dedicato all’arte in Toscana dall’indomani del 1848 al 1870, nelle collezioni della Galleria moderna di Palazzo Pitti. Da non dimenticare che il 1973 aveva prodotto un’altra novità critica degna di nota: il taglio eminentemente ideologico che connotava la monografica bolognese su Silvestro Lega di Dario Durbé. Progettata da questi era pure la ricognizione complessiva dei pittori toscani per la mostra dei macchiaioli, che, dopo una prima presentazione a Monaco, alla Neue Pinakothek, fu condivisa dal Comune di Firenze e dalla Soprintendenza e fatta oggetto di un catalogo più mirato alla storia nazionale. Liberati dall’ossessivo confronto con gli impressionisti e dalla tesi di un anticipo di paternità della «macchia» rispetto ai francesi, meglio compreso il senso del loro debito con il purismo franco-toscano-nazareno, i pittori toscani venivano finalmente riconosciuti nello specifico della tradizione fiorentina del disegno, arricchito, non sostituito, dal tema moderno, scientifico, della luce «in esterni» (dizione foto-cinematografica che mi sembra qui quasi preferibile al classico en plein air), e soprattutto dall’accoglienza del verbo mazziniano non certo in senso carbonaro, ma per l’ideale democratico repubblicano auspicato assieme alla libertà e alla unità della penisola tutta nel segno delle arti come linguaggio italiano per eccellenza.

13Al rientro in sede delle opere in prestito al Forte Belvedere andava felicemente a termine il riordinamento delle collezioni di Palazzo Pitti per il periodo 1859-1870, documentato da un Giornale con apertura di Luciano Berti e schede di Caterina Bon Valsassina. Il fervore patriottico toscano prima e durante il quinquennio di Firenze Capitale, si registrava non solo con i fasti ufficiali della Reggia sabauda a Pitti ma anche, in un clima analogo a quello della mostra, con la denuncia da parte degli artisti toscani, e di altri centri italiani convenuti in Toscana, del colpo basso inferto alle speranze di tanta gioventù sacrificatasi in nome del «risorgimento» di un popolo unito: basterebbe anche un solo quadro, non per niente di figura, di Lega, Il canto dello stornello, o la statua in gesso del Suicida di Cecioni, rimessi in vista dopo decenni e decenni, tra il ’73 e il ’76, a tradurci in sublime artistico la malinconia, la depressione, lo sconforto, di una generazione tradita.

14Esordivano allora nell’ambito storico-artistico di rifondazione dell’Ottocento gli studiosi di formazione universitaria fiorentina Caterina Bon Valsassina, Ettore Spalletti, Carlo Sisi, e il romano Stefano Susinno, che iniziava a sommare all’interesse per la funzione mondiale dell’arte del Settecento a Roma quello per un prolungamento ottocentesco. Tutti poi polarizzati sulla ricerca museale e sul concorso vinto, chi nel 1976, chi nel 1980, per i ruoli tecnico-scientifici dell’amministrazione della tutela.

15Paola Barocchi intanto, alla Normale, sta crescendo i suoi studenti a storia della critica con ricerca delle fonti soprattutto degli ultimi due secoli; fondata la propria casa editrice, SPES, affronta subito (la prima opera edita in assoluto, e direi di assaggio, nel 1974, è l’anastatica del Catalogo della Biblioteca di Giuseppe Bossi) niente di meno che la pubblicazione dell’«Antologia» di Giovanpietro Vieusseux: in anastatica l’estratto che accorpa i testi di argomento storico-artistico, in tutti i registri, maggiori e minori, apparsi nelle undici annate, più carteggi inediti, indici, nota critica. Dalla collaborazione Barocchi-Gabinetto Vieusseux, nel marzo 1976, nasce il primo degli «Incontri di studio» del «Centro Romantico» costituito dal Gabinetto in Palazzo Strozzi. Ben due settimane di dibattiti su un tema al giorno, introdotto da uno storico, la prima guidata da lei, la seconda da me: per suo ordine, lo dico con l’affetto e la gratitudine di allora e di oggi. Convocati Briganti, Previtali, Castelnuovo, Romano, Emiliani, Matteucci, Cristofani, Del Bravo. I temi dovevano riguardare lo spirito di modernità europea di stampo romantico portato nella Firenze di Restaurazione dal padrone di casa; ma i chiamati all’appello, Barocchi e Pinto comprese, li fecero coincidere anche con ciò che da un paio d’anni stava bollendo nella pentola einaudiana. Paolo Fossati, responsabile della casa editrice torinese per la storia dell’arte e «la storia della storia dell’arte» come si iniziava a dire, anch’egli presente all’Incontro, impersonava a suo modo un Vieusseux di centocinquant’anni dopo, col progetto in mano della Storia dell’arte italiana, per il quale, dal 1974, erano in corso le consultazioni con i prescelti a formare il quadro scientifico dei temi e degli autori. Il primo volume einaudiano uscirà nel dicembre 1978. Dal 1979 al 1982 usciranno quelli in cui l’organico ottocentista reclutato, Spalletti, Mazzocca, Pinto e Lamberti (quest’ultima collegando l’ultimo Ottocento con il primo Novecento), assolverà il compito di presentare il secolo, finalmente onorato da parità con le altre epoche, come campo di indagine delle modalità e finalità della storia dell’arte «in Italia»: questa la dizione che, almeno per il periodo moderno dal Settecento in poi, a me come ad altri allora in minoranza, sembrava preferibile a quella, più esclusiva, di «arte italiana».

16Piccole donne crescono, uomini pure. Nel 1980 la straripante mostra torinese della Cultura figurativa e architettonica del Re di Sardegna 1773-1861 con catalogo in tre fitti volumi, e cura generale di Castelnuovo e Rosci, registrerà ormai, accanto ad adulti aggiornati ma in minoranza, una vera comunità di giovani otto-novecentisti di varia provenienza. Tra gli altri dalla Normale giungono Fernando Mazzocca, Mimita Lamberti, Barbara Cinelli, ormai montati sul treno universitario. A loro volta i giovani responsabili di una storiografia rinnovata delle istituzioni museali e archivistiche torinesi, Paola Astrua, Michela di Macco (che passerà all’Università nel 1993), Silvana Pettenati, Rosanna Maggio Serra, Isabella Ricci, Marco Carassi sono coloro che più direttamente, all’interno delle istituzioni in cui operano e in concerto le une con le altre, stanno iniziando ad affrontare il progetto di un adeguamento a sistema dei musei, delle residenze reali e delle altre istituzioni culturali della capitale sabauda, riesaminandone le funzioni, a iniziare da Vittorio Amedeo III, e fino a Vittorio Emanuele II, per valutarne criticamente in sequenza storica le pratiche amministrative di contenuto culturale. Lo stesso progetto, via via ingrandito, dalla metà degli anni ’80 verrà sostenuto anche da sponsor, ed è assai più complesso, difficile e impegnativo di quello parallelo in corso a Firenze per Palazzo Pitti. Quivi l’adeguamento dell’immobile è affrontato nella sua realtà definita di multimuseo o museo della reggia: Palatina, Argenti, Appartamenti del I e II piano, Moderna, Mezzanino degli Occhi (il Novecento della Moderna), Soffittone (le Guardarobe), Meridiana (Costume), Casino del Cavaliere (Porcellane) presentati da Marco Chiarini, Cristina Piacenti, Sandra Pinto, in team, in un numero speciale di «Apollo» nel 1977, e due anni dopo, nel 1979, con la mostra Curiosità di una reggia, la cui finalità di pubblicizzare il progetto di una composizione totale della musealità del Palazzo, con relativa ricerca documentata in catalogo, era nelle sale ben mascherata dall’apparenza di divertissement dell’allestimento, sul filo delle guardarobe e delle curiosità più eclatanti ivi conservate: caso precoce di intrusione mediatica nel mondo dei beni culturali a fini pubblicitari. L’esposizione, per fortuna, riusciva comunque, se non a dar compiutamente atto dello stato avanzato della ricerca in corso, almeno del metodo e degli strumenti di essa: non a caso l’ultima tranche di riordinamento dell’Ottocento nella Galleria Moderna al secondo piano nobile andò a termine nello stesso 1979.

17Quanto alla mostra di Torino del 1980, l’elemento simbolico del cambiamento di prospettiva che più mi piace ricordare in questa occasione è rappresentato — negli Appartamenti di Stato di Palazzo Reale rinnovati per Carlo Alberto da Pelagio Palagi — dal ritorno di alcuni dei grandi quadri che avevano decorato i saloni in funzione di anticamere di parata alla Sala del Trono, tra i quali la Sete dei Crociati, capolavoro di Francesco Hayez, in epoca umbertina arrotolato e immagazzinato, con tutti gli altri della sistemazione palagiana della reggia, e nel 1973 inutilmente richiesto in prestito al soprintendente Chierici per Romanticismo storico.

18Il sassolino guerrazziano si era fatto massa critica.

19Last but not least, contemporaneamente alla mostra torinese, a Roma in Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Gianna Piantoni presentava, riunendo Nicoletta Cardano, Paolo Marconi, e altri autori di spicco per lo scenario romano (da Forcella a Caracciolo, da Niccolini a Parisella e altri) una mostra straordinaria, letteralmente, in quanto fuori degli schemi, Roma 1911, con un catalogo ricchissimo di contributi e di materiali, sfortunatamente penalizzato da un trattamento editoriale molto al di sotto del dovuto alla rilevanza del contenuto: detto per inciso, entro poco tempo avverrà uno scambio delle parti, tanto più abituale quanto, decisamente, più dannoso! Mostra progettata con semplicità all’interno della Galleria, arricchita da collaborazioni esterne richieste informalmente ad altre istituzioni culturali romane, ma non con lo scopo di celebrare un anniversario qualsivoglia, bensì per raccontare la celebrazione cui si lega l’origine risorgimentale della Galleria stessa. Il risultato superò le aspettative riuscendo a darsi come la rappresentazione vivida e ancora criticamente attuale della più grandiosa operazione culturale di disegno moderno del breve Regno d’Italia (1861-1946), vale a dire la celebrazione del cinquantenario dell’Unità come Esposizione Universale messa a confronto con le omologhe del periodo in altre capitali europee. Certamente la mostra, agli inizi, doveva essere stata pensata come riguardante monograficamente la Galleria. Questa infatti, a celebrazione del cinquantenario conclusa, aveva ottenuto, come sappiamo, la sua sede definitiva nel Palazzo delle Belle Arti a Valle Giulia e, come nucleo collezionistico di arte contemporanea, gli acquisti alla Rassegna internazionale tenutasi nel Palazzo stesso. La passione di Gianna Piantoni per l’argomento fece sì che esso crescesse cammin facendo, coinvolgendo la totalità degli studiosi dedicati ad argomenti collaterali dello stesso periodo; riuscì in tal modo a prendere in esame quasi interamente il programma del 1911, non soltanto per quanto riguardava Roma, ma anche Torino per l’Esposizione Industriale del Lavoro, lasciando in secondo piano, delle tre capitali sabaude considerate dalle celebrazioni, soltanto Firenze. A Roma e a Torino era stato attribuito infatti il compito di rappresentare rispettivamente la modernità e il progresso, mentre Firenze, la capitale di mezzo del nuovo Stato, aveva sortito un compito accessorio, retrospettivo, e «onomastico», legando una delle due manifestazioni al nome della Regina Madre, Margherita, tanto che all’evento restò nella vulgata il titolo complessivo di «mostra dell’arte e dei fiori»: vale a dire l’esposizione internazionale di floricultura accanto all’esposizione d’arte, Il Ritratto italiano.

IV. 1982. Il primo centenario della morte di Giuseppe Garibaldi: due mostre a Roma

20Rispetto al centenario di Guerrazzi nove anni prima, di inconfrontabile solennità naturalmente, e istituzionale in ambito nazionale, fu la presentazione di Giuseppe Garibaldi, ovvero del protagonista d’eccezione del Risorgimento, come esempio di azione e di sacrificio, personale e collettivo, in nome dell’autodeterminazione di un popolo unito.

21Presidente della Repubblica era allora Sandro Pertini; Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. Appassionato studioso e collezionista di documenti garibaldini, Spadolini era allora in doppia rivalità con Craxi, propendendo quest’ultimo per il connotato socialista, invece che repubblicano, dell’eroe. Tanto più quindi trovandosi in posizione di forza come presidente del Consiglio, Spadolini volle presiedere il Comitato «per le manifestazioni culturali» (noto adesso che, dall’alto, non si scelse il termine «celebrazioni»; e certo non fu un caso: si volle dare, benché non dichiarata, una indicazione antiretorica). Fui di nuovo incaricata — stavolta direttamente dalla Direzione Generale del nuovo Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, come commissario generale amministrativo, con Caterina Bon Valsassina segretaria generale — della mostra ufficiale a doppia sede, e catalogo in due volumi: Garibaldi. Arte e Storia. Le responsabilità scientifiche di progetti e ordinamenti delle diverse rassegne in programma a Roma erano dovutamente separate. Per l’ordinamento della maggiore, la rassegna artistica, che prese il titolo Il Risorgimento e l’Idea di un’Arte Nazionale, pensato collettivamente dalla équipe degli storici reclutati, diversi dei quali già sperimentati dall’impresa torinese di due anni prima, ricevetti direttive ministeriali informali e discrezionali, espresse da Carlo Bertelli e risultate molto gradite a tutta la squadra. Come mai? Prima di tutto perché veniva richiesto il coinvolgimento di quante più soprintendenze e amministrazioni civiche, prestatrici di opere e di responsabili scientifici (18 furono i funzionari su un totale di 25 storici impegnati), poi per l’invito a rastrellare quante più opere possibile che potessero trarsi da musei statali e locali, con riferimento soprattutto a quelle depositate fuori sede, per favorirne un rientro definitivo ai luoghi di appartenenza.

22Dunque, il nuovo Ministero e il Presidente del Consiglio figurano comme il faut, l’uno mettendo alla prova le proprie competenze, l’altro rafforzando il prestigio di un governo e di uno stato repubblicano laici.

23Per la parte degli storici dell’arte, l’argomento che l’équipe si dette per la scelta dei documenti da presentare si concentrava su quali «missioni» originassero dagli artisti stessi, con quali assunti, quali sostegni pedagogici e ideologici, quali esiti; quali le immagini, lo scenario e il racconto della fisionomia unitaria che agli inizi del XIX secolo avessero accompagnato l’ideale di una Italia libera, unita, federata, costituzionale, in tutto corrispondente ai canoni dell’illuminismo europeo e statunitense e come invece da ultimo l’indipendenza fosse stata ottenuta con le riduzioni, le modifiche, i compromessi, imposti dalla soluzione monarchica sabauda.

24Ad apertura di mostra l’immagine geografica di un’Italia al suo confine alpino attraversato dall’esercito «liberatore» di Napoleone si presentava mediante i disegni dei piemontesi Bagetti e de Gubernatis; seguiva, nei bozzetti canoviani per il monumento in Santa Croce, l’immagine simbolica di un’Italia sconfortata china sulla tomba di Alfieri, confrontata a seguire con simboli e allegorie repubblicane tanto moderne (degli Stati Uniti) quanto antiche (Bruto condanna i figli) di libertà e di democrazia, nel disegno di James Barry e nel quadro forse di Henry Tresham, scelti rispettivamente da Gianni Romano e Stefano Susinno. Nei confronti delle ambigue politiche sabaude, la mostra, sorvolando i documenti filomonarchici, configurava i punti di vista dell’opposizione democratica, rappresentati da quei pittori di storia e, più spesso, di genere storico, che meglio si avvicinavano e offrivano immagini al tema Garibaldi: i generali napoleonici, le figure degli avventurosi esploratori italiani di altri continenti, i grandi italiani suscitatori di amor patrio, i prigionieri politici e i morti per patriottismo, nella storia passata come nelle vicende allora in corso. Per le imprese del protagonista con i suoi, venivano scelte a maggioranza immagini del vissuto con passione collettiva dai volontari nei momenti di sosta o in battaglia, immagini degli sguardi pensosi e malinconici di aristocratici lombardi in camicia rossa ritratti «a cose fatte» e richiamate alla memoria; o, ancora, immagini degli interni e dei cortili all’olandese, per una narrativa — patetica ma non retorica, sul modello di tanta letteratura dell’epoca — del sacrificio popolare dei combattenti, delle loro donne, delle loro famiglie; vedute di abitati e campagne sconvolti dagli scontri.

25Lo schema — faccio presente che per la documentazione fotografica e a stampa, i reportages giornalistici illustrati, la caricatura, i cimeli, si rinviava agli altri settori della mostra — era, quanto a disegno macrostorico, sostanzialmente il primo a essere impostato in modo che una iconografia storica tradizionale, da museo del Risorgimento, fosse presa in considerazione sotto il profilo storico-artistico, anche se nel caso di alcuni dei temi era troppo presto perché l’insieme delle opere scelte trovasse omogeneità ed equilibrio formale, oggettività narrativa, e sicuro giudizio di valore. Però qualche segnale anticipava la rivalutazione stilistica piena di verismo e realismo, allora di fatto accettati soltanto in campo letterario, ma in ambito figurativo sacrificati alla fortuna critica modernista del simbolismo e del divisionismo.

26Il futuro si presentava favorevole ai giovani storici: impegnati su una materia che appariva come una corbeille di frutti mai provati, al massimo sentiti dire, si erano però potuti rendere conto delle dimensioni del problema storico nel suo insieme ed erano ormai preparati ad affrontarlo da vicino sia in termini di analisi che di prime prove di sintesi. Ciascuno al suo posto di comando. Mazzocca all’università di Venezia prima e poi di Milano, caposcuola della ricerca sulla fisionomia culturale del viceregno lombardo-veneto e sul pianeta Canova, oggi compiutamente delineati con tutto il vigore critico che meritano. Gli omologhi toscani Spalletti e poi Sisi alla Galleria Moderna di Palazzo Pitti, unendo alla ricerca sistematica dei documenti figurativi la competenza in fatto di musei, mettevano a punto finalità e strumenti più adeguati di gestione. Spalletti con un nuovo regolamento che perfezionava le modalità di dotazione per gli acquisti della Galleria con fondi congiunti statali e comunali, in autonomia rispetto alla norma che governava gli altri istituti statali; Sisi, proseguendo l’incremento sapiente degli acquisti che, insieme ad opere giunte in donazione ed altre ottenute in deposito a lungo termine da collezionisti, rinforzavano significativamente le ragioni dell’ordinamento del museo.

27Alla mostra Arte di Palazzo Venezia (e alla sorella siamese Storia nel Museo del Risorgimento) faceva riscontro a fine anno, ancora a Roma, nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, la concentratissima esposizione Pittura garibaldina da Fattori a Guttuso. Diciannove artisti, sessantadue numeri di catalogo, tra quadri grandi e grandissimi, bozzetti e studi grafici piccoli e piccolissimi. Vi si era impegnato con slancio «volontario» Dario Durbé, ormai soprintendente, con a fianco Elena di Majo ed Enrico Crispolti. In forma molto inconsueta, Durbé dà in catalogo come motivazione primaria della mostra il proprio sguardo personale, soggettivo, giustificandolo come espressione di un «puro e semplice moto del cuore». E tale moto lo conduce ad una lettura sostanzialmente romantica del potere di seduzione delle masse da parte di Garibaldi, decifrandolo come suo speciale «genio» nel trovare ascolto nei più riposti sentimenti dei singoli individui; suscitati, questi, dal manifesto disinteresse per la propria persona, per i propri affetti, per gli stessi propri successi, in nome di una responsabilità per il bene generale, non raggiungibile altrimenti che con un implicito e naturale dono di sé. Durbé del resto è uso agli approcci di carattere affettivo, e romantico, prossimi tanto alla sua personalità quanto alle sensibilità dell’Ottocento italiano, e che dominano i suoi studi di arti figurative, condivisi con un forte interesse anche per musica e letteratura. È in questa luce che confluiscono le opere scelte per la mostra: dal patriottismo degli amati macchiaioli garibaldini a quello che, a Garibaldi scomparso, diventa il respiro affaticato, crepuscolare dei grandi dipinti esposti di Pagliano e di Carlandi. Nomellini poi, livornese come Durbé, presenterà Garibaldi al nuovo secolo, quando è ancora il simbolismo a giocare, ormai in senso moderno, pressappoco come si è impiantato nella visuale del più giovane Pellizza, l’enunciato idealistico della fede socialista. I due quadri-emblema del mito del condottiero — il primo, oggi nel Museo di Livorno (Garibaldi), è dipinto nel 1907 per la simbolista Sala del Sogno della Biennale di Venezia, il secondo (L’imbarco dei Mille a Quarto) del 1911, si trova oggi nel Museo di Novara — circonfondono il personaggio in una luce che esprime, in entrambi i casi, testimonianza fideistica, profetica, esemplare, e lo indica come entità a difesa, a guida, a servizio del futuro giusto di un popolo. Tutto, meno che un capo militare, sembrerebbe questa l’idea di Durbé sul «Generale», senz’altro il capo di una illimitata Resistenza morale. L’ultimo sguardo, ancora una volta partecipe, è al Garibaldi «comunista» di Guttuso, naturalmente per la Battaglia di Ponte Ammiraglio. Per tutto ciò Pittori garibaldini resta: guardando indietro, una riedizione celebrativa della Resistenza; guardando in avanti, il precorrimento di quel Garibaldi che nel 2010 sarà, in pochi fotogrammi, intravisto, dai suoi garibaldini accampati sulla spiaggia di Melito in Calabria, mentre appare da lontano in alto su uno sperone di montagna, subito prima della tragedia dell’imboscata fratricida dell’esercito sabaudo, nel film Noi credevamo di Mario Martone: come si chiarirà tra poco, quel film è un fatto d’arte e di critica storica di grande rilievo, secondo me, e di certo non me soltanto, e costituisce ad oggi uno dei contributi più degni di nota che dobbiamo all’arte cinematografica.

V. Dai bilanci della ricerca di fine secolo XX alla svolta del terzo millennio

28Volendo potrei fermarmi qui, con qualche buona ragione: negli anni ’80 e, in proseguimento, nel decennio successivo non si registrano celebrazioni che interferiscano significativamente con la storiografia dell’arte dell’Ottocento, e questa d’altra parte sviluppa una nuova fase di recupero di fortuna critica del secolo. Sono gli anni in cui la ricerca coprirà, dove più, dove meno, l’intero territorio italiano. Si orienterà sia sullo scavo documentario, sia sull’impegno a ridefinire il fattore stilistico che individua ciascuna scuola territoriale; l’aggiornamento del giudizio storico nel suo complesso si lascia invece ancora attendere. L’intera problematica storico-artistica e contorno politico-sociale del secolo, prima e dopo l’Unità, non soltanto quella a sfondo ideologico risorgimentale, si formalizza, venendo quasi «normalizzata» da una promozione di fatto paritetica, distribuita su tutto ciò che emerge dalla ricerca sopraccennata. Esempio massimo, nella collana «La Pittura in Italia» Electa, il doppio volume su L’Ottocento.

29Si inizia, è vero, ad avvertire la necessità di un nuovo canone, secondo i nuovi parametri, ma questo non è per il momento a portata. Costituirà problema ancora nel primo decennio del Duemila.

30Negli anni ’90, più precisamente tra il 1995 e il 1999, sarà il restauro della Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma la vicenda nazionale di settore più ambiziosa realizzata secondo le finalità delle celebrazioni del Millennio e del Giubileo. Perché fu restauro integrale, comprendente, primo, il recupero della felice risposta architettonica e ambientale originaria alla tipologia museale della sede, secondo, il riconoscimento dei principi istituzionali del 1883 e delle interpretazioni date ad essi nel tempo, terzo, il filo continuo della storia dell’arte italiana nella documentazione collezionistica di ciò che di volta in volta si presentava come contemporaneità, cui si aggiungevano via via i risarcimenti delle lacune ab origine (il settore retrospettivo dell’arte nel periodo che inizia con Canova e giunge al 1870) e le successive entrate retrospettive ad ogni rinnovo di ordinamento. Finalità quelle del 2000 che dovevano esprimersi nel rimettere in onore una cultura figurativa e, soprattutto, museale, nazionale, non più egemone ma certo tutt’altro che indegna dei suoi primati storici, anzi ancora di un profilo tale da farla competere con i maggiori istituti museali mondiali della contemporaneità. Le intenzioni formulate dal ministro Veltroni, nel 1998, di affiancare alla Galleria storica d’arte moderna una istituzione per l’arte futura si attueranno con la creazione del Museo delle arti del ventunesimo secolo (MAXXI) la cui missione sarebbe stata l’aggiornamento statutario della Galleria: dalla documentazione dell’arte nazionale, confrontata con l’arte straniera nei limiti dei soli contatti effettivi intervenuti nei secoli XIX e XX, alla documentazione di tutto ciò che di originale, di proprio, di distinto, l’arte italiana può conferire all’esperanto globale alla pari con le — e non più alla rincorsa de — le componenti di maggiore prestigio mondiale al presente.

31L’inizio-secolo ventunesimo, pur tra le, davvero troppe, criticità che travagliano ormai il Paese, avrà almeno la fortuna di essere rappresentato da due Capi dello Stato di grande personalità, democratici, patriottici, familiari con la cultura storica, prima Carlo Azeglio Ciampi, poi Giorgio Napolitano.

32Volendo essere ottimisti, potremmo pensare di essere prossimi al momento in cui la società civile italiana verrà messa in grado, e sarà anche merito della storiografia artistica, di valutare adeguatamente la vicenda del retaggio del Risorgimento repubblicano, democratico: patrimonio perduto nel secolo XIX, riemerso ma osteggiato o quanto meno sottovalutato nel XX, nel XXI potrebbe, chissà, agire da indicatore popolare di rinascita.

33Entro il primo decennio del nuovo secolo grandi anniversari danno luogo ad esposizioni storico-artistiche adeguate: i bicentenari dalla nascita di Mazzini (2005) e di Garibaldi (2007); dopo un lungo intervallo, tali esposizioni, entrambe naturaliter tenutesi a Genova, saranno eventi di rilievo, con un buon distacco dalla tipologia, ormai di prevalenza quasi esclusiva, della mostra d’intrattenimento. Mentre non rari sono nei musei statali i casi di contagio da quel modello, un vero cupio dissolvi della ricerca storica, perfino là dove dovrebbe essere tutelata per statuto, le due mostre, entrambe con regia di Fernando Mazzocca — la seconda condivisa con Anna Villari — accentuano significativamente l’attenzione su settori di Ottocento storico-politico ed artistico di ambito risorgimentale meno esplorati di quelli di Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, vale a dire la Repubblica Romana, il Sud peninsulare e la Sicilia. Non legata ad anniversari da celebrarsi, anche la mostra internazionale del 2003, Maestà di Roma. L’esposizione rappresenta gli aspetti di continuità, nell’Ottocento, dell’irradiazione da Roma di valori che nel secolo seguente verranno giudicati antimoderni senza sfumature, in realtà propri di una civiltà millenaria che si definisce «universale» ed «eterna», in rapporto alla quale la modernità rappresenta a seconda un valore minore, un non-valore, un disvalore. Realizzata su progetto di Stefano Susinno, subito dopo la sua prematura scomparsa, alle Scuderie del Quirinale e alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna la mostra dedica un capitolo all’eccezione «modernista», laica, della Repubblica Romana: il momento straordinario del coraggio eroico di un esercito di popolo, e di una esplosione di modernità subito rimossa dal restaurato governo pontificio. La responsabile del capitolo, Anna Villari, tirocinando prima a Roma (Galleria Nazionale d’Arte Moderna) poi a Milano (alla scuola di Fernando Mazzocca) stava approfondendo nodi non ancora affrontati o comunque non risolti nei trent’anni precedenti: tra questi il portato del Risorgimento repubblicano, mazziniano e garibaldino, da Roma in giù, là dove i regimi pontificio e borbonico avevano tenuto più rigidamente a freno il «pensiero» degli artisti costringendo molti di essi a riparare in Toscana o altrove a misura dei rischi di censura corsi nelle proprie sedi di studio; primo saggio di questo ambito di interessi la pubblicazione in due volumi (2002, 2004) delle lettere di Domenico Morelli a Pasquale Villari dal 1849 al 1859, fonte di primaria rilevanza.

34Giungiamo così al traguardo del 2011, centocinquantenario dell’Unità. L’evento, è il caso di sottolinearlo, ha fatto epoca. Il sentimento popolare è stato risvegliato e commosso dal tricolore alle finestre, dagli inni di Mameli e di Garibaldi, cantati a squarciagola nelle scuole elementari; simboli stimolanti, che fino a prima di Ciampi presidente, erano stati vituperati, a destra dal federalismo della Padania leghista, a sinistra in quanto considerati indicatori di uno Stato malfunzionante in tutto tranne che nella retorica. Nel 2011 si pone fine a questo giudizio autopunitivo per il cittadino italiano, con un alt fermissimo, girofront e marcia indietro, fino a far riscoprire interamente il vero valore di quei simboli di rispetto verso le istituzioni, la dignità del cittadino, e l’orgoglio per le difficili prove superate da un popolo non libero nel corso della storia. Quanto al fine assegnato ai responsabili della cultura, lo si individua con chiarezza nella capacità richiesta loro di raggiungere la società civile, mediante una formula inclusiva, poliedrica, di riflessione storica, alla quale la storiografia artistica ha saputo, in molti casi, contribuire col meglio di sé in senso pragmatico, portandosi su operazioni di lungo periodo, in campi nei quali la ricerca avrebbe avuto materia significativa da mettere ex novo a disposizione.

35La tipologia dell’esposizione storico-artistica, tenuta su un registro illustrativo, passa in secondo piano; mentre una generazione di istruttori di nuove buone pratiche storiche consegue risultati incisivi, convincenti, destinati a durare o a crescere, presso una rappresentanza significativa della società civile che risponde con entusiasmo all’attraente richiamo educativo, per una volta non futile intrattenimento.

  • 1 M. Martone, Noi credevamo, Milano, Bompiani Overlook, 2010.

36Proverò a ricordare qui alcune di queste pratiche, molto brevemente, dopo aver dato però la precedenza al cinema. È questo infatti, secondo me, che, senza viatici ufficiali, si riposiziona al vertice come nel secondo dopoguerra. Il film è il già citato Noi credevamo di Martone. Nella pubblicazione che correda il film1, l’autore ricorda che all’origine dell’opera (primi anni 2000) stava l’interrogativo sui perché della rimozione del Risorgimento, e in generale della storia nazionale, da parte di tanti italiani; come la risposta iniziale gli fosse venuta dal romanzo di Anna Banti, Noi credevamo, con la considerazione del contrasto storico-politico mai risolto tra i due Risorgimenti: quello mazziniano e garibaldino, repubblicano e democratico da una parte, quello sabaudo, monarchico e autoritaristico dall’altra; l’uno, sconfitto allora, ad ogni ripresa, dalle destre, l’altro combattuto ininterrottamente e battuto infine dalla sinistra nel secolo seguente — 1946 — ma lasciando comunque sopravvivere una destra che non desiste e che è stata in grado di tenere la partita aperta fino al quasi-pareggio dell’ingovernabilità attuale.

37«Perché è così importante, sul piano storico, questa contrapposizione tra monarchici e repubblicani? Perché […] è l’aspetto che contraddistingue tutta la storia italiana a venire, e il nostro stesso presente»; e questo dualismo, sempre vivo, prosegue Martone fa sì che gli italiani non siano ancora riusciti a ritrovarsi con un patrimonio comune di memorie da conservare e cui dar seguito. Nel racconto cinematografico la risposta si incardina via via con l’analisi di ciò che offrono due componenti geografiche fondamentali, e si ottiene nelle ultime inquadrature, sulle rampe dello scalone guariniano di Palazzo Carignano a Torino da dove il protagonista Domenico sta spiando il nuovo parlamento italiano in azione, per poi allontanarsi prostrato da un dibattito che rappresenta qualcosa di troppo incompatibile con tutto ciò in cui aveva creduto e per cui aveva combattuto. La geografia del Risorgimento repubblicano non è soltanto l’Alta Italia o la Toscana; è anche, ed è molto più cruciale, il Sud, con le sue precoci e ripetute congiure mazziniane (i Capozzoli nel Cilento), le carcerazioni dei patrioti napoletani (nelle celle di Montefusco), l’infelice sortita garibaldina in Aspromonte; e se i patrioti dell’Italia meridionale si mettono in gioco con lo scontro diretto, è anche geografia europea quella dei focolai rivoluzionari legati al mazzinianesimo; negli scenari volta a volta di Parigi, Torino, Londra.

38Parigi, inizio Restaurazione, nella cerchia di Cristina di Belgiojoso; Torino post 1821 dove operano e da dove si muovono mazziniani in clandestinità; Londra, anni ’50, negli ambienti in cui non si rinuncia ancora all’utopia mazziniana ma in un clima plumbeo di crisi in atto e di complotto cui dar sfogo, Parigi di nuovo per l’attentato a Napoleone III di Felice Orsini.

39Giancarlo De Cataldo fornisce a Martone in molti di questi punti nodali suggerimenti e supporti per condurre la narrazione a giudizi impliciti, gli stessi che secondo me impegnano anche profondamente il giudizio di ciascuno di noi.

40Il film esce a Venezia nell’estate del 2010: la gestazione, che aveva impegnato diversi anni, termina in anticipo di qualche mese sull’anno del centocinquantenario. L’opera, in tutti i registri linguistici cui aveva titolo, trova, dal primo all’ultimo fotogramma, il tono giusto, della verità (dei fatti) per la verità (di fede). Ad iniziare dai presupposti ideologici, al loro inverarsi cinematografico in virtù di una sceneggiatura magistrale, di una immedesimazione, più unica che rara, degli interpreti nel clima drammatico, in ogni situazione; con una regolazione dei tempi, percepiti con effetti «dal vero», rapidissimi o interminabili a seconda di come dettava il racconto; sempre con un identico grado di plausibilità per quanto riguarda i luoghi dell’azione, alcuni dei quali, in fotogrammi-lampo uso transfert, mostrano il presente là dov’è passato quel passato, e dove, di conseguenza, ha preso residenza un fato maligno: visivamente il momento più forte è quello della gabbia di pilastri di cemento di un fabbricato non finito, per il XX secolo simbolo decifrabilissimo di ingiustizia e giustizia contrapposte e immobilizzate l’una dall’altra, mentre l’edificio rurale del passato figura come registratore in presa diretta dello scontro fratricida dell’esercito regolare italiano con i volontari di Garibaldi.

41Antonio Scurati nel recensire il film ha osservato che questo non è soltanto il film di Mario Martone sul Risorgimento, ma è anche «un film del risorgimento» ricorrente nella storia di un popolo di genio, capace, in ogni forma d’arte, di azionare un linguaggio di volta in volta atto a comprendere, far comprendere e prevedere la realtà sia presente che futura: al punto di offrirci oggi, come avvenne per il Risorgimento, dagli anni ’20 agli anni ’60 del XIX secolo, grazie alle arti figurative, alla musica, alla letteratura, e oggi anche al cinema, «una diagnosi della crisi presente e, forse, una strategia per il futuro». E nel proseguire voglio annotare, proprio in merito a quanto sopra detto, il ruolo di Ippolita di Majo, storica dell’arte, anch’essa della scuola di Mazzocca, per la bella prova data dalla sua collaborazione alla plausibilità storica quanto alle immagini di luoghi e agli abbigliamenti. Rispetto agli éclat viscontiani pur tanto affascinanti, le immagini di questo film hanno una misura inedita, non prevaricano e, non distraendo visivamente dal pathos sempre grave, sempre pesante del racconto, risultano ancora più credibili.

42Una responsabilizzazione della migliore nuova storiografia italiana dell’arte, questa di obbligarsi a indagare, cioè a fare ricerca, sia allargando lo sguardo su domìni di altre competenze, sia restringendolo all’esame microscopico della più invisibile traccia filologica di pertinenza, a seconda dei casi.

43Quanto a me, per quanto riguarda il centocinquantenario, mi concedo il volo d’uccello, vale a dire la menzione dei momenti salienti ispirati alle linee di principio impartite dal Servizio appositamente istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Linee che hanno guidato Anna Villari in tutte le responsabilità affidatele e da lei progettate e realizzate in totale responsabilità. La prima: l’attribuzione del valore primario di memoria permanente riconfermato all’istituzione Museo una volta per tutte. A tale riconoscimento si deve la rinascita di organismi già languenti, non soltanto di massimi istituti come il Museo Nazionale del Risorgimento di Torino ma, soprattutto, la dignità disciplinare, per le apprezzabili qualità di innovazione metodologica, restituita a musei anche minimi e dimenticati come quello intitolato a Garibaldi a Caprera. La seconda: il ruolo subordinato delle mostre, molte impostate correttamente su registro didattico, prevalentemente di campo storico altro da quello artistico, in primis, la grande rassegna, anch’essa torinese, nelle Officine Grandi Riparazioni, sulla nascita e la crescita delle istituzioni democratiche del nuovo Stato, dall’Unità ad oggi. La terza: l’offerta editoriale. La «Biblioteca dell’Unità d’Italia» si concentra su pubblicazioni di formato semplice, serio, scolastico o universitario che sia, esattamente il contrario del fasto vacuo, di pura e semplice ostentazione cui ci ha abituato un ventennio di cataloghi monstrum in competizione gli uni con gli altri. Tra i volumi della Biblioteca sopraddetta il più rappresentativo, riunendo contributi pluridisciplinari, è il catalogo di una delle mostre, quella del Palazzo Reale di Napoli aperta a fine 2011, Da Sud. Le radici meridionali dell’Unità Nazionale, a cura di Luigi Mascilli Migliorini e della stessa Anna Villari: come si capisce già dal titolo, non è la monarchia a figurare come protagonista titolare delle vicende raccontate in Palazzo Reale, l’ospite temporaneo della reggia è l’antagonista rivoluzionario, l’ideale democratico repubblicano vissuto per un attimo nel 1799.

44Il Servizio sopraccitato, riconfermato, è attualmente impegnato nel prossimo, soprannazionale, centenario della prima guerra mondiale nel 2014. L’augurio è di vedere gli storici dell’arte più impegnati su modernità e antimodernità a raggio mondiale partecipare con l’impegno civile e i principi di metodo già mostrati nei loro contributi disciplinari più recenti, che segnalano nuove frontiere, sia geografiche che paradigmatiche, per la ricerca storico-artistica italiana degli ultimi due secoli.

45Ho citato, «um 2011», Ippolita di Majo e Anna Villari per aver affrontato i desiderati aggiornamenti al tema risorgimentale, ormai a rischio di cristallizzarsi, non fosse stato per le aperture da loro individuate sperimentando con coraggio e iniziativa nuovi campi di ricerca in territori disciplinari di professionalità limitrofe. Vorrei chiudere, aggiungendo altri due segnali generazionali — mi auguro non i soli, ma da me i meglio individuati — che ritengo siano rondini che faranno, anzi stanno già facendo, primavera, segnando una svolta importante della storiografia dell’arte degli ultimi due secoli. Sono gli scenari (praticamente finora ignorati in Italia dalla geografia storico-artistica tradizionale) di una mondializzazione, per dirla come viene viene, dello sguardo storicoartistico italiano: un oltremare dell’arte sacra di esportazione pontificia apertosi dall’indomani dell’Unità, presentato da Giovanna Capitelli; e l’affondo, compiuto e in corso, di Matteo Lafranconi sulla nascita e l’evoluzione dei modelli canonici di realismo succedutisi nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche: occasione fatale di questa passione, nel 2004, il saggio, di una finezza difficile da superare, di storia comparata italo-russa nel capitolo ottocentesco della mostra Da Giotto a Malevič alle Scuderie del Quirinale e proseguita con le mostre Aleksandr Deineka e Realismi socialisti nel 2011 presso il Palazzo delle Esposizioni, certamente le più importanti, nuove e utili, svoltesi in tale sede da molti anni. La prima guerra mondiale in questi ambiti «ci sta», come usa dire di questi tempi.

46E allora auguri di buon lavoro ai quattro moschettieri sopraddetti come a tutti i colleghi appartenenti a quella storiografia artistica che non teme di presentarsi davanti a nuovi compiti, per la prova che li attende nel 2014.

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Notes

1 M. Martone, Noi credevamo, Milano, Bompiani Overlook, 2010.

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Pour citer cet article

Référence papier

Sandra Pinto, « Celebrazioni risorgimentali e storia dell’arte »Cahiers d’études italiennes, 18 | 2014, 163-183.

Référence électronique

Sandra Pinto, « Celebrazioni risorgimentali e storia dell’arte »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 18 | 2014, mis en ligne le 30 septembre 2015, consulté le 11 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/1829 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.1829

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