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La rappresentazione di vilitas e paupertas. Un’analisi dall’abbigliamento di alcune penitenti italiane dei secoli XII‑XIV

La représentation de vilitas et de paupertas. Une analyse des vêtements de quelques pénitentes italiennes des XIIe‑XIVe siècles
The Representation of vilitas and paupertas. An Analysis from Clothing Worn by Some Italian Penitent Women during the 12th–14th Century
Elisa Tosi Brandi

Résumés

Cet article examine les vêtements connotant la marginalité portée par ceux qui ont choisi la pauvreté volontaire en rejoignant le mouvement de pénitence. Le choix des vêtements était conscient et effectué en tenant compte de la valeur symbolique et communicative des formes, tissus et couleurs distinctifs de la marginalité. À travers une approche de culture matérielle, le concept de vilitas et la représentation de paupertas sont étudiés à partir de sources franciscaines, d’hagiographies et de sources iconographiques relatives à certaines pénitentes italiennes, afin de réfléchir à la relation intime entre les femmes et les vêtements en approfondissant ce thème à travers une nouvelle perspective.

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Texte intégral

  • 1 La bibliografia sul tema è molto vasta, si segnalano alcuni dei principali studi: G. G. Meesserman, (...)
  • 2 U. Longo, L’abito fa il monaco. Il rapporto tra abbigliamento e identità religiosa per monaci ed er (...)
  • 3 E. Tosi Brandi, Moda e strategie dell’apparire nei secoli XIII‑XVI, in I. Ait, D. Lombardi e A. Mod (...)
  • 4 E. Tosi Brandi, The Challenges of Chiara da Rimini: From Deeds to Words, in M. G. Muzzarelli (a cur (...)

1Questo contributo intende esaminare gli abiti che connotarono la marginalità indossati da chi scelse la povertà volontaria aderendo al movimento della penitenza1. Nella maggior parte dei casi le scelte vestimentarie fatte dai penitenti furono consapevoli ed effettuate tenendo conto del valore simbolico e comunicativo degli abiti, così come della conoscenza di forme, colori e materiali distintivi della marginalità2. La combinazione di questi elementi attribuì agli oggetti tessili nuovi significati per esprimere la rinuncia e la privazione volontaria che, attraverso l’abbigliamento, doveva rappresentare il nuovo stile di vita basato sull’ascetismo e sulla penitenza. L’indagine che qui si presenta riguarda in particolare le vesti delle penitenti italiane vissute fra i secoli XII‑XIV perché le donne, di differente ceto sociale, si rivelarono non solo sensibili alle istanze pauperistiche ma soprattutto attive nell’elaborare segni distintivi sfruttando con scientia i messaggi non verbali degli abiti3. Ciò consentì ad alcune di esse la visibilità e, talvolta, l’occasione di parlare in pubblico grazie all’efficace effetto prodotto dalla parola accompagnata da performance che coinvolgevano corpo, azioni e vesti4.

  • 5 E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, in G. Rocca (a cura di), La sostanza dell’effimero. Gli (...)
  • 6 Sul tema si vedano, per esempio, i seguenti studi: A. Appadurai (a cura di), The Social Life of Thi (...)
  • 7 M. C. Jacobelli, La regola per le sorores de poenitentia nel codice 71 della biblioteca di Cortona, (...)

2L’esibizione di segni della rinuncia di tipo radicale destò, in particolare, la preoccupazione della Chiesa perché veicolo di istanze individuali difficilmente controllabili e potenzialmente pericolose, soprattutto se espresse da donne. Da qui la necessità di elaborare nuove regole di comportamento e definire rigorosamente le vesti destinate ai membri dei nuovi movimenti. I dibattiti che ne seguirono si conclusero agli inizi del XIV secolo, quando le autorità ecclesiastiche decisero di assegnare segni e colori codificati per gli Ordini religiosi anche ai penitenti a questi affiliati5. Tenendo sullo sfondo il dibattito sul tema della povertà in ambito francescano, dove si ragionò a lungo sulla misurazione della vilitas, questo contributo intende esaminare, seguendo l’approccio tipico dello studio della cultura materiale6, fogge, tessuti e colori che, nel periodo di sperimentazione e discussione sulle nuove regole relative all’abbigliamento religioso, furono impiegati dalle penitenti per rappresentare la rinuncia volontaria7.

1. Misurare la vilitas, qualificare la paupertas

  • 8 Sul tema, con la discussione storiografica e relativa bibliografia, cfr. P. Evangelisti, «Vide igit (...)
  • 9 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 85.
  • 10 Ibid.; A. Marini, Il non-abito religioso di Francesco d’Assisi, in M. Giorda, A. Marini e F. Sbarde (...)
  • 11 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 84.
  • 12 A. Clareno, Expositio super Regulam Fratrum Minorum, a cura di G. Boccali, Assisi, Porziuncola, 199 (...)
  • 13 G. G. Meersseman, «Ordo fraternitatis», cit., I, pp. 394‑401.

3Dalle Regole (1221, 1223) alle riflessioni interpretative che, a partire dal 1239‑1242, si susseguirono costanti fino al penultimo decennio del Trecento, i francescani discussero a lungo sulla misurabilità della povertà nell’ambito di una «precisa semantica francescana del denaro»8. «Asperitas», «vilitas» e «paupertas» costituiscono la cifra dell’identità francescana da comunicare innanzitutto attraverso l’abito, che doveva testimoniare la credibilità dell’Ordine9. Secondo le Costituzioni elaborate nel 1331 su questi tre elementi andavano infatti misurati lo stile di vita del frate e l’adeguatezza della tunica10. Per comprendere il valore della vilitas è utile dare uno sguardo alla normativa elaborata dall’Ordine francescano fra i secoli XIII‑XIV, in particolare ai sistemi adottati dai frati per valutare l’osservanza della povertà, elemento cardine e costituzionale dei minori e così pure di tutti i penitenti11. Attingendo ai commenti precedenti alla Regola, Angelo Clareno, nella sua Expositio super Regulam fratrum Minorum, datata attorno al 1321‑1322, ricordava che il fondatore aveva voluto che i frati vestissero di un panno considerato da tutti vile e spregevole affinché, seppur tacendo, potessero parlare con il loro modo di vestire e con il loro comportamento («licet primo taceant, habitu loquuntur et gestu»)12. Il dibattito sulla veste dei minori, sulle sue caratteristiche e sul suo valore risale al XIV secolo quando i frati stessi dovettero difendere le peculiarità del proprio Ordine al fine di mantenere una stretta vicinanza ai principi costitutivi definiti dal fondatore in un contesto in cui le regole ecclesiastiche miravano a conformare e irrigidire quanto già in precedenza approvato col rischio di snaturare le scelte primigenie13.

  • 14 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., pp. 45‑46.
  • 15 Vita del povero et humile servo de Dio Francesco, a cura di M. Bigarini, Assisi, Porziuncola, 1985, (...)
  • 16 A. Clareno, Expositio, cit., p. 573.
  • 17 R. Michetti, Tommaso da Celano e il paradosso della minoritas. La Vita beati Francisci di Tommaso d (...)
  • 18 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., p. 42.
  • 19 Ibid.

4Le indicazioni sulle vesti da adottare impartite da Francesco erano state molto generiche e coerenti con il rifiuto dell’uniformità degli abiti religiosi già codificati. Al fine di essere credibile nell’aderenza alla povertà evangelica Francesco sostenne l’adozione di un abito qualsiasi purché avesse le caratteristiche di quelli indossati dai poveri del suo tempo14. Nelle prime regole si fa infatti riferimento a una tunica rappezzata dentro e fuori, che, secondo le intenzioni di Francesco, doveva essere di «panno tanto grosso, che tenga caldo al corpo» e che «per la sua viltà predichi lo desprezamento de ogni mundana gloria et de ogni ornamenta vano. Et mostri il frate minore esser morto et crucifixo al mondo»15. I concetti saranno ripresi dal Clareno con la descrizione dei frati come «tristes, pallidi, sordidi et quasi peregrini huius saeculi»16. Al tempo della conversione Francesco dovette trovarsi nella condizione di tanti altri penitenti che cercarono autonomamente il modo di presentarsi al mondo con una veste che comunicasse il nuovo habitus. Tommaso da Celano nella sua Vita beati Francisci o Vita prima17 riferisce che il fondatore, una volta abbandonate le abituali lussuose vesti scarlatte («scarulaticis»), lasciò Assisi avvolto in miseri indumenti («cum semicinctiis involutus»). Privo di mezzi da non poter procurarsi nemmeno vesti di seconda mano («nullum posset vel vetustum acquirere indumentum») indossò a lungo una sola camicia («sola vili camisia»), finché, giunto a Gubbio, da un amico acquisì una piccola tunica («tuniculam»)18. Durante il suo ritorno ad Assisi, segnato da uno stile di vita penitente speso ad assistere i lebbrosi e a riparare chiese, Francesco vestì un abito «quasi eremiticum» con una cintura di cuoio, un bastone e calzature19. Ciò finché non ebbe una rivelazione ascoltando il Vangelo che Francesco desiderò adempiere alla lettera. Udendo pertanto «che i discepoli di Cristo non devono possedere né oro o argento o denaro, non portare per via borsa, non bisaccia, non pane, non bastone, non avere calzari, non due tuniche, ma predicare il Regno di Dio e la penitenza» comprese che doveva abbandonare le vesti precedentemente indossate perché in qualche modo già riconoscibili come religiose:

  • 20 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., pp. 44‑45.

[…] immediatamente scioglie dai piedi i calzari, depone dalle mani il bastone e, contento di una sola tunica, sostituisce la cintura con una corda. Da allora si prepara una tunica che presenta l’immagine della croce, perché in essa tenga lontane tutte le tentazioni del demonio: la fa molto ruvida, perché crocifigga la carne con i vizi e i peccati; la fa poi poverissima e senza cura e tale che in nessun modo possa essere desiderata dal mondo20.

  • 21 Anche i primi seguaci vestono abiti secolari considerati rozzi: ivi, pp. 56‑57.
  • 22 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 213.
  • 23 Ivi, p. 72.
  • 24 Ivi, p. 85.

5L’abito scelto da Francesco è quello dei poveri del suo tempo, rappresenta una croce nella misura in cui è asperrima e poverissima, ovvero un cilicio quotidiano; è anonimo, ovvero non uniforme ad altre vesti religiose; disprezzato dagli altri21. Ecco il punto: il rapporto con gli altri, con chi vive intorno ai frati, coloro a cui si rivolgeva il messaggio evangelico trasmesso anche dalla riconoscibilità della viltà e della spregevolezza della veste del minore sulla base di criteri culturali ed economici condivisi. Se la viltà dell’abito francescano si misurava su tre elementi, materia, prezzo e colore, per commisurarne la povertà era necessario fissare la soglia che separava i tessuti pregiati da quelli infimi. Tale valutazione era demandata ai laici, a uomini esperti che, in ogni regione in cui i frati vivevano, erano in grado di stimare la viltà del tessuto con cui confezionare la tunica. Si trattava dunque di un valore condiviso e oggettivo formatosi nelle piazze di mercato dove avvenivano gli scambi dei tessuti, dove i frati negoziavano gli acquisti confrontandosi con i commercianti dovendo conoscere il valore relativo della ricchezza e quello della povertà22. Come dimostrato da Paolo Evangelisti, il valore della viltà del panno fu un elemento di discussione importante in ambito francescano perché assumeva significato economico nel momento in cui quella materia andava acquistata. Prezzo e colore rappresentano «un unico valore economico che deve uniformare tutto l’Ordine trasformandosi in una cifra, in una sorta di pecunia che va fatta correre ogni giorno nelle vie e sulle piazze percorse dai Minori»23. Torniamo dunque alle Costituzioni del 1331 in merito agli indumenti del frate minore che deve testimoniare quotidianamente la sua asprezza, la grossolanità e la sua povertà: tali qualità, misurate sulla base del prezzo e del colore del tessuto, oltre che rappresentare il valore comunicativo e testimoniale costituivano un vero e proprio valore circolante24. Significativamente, nel dibattito interno all’Ordine non si fa mai riferimento a un valore monetario per

  • 25 Ivi, pp. 281‑282.

l’incapacità del denaro monetato di contenere tutti i valori. […] Per il diritto francescano, non aveva infatti alcun senso misurare e quantificare in somme precise di denari né il rispetto della povertà, la “puritas altissimae paupertatis”, né la soglia che separa i comportamenti economici corretti da quelli punibili come “vitiosi”, né alcun caso specifico considerato all’interno della rubrica che regola l’osservanza della povertà francescana25.

  • 26 Ivi, p. 117.

6Il valore monetario dell’abito, tuttavia, seppur concepito come inversamente proporzionale al valore venale, fu tutelato nelle disposizioni normative del 1354. A proposito dell’osservanza della povertà e del divieto di ricevere pecunia, si stabilì infatti il divieto di commercializzare l’abito all’interno dell’Ordine ad un prezzo più alto di quello pagato sul mercato26. Le norme francescane preferivano dunque evitare di fissare un prezzo rimandando a quotazioni del mercato il valore del tessuto da acquistare per confezionare una «thonica» con queste caratteristiche:

  • 27 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., p. 34.

[…] sia de tanta longheza, che essendo cento, non remanga piega sopra la centura et non tocchi terra. La longheza delle maniche fino a le ponte delle deta, sì che copra le mani et non le passi. La largheza loro sia tanta, che la mano ne possa intrare et uscire liberamente. El cappuccio sia quadro et tanto longo, che copra la faccia […] et che sia coprimento della nuditate et della necessitade et preservamento del freddo del corpo27.

  • 28 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., pp. 107‑108.
  • 29 Ivi, p. 108.

7Piuttosto che sul valore economico della tunica, che resta relativo perché territoriale, i minori preferiscono definire la foggia della stessa per evitare che si esageri indossando un abito più vile di quello previsto, cercando un punto di equilibrio che non mettesse a rischio l’unità dell’Ordine28. Questa è la ragione per la quale a metà del Trecento si introdusse una sanzione per chi fosse stato scoperto a indossare sotto la tunica la camicia. Si trattava di un comportamento contrario alla mortificazione della carne causata dalla tunica, punito con la condanna a consumare il primo pasto della giornata a terra usando quella camicia come tovaglia29.

  • 30 E. Massa, Bona da Pisa, santa, «Dizionario Biografico degli Italiani», Roma, Treccani, vol. 11, 196 (...)
  • 31 Dal 1962 Bona è patrona delle assistenti di volo italiane (E. Massa, Bona da Pisa, cit.).
  • 32 Sul cappuccio e sui modi di indossarlo nel basso Medioevo sta per uscire uno studio relativo al cap (...)
  • 33 E. Massa, Bona da Pisa, cit., passim.
  • 34 Con questa descrizione si intende il filo di seta prodotto dal baco.
  • 35 Vita per supparis aevi scriptorem…, cit., p. 148 (traduzione mia).

8Rimandando all’ultimo paragrafo l’approfondimento sulla materia e sul colore delle vesti simbolo della povertà non volontaria, a integrazione delle fonti francescane sul valore degli abiti vili informazioni molto utili si ricavano dalla Vita di Bona da Pisa, vissuta fra il 1156 e il 1207. Della penitente, affiliata all’ordine agostiniano, esiste una raccolta agiografica del XIV secolo conservata presso la Biblioteca Capitolare di Pisa che assembla due testi, di cui il più consistente è stato pubblicato negli Acta Sanctorum30 e al quale farò riferimento. Della leggenda di questa santa «pellegrina»31 interessa il passo riferito dall’Anonimo agiografo in cui è spiegata l’origine della veste da penitente adottata da Bona nel momento della sua conversione. Si tratta di un «cilicio» acquistato su comandamento di Cristo, apparsole durante un’esperienza mistica. All’imbarazzo mostrato dalla giovane che replicò alla richiesta di non disporre dei mezzi economici per acquistare tale abito, l’Altissimo la rassicurò dicendole di filare tanto cotone per guadagnare due denari. All’obiezione di Bona sulla difficoltà di trovare il «cilicio» a un prezzo così basso il Signore, confortandola, le rispose che nei pressi del ponte della città di Pisa avrebbe trovato un mercante disposto a venderlo per quei denari. Bona, dunque, filò cotone guadagnando i due denari con i quali si recò dal mercante che, come predetto da Cristo, in cambio le diede il «cilicio». Seguendo le istruzioni divine («divina instructione formata»), in questo tessuto, verosimilmente una tela da sacco, Bona praticò un’apertura per un cappuccio («fecit pro caputio apertura») in modo da poter indossare questo capo con una parte pendente davanti e una pendente dietro («in modum caputii ante pendentis et retro») ovvero come a quel tempo si era soliti portare il cappuccio, a mo’ di berretto32. Si tratta di una descrizione molto interessante, perché rara, del modo di indossare il cappuccio sul capo ovvero appoggiato e drappeggiato e non infilato per coprire interamente la testa. La veste di sacco di Bona corrispondente al valore di due denari doveva essere di dimensioni abbastanza ridotte se poteva essere indossata avvolta sul capo come un cappuccio. Ciò pare essere confermato dall’agiografo il quale specifica che, con quel cappuccio, indossando altre vesti («aliis vestibus supponens»), ritornò a casa dalla madre. Occorre precisare che gli agiografi fanno risalire il precoce uso del cilicio e dei digiuni all’epoca nella quale la santa aveva un’età compresa fra i sette e i dieci anni33. Da allora, scrive sempre l’agiografo, assecondando la volontà di Cristo, Bona «avvertita dei salutari precetti e formata dall’insegnamento divino va vestita di un cilicio affinché, avendo davanti agli occhi del corpo e della mente il memoriale della morte, non pecchi». L’abito-cilicio di Bona era il simbolo del suo matrimonio mistico con Cristo, che fungeva da monito anche per «coloro che vogliono e possono permettersi abiti delicati e vari, talvolta procurati dall’eredità degli orfani e dal sudore delle vedove, confezionati con molta vanità, adornati con sterco di vermi34, voluminosi in ampiezza e lunghezza»35.

9Il tessuto acquistato da Bona sul mercato pisano nella seconda metà del XII secolo corrispondeva verosimilmente alla tela da sacco che poteva fungere da cilicio per mortificare la pelle, come la tunica prescritta dalle fonti francescane paragonata alla croce in segno di penitenza. La tela ruvida impiegata per confezionare il vestito da penitente di Bona era costata due denari, cifra corrispondente verosimilmente al valore — o alla quantificazione-soglia per dirla con i francescani — che nella seconda metà del XII secolo a Pisa aveva la povertà volontaria. Furono casi come quelli di Bona a sollevare le preoccupazioni delle autorità ecclesiastiche a causa della popolarità raggiunta da alcuni penitenti e, soprattutto, della diffusione dei movimenti pauperistici fra i secoli XII‑XIII, che sorgevano e si organizzavano senza mediazioni istituzionali interpretando la povertà evangelica in autonomia col rischio di eccedere.

2. Le vesti «irregolari» delle penitenti

  • 36 Si rinvia alla nota n. 1.
  • 37 E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, cit., passim.

10La costante attenzione dimostrata dai francescani nei confronti delle caratteristiche e del valore del proprio abito religioso, emblema dell’osservanza della povertà, dipese dalla necessità di distinguersi e di mantenere la credibilità originaria lasciata in eredità da Francesco. Le indicazioni che ne scaturirono offrirono al contempo un modello a uomini e donne aderenti all’ampio ed eterogeneo movimento della penitenza, costituito prevalentemente da laici non sempre affiliati a ordini regolari36. Differenti infatti furono le modalità con cui i penitenti, in particolare le donne, interpretarono, attraverso il linguaggio non verbale dell’abbigliamento, il loro stile di vita improntato alla rinuncia. Come Bona, tante altre dovettero presto individuare un abito che comunicasse la propria scelta ascetica alla società in cui operarono. Si trattò di abiti che possiamo definire irregolari perché non codificati dalle autorità ecclesiastiche. Dopo un periodo di sperimentazione, infatti, la Chiesa tentò di disciplinare comportamenti e vesti dei nuovi Ordini religiosi per tenere sotto controllo le forme di adesione all’ascetismo poco ortodosse dei laici. Che il tema delle vesti dei penitenti fosse molto delicato, è testimoniato dal lungo dibattito che si protrasse fino agli inizi del XIV secolo, quando si decise di assegnare alle vesti di questi ultimi forme e colori già formalizzati degli Ordini a cui i penitenti dovettero affiliarsi37. Sfruttando i margini di libertà lasciati dalle autorità ecclesiastiche, soprattutto nel periodo di sperimentazione e discussione sulle nuove regole relative all’abbigliamento religioso, alcune donne penitenti scelsero autonomamente i vestiti da indossare come emblemi di mortificazione e rinuncia secondo criteri che attestano la loro consapevolezza del valore culturale e simbolico delle vesti e del potente messaggio che queste erano in grado di comunicare.

  • 38 M. G. Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia, Bologna, Il Mulino, 2011; E. Tosi Brandi, L’ar (...)
  • 39 E. Tosi Brandi, The Challenges of Chiara da Rimini, cit., passim.
  • 40 M. G. Muzzarelli e A. Campanini (a cura di), Disciplinare il lusso. La legislazione suntuaria in It (...)
  • 41 C. Klapisch-Zuber, Women, Family and Ritual in Renaissance Italy, Chicago, Chicago University Press (...)
  • 42 F. Boldrini, Getting Naked for God: Social and Juridical Implications of Renouncing Female Vanities (...)
  • 43 M. G. Muzzarelli, Gli inganni delle apparenze. Vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Torino, Sc (...)
  • 44 E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, cit., passim.
  • 45 Si veda per es. il canone XIII del Concilio Lateranense IV (1215): Conciliorum oecumenicorum decret (...)
  • 46 A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., pp. 38‑41.
  • 47 E. Tosi Brandi, Clothing the Female Life, cit., p. 17.
  • 48 U. Longo, L’abito fa il monaco, cit., p. 46.
  • 49 F. Boldrini, Getting Naked for God, cit., passim.
  • 50 S. Boesch Gajano, Un’agiografia per la storia, Roma, Viella, 2020.
  • 51 S. Lorenzini e D. Pellegrino (a cura di), Women’s Agency and Self-Fashioning in Early Modern Tuscan (...)
  • 52 D. Owen Hughes, Le mode femminili e il loro controllo, in G. Duby e M. Perrot (dir.), Storia delle (...)

11Ciò accadde in un contesto europeo di grande cambiamento economico, sociale e politico, in concomitanza del quale si erano diffusi nuovi stili di vita cui corrisposero anche nuovi modi di vestire. In breve, grazie a una maggiore circolazione di beni e alla ripresa dei consumi, nelle principali città europee si delinearono nuovi codici dell’apparenza, in parte specchio del fenomeno della moda, la cui nascita si fa risalire proprio a questo periodo38. Le città rappresentarono il contesto in cui furono esibite sia le novità della moda sia le forme di ascetismo popolare: si tratta di due facce della stessa medaglia. Lo sfoggio di eccessi e vanità, da un lato, e l’esibizione di privazioni e rinuncia, dall’altro, furono ambiti in cui protagoniste, secondo le fonti istituzionali, furono soprattutto le donne. Nell’uno e nell’altro caso esse misero in atto strategie di rappresentazione e comunicazione visiva allo scopo di ottenere visibilità e, in alcuni casi di ambito penitenziale, anche la possibilità di prendere parola in pubblico consapevoli dell’efficacia che il messaggio non verbale degli abiti avrebbe avuto se combinato con eclatanti comportamenti. Ciò consentì loro di guadagnare consenso e popolarità e, conseguentemente, una certa tolleranza da parte delle autorità ecclesiastiche39. Se nel basso Medioevo, lo sfoggio delle vanità femminili faceva parte del gioco delle apparenze e, seppur nel rispetto delle leggi suntuarie40, venne favorito da padri e mariti, l’esibizione della rinuncia degli ornamenti fu motivo di tensioni. In ambito domestico questo comportamento fu osteggiato perché in contrasto con i rituali connessi alle politiche matrimoniali che sancivano le alleanze tra le famiglie41, di vitale importanza per la sopravvivenza delle casate, che basavano la propria onorabilità sulle donne di casa mostrando, tramite queste ultime, simboli e pratiche del potere economico e sociale42. L’ostentazione dei segni di rinuncia era malvista anche dalla Chiesa, soprattutto quando era radicale perché portatrice di istanze individuali difficilmente controllabili e potenzialmente pericolose. Se degli eccessi in ambito laico e del lusso si occupò il legislatore cittadino, con anche il supporto dei frati predicatori che contribuirono a sensibilizzare le coscienze contro sprechi e vanità43, degli abiti delle penitenti dovette occuparsi la Chiesa44. Le autorità ecclesiastiche adottarono differenti e complementari strategie per tentare di arginare l’indipendenza mostrata dai singoli e dai gruppi: ammonendo severamente chi trasgrediva le regole45; imponendo guide spirituali per ricondurre all’ortodossia chi era ai limiti della devianza46; censurando, per esempio nelle agiografie di sante e beate, le condotte più irregolari al fine di selezionare ciò che era opportuno tramandare ai posteri47. Tra le condotte irregolari figuravano anche le scelte vestimentarie perché prodotto e riflesso di quel nuovo habitus attraverso il quale le penitenti intendevano esprimere contestazione e alterità rispetto alla società, esattamente com’era stato fatto in tempi lontani dagli anacoreti e dai padri del deserto, che continuavano a rappresentare un modello48. La negazione delle norme sociali che guidarono le scelte nei modi di vestire delle penitenti implicava la conoscenza di quelle regole e la consapevole volontà di trasgredirle. A differenza della rinuncia maschile, quella femminile era infatti ancora più scandalosa perché, rinunciando agli ornamenti, le donne disonoravano la propria famiglia disconoscendo il proprio ruolo nella società49. Il rifiuto della vanità e, quindi, degli abiti e degli ornamenti lussuosi, è un tema ricorrente nelle leggende delle sante secolari del basso Medioevo, soprattutto di quelle che si erano convertite a una vita penitente dopo aver ascoltato sermoni religiosi che denunciavano la vanità femminile50. Non tutte le penitenti decisero di manifestare la propria conversione violando regole e norme sociali. Un elemento, tuttavia, accomuna le scelte compiute da molte di esse: la modalità con cui le donne agirono in relazione alla scelta del proprio abito, indispensabile intermediario tra loro e il contesto sociale in cui vivevano. Qualcuna agì presentandosi attraverso segni di estrema privazione cui la società attribuiva discredito e marginalità, condizioni che le penitenti desideravano per esasperare la propria mortificazione; altre preferirono la via più moderata. Quest’ultima modalità ha interessato donne che aderirono a una vita di penitenza rinunciando all’ornato superfluo, continuando tuttavia a esibire moderatamente i segni della propria classe sociale. Si tratta in genere di donne penitenti appartenenti ai ceti benestanti, che accettarono anche il matrimonio nonostante la vocazione ascetica, consapevoli dell’importanza delle regole sociali che decisero di anteporre alle istanze ascetiche nel rispetto della propria famiglia. Non potendo che trattare alcuni di questi casi, ne ho selezionati due che ritengo significativi perché attestano due differenti approcci femminili di usare l’oggetto-vestito come agente nel rito di passaggio da uno stato a un altro tramite la svestizione/vestizione e nella trasmissione di un complesso e articolato messaggio. Da questo punto di vista lo studio delle vesti delle penitenti consente di misurare la consapevolezza dello stretto rapporto che le donne ebbero con l’abbigliamento, uno dei pochi ambiti di espressione e identità individuale loro lasciati51. Le donne erano infatti consapevoli che le apparenze contribuivano a compensare la loro mancata partecipazione alla vita pubblica e a quella di relazione52. Prima di esaminare il caso di Umiliana dei Cerchi (1219‑1246) e quello di Chiara da Rimini (ca 1260‑1324/29) può essere utile esaminare brevemente l’abito da penitente-tipo indicato dalle autorità ecclesiastiche attorno alla metà del XIII secolo facendo riferimento alle regole emanate per le Clarisse.

  • 53 S. Gieben, Clarisse, in G. Rocca (a cura di), La sostanza dell’effimero, cit., pp. 354‑357.
  • 54 Ivi, p. 356.
  • 55 Ivi, p. 355.
  • 56 Ibid.
  • 57 Su bende e cuffie si veda: M. G. Muzzarelli, A capo coperto. Storie di veli e di donne, Bologna, Il (...)
  • 58 A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., p. 42 sgg.; M. C. Jacobelli, La regola per le so (...)
  • 59 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., pp. 59‑60.
  • 60 A Firenze i penitenti erano soliti indossare abiti neri: «clamidem nigra ad becchettum». Statuto de (...)
  • 61 A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., pp. 133‑137.

12Quando nel 1247 papa Innocenzo IV approvò la Regola delle sorelle del second’ordine francescano, fondato nel 1211‑1212 da Francesco e Chiara d’Assisi, fu l’occasione per fissare indicazioni precise sull’abito delle Clarisse, che era stato materia di disciplina fin dal 1219 per opera del cardinale Ugolino53. Nella regola composta dalla stessa Chiara e approvata dal papa due giorni prima della sua morte, avvenuta nel 1253, a proposito dell’abbigliamento delle sorelle, la fondatrice concedeva tre tuniche, un mantello e mantellette ponendo l’accento non sui dettagli dei capi di abbigliamento ma sulla qualità degli indumenti «ammonendo, supplicando ed esortando» loro «per amore del santissimo e dilettissimo bambino, avvolto in pannicelli poverelli, posato nel presepe, e della santissima madre sua […] a vestirsi sempre con indumenti vili»54. Le norme elaborate dalle autorità ecclesiastiche, al contrario, ponevano l’accento sui dettagli, tradendo la preoccupazione di delimitare il confine dell’ortodossia religiosa e, quindi, della credibilità della Chiesa stessa, entro il quale le monache erano tenute a stare. Tale confine veniva tracciato stabilendo quantità e qualità di vesti concesse, lunghezza e larghezza delle stesse stabilita sulla base della «convenienza» e della costituzione fisica delle monache, lasciando margini di libertà all’abbadessa, che poteva essere consultata su questa materia55. Sulla base della regola emanata da Innocenzo IV, dunque, possiamo ricavare la soglia di accettazione da parte delle autorità ecclesiastiche della mortificazione da esprimere attraverso gli abiti delle penitenti nel XIII secolo. La definizione di regole precise sull’abbigliamento delle Clarisse costituiva di fatto l’occasione per la Chiesa di offrire un modello di riferimento a tutte le penitenti, anche a chi viveva e operava fuori dai monasteri. Oltre al «cilicio o camicia di tela grezza», ogni sorella poteva disporre di due o più tuniche e di un mantello di «panno vile tanto per il prezzo che per il colore, secondo le diverse consuetudini delle regioni» come stabilito anche dalle regole francescane già esaminate. L’abbigliamento era composto inoltre da una corda come cintura, un eventuale scapolare ma senza cappuccio e «di panno leggero e religioso o di tela grezza». Un elemento distintivo delle sorelle doveva essere il capo coperto «con bende o cuffie del tutto bianche», per le quali si ammoniva non fossero «curiose, in modo tale che la fronte, le guance e il collo siano, come si conviene, coperti. […] Abbiano anche un velo nero steso sul capo, così ampio e lungo, che da ambo le parti scenda fino alle scapole e, dietro, si prolunghi poco oltre il cappuccio della tonaca»56. Non conosciamo le caratteristiche delle bende e delle cuffie «curiose», ma possiamo immaginare che l’estensore della norma avesse in mente le numerose tipologie tessili presenti sul mercato, che, come tutti gli oggetti alla moda, erano per natura desiderabili, qualità che le vesti religiose non dovevano affatto possedere57. Dopo un lungo dibattito, nel 1289 papa Niccolò IV stabilì che tutti i penitenti dovessero vestirsi con il saio grigio usato dai minori ovvero il colore della cenere58. Il primo riferimento a questo colore in uso presso i francescani è contenuto nella narrazione degli ultimi giorni di vita di Francesco (Compilatio Assisiensis 8), quando il santo chiese di procurare un tessuto per una tunica di «panno religioso, qui colori cineris assimiletur», che in altro passo viene definito panno mortuario («pannum morticinum, videlicet cinerei coloris»)59. Nonostante fra i secoli XIII‑XIV il vestito dei penitenti fosse stato ormai stabilito, nelle città italiane, dove il movimento era cresciuto, sono tuttavia attestati differenti tipologie di abiti elaborate secondo la sensibilità dei singoli, delle consuetudini locali e della disponibilità dei tessuti60. Vorrei trattarne attraverso i casi di due penitenti, esempi agiografici di vocazione religiosa vedovile, vissute rispettivamente a Firenze e a Rimini, quando la penitenza femminile nelle città italiane era ancora indipendente e laica61.

  • 62 A. Benvenuti Papi, Cerchi, Umiliana, beata, «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 23, 1979, (...)
  • 63 Sul tema A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., pp. 133‑137.
  • 64 È lo stesso agiografo a definire impropriamente «Tertius Ordo», quello della penitenza a cui appart (...)
  • 65 E. Welch, Women as Patrons and Clients in the Courts of Quattrocento Italy, in L. Panizza (a cura d (...)
  • 66 Vita auctore Vito Cortonesi coaevo, in Acta Sanctorum, vol. 16, Maii IV, Antwerp, Society of Bollan (...)
  • 67 M. Harsch, Florence vêtue de draps de France. L’habillement des Florentins à travers les comptabili (...)
  • 68 E. Tosi Brandi, L’arte del sarto nel Medioevo, cit., p. 192.
  • 69 U. Longo, L’abito fa il monaco, cit., pp. 49‑52.

13Iniziamo in ordine cronologico da Umiliana dei Cerchi, vissuta a Firenze fra il 1219 e il 1246, appartenente a una nobile famiglia, che, una volta sposata, maturò l’intenzione di convertirsi intraprendendo un’intensa attività caritatevole e devozionale, assecondando forse una precedente vocazione, repressa dalle convenzioni sociali che la donna decise di non trasgredire62. Rimasta vedova e trascorso il primo anno di vedovanza rispettando le regole religiose e sociali, decise di lasciare le figlie presso la famiglia del marito e tornare dal padre. Opponendosi fermamente a un nuovo matrimonio, rinunciò alla dote e incominciò la sua vita da penitente. Umiliana divenne presto il modello del nascente associazionismo femminile fiorentino attorno al convento di Santa Croce, che era fiorito anche grazie alla disponibilità dell’apostolato mendicante63. Affiliata impropriamente ai francescani64, cui appartenevano sia il suo padre spirituale, frate Michele degli Alberti, sia il suo agiografo, Vito da Cortona, Umiliana divenne un modello da seguire anche dopo la sua morte, grazie alla promozione del culto favorita dal vescovo in funzione antiereticale e a sostegno di una politica cittadina filoguelfa. Ciò che qui interessa della storia di Umiliana è rappresentato dalle modalità con cui la nobildonna impiegò i suoi capi di abbigliamento in attività caritatevoli durante il matrimonio e prima dello stato vedovile. Durante questo periodo, infatti, grazie al suo rango sociale Umiliana poté disporre di un certo numero di beni, costituiti soprattutto da vesti e tessuti, che decise di elargire facendo costanti e consistenti elemosine com’era uso al tempo, soprattutto da parte di chi, come lei, apparteneva alla nobiltà65. Le donazioni di Umiliana, tuttavia, si pongono fuori dalle regole nel momento in cui essa agisce in autonomia, di nascosto dal marito, donando più di quanto richiesto dalle convenzioni. Ciò è testimoniato dall’agiografo, il quale, sullo sfondo della leggenda, fa emergere sia il ruolo sociale sia quello economico che vesti e tessuti avevano nella società del basso Medioevo. Trascorso il primo mese di matrimonio, infatti, Umiliana iniziò a sentire il peso («erant sibi non ad gaudium, sed ad crucem tantum») degli abiti lussuosi e degli ornamenti, che continuò a indossare e a esibire per rispetto del marito e della famiglia. La riflessione che ne seguì la spinse a liberarsi letteralmente di questo peso dedicandosi a opere misericordiose per espiare il peccato di vanità compiuto per adempiere alle convenzioni sociali del suo rango66. Umiliana donò pertanto ai poveri il lino ricavato dalle lenzuola del suo corredo («linteamina»), le bende, in lino e in seta, che divise «quam more beati Martini», tenendo per sé le porzioni più piccole. Vendette inoltre vestiti vecchi, usati ma anche nuovi suoi e del marito per ricavare denaro da distribuire ai bisognosi. Fu così che i suoi corpetti («diploidi») di seta presero la via del mercato di seconda mano generando ricchezza che Umiliana investiva in opere misericordiose. Tra le tante azioni compiute dalla donna una risulta molto interessante: l’episodio in cui è narrata la riduzione di una veste nuova di panno scarlatto donatale dal marito. Si trattava di una veste di lusso, verosimilmente quella nuziale, confezionata con il tessuto di lana più pregiato del tempo, tinto in una tonalità preziosa e distintivo di nobiltà67. Umiliana ridusse l’abito all’essenziale, scucendo le parti in eccesso poste ai lati e all’orlo finale («restrinxit ex lateribus, et ex parte pedum partem maximam detruncavit») da cui ricavò maniche che vendette ottenendo denaro con cui sfamò i poveri. Le parti in eccesso che Umiliana scucì dal vestito erano costituite dagli inserti triangolari di tessuto (gheroni) che servivano ad ampliare i vestiti sui lati e all’orlo finale per creare volume e strascico68. Si trattava di quegli elementi aggiuntivi e superflui, rispetto ai modelli di abiti più ordinari, che denotavano ricchezza e prestigio sociale ed erano regolati dalle leggi suntuarie per evitare non solo gli sprechi ma anche invasioni di rango. Lo smembramento dei vestiti a favore dei poveri era una pratica molto diffusa fra i penitenti, per frate Francesco, per esempio, era insieme un atto di carità, generosità e di adesione alla povertà, un modo per riaffermare, nel suo caso, la scelta dell’imitatio Christi, una privazione da presentare esteriormente con un abbigliamento mutilo69. Nel caso di Umiliana la mutilazione delle vesti lussuose era stato un compromesso compiuto in autonomia ma entro le regole sociali per non far insospettire nessuno, per non pregiudicare la sua azione caritatevole e il suo progetto di vita ascetica; almeno finché non si presentò l’occasione, con la vedovanza, quando poté definitivamente accipere poenitentia.

  • 70 G. Garampi, Memorie ecclesiastiche appartenenti all’istoria e al culto della beata Chiara da Rimini (...)
  • 71 Rimini, Biblioteca Seminario Vescovile, MS 144: Questa è La vita della beata Chiara da Rimino, la q (...)
  • 72 E. Tosi Brandi, Il Medioevo nelle città italiane, Rimini / Spoleto, CISAM, 2017, pp. 47, 52‑54.
  • 73 E. Tosi Brandi, The Challenges of Chiara da Rimini, cit., passim.
  • 74 Francesco da Rimini, La visione della beata Chiara da Rimini, 1333‑1340, The National Gallery of Lo (...)
  • 75 G. Garampi, Memorie ecclesiastiche, cit., pp. 127‑250, 440‑443.
  • 76 Ivi, p. 134. Con queste vesti la penitente è ritratta in un’altra tavola ora conservata ad Ajaccio, (...)
  • 77 G. Zarri, Consacrazione e conversione tra rito e simbolo, in S. Boesch Gajano e F. Sbardella (a cur (...)
  • 78 Ho discusso la questione della “predicazione” di Chiara da Rimini, da ricollegare più alla cosiddet (...)

14Come Umiliana, anche Chiara da Rimini, nata nel 1260 circa, apparteneva a una nobile famiglia e la sua conversione maturò in ambito famigliare; rimasta vedova per la seconda volta, la donna rinunciò alle vanità cambiando completamente stile di vita che divenne ascetico e di estrema privazione. A questo nuovo comportamento Chiara decise di associare un abito confezionato con un tessuto dallo sfondo chiaro percorso da righe verticali e orizzontali gialle che lo facevano sembrare a quadri o «gratellato», per usare l’espressione impiegata dal suo primo studioso, il cardinale Giuseppe Garampi, che nel XVIII secolo pubblicò il dossier utilizzato per sostenere la canonizzazione della penitente70. La Vita di Chiara da Rimini è stata tramandata da un manoscritto in volgare del XV secolo71, verosimilmente esemplato su un altro testo latino, perduto, scritto dopo la morte della penitente avvenuta fra il 1324 e il 1329. La leggenda agiografica della beata attesta comportamenti estremi e ai limiti della devianza eretica praticati dalla donna, verosimilmente tollerati dalla Chiesa riminese grazie alla protezione dei Malatesta, signori di Rimini. Da poco affiliati al partito guelfo, con un ruolo di primo piano nella politica regionale, tra Due e Trecento i Malatesta avevano mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti della politica papale e delle eresie diffusesi in città per non perdere il consenso dei riminesi che tolleravano queste ultime in funzione antipapale72. In questo contesto Chiara potrebbe avere avuto la protezione delle donne di casa Malatesta e di altre a queste affiliate, vale a dire di una rete sociale e familiare di cui anche la penitente poteva aver fatto parte prima della conversione e che continuò a frequentare con il ruolo di consigliera spirituale. Ciò può spiegare anche la predicazione praticata dalla penitente a Rimini, un’attività severamente proibita alle donne ma tollerata nel suo caso verosimilmente grazie a queste amicizie73. Nonostante vi siano scarse tracce documentarie relative a Chiara, è opinione di chi scrive ritenere che per merito di questa rete femminile siano state commissionate e tramandate le più antiche e autentiche testimonianze illustrate che documentano il suo abito religioso. Ciò, nonostante la censura delle autorità ecclesiastiche che, nel commissionare la leggenda — di un anonimo autore stesa sotto il controllo della Chiesa — omisero uno dei tratti più distintivi di Chiara da Rimini, vale a dire il suo abito «gratellato» di giallo. Questo abito è tuttavia attestato dalle fonti iconografiche superstiti che ritraggono la penitente commissionate dai fedeli subito dopo la sua morte (1324/29) a un pittore della cosiddetta Scuola riminese del Trecento. Si tratta di una tavola dipinta, ora alla National Gallery di Londra74, e di affreschi perduti che decoravano la chiesa riminese di Santa Maria degli Angeli fondata da Chiara e distrutta nel XIX secolo, ma documentati da disegni pubblicati nell’opera del Garampi più sopra citata75. Nella Vita l’agiografo riferisce che Chiara era solita indossare un cilicio in ferro («panzera») a diretto contatto con il corpo, che copriva con «panni grigi e bigi» e un mantello bianco76. Nelle fonti ufficiali non c’è traccia dell’abito rigato indossato comunemente da Chiara perché considerato simbolo di ribellione alle convenzioni sociali e contrario alle regole sulle vesti dei penitenti che oramai, come si è visto, erano già state codificate e imposte. Eppure, con questa veste i suoi seguaci vollero ritrarla per distinguerla visivamente dalle sue sorelle, anch’esse raffigurate nelle medesime pitture, con indosso abiti «grigi e bigi». È possibile che Chiara avesse due o più tuniche, com’era consuetudine tra i penitenti, e che quella rigata fosse stata la prima da lei indossata al tempo della conversione. Quella a righe poteva cioè forse essere stata la veste che aveva legittimato il suo passaggio alla nuova vita da penitente, l’abito con cui era avvenuto il suo rito di svestizione/vestizione compiuto in autonomia, senza mediazione liturgica77. Se non fossero state scoperte le fonti iconografiche connesse al culto della beata da Rimini, nessuna traccia della veste irregolare di Chiara sarebbe sopravvissuta e il processo di oblio inaugurato dalle autorità ecclesiastiche nel XIV secolo si sarebbe definitivamente compiuto. Quel vessillo di mortificazione col quale Chiara compì pratiche religiose ai limiti dell’ortodossia, ottenendo attenzione e visibilità, perfino la possibilità di parlare in pubblico78, era un segno talmente distintivo della penitente che le sorelle e i devoti — o forse le devote — ne tennero conto nell’elaborazione e nella trasmissione della sua memoria ponendo attenzione alle caratteristiche dell’abito, il cui materiale e colore, così come la rigatura, sono oggetto del prossimo paragrafo.

3. Colori e segni della rinuncia

  • 79 La tavola, realizzata da Margaritone d’Arezzo, è conservata presso il Museo Diocesano di Cortona.
  • 80 Cfr. F. Bisogni, L’abito di Margherita, in L. Corti e R. Spinelli (a cura di), Margherita da Corton (...)
  • 81 Tra le sorelle raffigurate nelle fonti iconografiche ve ne sono tuttavia due che indossano rispetti (...)
  • 82 F. Bisogni, L’abito di Margherita, cit., pp. 39‑41; L. Gérard-Marchant, Margherita l’irregolare e i (...)
  • 83 Si vedano le voci «taccolino», «taccato» in Vocabolario degli Accademici della Crusca, seconda ediz (...)

15Chiara da Rimini non era stata l’unica a indossare un abito religioso rigato con effetto a quadri. Qualche anno prima di lei, anche Margherita da Cortona, vissuta fra il 1247 circa e il 1297, in qualità di emblema della rinuncia utilizzò una veste simile. Come attestato dalla tavola realizzata alla fine del XIII secolo che ne racconta la storia79, la veste della santa risulta di un tessuto chiaro attraversato da due file di righe nere orizzontali sottili e spesse, intersecate da righe verticali sottili dello stesso colore80. Significativamente Margherita ricevette quest’abito dai francescani durante il periodo in cui i vestiti dei penitenti non erano ancora stati codificati; quel periodo che nei precedenti paragrafi ho definito di sperimentazione, caratterizzato cioè dalla tolleranza delle autorità ecclesiastiche nei confronti dell’uso di vesti non regolari perché non ancora definite. Forse per questo motivo le seguaci di Margherita poterono vestirsi come quest’ultima, a differenza delle prime sorelle di Chiara da Rimini, vissute durante l’epoca di maggiore controllo della Chiesa sulle forme di ascetismo e della formalizzazione delle regole vestimentarie. Come nel caso della penitente riminese, anche le vesti di Margherita e delle sue compagne sono documentate da fonti iconografiche superstiti, parte delle quali tramandate da acquerelli seicenteschi realizzati in occasione del processo di canonizzazione della santa che riproducono perduti affreschi trecenteschi81. Alcuni studiosi che si sono occupati dell’abito religioso quadrettato di Margherita da Cortona hanno avanzato l’ipotesi che il tessuto impiegato nella confezione di questa veste possa identificarsi con il «taccolino», termine col quale nella sua Leggenda viene definita la stoffa di una «tunicella» da essa indossata82. Secondo il Vocabolario degli Accademici della Crusca il «taccolino» corrisponde a un tessuto di canapa molto rozzo e caratterizzato da macchie, «tacche», appunto83.

  • 84 A questo proposito si vedano: Maestro del Biadaiolo, I poveri cacciati da Siena, 1335 circa-1340, F (...)
  • 85 M. Pastoureau, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati, Genova, Il Melan (...)
  • 86 L’ipotesi è stata avanzata per la prima volta da G. Garampi, Memorie ecclesiastiche, cit., p. 141. (...)

16Il tessuto che compare nelle raffigurazioni delle vesti indosso a Chiara e a Margherita è lo stesso impiegato dai pittori del basso Medioevo per raffigurare gli abiti degli indigenti84. In alcune fonti figurative del XIV secolo, infatti, i poveri sono rappresentati con indosso abiti confezionati con tessuti dal fondo chiaro attraversati da righe orizzontali e verticali colorate cui si sovrappongono anche rattoppi, che, come ha dimostrato Michel Pastoureau la percezione medievale assimilava alla riga o alla macchia85. Se i poveri involontari nelle fonti iconografiche sono raffigurati con indosso stracci e abiti logori caratterizzati da tessuti rigati significa che era convenzione tradurre in tal modo l’elemento distintivo dell’indigenza affinché fosse riconoscibile dalla società a cui le pitture si rivolgevano. L’ipotesi di chi scrive è che nel caso degli abiti raffigurati con tessuti chiari attraversati da righe verticali e orizzontali, compresi quelli di Margherita da Cortona e Chiara da Rimini, i pittori abbiano voluto descrivere le stoffe destinate agli imballaggi, in genere realizzati in canapa, come il «taccolino» per esempio, molto ruvidi e grossolani, particolarmente adatti alla mortificazione del corpo86. Se avessimo avuto una raffigurazione coeva di Bona da Pisa, anche il suo abito sarebbe stato verosimilmente rappresentato a righe su sfondo chiaro. I tessuti da imballaggio erano disponibili nelle città mercantili come Pisa e Rimini, per esempio, e si potevano trovare anche gratuitamente se si fosse stati disposti a riciclare quelli logori e rotti, praticando su di essi eventuali rattoppi e adattandoli a vesti rudimentali. Questi tessuti avevano spesso trame colorate che creavano semplici decori a righe — appunto — sia verticali sia orizzontali che potevano avere la funzione di distinguere le mercanzie ivi contenute. È possibile che fino al XIV secolo alcune penitenti scelsero questi tessuti perché alternativi a quelli convenzionali e ormai codificati, perché più vili di quelli vili richiesti dalle regole dell’Ordine francescano, per intenderci; di valore inferiore a quei due denari spesi da Bona per una tela da sacco nuova. Abiti di questo genere costituivano insegne di rinuncia e mortificazione di una radicalità che nel XIV secolo era divenuta non solo irregolare e scomoda ma addirittura ribelle. Questo fu il motivo per cui le autorità ecclesiastiche decisero di cancellarne la memoria, almeno dalle fonti scritte, come nel caso attestato da Chiara da Rimini.

  • 87 Faccio riferimento alla tunica di Francesco pubblicata nel volume G. Rocca (a cura di), La sostanza (...)
  • 88 D. Degl’Innocenti e G. Nigro (a cura di), Un panno medievale dell’azienda pratese di Francesco Dati (...)
  • 89 L. Ghersi, Il panno rigato di Iacopone da Todi: stoffa del diavolo o stoffa di Cristo?, «Jacquard. (...)
  • 90 Paolo Veneziano, Polittico di Santa Chiara con Incoronazione della Vergine, 1350, Venezia, Gallerie (...)
  • 91 F. Bisogni, Per un census delle rappresentazioni di Santa Chiara nella pittura in Emilia, Romagna e (...)
  • 92 Maestro del coro degli Scrovegni, Madonna con Bambino, prima metà del XIV secolo, Ravenna, MAR, Mus (...)
  • 93 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 107.
  • 94 G. Rocca (a cura di), La sostanza dell’effimero, cit., passim.
  • 95 Si veda la voce «bigio» nel glossario in E. Tosi Brandi (a cura di), Quantum valet? I valori della (...)
  • 96 E. Tosi Brandi, Un abito per Osanna. Moda ed estetica della penitenza alla fine del Medioevo, in A. (...)
  • 97 M. Harsch, La teinture et les matières tinctoriales à la fin du Moyen Âge. Florence, Toscane, Médit (...)

17Se esaminiamo le vesti religiose in lana di san Francesco e di santa Chiara che si sono conservate sembrano essere rigate o a quadri. La tunica e il mantello appartenuti a Chiara attualmente conservate a San Damiano (Assisi) appaiono infatti rigati, mentre la tunica di san Francesco conservata presso la Basilica inferiore d’Assisi, a righe e a quadri87. Questi quadri e righe non sono ornamentali ma casuali, rispettivamente dovuti ai rattoppi e all’irregolarità del filato della lana grossolana utilizzata nella tessitura. La tipologia di lana impiegata per la confezione di queste vesti è molto meno pregiata rispetto a quella più raffinata destinata all’abbigliamento del tempo, quando era possibile ottenere un’ampia gamma merceologica di panni di differente valore88. Tali righe diventavano ancora più accentuate se i filati derivavano dal riciclo di vecchie stoffe ed erano stati sottoposti a un nuovo processo di filatura. I filati assumevano titolo o grossezza irregolare dovuta non solo alla loro differente origine di reimpiego, ma anche dalla necessità del filatore di irrobustire, unendo più capi, il fragile filo usato. Questa combinazione di filati, una volta tessuti, creava un effetto rigato imprevedibile sia in termini di spessore sia in termini di tonalità e colore89. Ecco spiegato il motivo per cui dal XIV secolo i pittori ritrassero frequentemente a righe le vesti di santa Chiara, in particolare il suo mantello: uno degli esempi più celebri è offerto dal Polittico di Santa Chiara dipinto attorno al 1350 da Paolo Veneziano90. Nello scomparto superiore della tavola, dov’è narrata la «vestizione di santa Chiara» compiuta da Francesco, il mantello posto sulle spalle della donna ha uno sfondo chiaro percorso da righe orizzontali di vario spessore di nuances che vanno dal nero al grigio91. La rappresentazione più antica a me conosciuta di un mantello così rigato è una tavola datata al secondo decennio del XIV secolo attributa al Maestro del coro degli Scrovegni raffigurante una Madonna con Bambino e santi e quattro storie di Cristo, dove, ai piedi di san Francesco compare una clarissa riconoscibile dal mantello rigato nei toni del nero e del grigio92. Conformi alle regole, rispettivamente di colore grigio e marrone, sono invece la tunica e il mantello che si vedono indosso a Chiara nella tavola dipinta dal Maestro di Santa Chiara conservata presso l’omonima basilica di Assisi, datata al 1283, al tempo di papa Martino IV. Il tema del colore fu uno di quegli elementi dibattuti dall’Ordine francescano fin dal Duecento, finché nel 1354 si stabilì che la cifra del minore non dovesse essere né il colore bianco né il colore nero, ma una tonalità compresa fra questi due poli cromatici93. Ciò non solo perché questi colori codificavano altri Ordini94, ma anche perché il bianco e il nero erano tonalità non «bigie», aggettivo col quale veniva definito non il grigio, quanto piuttosto ciò che era lasciato al naturale; nel caso dei tessuti di lana, quelli non sottoposti a procedimenti industriali capaci di elevare la qualità commerciale dei prodotti95. Il bianco e il nero erano considerate tonalità contrarie al «bigio» perché ricavate da processi di sbiancamento il primo e dalla tintura, la più costosa, il secondo. Da queste operazioni si ottenevano toni più vivaci che, nel caso del bianco si avvicinavano a un avorio tendente al grigio o al marrone96, nel caso del nero a una tonalità che era il risultato della sovrapposizione di più bagni di colore che ne determinavano una gamma cromatica abbastanza varia97.

  • 98 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., p. 58.
  • 99 Ivi, p. 59.
  • 100 Ivi, p. 60.
  • 101 Cfr. C. Treffort, Du mort vêtu à la nudité eschatologique (xiie-xiiie siècle), in C. Connochie-Bour (...)

18Se la lana più grossolana e non tinta tendeva naturalmente alle tonalità del grigio o del marrone come attestato dalle vesti religiose assisiati, che costituiscono le più antiche fonti materiali italiane sopravvissute in questa tipologia tessile, se si esclude il lino, soltanto la canapa, tra i tessuti grezzi e ruvidi disponibili sulle piazze mercantili del tempo, poteva offrire quel colore più chiaro usato dai pittori per raffigurare le vesti degli indigenti e così pure quelle delle due penitenti qui esaminate. La tela da sacco, che era anche nella disponibilità di Francesco come documenta la Vita seconda quando si narra degli ultimi giorni di vita del santo in cui è documentata la volontà di quest’ultimo di essere posto nudo sulla terra nuda «saccina veste deposita»98, si differenziava dalla tunica «de panno religioso, qui colori cineris assimiletur, et est tamquam pannus quem faciunt monachi cistercienses in ultramontanis partibus». La descrizione di questa tunica di panno di lana di colore grigio e religioso, che compare nella Compilatio Assisiensis 899, fu aggiunta dall’autore e non trova riscontri fra le fonti che tramandano la volontà del santo, in un contesto di regolamentazione delle vesti dell’Ordine come più sopra discusso. Nel riferire i contenuti della celebre lettera che Francesco fece scrivere e inviare a Iacopa dei Settesoli, si ricava che il santo chiese alla donna di portare con sé, fra altre cose, un «pannum morticinum» ovvero del colore della morte, pallido come il panno di lana grossolano, privo del colore aggiunto dalla tintura. Secondo le ultime volontà di Francesco, da questo panno i frati avrebbero dovuto realizzare la sua ultima veste, cucendovi sopra una tela di sacco («consuere saccum super ipsam») «in signum et exemplum sanctissime humilitatis et paupertatis»100. Dopo aver dato l’esempio ai suoi fratelli e indicazioni sulla tunica da indossare, come fosse una croce che ricordasse quotidianamente ai fratelli di essere pellegrini di questo mondo, Francesco desiderò essere accompagnato nel suo ultimo viaggio dal simbolo della povertà reale, quella tela da sacco che rappresentava il materiale più vile tra quelli vili disponibili, un tessuto non destinato all’abbigliamento e per questo ritenuto tanto sconveniente perché esempio di totale rinuncia e spregio di sé. Questo abito non fu inventato da Francesco e nemmeno dalle penitenti che vissero prima e dopo di lui, semplicemente fu preso in prestito, copiato dalle persone che non avevano i mezzi per assolvere ai bisogni primari, da quei poveri che chiunque avesse deciso di osservare la povertà volontaria desiderava imitare per rivivere l’esperienza di Cristo e adempiere alla vita evangelica; un non-abito simbolo del rifiuto anche dell’essenziale, che sembrava essere l’unico mediatore possibile con la nudità del corpo101.

4. Conclusioni

  • 102 La teoria sembra essere confermata da un’indagine compiuta su una veste di Francesco conservata pre (...)
  • 103 C. Kovesi Killerby, «Heralds of a Well-Instructed Mind», cit., passim.
  • 104 E. Tosi Brandi, Clothing the Female Life, cit., passim.
  • 105 Sul tema C. Klapisch-Zuber, Women, Family and Ritual, cit.; I. Chabot, «La sposa in nero». La ritua (...)
  • 106 S. Cavallo e T. Storey, Healthy Living in Late Renaissance Italy, Oxford, Oxford Academic, 2013.
  • 107 Ricco di spunti il saggio di S. Galasso, The Threshold of the Marketplace. Women’s Work and Linen M (...)
  • 108 S. Dyer e C. Wigston Smith (a cura di), Material Literacy in 18th-Century Britain: A Nation of Make (...)
  • 109 J. Dalarun, Santa e ribelle, cit., passim.

19Da quanto si ricava dalle fonti esaminate, Francesco dovette essere uno degli ultimi penitenti a vestire come desiderò, avvicinandosi il più possibile all’imitatio Christi ovvero ai poveri involontari del suo tempo. Ciò almeno finché non ebbe la responsabilità dei confratelli e dovette allora decidere di essere meno duro con sé stesso, consapevole di dover dare l’esempio rimanendo entro le regole della Chiesa102. La ricerca continua dello spregio di sé rimase comunque una costante nello stile di vita adottato da tutti i penitenti anche in seguito all’approvazione delle regole, in particolare dalle donne. Fra i secoli XIII‑XIV sono da ricondurre a queste ultime le vie più radicali dell’ascetismo espresso anche attraverso il linguaggio non verbale degli abiti; un linguaggio che esse stesse conoscevano molto bene. Di questo sistema di segni esse stesse erano vittime consapevoli, come attestato dalle leggi suntuarie e dalle prime proteste femminili pervenute alla fine del Medioevo che criticavano queste legislazioni, ammettendo che vesti e ornamenti erano tra i pochi mezzi attraverso i quali le donne potevano emergere socialmente103. A causa di questo legame le donne potevano essere state maggiormente consce degli uomini del potente messaggio che le vesti erano in grado di veicolare perché ne conoscevano non solo i valori economici e sociali, ma anche quelli simbolici e culturali104. Durante la loro vita le donne erano infatti sottoposte almeno a una vestizione, quella nuziale e, se sopravvivevano al marito, anche a una seconda, quella vedovile. Entrambe le vestizioni erano soggette a riti simbolici e sociali nei quali fogge, colori e ornamenti erano accuratamente selezionati e altrettanto disciplinati105. Grazie a queste due fasi di cruciale importanza sociale, cui le donne venivano adeguatamente educate e preparate, scaturisce la loro confidenza anche con tessili di modesto valore economico ma di elevato valore simbolico, come per esempio le tele di lino («pannilini»), emblema di reputazione famigliare, protagoniste di nozze, nascita e morte, ma anche della più intima sfera di igiene personale106. Ciò forse spiega anche il ruolo delle donne nella gestione della biancheria e dell’abbigliamento in ambito domestico107 e i margini di libertà di cui potevano vantare in questo campo, come è documentato dal caso di Umiliana da Pisa, che agì sulle vesti e attraverso le vesti per raggiungere i propri obiettivi. Senza la conoscenza e la consapevolezza femminile dei potenti messaggi di questo mondo materiale fatto di tessili e di vestiti108 non conosceremmo le caratteristiche della veste da penitente di Chiara da Rimini, le cui tracce visive si sono conservate grazie alla trasmissione del suo culto mediato dalle devote che vollero consegnare la vera immagine della loro beata. Senza una sconveniente veste irregolare, anzi, ribelle, che accompagnò i suoi gesti, le azioni di Chiara messe in luce da Jacques Dalarun109 risulterebbero meno vivaci e comprensibili.

20Fogge, colori e segni veicolati dalle vesti erano in grado di contraddistinguere lo status delle persone determinando l’inclusione o l’esclusione dalla società. Qualche penitente scelse di stare ai margini isolandosi per affermare la propria rinuncia al mondo, altre scelsero di stare nel secolo rendendosi tuttavia ai margini, «pellegrine», attraverso un habitus che segnalava non solo rinuncia ma contestazione, che provocava immediata esclusione, perfino derisione. Le vesti religiose costituiscono la diretta connessione fra la realtà interiore e spirituale e il mondo, il mezzo per tutti i penitenti di comunicare alla società del loro tempo il loro messaggio, costituito da segni e gesti espressi con il linguaggio comunicativo più immediato e più facilmente comprensibile. Questa è la ragione per la quale la Chiesa dovette intervenire sugli abiti religiosi che intendevano rappresentare la vilitas e la paupertas, in particolare su quelli indossati dai movimenti laicali, in particolare femminili. Le penitenti più radicali vennero infatti poste subito sotto il controllo dell’autorità ecclesiastica, che si occupò di rivestire i loro corpi e tramandare testimonianze sottacendo ciò che era ritenuto sconveniente. Le tracce dei loro abiti religiosi emergono tuttavia tramite la cultura materiale tramandata dalla devozione popolare, spesso femminile, che ha continuato a circolare in forma scritta, visiva e tangibile. Reliquie tessili, immagini devozionali, descrizioni di oggetti-agenti, spesso vesti, non cancellati dalle testimonianze di queste sante perché intimamente connessi alle loro storie, unitamente alle fonti più istituzionali, ci parlano di processi identitari sottesi alla scelta di colori e segni, di tessuti ordinari e grossolani dimenticati dalla storiografia, ci aiutano a comprendere lo stretto rapporto tra le donne e l’abbigliamento da una prospettiva meno dipendente dalle convenzioni sociali e dagli uomini nella costruzione della loro identità.

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Bibliographie

Fonti

Fonti inedite

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Notes

1 La bibliografia sul tema è molto vasta, si segnalano alcuni dei principali studi: G. G. Meesserman, Dossier de l’Ordre de la Pénitence au xiiie siècle, Friburg, Éditions universitaires, 1961; Id., «Ordo fraternitatis». Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, Roma, Herder, coll. «Italia sacra. Studi e documenti di storia ecclesiastica, 24‑26», 1977; G. Casagrande, Il movimento penitenziale nel Medioevo, «Benedectina», vol. 27, 1980, pp. 695‑709; Ead., Il movimento penitenziale nei secoli del Basso Medioevo, «Benedectina», vol. 30, 1983, pp. 217‑233; Ead., Il movimento penitenziale francescano nel dibattito storiografico degli ultimi 25 anni, in L. Temperini (a cura di), Santi e santità nel movimento penitenziale francescano dal Duecento al Cinquecento, Atti del Convegno di Studi Francescani (Assisi, 11‑12 febbraio 1998), Roma, Franciscanum, 1998, pp. 351‑389; A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma, Herder, 1990; A. Bartolomei Romagnoli, I movimenti penitenziali alla fine del medioevo come problema storiografico, in «Vita regularis sine regula» in Italia tra istituzioni ecclesiastiche e società civile. Verso un primo censimento, Atti del XVII Convegno di Studio dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa (Roma, 9‑10 dicembre 2015), «Chiesa e storia», vol. 6‑7, 2016‑2017, pp. 23‑56.

2 U. Longo, L’abito fa il monaco. Il rapporto tra abbigliamento e identità religiosa per monaci ed eremiti nel Medioevo, in S. Boesch Gajano e F. Sbardella (a cura di), Vestizioni. Codici normativi e pratiche religiose, Roma, Viella, 2021, pp. 39‑54.

3 E. Tosi Brandi, Moda e strategie dell’apparire nei secoli XIII‑XVI, in I. Ait, D. Lombardi e A. Modigliani (a cura di), Forme e linguaggi dell’apparire nella Roma rinascimentale, Roma, Roma nel Rinascimento, 2022, pp. 75‑95; Ead., Clothing the Female Life. Self-Fashioning and Memory Making at the Malatesta Network of Women Between the Fourteenth and the Fifteenth Centuries, «Renaissance Studies», vol. 38, 2024, pp. 121.

4 E. Tosi Brandi, The Challenges of Chiara da Rimini: From Deeds to Words, in M. G. Muzzarelli (a cura di), From Words to Deeds: The Effectiveness of Preaching in the Late Middle Ages, Turnhout, Brepols, 2014, pp. 99‑116.

5 E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, in G. Rocca (a cura di), La sostanza dell’effimero. Gli abiti degli Ordini religiosi in Occidente, catalogo della mostra (Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, 18 gennaio-31 marzo 2000), Roma, Edizioni Paoline, 2000, pp. 97‑101.

6 Sul tema si vedano, per esempio, i seguenti studi: A. Appadurai (a cura di), The Social Life of Things: Commodities in Cultural Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 1986; M. O’Malley e E. Welch (a cura di), The Material Renaissance. Studies in Design and Material Culture, Manchester, Manchester University Press, 2007; L. Bourgeois, D. Alexandre-Bidon, L. Feller e P. Mane (a cura di), La culture matérielle : un objet en question. Anthropologie, archéologie et histoire, Actes du colloque international de Caen (9‑10 ottobre 2015), Caen, Presses universitaires, 2018; L. K. French, Household Goods and Good Household in Late Medieval London: Consumption and Domesticity After the Plague, Philadelphia, De Gruyter, 2021; A. Gerritsen e G. Riello (a cura di), Writing Material Culture History, London / New York, Bloomsbury Publishing, 2021; J. V. Garcia Marsilla (a cura di), Espacios de vida: casa, hogar y cultura material en la Europa medieval, Valencia, Universitat de Valéncia, 2022.

7 M. C. Jacobelli, La regola per le sorores de poenitentia nel codice 71 della biblioteca di Cortona, Cortona, Calosci, 1992. L’Autrice pubblica un documento elaborato attorno al 1279 e attribuito a Niccolò III che rende conto della genesi della cultura penitenziale italiana, di cui le vesti fanno parte.

8 Sul tema, con la discussione storiografica e relativa bibliografia, cfr. P. Evangelisti, «Vide igitur, quid sentire debeas de receptione pecuniae». Il denaro francescano tra norma ed interpretazione (1223‑1390), Spoleto, CISAM, 2020. Sul vocabolario economico nei testi cristiani di argomento teologico e teologico-morale relativo alla povertà volontaria, fondamentale è G. Todeschini, Quantum valet? Alle origini di un’economia della povertà, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», no 98, 1992, pp. 173‑234.

9 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 85.

10 Ibid.; A. Marini, Il non-abito religioso di Francesco d’Assisi, in M. Giorda, A. Marini e F. Sbardella, Prospettive Cristiane, vol. 2: Abiti monastici, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2007, p. 51.

11 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 84.

12 A. Clareno, Expositio super Regulam Fratrum Minorum, a cura di G. Boccali, Assisi, Porziuncola, 1995, p. 573.

13 G. G. Meersseman, «Ordo fraternitatis», cit., I, pp. 394‑401.

14 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., pp. 45‑46.

15 Vita del povero et humile servo de Dio Francesco, a cura di M. Bigarini, Assisi, Porziuncola, 1985, pp. 85‑86.

16 A. Clareno, Expositio, cit., p. 573.

17 R. Michetti, Tommaso da Celano e il paradosso della minoritas. La Vita beati Francisci di Tommaso da Celano, Roma, Nuovi Studi Storici, 2004.

18 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., p. 42.

19 Ibid.

20 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., pp. 44‑45.

21 Anche i primi seguaci vestono abiti secolari considerati rozzi: ivi, pp. 56‑57.

22 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 213.

23 Ivi, p. 72.

24 Ivi, p. 85.

25 Ivi, pp. 281‑282.

26 Ivi, p. 117.

27 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., p. 34.

28 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., pp. 107‑108.

29 Ivi, p. 108.

30 E. Massa, Bona da Pisa, santa, «Dizionario Biografico degli Italiani», Roma, Treccani, vol. 11, 1969, pp. 426‑427 (<www.treccani.it/enciclopedia/bona-da-pisa-santa_(Dizionario-Biografico)>) (ultimo accesso marzo 2024); G. Zaccagnini, La tradizione agiografica medievale di santa Bona da Pisa, Pisa, ETS, 2004; A. Benvenuti Papi, Una santa sul “camino”: Bona da Pisa, in P. Caucci von Saucken (a cura di), Santiago e l’Italia, Atti del Convegno internazionale di studi (Perugia, 23‑26 maggio 2002), Pomigliano d’Arco, Edizioni Compostellane, 2005, pp. 123‑134; Vita per supparis aevi scriptorem…, in Acta Sanctorum, vol. 19, Maii VII, Antwerp, Society of Bollandists, 1688, pp. 146 sgg. (<www.proquest.com/books/vita-per-supparis-aevi-scriptorem/docview/2684137161/se-2>).

31 Dal 1962 Bona è patrona delle assistenti di volo italiane (E. Massa, Bona da Pisa, cit.).

32 Sul cappuccio e sui modi di indossarlo nel basso Medioevo sta per uscire uno studio relativo al cappuccio di Dante a cura di Elisa Tosi Brandi e Thessy Schoenholzer Nichols.

33 E. Massa, Bona da Pisa, cit., passim.

34 Con questa descrizione si intende il filo di seta prodotto dal baco.

35 Vita per supparis aevi scriptorem…, cit., p. 148 (traduzione mia).

36 Si rinvia alla nota n. 1.

37 E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, cit., passim.

38 M. G. Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia, Bologna, Il Mulino, 2011; E. Tosi Brandi, L’arte del sarto nel Medioevo. Quando la moda diventa un mestiere, Bologna, Il Mulino, 2017; D. Alexandre-Bidon, N. Gauffre Fayolle, M. Perrine e M. Wilmart (a cura di), Le vêtement au Moyen Âge. De l’atelier à la garde-robe, Turnhout, Brepols, 2021.

39 E. Tosi Brandi, The Challenges of Chiara da Rimini, cit., passim.

40 M. G. Muzzarelli e A. Campanini (a cura di), Disciplinare il lusso. La legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed età moderna, Roma, Carocci, 2003; G. Riello e U. Rublack, The Right to Dress. Sumptuary Laws in a Global Perspective, c. 1200–1800, Cambridge, Cambridge University Press, 2019.

41 C. Klapisch-Zuber, Women, Family and Ritual in Renaissance Italy, Chicago, Chicago University Press, 1987.

42 F. Boldrini, Getting Naked for God: Social and Juridical Implications of Renouncing Female Vanities in the Vitae of Mystics of Medieval Italy, in G. Dabiri (a cura di), Narrating Power and Authority in Late Antique and Medieval Hagiography from East to West, Turnhout, Brepols, 2021, pp. 1‑15.

43 M. G. Muzzarelli, Gli inganni delle apparenze. Vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Torino, Scriptorium, 1996, pp. 155‑210; Ead., Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005.

44 E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, cit., passim.

45 Si veda per es. il canone XIII del Concilio Lateranense IV (1215): Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo, Basilea, Herder, 1962, p. 218.

46 A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., pp. 38‑41.

47 E. Tosi Brandi, Clothing the Female Life, cit., p. 17.

48 U. Longo, L’abito fa il monaco, cit., p. 46.

49 F. Boldrini, Getting Naked for God, cit., passim.

50 S. Boesch Gajano, Un’agiografia per la storia, Roma, Viella, 2020.

51 S. Lorenzini e D. Pellegrino (a cura di), Women’s Agency and Self-Fashioning in Early Modern Tuscany, Roma, Viella, 2022.

52 D. Owen Hughes, Le mode femminili e il loro controllo, in G. Duby e M. Perrot (dir.), Storia delle donne, vol. 2: Il Medioevo, C. Klapisch-Zuber (a cura di), Roma / Bari, Laterza, 1990; C. Kovesi Killerby, «Heralds of a Well-Instructed Mind»: Nicolosa Sanuti’s Defence of Women and Their Clothes, «Renaissance Studies», vol. 13, no 3, 1999, pp. 255‑282.

53 S. Gieben, Clarisse, in G. Rocca (a cura di), La sostanza dell’effimero, cit., pp. 354‑357.

54 Ivi, p. 356.

55 Ivi, p. 355.

56 Ibid.

57 Su bende e cuffie si veda: M. G. Muzzarelli, A capo coperto. Storie di veli e di donne, Bologna, Il Mulino, 2016.

58 A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., p. 42 sgg.; M. C. Jacobelli, La regola per le sorores de poenitentia, cit., pp. 63‑65.

59 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., pp. 59‑60.

60 A Firenze i penitenti erano soliti indossare abiti neri: «clamidem nigra ad becchettum». Statuto del Podestà dell’anno 1325, vol. 2 di Statuti della Repubblica fiorentina editi a cura di Romolo Caggese. Nuova edizione, G. Pinto, F. Salvestrini e A. Zorzi (a cura di), Firenze, Olschki, 1999, «Quod nullus deferat habitum pinçocherorum nisi foret de illis» (rub. X, libro V).

61 A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., pp. 133‑137.

62 A. Benvenuti Papi, Cerchi, Umiliana, beata, «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 23, 1979, <https://www.treccani.it/enciclopedia/cerchi-umiliana-beata_(Dizionario-Biografico)> (ultimo accesso marzo 2024).

63 Sul tema A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae», cit., pp. 133‑137.

64 È lo stesso agiografo a definire impropriamente «Tertius Ordo», quello della penitenza a cui appartenne Umiliana, in un’epoca in cui la Regola del Terz’ordine francescano non era ancora stata approvata (1289): A. Benvenuti Papi, Cerchi, Umiliana, beata, cit.; M. C. Storini, Umiliana e il suo biografo. Costruzione di un’agiografia femminile fra XIII e XIV secolo, «Annali d’italianistica», vol. 13: Women Mystic Writers, 1995, pp. 19‑31.

65 E. Welch, Women as Patrons and Clients in the Courts of Quattrocento Italy, in L. Panizza (a cura di), Woman in Italian Renaissance. Culture and Society, New York, Routledge, 2000, pp. 18‑34.

66 Vita auctore Vito Cortonesi coaevo, in Acta Sanctorum, vol. 16, Maii IV, Antwerp, Society of Bollandists, 1685, pp. 387‑401.

67 M. Harsch, Florence vêtue de draps de France. L’habillement des Florentins à travers les comptabiliés domestiques de la fin du xiiie siècle, in E. Tosi Brandi (a cura di), Valore e valori della moda: produzione, consumo e circolazione dell’abbigliamento fra XIII e XIV secolo, «Reti Medievali Rivista», vol. 24, no 1, 2023, pp. 479‑503.

68 E. Tosi Brandi, L’arte del sarto nel Medioevo, cit., p. 192.

69 U. Longo, L’abito fa il monaco, cit., pp. 49‑52.

70 G. Garampi, Memorie ecclesiastiche appartenenti all’istoria e al culto della beata Chiara da Rimini raccolte dal conte Giuseppe Garampi canonico della Basilica Vaticana e prefetto dell’Archivio Segreto Apostolico consacrate alla Santità di Nostro Signore Benedetto XIV, Roma, Niccolò e Marco Paglierini, 1755. Recentemente Jacques Dalarun ha dedicato alcune monografie alla beata: J. Dalarun, Lapsus linguae. La légende de Claire de Rimini, Spoleto, CISAM, 1994; Id., Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Roma, Laterza, 2000; J. Dalarun, S. L. Field e V. Cappozzo (a cura di), A Female Apostle in Medieval Italy: The Life of Clare of Rimini, Philadelphia, University of Pennsylvania, 2022.

71 Rimini, Biblioteca Seminario Vescovile, MS 144: Questa è La vita della beata Chiara da Rimino, la quale fo exemplo a tucte le donne vane, 29 ff., XV secolo.

72 E. Tosi Brandi, Il Medioevo nelle città italiane, Rimini / Spoleto, CISAM, 2017, pp. 47, 52‑54.

73 E. Tosi Brandi, The Challenges of Chiara da Rimini, cit., passim.

74 Francesco da Rimini, La visione della beata Chiara da Rimini, 1333‑1340, The National Gallery of London, <www.nationalgalleryimages.co.uk/asset/3518/> (ultimo accesso marzo 2024).

75 G. Garampi, Memorie ecclesiastiche, cit., pp. 127‑250, 440‑443.

76 Ivi, p. 134. Con queste vesti la penitente è ritratta in un’altra tavola ora conservata ad Ajaccio, al Musée Fesch, attribuita a Francesco da Rimini come quella conservata a Londra. Sulle fonti iconografiche dedicate alla beata Chiara fra Medioevo ed Età moderna, si veda E. Tosi Brandi, La mortificazione segnata dall’abito. Note per un’estetica della penitenza femminile nei secoli XIII‑XVI, in A. Cagnolati (a cura di), Tra negazione e soggettività. Per una rilettura del corpo femminile nella storia dell’educazione, Milano, Guerini, 2007, pp. 71‑87.

77 G. Zarri, Consacrazione e conversione tra rito e simbolo, in S. Boesch Gajano e F. Sbardella (a cura di), Vestizioni, cit., pp. 13‑36.

78 Ho discusso la questione della “predicazione” di Chiara da Rimini, da ricollegare più alla cosiddetta “sacra conversazione” in E. Tosi Brandi, The Challenges of Chiara da Rimini, cit., passim.

79 La tavola, realizzata da Margaritone d’Arezzo, è conservata presso il Museo Diocesano di Cortona.

80 Cfr. F. Bisogni, L’abito di Margherita, in L. Corti e R. Spinelli (a cura di), Margherita da Cortona. Una storia emblematica di devozione narrata per testi e immagini, Milano, Electa, 1998, pp. 33‑43.

81 Tra le sorelle raffigurate nelle fonti iconografiche ve ne sono tuttavia due che indossano rispettivamente una tunica chiara ed una tunica grigia, a dimostrazione della varietà degli abiti dei penitenti. Cfr. J. Cannon e A. Vauchez, Margherita da Cortona e i Lorenzetti, Roma, Città Nuova, 2000.

82 F. Bisogni, L’abito di Margherita, cit., pp. 39‑41; L. Gérard-Marchant, Margherita l’irregolare e il “taccolino”, in L. Corti e R. Spinelli, Margherita da Cortona, cit., pp. 44‑46.

83 Si vedano le voci «taccolino», «taccato» in Vocabolario degli Accademici della Crusca, seconda edizione, 1623, <http://www.lessicografia.it/pagina.jsp?ediz=2&vol=0&pag=860&tipo=1> (ultimo accesso marzo 2024).

84 A questo proposito si vedano: Maestro del Biadaiolo, I poveri cacciati da Siena, 1335 circa-1340, Firenze, Biblioteca Laurenziana; Miniatore senese, La Vergine dona il pane ai poveri, in Meditationes Vitae Christi, XIV sec., Parigi, Bibliothèque nationale de France, it. 115, c. 8v.

85 M. Pastoureau, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati, Genova, Il Melangolo, 1993, p. 98, nota 7.

86 L’ipotesi è stata avanzata per la prima volta da G. Garampi, Memorie ecclesiastiche, cit., p. 141. Cfr. L. Gérard-Marchant, Margherita l’irregolare, cit., p. 46, n. 12.

87 Faccio riferimento alla tunica di Francesco pubblicata nel volume G. Rocca (a cura di), La sostanza dell’effimero, cit. p. 319.

88 D. Degl’Innocenti e G. Nigro (a cura di), Un panno medievale dell’azienda pratese di Francesco Datini. Studio e ricostruzione sperimentale, Firenze, Firenze University Press, 2021.

89 L. Ghersi, Il panno rigato di Iacopone da Todi: stoffa del diavolo o stoffa di Cristo?, «Jacquard. Pagine di cultura tessile», no 78, 2016, pp. 18‑31.

90 Paolo Veneziano, Polittico di Santa Chiara con Incoronazione della Vergine, 1350, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

91 F. Bisogni, Per un census delle rappresentazioni di Santa Chiara nella pittura in Emilia, Romagna e Veneto sino alla fine del Quattrocento, in R. Rusconi (a cura di), Movimento religioso femminile e Francescanesimo nel XIII secolo, Assisi, Porziuncola, 1980, pp. 131‑165.

92 Maestro del coro degli Scrovegni, Madonna con Bambino, prima metà del XIV secolo, Ravenna, MAR, Museo d’Arte della città di Ravenna.

93 P. Evangelisti, «Vide igitur», cit., p. 107.

94 G. Rocca (a cura di), La sostanza dell’effimero, cit., passim.

95 Si veda la voce «bigio» nel glossario in E. Tosi Brandi (a cura di), Quantum valet? I valori della moda nei secoli XIII‑XIV, Roma, Viella, in corso di pubblicazione.

96 E. Tosi Brandi, Un abito per Osanna. Moda ed estetica della penitenza alla fine del Medioevo, in A. Ghirardi e R. Golinelli Berto (a cura di), In gloria 1515‑2015, Osanna Andreasi da Mantova, Atti del convegno (Mantova, 18‑19 giugno 2015), Mantova, Casandreasi, 2016, pp. 171‑182.

97 M. Harsch, La teinture et les matières tinctoriales à la fin du Moyen Âge. Florence, Toscane, Méditerranée, Roma, Viella, 2024, pp. 76‑77, 85‑96, in part. 94.

98 A. Marini, Il non-abito religioso, cit., p. 58.

99 Ivi, p. 59.

100 Ivi, p. 60.

101 Cfr. C. Treffort, Du mort vêtu à la nudité eschatologique (xiie-xiiie siècle), in C. Connochie-Bourgne (a cura di), Le nu et le vêtu au Moyen Âge (xiiexiiie siècle), Aix-en-Provence, Presses universitaires de Provence, 2001, pp. 351‑363.

102 La teoria sembra essere confermata da un’indagine compiuta su una veste di Francesco conservata presso la Basilica di Santa Chiara, ad Assisi, sulla quale sarebbe stato cucito un ritaglio del pallio col quale il vescovo di Assisi coprì il corpo nudo del santo durante la sua svestizione (M. Giorgi, Tailoring as a Narrative Language, Fabrics and Revelation of the Sacred. Saint Francis of Assisi Dressed in a Cross, the Case of the First Robe of Saint Francis of Assisi and the Mantle of Bishop Guido, senza editore, febbraio 2024, <www.researchgate.net/publication/378304243_Tailoring[…]> (ultimo accesso marzo 2024).

103 C. Kovesi Killerby, «Heralds of a Well-Instructed Mind», cit., passim.

104 E. Tosi Brandi, Clothing the Female Life, cit., passim.

105 Sul tema C. Klapisch-Zuber, Women, Family and Ritual, cit.; I. Chabot, «La sposa in nero». La ritualizzazione del lutto delle vedove fiorentine (secoli XIV‑XV), «Quaderni Storici», vol. 29, no 86 (2), 1994, pp. 421‑462.

106 S. Cavallo e T. Storey, Healthy Living in Late Renaissance Italy, Oxford, Oxford Academic, 2013.

107 Ricco di spunti il saggio di S. Galasso, The Threshold of the Marketplace. Women’s Work and Linen Manufacturing in 15th and 16th-Century Florence, «Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge», vol. 135, no 1, 2023, <https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/mefrm.11714> (ultimo accesso marzo 2024).

108 S. Dyer e C. Wigston Smith (a cura di), Material Literacy in 18th-Century Britain: A Nation of Makers, London, Bloomsbury Publishing, 2020.

109 J. Dalarun, Santa e ribelle, cit., passim.

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Pour citer cet article

Référence électronique

Elisa Tosi Brandi, « La rappresentazione di vilitas e paupertas. Un’analisi dall’abbigliamento di alcune penitenti italiane dei secoli XII‑XIV »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 39 | 2024, mis en ligne le , consulté le 07 novembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/14952 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/12du5

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