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Le conseguenze della guerra: traumi e mutilazioni

L’esperienza bellica e il corpo invaso: i mutilati di guerra italiani fra letteratura medica, narrativa e autobiografia

L’expérience de la guerre et le corps envahi : les mutilés de guerre italiens entre littérature médicale et veine autobiographique
War Experience and the Invaded Body. The Representation of Mutilated Italian Soldiers in Medical Literature, Fiction and Autobiography
Ugo Pavan Dalla Torre

Résumés

Partant de l’analyse de la littérature scientifique et sanitaire publiée pendant la Grande Guerre, l’article se propose d’étudier la manière dont les mutilés percevaient leur corps et leur condition d’« handicapé » ainsi que le fait de vivre avec des appareils orthopédiques, qui faisaient désormais partie intégrante de leur corps. Dans cette étude sont examinés les écrits de certains mutilés — Carlo Delcroix et Giovanni Mira — ainsi que le journal de l’Association nationale des mutilés et des invalides de guerre (Anmig), conçu comme lieu de rencontre des mémoires collectives. On y suit le fil conducteur de la mémoire de guerre pour observer les décennies suivantes, lorsque les guerres auxquelles l’Italie a participé ont fait de nouveaux invalides, principalement à cause de la maladie : la tuberculose a constitué elle aussi une « invasion » du corps des soldats. Après la fin de la Seconde Guerre mondiale, les vicissitudes des mutilés se sont donc poursuivies, mais sous des formes différentes et avec d’autres narrations. Cette contribution entend identifier quelques propositions de travail sur cet aspect sur lequel l’historiographie a moins porté son attention.

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Texte intégral

1. Alcune riflessioni preliminari

  • 1 Si vedano ad esempio, A. Cortellessa, Fra le parentesi della storia, in Id. (a cura di), Le notti c (...)
  • 2 Sulla ferita del poeta si veda M. Rippa Bonati e E. Midena, L’occhio di D’Annunzio. Postumi di un t (...)
  • 3 Ad esempio nella poesia Veglia: «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno massacrato / co (...)

1I poeti e più in generale i letterati, sia quelli che presero parte attivamente al conflitto sia quelli che si trovarono ad assistervi, percepirono nella Grande guerra una dimensione esistenziale del tutto nuova. La storiografia e la critica letteraria hanno sottolineato come il primo conflitto mondiale costituì una netta discontinuità con il passato, anche con il recente passato culturale della Belle Époque1. Interessante, in questo quadro di nuova consapevolezza esistenziale, l’emergere di una riflessione sul tema del corpo e, più in generale, una presenza persistente del rapporto con il corpo, segnatamente con il corpo ferito, mutilato, reso in parte altro da ciò che era in precedenza, in particolare prima dell’esperienza della guerra. Esemplificativo in questo senso il D’Annunzio del Notturno. L’ opera era stata composta dal poeta durante un periodo di forzata immobilità al buio, poiché le conseguenze di una ferita, subita a seguito di un ammaraggio, avevano portato alla perdita dell’occhio destro2. Il poeta avrebbe portato il segno di quella ferita per tutto il resto della sua vita, soffrendo di fotofobia, condizione che gli consentì di iscriversi alla sezione di Brescia dell’Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra (Anmig). Il tema del corpo e la condizione di invalidità appaiono forse filtrati nella narrazione dannunziana, ma altri autori misero in evidenza questo aspetto con maggiore realismo: il rimando a Ungaretti è certamente immediato3. Ma altrettanto rilevante è l’esperienza bellica di Clemente Rebora che, richiamato alle armi, sperimentò sul suo corpo l’esperienza del trauma fisico. In una sua poesia, intitolata Viatico, Rebora fissava con grande lucidità l’esperienza del corpo devastato dai combattimenti. Colpisce in particolare il contrasto fra il soldato ferito e i suoi compagni «interi», a loro volta caduti per garantire la salvezza di qualcuno che intero non era più:

  • 4 C. Rebora, Viatico, in A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba, cit., p. 26 (...)

O ferito laggiù nel valloncello
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
[…]
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe
4

2L’invalidità e la mutilazione di guerra furono uno degli aspetti più traumatizzanti e significativi dell’esperienza di questo conflitto, rappresentandone, al contempo, una delle più importanti eredità a livello medico, sociale, culturale. In questo saggio verrà indagata la dimensione corporea, analizzando sia il punto di vista di coloro che, da medici o da organizzatori dell’assistenza ai feriti, si trovarono a doversi confrontare con i corpi dei mutilati, per curarli e per riportarli ad una condizione funzionale compatibile con un reinserimento nella vita civile; sia quello di coloro che, a causa della partecipazione al conflitto, riportarono ferite, divennero permanentemente invalidi e scelsero di narrare la loro esperienza. Si cercherà inoltre di comprendere se e in che modo il ‘corpo invaso’ sia stato posto al centro di una riflessione letteraria: dapprima verrà analizzato lo sviluppo di una letteratura medica che ebbe come centro il corpo degli invalidi di guerra, divenuto nel corso del conflitto oggetto privilegiato di cura e di studio scientifico; successivamente, si studieranno gli scritti dei mutilati di guerra, sia a livello collettivo — analizzando ad esempio gli scritti pubblicati dalle associazioni sotto forma di manifesti, opuscoli, articoli di giornale — sia a livello individuale. Riguardo quest’ultimo aspetto, come già accennato, gli esempi utili sarebbero davvero molti. In questa sede si è scelto di esaminare due casi significativi, anche perché legati alla più importante organizzazione combattentistica fra reduci mutilati: quelli di Carlo Delcroix e di Giovanni Mira, quest’ultimo forse meno noto, ma non meno rilevante dal punto di vista letterario.

  • 5 La ferita del volto privava i soldati dei loro lineamenti, uno degli aspetti — forse il più rilevan (...)
  • 6 Si veda G. Vanghetti, Vitalizzazione delle membra artificiali: teoria e casistica dei motori plasti (...)
  • 7 Su questo aspetto si vedano: P. Fussel, La Grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, (...)

3La rilevanza, nella letteratura coeva, del tema del corpo non dovrebbe stupire, in quanto si tratta di un aspetto connaturato al contesto di un conflitto che mise al centro i corpi dei soldati e che costituì un laboratorio medico altamente significativo. Durante la guerra vennero infatti introdotte nuove tecniche chirurgiche e vennero effettuati molti progressi, ad esempio nel campo della chirurgia plastica, ambito particolarmente rilevante per l’intervento su ferite traumatiche come quelle del volto5. Ancor più importanti furono le conquiste nel campo dell’ortopedia, come dimostrano le pubblicazioni e gli esperimenti di Giuliano Vanghetti e il lavoro dei maggiori istituti ortopedici italiani, oltre che dei loro direttori, clinici di chiara fama6. Ciò che la storiografia ha evidenziato, a partire dagli anni Settanta e poi con un rinnovato interesse e una notevole intensificazione in occasione della ricorrenza del centenario della Grande guerra, è che per la prima volta il corpo, quello reale dei soldati feriti e anche quello simbolico della nazione belligerante, assunse un’ampia rilevanza nel discorso pubblico e nella costruzione di una memoria della guerra7. Si tratta di un aspetto di sicuro interesse. E se, rispetto a ciò, il quadro d’insieme appare delineato con sufficiente chiarezza, molto lavoro rimane ancora da fare per approfondire alcuni nodi tematici cruciali che si intendono affrontare in questa sede. Ci riferiamo in particolare all’identità, alla rappresentazione e all’autorappresentazione dei mutilati di guerra, al loro rapporto con la mutilazione subita e con l’innesto delle protesi oltre che all’uso pubblico dei corpi. Tutti problemi di sicuro interesse, per la storia della Grande guerra, ma anche dei decenni seguenti.

4Prima di entrare nel vivo della trattazione è però necessario esplicitare alcune riflessioni sorte mentre il tema che mi proponevo di affrontare andava definendosi e mentre l’analisi del corpus letterario era ancora in fieri.

  • 8 Su questo aspetto si vedano ad esempio: A. Prost, Les anciens combattants et la société française, (...)
  • 9 Fatta eccezione per il caso dei folli di guerra, la cui condizione era certamente infelice non solo (...)

5La prima riflessione è di carattere generale e riguarda il concetto di ‘corpo invaso’ e la sua relazione con l’invalidità di guerra. Come si è detto, i conflitti della prima metà del ’900 — e segnatamente la Prima guerra mondiale — rappresentarono una notevole soluzione di continuità rispetto alle precedenti esperienze belliche. La particolare natura di conflitto industriale della Grande guerra ebbe come conseguenza l’aumento del numero dei morti, ma anche di quello dei mutilati e degli invalidi, che fu altissimo8. La mutilazione e l’invalidità di guerra rappresentarono una forma di minorazione concettualmente distante da quelle sperimentate fino a quel momento: una disabilità fisica — talvolta estremamente grave — che si accompagnava non soltanto ad una precisa consapevolezza della condizione di minorazione, ma anche alla coscienza di essere individui che avevano subito tale menomazione a causa della partecipazione, nella grandissima maggioranza dei casi coatta, ad un conflitto. Una consapevolezza che portava i mutilati a considerarsi creditori nei confronti dello Stato, a chiedere l’ampliamento e il miglioramento dell’assistenza medica, sociale, pensionistica, ma soprattutto, proprio in virtù del sacrificio compiuto, a reclamare un ruolo attivo, anche di governo, nella società italiana del primo dopoguerra e a proporsi come voce autorevole nel panorama politico e sociale del paese. Riflessioni e richieste rese possibili e veicolate da una nuova visione del concetto di invalidità: i mutilati erano persone minorate nel fisico, ma ancora integre nelle loro capacità mentali9. Questa condizione di integrità mentale aveva permesso ai reduci di dare vita ad associazioni combattentistiche, che divennero presto molto ampie e capillarmente diffuse sul territorio, e di gestirle senza la mediazione di persone ‘sane’, come era invece avvenuto fino a quel momento. Il corpo colpito, ‘invaso’ e in parte distrutto dalla guerra, per la prima volta divenne un corpo in grado di tornare ad essere funzionale, di essere nuovamente utilizzato, un mezzo attraverso cui reclamare uno spazio e un ruolo nella società.

  • 10 Ciò non vale però per i traumi degli occhi — anch’essi causati da una invasione del corpo, colpito (...)

6A questo proposito può essere utile ricordare che la minorazione di guerra costituiva un campo molto vasto, all’interno del quale coesistevano situazioni estremamente eterogenee. La chirurgia e l’ortopedia potevano sopperire ad una menomazione anche grave restituendo al corpo una parvenza di integrità e una parziale funzionalità, spesso attraverso una seconda invasione del corpo: l’innesto delle protesi10. Più ancora di una mutilazione, l’utilizzo di protesi costituiva infatti una ‘invasione’ del corpo molto evidente, non solo a chi l’aveva subita, ma anche a chi si trovava ad osservare quel corpo. La protesi poteva in qualche misura compensare la menomazione subita o colmando un vuoto — si trattava della funzione estetica, per la quale esistevano apposite protesi chiamate appunto ‘estetiche’ — o ripristinando, in tutto o in parte, la funzione anatomica compromessa dall’amputazione dell’arto, ma implicava l’accettazione di un corpo estraneo.

7Il corpo del soldato poteva essere invaso anche da una malattia, e questo è particolarmente evidente nel caso della tubercolosi, patologia fortemente invalidante. Da queste esperienze emerge allora un aspetto in gran parte inedito e molto interessante: il corpo ferito e mutilato costituiva il parametro utilizzato dallo Stato per valutare l’entità di un danno subito, ma veniva utilizzato anche dagli stessi mutilati, soprattutto tramite la loro più importante associazione, per misurare la loro condizione, per rappresentarsi ed autorappresentarsi, per programmare il loro agire nella società. Questi aspetti divennero fondamentali nella codificazione del discorso pubblico proposto dai mutilati e dagli invalidi di guerra e nella determinazione di un gruppo sociale nuovo. Si tratta di una dimensione ‘collettiva’ che è il principale portato dell’attività associativa dell’Anmig, e a partire dalla quale molti mutilati di guerra lessero la loro esperienza e la loro nuova condizione nell’ambito della società.

  • 11 Ad esempio G. Boschi, La guerra e le arti sanitarie, Milano, Mondadori, 1931.

8La seconda riflessione è legata allo specifico tema che ci si propone di analizzare in questo contesto e in particolare allo strumento utilizzato per analizzarlo. I mutilati e gli invalidi pubblicarono moltissimi scritti: libri di memorie, opuscoli, articoli di giornale. E prima che gli scritti dei mutilati di guerra fossero non solo dati alle stampe, ma anche concepiti, i medici civili e militari avevano pubblicato, oltre alle loro personali memorie di guerra, una quantità davvero ragguardevole di volumi di argomento clinico ed assistenziale, sia di natura scientifica che divulgativa, e avrebbero continuato a pubblicarne anche dopo la conclusione della guerra11. Lo studio di questo materiale suscita diversi interrogativi: può questo insieme di scritti, così eterogeneo, essere utilizzato come strumento di analisi dell’esperienza di guerra e di studio del rapporto con il corpo e della visione del corpo nell’ambito del contesto culturale italiano? Quale spazio occupano questi scritti nell’ambito della letteratura di guerra e quale valenza possono avere oggi?

9Vi è poi un ultimo aspetto da considerare. In uno studio sistematico di questi testi, potrebbe essere interessante suddividere ulteriormente gli scritti dei mutilati di guerra in due categorie, la prima comprendente quelli in cui i mutilati descrivono i traumi fisici e le conseguenze corporee di quei traumi; la seconda costituita dai testi inerenti la guerra o di altra tipologia (romanzi o articoli di vario argomento) scritti dai mutilati, ma non necessariamente legati alla mutilazione subita o non direttamente riferibili all’esperienza della trincea. Se la prima categoria di scritti veniva prodotta allo scopo di creare una memoria, che nasceva come memoria del singolo, ma che col passare del tempo sarebbe divenuta memoria condivisa — anche attraverso scritture collettive, come erano i periodici dell’Anmig e delle Sezioni locali di questa associazione —; la seconda può essere utile a comprendere se e in che modo il lavoro letterario poteva essere influenzato dalla menomazione subita, oltre che dalla partecipazione alla guerra, in altre parole se la menomazione subita poteva veicolare una visione particolare degli avvenimenti e della quotidianità.

2. La scrittura dei medici e il «Bollettino della Federazione dei Comitati»

  • 12 G. Frontali, Il medico di battaglione. Manualetto pratico, prefazione di Enrico Burci, Firenze, Bem (...)

10Durante e dopo il primo conflitto mondiale il corpo malato, martoriato, mutilato dei soldati divenne il centro di riflessioni scientifiche, che miravano a determinare con sempre maggiore precisione criteri assistenziali, sia di carattere medico che sociale. Il corpo mutilato venne studiato, osservato, curato e — nei limiti del possible — riparato, ricostruito e reintegrato. Negli scritti dei medici la questione veniva affrontata nella maggior parte dei casi in maniera asettica, soprattutto fornendo cifre, casistiche cliniche, modalità di intervento chirurgico e postoperatorio. Ma è anche vero che esistono diari di medici, come quello molto noto di Gino Frontali, autore del manuale Il medico di Battaglione, anch’esso basato sulla sua esperienza bellica12.

  • 13 Il criterio di attribuzione delle pensioni di guerra, oltre che sul grado militare ricoperto al mom (...)

11Durante la Grande guerra, per la prima volta, vi fu una evidente e volontaria esibizione del corpo martoriato, storpiato, divenuto asimmetrico. Una esibizione decisamente non voyeuristica, che assolveva principalmente a due scopi. Il primo era quello di dimostrare che, grazie ai progressi medici e tecnici — e in particolare attraverso la stretta collaborazione fra chirurgia e ortopedia — le menomazioni subite dai soldati potevano essere, se non completamente guarite, quantomeno fortemente alleviate, e che determinate lesioni, fino a quel momento considerate gravissime e altamente invalidanti, erano invece diventate menomazioni superabili. Il secondo scopo era quello di reclamare diritti assistenziali e stimolare la promulgazione di provvedimenti legislativi concernenti principalmente le pensioni di guerra e il collocamento obbligatorio degli invalidi13.

  • 14 Sulla natura di ‘laboratorio’ di questo periodico rimando a U. Pavan Dalla Torre, La distruzione e (...)
  • 15 Su Burci (1862‑1933) si veda M. Crespi, Burci, Enrico, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol (...)

12Per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed assistenziale rappresentata dal ritorno nelle città dei mutilati e degli invalidi sorsero diversi Comitati di assistenza che, nel 1916, si riunirono in una Federazione. Questa, nello stesso anno, cominciò a pubblicare un periodico: il «Bollettino della Federazione Nazionale dei Comitati» che, pur contenendo varie rubriche, aveva come principale argomento il corpo dei soldati resi permanentemente invalidi: corpo analizzato nel suo insieme, e poi anche nel dettaglio dell’anatomia umana. Tutte le parti del corpo, in particolare quelle più colpite durante i combattimenti nelle trincee, che erano anche quelle normalmente più utilizzate nel lavoro, furono oggetto di trattazione: braccia, mani, gambe, articolazioni, nervi. Grande enfasi veniva data al recupero delle abilità lavorative e alla ripresa di una attività produttiva, considerata un vero e proprio viatico per un rapido ritorno dei soldati alla vita attiva nell’ambito della società e per una completa ricostruzione del proprio io. La descrizione del corpo avveniva principalmente per contrasti: il più utilizzato era certamente quello tra il prima e il dopo l’operazione chirurgica e l’innesto di protesi. L’efficacia tecnica degli apparecchi veniva documentata attraverso la comparazione fotografica fra il corpo privo dell’arto e il corpo riparato ed integrato dalla protesi14. La redenzione dei soldati, talvolta affermata in maniera esplicita, era generalmente fatta intendere attraverso la prova scientifica offerta dalla pubblicazione di tali immagini. Molti articoli, di taglio medico e tecnico, erano firmati dai dirigenti dei comitati che erano anche clinici illustri: Ettore Levi, direttore della rivista; Enrico Burci, Pio Foà e i già menzionati Riccardo Galeazzi e Vittorio Putti15. Anche gli invalidi, come il cieco di guerra Augusto Romagnoli, parteciparono alla redazione dei numeri del periodico.

  • 16 G. D’Ancona, L’assistenza ai mutilati in guerra e l’opera del Comitato fiorentino, Firenze, Vallecc (...)
  • 17 Ibid.
  • 18 Per lo stesso scopo era stato pubblicato, ad esempio, U. Perucci, Come parlano due contadini mutila (...)

13Importante era anche il ruolo di persuasione che molti dirigenti di Comitati svolgevano per indurre i mutilati recalcitranti a sottoporsi alle operazioni chirurgiche e alle terapie rieducative. Parlando della efficacia delle modalità mediche e tecniche impiegate per la riabilitazione dei soldati, in un opuscolo pubblicato a scopo divulgativo, Giuseppe D’Ancona, segretario del Comitato di assistenza di Firenze, narrava di una sua visita in un paese della campagna toscana dove aveva appreso che ad un soldato con numerosa prole era stata amputata una gamba. Tutto il paese era dell’opinione che per il soldato in questione sarebbe stato meglio morire. «Facile fu per me dimostrare il contrario a quella buona gente, che stupiva di quanto esponevo, narrando con semplice ma convincente parola i miracoli della ortopedia e delle protesi»16. Poco dopo D’Ancona aveva ricevuta la visita della moglie del soldato amputato, alla quale aveva confermato quanto aveva detto in pubblico e promesso di prendersi cura del marito. Era riuscito così a «restituire una qualche speranza e fiducia ad una famiglia dolorante per l’ignoranza, tuttora assai diffusa, circa la sorte dei mutilati di guerra»17. Lo scritto di D’Ancona è uno dei molti esempi di pubblicazione edificante destinata ai mutilati di guerra che, mettendo al centro il corpo invaso e straziato, mirava a far conoscere le più recenti conquiste della medicina e della rieducazione18.

3. Fra discesa agli inferi e risurrezione: topoi letterari del trauma e memoria di guerra negli scritti dei mutilati

  • 19 Sulla nascita dell’Anmig si vedano G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Roma / Bari, (...)
  • 20 Significativo quello della sezione Anmig di Milano, «La Stampella».
  • 21 In questo senso è significativa la figura di Fulcieri Paulucci di Calboli, detto ‘il santo dei muti (...)
  • 22 Su questo aspetto si veda, ad esempio, S. Lanfranchi e E. Varcin, Il trauma di Caporetto nei testi (...)

14Come si è avuto modo di accennare, la scrittura dei mutilati di guerra fu al contempo scrittura dei singoli e scrittura collettiva. Diversi mutilati scrissero memorie del conflitto ed ebbero una qualche notorietà letteraria. Molto importante fu la scrittura collettiva, in particolare quella delle associazioni combattentistiche. La più importante associazione fra reduci mutilati, l’Anmig, venne fondata a Milano nell’aprile del 191719. Nell’autunno del 1918 cominciarono le pubblicazioni de «Il Bollettino», il mensile del Comitato Centrale dell’Anmig. Accanto al giornale ufficiale, alcune sezioni diedero vita a un loro periodico20. Molti i temi affrontati negli scritti associativi, che potremmo chiamare scritti ‘collettivi’ sia perché, sebbene redatti dai vari dirigenti dell’associazione, spesso non venivano attribuiti ad una sola persona quanto all’intero Comitato Centrale o alla redazione del periodico; sia perché questi scritti si rivolgevano in prima istanza alla base sociale, che spesso si rispecchiava in essi, ma poi intendevano parlare a tutta la società italiana. Ciò vale per gli articoli dei periodici, ma anche per i manifesti e i comunicati che si susseguirono nel corso degli anni. Fin dalla pubblicazione dei primi testi venne proposta agli italiani l’idea che i mutilati non fossero persone da compatire, ma piuttosto soggetti attivi, che intendevano fornire un contributo rilevante nella determinazione delle politiche assistenziali a loro destinate. Il lessico utilizzato in questi scritti trova origine, soprattutto, nel cristianesimo e nel suo universo simbolico solidamente consolidato nel nostro paese e nelle coscienze dei soldati: il martirio, rappresentato dall’offerta della vita o dell’integrità del proprio corpo da parte di tanti giovani italiani; il calvario, che diveniva la metafora perfetta del ferimento e del successivo ricovero ospedaliero dei mutilati; la santità, propria dei soldati, pazienti nel sopportare le privazioni e i martiri21; la risurrezione, simboleggiata dalla riconquista di alcune abilità corporali e dal ritorno a una vita lavorativa e a una presenza attiva nella società. Si tratta di un lessico già sperimentato nel giornalismo italiano del tempo di guerra — ad esempio da Mussolini — e nella propaganda bellica, in particolare all’indomani di Caporetto22.

  • 23 R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, 3 voll., Bologna, Il Mulino, 2012; E. Gentile, Sto (...)
  • 24 Nel caso di Zara anche per l’esiguità del retroterra assegnatole dal trattato.

15Come ricordato in apertura, il nesso fra corpo e Stato e fra corpo e nazione venne a più riprese sottolineato in questi scritti. Significativa, anche nelle opere degli invalidi di guerra, la ripresa del tema della vittoria mutilata, che avrebbe animato la scena politica italiana ben oltre la conclusione della guerra e la conferenza di Versailles23. Seguendo questo filone, l’Anmig sottolineava ad esempio come le città di Fiume e di Zara fossero ‘città mutilate’, non solo perché i mutilati sostenevano l’italianità di queste città e sentivano come proprie le sorti degli italiani di quei luoghi, ma anche perché, essendo città separate, o non ancora definitivamente annesse all’Italia, si trovavano per il momento nella condizione di essere strappate dal corpo della nazione24.

  • 25 Sulla figura di Carlo Delcroix (1896‑1977) si veda A. Vittoria, Delcroix, Carlo, in Dizionario Biog (...)
  • 26 Nel periodo fra le due guerre mondiali la produzione letteraria di Delcroix fu cospicua: C. Delcroi (...)

16Il tema del corpo fu centrale nella riflessione e negli scritti dei mutilati di guerra, come dimostra l’esempio di Carlo Delcroix25. Nato in una famiglia di origine belga, respirò fin da giovane un clima risorgimentale, in un contesto domestico ricco di stimoli culturali ed artistici: il fratello Giacomo fu apprezzato pittore paesaggista, Carlo negli anni ’30 fu invece tra i promotori del Maggio musicale fiorentino, divenendone primo presidente. Frequentò l’Accademia militare di Modena, da interventista fu volontario nella Prima guerra mondiale, di stanza sul settore alpino. Dopo il suo ferimento, che lo privò della vista e di entrambe le mani, e il congedo dall’esercito, Delcroix decise di tornare all’azione attraverso l’utilizzo della parola e di dedicare la sua vita e le sue energie alla propaganda. A guerra ancora in corso cominciò a pronunciare discorsi patriottici al fronte e nelle retrovie, ma le occasioni di prendere la parola e di dare poi forma letteraria ai suoi discorsi si moltiplicarono quando divenne membro del Comitato Centrale, dirigente e successivamente, a metà degli anni ’20, presidente dell’Anmig. Delcroix fu probabilmente il mutilato di guerra più noto nei decenni che intercorrono fra le due guerre mondiali, ipotesi suffragata anche dall’analisi della documentazione di diverse sezioni dell’associazione. Ad esempio, l’archivio della sezione milanese, conservato presso le Civiche raccolte di Milano, contiene tutti i libri scritti da Delcroix che, insieme a qualche altro volume, costituivano la biblioteca della sezione26. Tuttavia è bene sottolineare che la sua notorietà, pubblica e politica, fu certamente amplificata durante il fascismo — Delcroix venne coinvolto fin dai primi anni ’20 nelle iniziative politiche del nazionalismo prima e del movimento fascista poi, sebbene il suo rapporto con il fascismo non fu mai di adesione acritica — e che la sua notorietà letteraria fu probabilmente il frutto (anche se non è facile capire esattamente in quale misura) della posizione di spicco da lui occupata nell’ambito dell’Anmig e della visibilità da essa derivante.

  • 27 C. Delcroix, Sette santi senza candele, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 11.

17Sette santi senza candele, in cui fin dal titolo è possibile cogliere l’associazione fra esperienza di guerra, sofferenza e santificazione, è l’opera in cui Delcroix riflette con maggiore intensità sul tema del corpo straziato dalle ferite, narrando la storia di alcuni soldati resi permanentemente invalidi dalle ferite subite al fronte. Dalla dedica contenuta in questo libro comprendiamo come Delcroix avesse ben chiara la sua condizione di non autosufficienza. Nel rivolgersi alla moglie Cesara, l’autore scriveva infatti: «A Cesara che in me vive la passione dell’opera e mi presta le mani per compirla». Nella prefazione, in cui sono invece descritte le circostanze del suo ferimento, Delcroix riferisce con precisione le sensazioni da lui provate nell’attimo fatale. Chiamato a soccorrere un soldato accidentalmente finito in mezzo a un campo minato, non esitava ad avventurarsi nella zona, subendo il medesimo destino dell’uomo a cui stava prestando aiuto: «Io credevo di soccorrere uno sconosciuto e invece vedevo me stesso quale avrei dovuto essere tra un istante: un destino sardonico mi metteva allo specchio perché potessi ammirarmi nella mia acconciatura imminente»27. La vita di Delcroix fu sicuramente segnata dalla visione della morte, anche perché l’ultima immagine che poté vedere — quella che poi avrebbe sempre conservato — fu proprio quella del soldato morto fra le mine, e del suo corpo dilaniato dalle esplosioni. Delcroix tornò a parlare di questo momento, e della soluzione di continuità che certamente esso determinò nella sua vita, anche in una sua poesia, intitolata, significativamente Lo sconosciuto:

  • 28 La poesia, intitolata Lo sconosciuto è ricordata anche da Giano Accame, genero di Delcroix, in una (...)

Sotto la neve che celava un volto
vidi me stesso, quale sarei stato
e da quel gelo non mi son più tolto
28.

  • 29 C. Delcroix, Sette santi, cit., p. 12.
  • 30 Ivi, p. 14.
  • 31 Ivi, p. 35.

18Lo strazio del corpo si accompagnava alla prostrazione spirituale, legata soprattutto, nel caso di Delcroix, alla perdita della vista. E tuttavia, proprio quel «precipitare nel buio», portò a Delcroix una nuova consapevolezza di sé e delle sue potenzialità: «È nello stagno nero che io rinvenni intatti i miei tesori e il mio carico perduto sulla neve e i miei sogni estinti nel sangue e i canti affondati nel silenzio»29. Accanto alla precisa cognizione della sua nuova condizione e del suo nuovo aspetto, presagito nell’immagine del commilitone, vi è anche il rifiuto degli stereotipi che legavano il mutilato e l’invalido alla pubblica beneficenza e alla rinuncia ad una vita attiva: «Io non sono un cieco perché credo e cammino, non sono una vittima perché lotto e amo, non sono un mendico perché posso e dono, io sono un uomo da invidiare o da compiangere come tutti gli uomini con una vittoria di più, con un’arma di meno»30. Tale concetto viene ripreso più volte nel corso della narrazione. «Luciano», uno dei sette soldati descritti nella sua opera, «non vedeva ma non era cieco: per essere ciechi, non basta avere perduta la luce ma bisogna perderne la speranza». Secondo l’autore l’uomo diventava cieco quanto si arrendeva «perché l’ombra scende dagli occhi all’anima e l’uomo perde solo quanto dispera»31. Interessante anche il tema della redenzione del cieco, caro all’intera categoria dei mutilati, divenuto un topos anche nell’ambito delle attività dell’Anmig.

19Delcroix mise a disposizione dell’associazione la sua abilità oratoria e le sue doti letterarie, con l’obiettivo di creare un sodalizio coeso. Nel contesto del reducismo la memoria della guerra era vista come elemento aggregante per le associazioni, ma anche come punto comune della vita nazionale e quale momento formativo di un nuovo concetto di cittadinanza. Una memoria che doveva fare degli italiani dei fratelli, concordi nella ricerca del bene comune. Se questa particolare memoria comune non fosse divenuta patrimonio di tutta la nazione e base di partenza del lavoro dei partiti politici, i problemi sociali e politici avrebbero potuto divenire davvero ingenti. Questa era la convinzione di Delcroix, che sottolineava la possibilità di un tracollo della convivenza civile nel 1921, quando l’Anmig tentò una mediazione fra fascismo e socialismo, in un momento in cui queste forze politiche erano arrivate all’apice dello scontro:

  • 32 La parola di pace agli uomini di buona volontà. La nostra iniziativa per la pacificazione degli ani (...)

È questa l’Italia che consegnammo ai cittadini tra le canzoni di Vittorio Veneto, è questa l’umanità che salutammo con la bocca piena di sangue e il corpo coperto di bende, questo il sogno di giustizia nutrito col pianto, l’ideale di bellezza servito con la morte?… Ahi! Come, come la vostra pace è stata indegna della nostra guerra32.

  • 33 Si tratta di un’opera con taglio saggistico: C. Delcroix, Il nostro contributo alla vittoria degli (...)

20La pace, raggiunta attraverso l’esperienza palingenetica della trincea, doveva essere degna della guerra, diversamente la crisi politica avrebbe attanagliato l’Italia. Non è un caso che proprio un mutilato di guerra insistesse su questo aspetto: pace e guerra erano intrinsecamente legate perché la pace era stata conquistata attraverso il sacrificio compiuto da molti italiani durante la guerra, in prima istanza quello di chi aveva immolato alla Patria la vita e la propria integrità corporea. Al di là di considerazioni che oggi possono forse sembrare tendenti al moralismo ed eccessivamente indulgenti alla retorica, Delcroix intendeva difendere il ruolo dell’Italia nel conflitto bellico. Ne Il nostro contributo alla vittoria degli alleati33 ripercorreva anno per anno le vicende della guerra, dimostrando come il ruolo dell’Italia fosse stato determinante ai fini della vittoria finale dell’Intesa. I caduti e i mutilati rimanevano dunque al centro della produzione letteraria di Delcroix: la sacralità dei caduti e dei mutilati di guerra si contrapponeva all’indegnità di chi pretendeva di governare il paese senza prendere in considerazione le sofferenze e le aspirazioni dei reduci e, cosa ancora più grave, senza aver mai preso parte al conflitto. Anche in questo caso il linguaggio utilizzato è pregno di rimandi religiosi, aspetto che ritorna sovente negli scritti dei reduci: il calvario ospedaliero, il sangue versato nel sommo sacrificio, la morte e la risurrezione sono solamente alcuni elementi simbolici del linguaggio dei reduci, quel linguaggio utilizzato soprattutto dai mutilati e dalla loro associazione per ‘raccontare la guerra’ e per creare un substrato di memoria comune a tutti i soci.

  • 34 Sulla figura di Giovanni Mira (1891‑1966) si veda L. Vergallo, Mira, Giovanni, in Dizionario Biogra (...)
  • 35 Mira si iscrisse all’Anmig nell’aprile del 1918. Si veda Civiche Raccolte Storiche Milano, Fondo Mi (...)
  • 36 Durante il ventennio fascista Mira venne di fatto emarginato, anche nell’ambito dell’associazionism (...)
  • 37 L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1956.

21Come si diceva in apertura, il milanese Giovanni Mira34 è oggi probabilmente meno noto di Carlo Delcroix, ma fu intellettuale di spessore ed ebbe un ruolo di sicuro rilievo nelle organizzazioni dei reduci e, a partire dall’armistizio del 1943, anche nella vita politica del nostro Paese. Terminato il liceo si iscrisse all’università e nel 1910 svolse il servizio militare, durante il quale il suo reggimento venne selezionato per formare un contingente da impiegare nella guerra contro la Turchia appena scoppiata. Mira venne inviato in Libia, da dove fece ritorno avendo conseguito la qualifica di ufficiale di complemento. Dopo la guerra si laureò in lettere a Milano — dove ebbe fra i suoi maestri Gioacchino Volpe — specializzandosi in lingue straniere e in paleografia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale venne richiamato alle armi, con il grado di sottotenente. Ferito durante un’azione, perse la funzionalità della gamba destra e venne dichiarato invalido di guerra. Nel dopoguerra risultò vincitore di concorso a cattedra negli istituti superiori, scegliendo di prestare servizio presso una sede prestigiosa, il liceo Parini di Milano. Oltre al suo lavoro come dirigente dell’Anmig35 e dell’Associazione Combattenti, ebbe incarichi dirigenziali anche nel Touring Club Italiano. Nella figura di Mira l’impegno letterario si fondeva con la convinta fede antifascista. Proprio per questa ragione gli venne comunicato il trasferimento coatto da Milano a Catania, provvedimento che lo persuase a lasciare l’insegnamento36. Il nome di Giovanni Mira viene ricordato soprattutto per l’opera Storia dell’Italia nel periodo fascista, scritta a quattro mani con Luigi Salvatorelli37, anche se Mira fu autore di altre opere, memorialistiche e saggistiche.

  • 38 G. Mira, Memorie, prefazione di L. Salvatorelli, Vicenza, Neri Pozza, 1968. Sulle memorie di Mira s (...)

22Interessanti, per il tema del corpo ferito sono appunto le sue Memorie, pubblicate nel 1968 da Neri Pozza38. Il momento del ferimento occupa solamente alcune righe dell’opera, forse per evitare di indugiare in un ricordo poco gradito. Poco tempo dopo l’arrivo al fronte e dopo un primo scontro vittorioso con gli austriaci, all’unità di Mira veniva comunicata l’esistenza di una breccia nel reticolato di filo spinato che avrebbe permesso di assaltare la trincea nemica. Le ispezioni compiute non riuscirono a rilevare tale breccia, ma gli ordini ricevuti dal comando imposero di tentare ugualmente l’assalto:

  • 39 Ivi, p. 100.

Appena si mette piede nel terreno scoperto che sale verso il trincerone, è una grandine di fucilate e raffiche di mitraglia da una distanza di centro metri. Per obbedire mandiamo ancora una pattuglia, di notte, a cercare la breccia che non c’è. L’aspirante parte coi suoi uomini; probabilmente ha già messa l’anima in pace. Infatti resta ucciso sotto il reticolato. Sempre per obbedire, prepariamo le ondate d’assalto. La prima si ferma subito. Avanti la seconda, e vado anch’io. Com’era da prevedere, ebbi cinque pallottole39.

  • 40 Ivi, p. 101.
  • 41 Ivi, p. 102.
  • 42 Ibid.
  • 43 Ibid.
  • 44 Ibid.

23Uno spazio più ampio è invece dedicato all’esperienza ospedaliera, alla routine e alle persone che Mira ebbe modo di conoscere in quell’ambiente: i commilitoni, le infermiere, i medici, le suore. Alla figura di suor Laurina, la caposala che lo accolse a Milano dopo il suo trasferimento dall’ospedale di tappa, vengono dedicate pagine molto interessanti: infermiera, consigliera, dispensatrice di rabbuffi e di consigli. Talvolta la suora correggeva perfino i medici. Ad un soldato, cui era stata prescritta dieta liquida, la suora aveva dato del risotto e alla crocerossina che aveva tentato di ricordarle la prescrizione medica rispose: «Cosa vuole che sappia il dottore»40. Proprio la figura di suor Laurina permette a Mira di riflettere sul tema del corpo ferito, e di evidenziare come i casi clinici più tremendi fossero ormai divenuti una triste abitudine, un argomento di conversazione come un altro, nelle corsie ospedaliere: «Con noialtri ufficiali [suor Laurina] si tratteneva volentieri. Parlava con disinvoltura di amputazioni, di casi terribili, di prodigi chirurgici, di piaghe purulente, e senza cambiar tono raccontava di sé, della sua famiglia, della sua vocazione»41. In ospedale, luogo invaso dal «carnaio sanguinolento, che comincia sul campo di battaglia»42, spirava aria di gioventù: «vi si espande la gioia della rinascita […] vi freme la bramosia di vivere e mettiamo pure, come ultima, la fierezza del dovere compiuto»43. Eppure l’ospedale rimaneva un ospedale, luogo di sofferenza fisica e morale oltre che luogo deputato alla cura dei corpi: «I bianchi muri ospitano sì anche sofferenze atroci, stoici eroismi, lunghe agonie; e ogni tanto ne esce una bara»44.

24Anche nella visione di Mira, l’essere feriti e mutilati di guerra costituiva una condizione privilegiata per poter dar voce alla memoria della guerra. I mutilati divenivano così delle memorie viventi dell’eroismo e dell’abnegazione verso la Patria. Di qui il rifiuto della retorica bellicistica tipica di quel periodo, soprattutto quando proposta da chi non portava nel corpo i segni delle sofferenze patite in guerra:

  • 45 Ivi, p. 105.

Un giorno venne un tipo, in uniforme di ufficiale di cavalleria, a fare un discorso che voleva essere patriottico e non fu altro che retorico. Non sapeva il disgraziato che un branco di soldati feriti, tra cui non pochi amputati e storpi, è di per sé la più eloquente dimostrazione di devozione alla patria, di dovere compiuto, di sacrificio45.

  • 46 Ivi, p. 106.

25Mira lasciò l’ospedale nel 1916, ma per tutta la vita portò nel suo corpo, e in particolare nella gamba destra, i segni della guerra: «I miracoli della chirurgia riparatrice, anche applicata a un organismo giovine e robusto, non poterono impedire ch’io rimanessi invalido; e così ebbe fine la mia vita militare»46.

  • 47 S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia, Roma / Bari, Laterza, 1976.
  • 48 M. Franzinelli, Democrazia e socialismo in Valcamonica: la vita e l’opera di Guglielmo Ghilsandi, C (...)

26Le memorie di Mira, lo si è accennato, contengono anche la sua esperienza di antifascista, esperienza che non fu di tutti i reduci. Si tratta di un atteggiamento di segno opposto rispetto a quello di Delcroix, che peraltro da monarchico ebbe un rapporto non sempre lineare con il fascismo, in particolare con il fascismo repubblicano. Nell’ambito del combattentismo molti altri esempi potrebbero essere citati sia fra chi optò per il fascismo, come Titta Madia e Peppino Caradonna47, sia per chi lo avversò, come Guglielmo Ghislandi ed Ettore Viola48.

4. Esperienze nella letteratura della Seconda guerra mondiale

  • 49 Si vedano F. De Ninno, Civili nella guerra totale 1940‑1945. Una storia complessa, Milano, Unicopli (...)

27I conflitti a cui l’Italia partecipò a partire dalla seconda metà degli anni Trenta causarono nuovi invalidi e mutilati, ma ancor più foriere di invalidità delle mutilazioni furono le malattie di guerra, come la tubercolosi: anche in questo caso, si è già avuto modo di ricordarlo, si trattò di una ‘invasione’ del corpo da parte del morbo. Dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale le vicende dei mutilati e della loro maggiore associazione proseguirono anche nell’Italia repubblicana, sebbene con forme — e narrazioni — diverse. Ciò che differenzia la Seconda guerra mondiale da altri conflitti di cui gli italiani avevano esperienza fu il coinvolgimento dei civili, che fu molto più ampio rispetto a quanto sperimentato fino a quel momento. Proprio per tutelare anche chi, pur non avendo un ruolo nelle Forze Armate, era rimasto ferito e aveva subito menomazioni a causa della guerra, sorsero associazioni fra mutilati e invalidi civili. A questo aspetto, che solo recentemente ha ricevuto attenzione dalla storiografia49, andrebbe aggiunta anche una riflessione sulla questione dei corpi dei deportati, tema ribadito recentemente nel corso degli interventi pubblici della Senatrice Liliana Segre.

  • 50 M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Torino, Einaudi, 1953; G. Bedeschi, Centomila gavette di g (...)
  • 51 C. Moscioni Negri, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Bologna, Il Mulino, 2005 (1956) (...)

28Una parte rilevante della letteratura italiana della Seconda guerra mondiale narra, fra i molti episodi, anche le vicende che portarono alla invalidità dei soldati. Gli esempi di Mario Rigoni Stern, di Giulio Bedeschi e di altri autori permette di cogliere quanto ancora il corpo fosse importante in una guerra che l’Italia combatteva con un ausilio tecnologico di gran lunga inferiore a quello dei suoi alleati e dei suoi nemici, e di capire come il corpo subisse, oltre alle ferite delle armi, anche il rigore delle condizioni ambientali, soprattutto nel tremendo inverno russo: sia nella narrazione di Rigoni Stern che in quella di Bedeschi abbondano le descrizioni dei congelamenti delle parti periferiche degli arti e della necessità di amputare parti di mani e piedi50. A questo proposito è interessante ricordare anche il libro di memorie di Cristoforo Moscioni Negri che, durante la campagna di Russia, ebbe come sottoposto Mario Rigoni Stern. Anche in questo volume è possibile cogliere l’importanza del corpo e, al contempo, la sua fragilità di fronte alla guerra: «Ogni tanto qualcuno cadeva. Se veniva colpito in pieno o gli scoppiavano le bombe a mano che avevamo in gran numero, volavano intorno brandelli di carne e di stoffa». E, ancora, parlando della sua esperienza personale: «Due volte venni ferito e non so quante sollevato in aria e sbattuto per terra come un fuscello dalle esplosioni»51. Si tratta di dinamiche simili a quelle narrate trent’anni prima, perché tipiche della guerra.

  • 52 U. Pavan Dalla Torre, L’ANMIG nel 1943‑1945: settant’anni da allora, Roma, Associazione Nazionale f (...)

29Del resto anche la guerra partigiana conobbe le medesime dinamiche, sebbene forse lo studio del rapporto con il corpo sia stato meno approfondito in relazione al biennio 1943‑1945. Fra i molti testi che narrano le imprese dei partigiani, vi è per esempio un’intervista rilasciata dal Presidente nazionale dell’Anmig Bernardo Traversaro, in cui questi racconta l’episodio che lo avrebbe reso invalido. Alla domanda — rivoltagli da un gruppo di studenti — riguardo alle circostanze del suo ferimento, Traversaro rispondeva che non ne parlava volentieri perché quando lo faceva, la notte successiva faticava a dormire. Dopo il ferimento della gamba i suoi compagni lo avevano lasciato sotto la neve, riuscendo a recuperarlo solamente dopo qualche tempo, una volta assicuratisi che la via per il posto di medicazione fosse libera52.

5. Conclusioni

  • 53 A. Cortellessa, Fra le parentesi della storia, cit., p. 81.

Ogni poeta ha attraversato il conflitto seguendo un percorso diverso […]: se il punto di partenza era per quasi tutti simile (l’interventismo, variamente motivato), diverso si rivelò il punto di arrivo e soprattutto diversissime le tappe affrontate da ciascuno per raggiungerlo53.

  • 54 Ibid.

30Nella vita di molti italiani la guerra rappresentò una cesura che, come afferma Andrea Cortellessa, «comporta una ridisposizione complessiva dell’individuo nei confronti del mondo […]. È il segno più eloquente della tangenza tra la sfera del letterario e quella dell’extraletterario, che le condizioni straordinarie dell’esperienza bellica impongono»54. Ciò si riverberava nel fisico dei soldati, non solo nella postura, come giustamente nota Cortellessa, ma anche nella trasformazione corporea, talvolta anche molto profonda, dovuta alle ferite e alle mutilazioni subite.

  • 55 V. Codeluppi, Ventrinizzazione. Individui e società in scena, Torino, Bollati Boringhieri, 2021.

31A partire da queste osservazioni, prima di rispondere ai quesiti posti in apertura, può essere utile individuare alcune ipotesi di lavoro. La prima è che l’esperienza dei mutilati di guerra abbia costituito una prima fase di un processo di ‘vetrinizzazione’, per usare una espressione di Vanni Codeluppi, del corpo in Italia55: i reduci della Prima guerra mondiale, nell’intento di ottenere maggiori previdenze sociali, espressero chiaramente la volontà di mostrare le mutilazioni invece di nasconderle, e questo sembra costituire un punto di partenza dell’esposizione del corpo che, a partire dal primo conflitto mondiale, diventa sempre più strumento di rivendicazione e sempre più elemento da porre al centro dell’attenzione in svariati ambiti e contesti. Rispetto a questo tema rimarrebbe da indagare il percorso che, partendo dalla esposizione scientifica del corpo mutilato, conduce all’utilizzo dei corpi ad esempio nelle campagne di sensibilizzazione per lo screening mammografico o all’esposizione dei corpi a fini pubblicitari, tipici dei giorni nostri. La seconda prospettiva di lavoro è che l’esperienza dei mutilati sia un punto rilevante di una narrazione della guerra, che si è esplicata in un corpus di pubblicazioni eterogeneo. Certamente in questi scritti il corpo mutilato assume un ruolo rilevante, ma con altrettanta chiarezza essi intendono veicolare il collegamento fra corpo e Stato, fra corpo e nazione. Anche in questo caso varrebbe la pena indagare quanto questo nesso sia stato ribadito utilizzando il corpo anche nei decenni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale in un contesto completamente diverso da quello dell’Italia liberale e del ventennio fascista.

32In questo intervento si è parlato di una serie di scritti, biografici, giornalistici. Alla luce di quanto finora detto è possibile rispondere alla domanda posta in apertura? Quale spazio possono trovare questi scritti nell’ambito della memoria del conflitto? E quale rilevanza possono avere oggi?

  • 56 Centro Studi Anmig, Archivio, Fascicolo Carlo Delcroix.
  • 57 Uno su tutti C. Delcroix, D’Annunzio e Mussolini, Firenze, Le Lettere, 2010.

33Presso l’archivio storico dell’Anmig di Roma, è conservato il fascicolo associativo di Carlo Delcroix, che nel secondo dopoguerra venne espulso dall’associazione nell’ambito delle epurazioni post‑regime. Fra le accuse che gli venivano mosse a giustificazione del provvedimento vi era anche quella di essersi illecitamente arricchito sfruttando la sua posizione di presidente dell’Anmig. Delcroix rispose in maniera puntuale a tutte le accuse, ma soprattutto a quella dell’arricchimento illecito, sottolineando come i redditi da lui percepiti derivassero in gran parte dai diritti d’autore sulle sue opere56. In quale misura le vendite dei suoi volumi fossero legate alla visibilità derivata dalla carica di presidente dell’Anmig e alla operazione di esaltazione del corpo invaso che in lui aveva trovato una figura emblematica e quanto alla sua abilità letteraria non è dato sapere, ma rimane il fatto che dopo la fine della Grande guerra Delcroix aveva effettivamente tratto parte del suo reddito dalla vendita delle sue opere letterarie. Peraltro la scrittura sarebbe stata per lui fonte di guadagno anche dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale: in quegli anni accanto alla sua attività politica — venne eletto Deputato per il partito monarchico — continuò a pubblicare, in particolare una serie di scritti memorialistici57. Una volta conclusa la Grande guerra Giovanni Mira esercitò diverse professioni, ricoprendo anche rilevanti ruoli organizzativi e, a partire dal 1943, anche politici. Il suo nome viene oggi ricordato soprattutto in quanto autore del fortunato libro einaudiano precedentemente citato. Si tratta di un’opera storiografica in cui l’esperienza del corpo ferito non trova spazio. Tuttavia il punto di vista da cui Mira osservava gli eventi degli anni del primo dopoguerra, accingendosi a narrare la storia di quegli eventi a distanza di qualche decennio nel secondo dopoguerra, era quello dell’invalido di guerra antifascista. Non sembra dunque lontano dal vero annoverare ambedue questi mutilati di guerra, per molti versi distanti dal punto di vista politico e certamente portatori di una sensibilità letteraria assai diversa, come scrittori. E molti altri potrebbero essere citati che di scrittura non vissero, ma che in questa attività si dilettarono nel corso degli anni.

34Rispetto a questo dato di fatto è interessante comprendere a quale compito assolsero gli scritti di questi e degli altri autori. Certamente questi scritti veicolarono l’idea che la mutilazione subita non costituiva più un ostacolo insormontabile alla ripresa di una vita produttiva e al reinserimento nelle dinamiche economiche, sociali e culturali del Paese. Gli scritti dei mutilati, unitamente a quelli dei medici e dei dirigenti dei Comitati, contribuirono a svincolare la mutilazione e l’invalidità dalla visione pietistica in cui erano avvolte prima del conflitto mondiale, dando inizio ad una visione più moderna del corpo, evidenziando la contrapposizione fra corpo e mente e fra corpo e volontà, a tutto vantaggio di mente e volontà. Proprio questa particolare condizione rendeva la disabilità un elemento fondamentale per la costruzione di una memoria di guerra. Attraverso la narrazione del singolo, questi autori davano infatti voce all’esperienza di guerra, una esperienza collettiva che aveva toccato la maggioranza delle famiglie italiane. E davano voce ad una memoria che era divenuta — forse anche grazie ai loro sforzi narrativi — una memoria comune della guerra.

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Notes

1 Si vedano ad esempio, A. Cortellessa, Fra le parentesi della storia, in Id. (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, Firenze / Milano, Bompiani, 2018, pp. 11‑87 e F. Senardi (a cura di), Scrittori in trincea. La letteratura e la Grande Guerra, Roma, Carocci, 2008. Si veda anche M. Isnenghi, Il mito della Grande guerra. Da Marinetti a Malaparte, Bologna, Il Mulino, 2014 (1970).

2 Sulla ferita del poeta si veda M. Rippa Bonati e E. Midena, L’occhio di D’Annunzio. Postumi di un trauma di guerra, Cittadella, Biblos, 2018.

3 Ad esempio nella poesia Veglia: «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio».

4 C. Rebora, Viatico, in A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba, cit., p. 262.

5 La ferita del volto privava i soldati dei loro lineamenti, uno degli aspetti — forse il più rilevante — della propria identità. Su questo tema si vedano i lavori di Sophie Delaporte, in particolare S. Delaporte, Gueules cassées de la grande guerre, Paris, Agnes Vienot, 2004. Le ferite del volto vennero anche utilizzate come messaggio di contrasto alla guerra in E. Friedrich, Guerra alla guerra. 1914‑1918: scene di orrore quotidiano, Milano, Mondadori, 2004 (1924).

6 Si veda G. Vanghetti, Vitalizzazione delle membra artificiali: teoria e casistica dei motori plastici (chirurgia cinematica per protesi cinematica), Milano, Hoepli, 1916, anche se già dall’inizio del secolo Vanghetti lavorava su questi aspetti. Particolarmente importanti due istituti ortopedici: l’Istituto Rachitici di Milano, diretto da Riccardo Galeazzi (1866‑1952), e l’Istituto Rizzoli di Bologna, diretto da Vittorio Putti (1880‑1940). Su Riccardo Galeazzi si veda M. Aliverti, Galeazzi, Riccardo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 51, 1998; su Vittorio Putti si veda S. Arieti, Putti, Vittorio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 85, 2016.

7 Su questo aspetto si vedano: P. Fussel, La Grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 2014 (1975) e E. J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2014 (1979). Per quanto riguarda l’Italia: A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991 e B. Bracco, La patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande guerra, Firenze / Milano, Giunti, 2012.

8 Su questo aspetto si vedano ad esempio: A. Prost, Les anciens combattants et la société française, 1914‑1939, Paris, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, 1977; D. Gerber, Disabled Veterans in History, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2012; B. Linker, War’s Waste: Rehabilitation in World War I America, Chicago, The Chicago University Press, 2011; J. M. Kinder, Paying with Their Bodies. American War and the Problem of the Disabled Veterans, Chicago, The Chicago University Press, 2016.

9 Fatta eccezione per il caso dei folli di guerra, la cui condizione era certamente infelice non solo per la gravità della patologia che li affliggeva, ma anche per il sospetto di simulazione che aleggiava sopra di loro. Si vedano ad esempio A. Scartabellati (a cura di), Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino dei matti e psichiatri nella Grande guerra, Torino, Marcovalerio, 2008 e I. La Fata, Follie di guerra. Medici e soldati in un manicomio lontano dal fronte, Milano, Unicopli, 2014.

10 Ciò non vale però per i traumi degli occhi — anch’essi causati da una invasione del corpo, colpito ad esempio da una scheggia di granata — che portavano in moltissimi casi ad una perdita definitiva della vista, una menomazione irreparabile. La perdita della vista non poteva essere dunque compensata in alcun modo, la perdita dell’organo poteva invece essere compensata da un innesto prostetico, meramente estetico.

11 Ad esempio G. Boschi, La guerra e le arti sanitarie, Milano, Mondadori, 1931.

12 G. Frontali, Il medico di battaglione. Manualetto pratico, prefazione di Enrico Burci, Firenze, Bemporad, 1916 e G. Frontali, La prima estate di guerra, Bologna, Il Mulino, 1998.

13 Il criterio di attribuzione delle pensioni di guerra, oltre che sul grado militare ricoperto al momento del ferimento, era basato su una rigida classificazione delle menomazioni e delle parti del corpo umano.

14 Sulla natura di ‘laboratorio’ di questo periodico rimando a U. Pavan Dalla Torre, La distruzione e la ricostruzione. I corpi dei soldati italiani nelle fotografie del «Bollettino della Federazione dei Comitati di Assistenza ai militari ciechi, storpi, mutilati (1916‑1921)», in R. Biscioni (a cura di), Il dolore, il lutto, la gloria. Rappresentazioni fotografiche della Grande Guerra fra pubblico e privato, 1914‑1940, Milano, Franco Angeli, 2019, pp. 39‑56.

15 Su Burci (1862‑1933) si veda M. Crespi, Burci, Enrico, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 15, 1972; su Foà (1848‑1923) si veda C. Ambrosoli, Foà, Pio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 48, 1997. Sulla figura di Levi (1880‑1932) si veda C. Mantovani, Rigenerare la società. Eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria / Mannelli, Rubbettino, 2004.

16 G. D’Ancona, L’assistenza ai mutilati in guerra e l’opera del Comitato fiorentino, Firenze, Vallecchi, 1916, p. 4.

17 Ibid.

18 Per lo stesso scopo era stato pubblicato, ad esempio, U. Perucci, Come parlano due contadini mutilati, a cura del Comitato regionale marchigiano per i soldati mutilati in guerra, Ancona, Tipografia Istituto Mutilati, 1919.

19 Sulla nascita dell’Anmig si vedano G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Roma / Bari, Laterza, 1974 e U. Pavan Dalla Torre, Le origini dell’ANMIG, in V. Del Lucchese (a cura di), Passato, presente e futuro. Compendio di storia dell’ANMIG, Roma, Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra e Fondazione, 2012.

20 Significativo quello della sezione Anmig di Milano, «La Stampella».

21 In questo senso è significativa la figura di Fulcieri Paulucci di Calboli, detto ‘il santo dei mutilati’, tornato a combattere dopo un primo ferimento che lo aveva reso invalido. E. Papadia, Paulucci di Calboli, Fulcieri, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 81, 2014.

22 Su questo aspetto si veda, ad esempio, S. Lanfranchi e E. Varcin, Il trauma di Caporetto nei testi di Mussolini: propaganda e performatività, in F. Belvisio, M. P. De Paulis e A. Giacone (a cura di), Il trauma di Caporetto. Storia, letteratura e arti, Torino, Accademia University Press, 2018, pp. 162‑177. Più in generale, M. Isnenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Padova, Marsilio, 1967.

23 R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, 3 voll., Bologna, Il Mulino, 2012; E. Gentile, Storia del partito fascista. Movimento e milizia, Roma / Bari, Laterza, 2021 (1989).

24 Nel caso di Zara anche per l’esiguità del retroterra assegnatole dal trattato.

25 Sulla figura di Carlo Delcroix (1896‑1977) si veda A. Vittoria, Delcroix, Carlo, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 39, 1988.

26 Nel periodo fra le due guerre mondiali la produzione letteraria di Delcroix fu cospicua: C. Delcroix, Dialoghi con la folla, Firenze, Vallecchi, 1921; Id., Il Sacrificio della Parola, Firenze, Vallecchi, 1924; la serie dei discorsi è completata da Id., La Parola come Azione, Firenze Vallecchi, 1936. In questi volumi Delcroix raccolse decine di suoi discorsi e interventi nei quotidiani italiani. Si tratta, è bene ricordarlo, di una scelta di discorsi pronunciati in molteplici occasioni. Delcroix, soprattutto dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, diede alle stampe anche opere di carattere memorialistico.

27 C. Delcroix, Sette santi senza candele, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 11.

28 La poesia, intitolata Lo sconosciuto è ricordata anche da Giano Accame, genero di Delcroix, in una conferenza tenuta per ricordare la figura del suocero. G. Accame, Carlo Delcroix, in C. Delcroix, D’Annunzio e Mussolini, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 83.

29 C. Delcroix, Sette santi, cit., p. 12.

30 Ivi, p. 14.

31 Ivi, p. 35.

32 La parola di pace agli uomini di buona volontà. La nostra iniziativa per la pacificazione degli animi, «Il Bollettino», anno IV, no 9, settembre 1921.

33 Si tratta di un’opera con taglio saggistico: C. Delcroix, Il nostro contributo alla vittoria degli alleati, Firenze, Vallecchi, 1931. Si veda anche C. Delcroix, Guerra di popolo, Firenze, Vallecchi, 1928.

34 Sulla figura di Giovanni Mira (1891‑1966) si veda L. Vergallo, Mira, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 74, 2010.

35 Mira si iscrisse all’Anmig nell’aprile del 1918. Si veda Civiche Raccolte Storiche Milano, Fondo Mira, Busta 1, fasc. 1, Documenti di carattere personale – Carte personali 1920‑1962, contenente la tessera di iscrizione all’Associazione.

36 Durante il ventennio fascista Mira venne di fatto emarginato, anche nell’ambito dell’associazionismo reducistico. All’indomani della liberazione di Roma divenne capo della segreteria di Ferruccio Parri; successivamente, fino al 1952, fu Commissario dell’Opera Nazionale Combattenti. Sulla vicenda del suo trasferimento a Catania si veda Civiche Raccolte Storiche Milano, Fondo Mira, Busta 2, f. 4, Documenti di carattere personale – Documenti relativi alla carriera d’insegnamento 1921‑1923. A questa vicenda lo stesso Mira dedicò uno scritto: G. Mira, Il caso di un insegnante, Milano, s.n., 1925.

37 L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1956.

38 G. Mira, Memorie, prefazione di L. Salvatorelli, Vicenza, Neri Pozza, 1968. Sulle memorie di Mira si veda B. Ceva, Memorie di Giovanni Mira, «Il movimento di liberazione in Italia», ni 92‑3, luglio-dicembre 1968.

39 Ivi, p. 100.

40 Ivi, p. 101.

41 Ivi, p. 102.

42 Ibid.

43 Ibid.

44 Ibid.

45 Ivi, p. 105.

46 Ivi, p. 106.

47 S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia, Roma / Bari, Laterza, 1976.

48 M. Franzinelli, Democrazia e socialismo in Valcamonica: la vita e l’opera di Guglielmo Ghilsandi, Circolo culturale Ghislandi, Esine, Tipografia Valgrigna, 1985.

49 Si vedano F. De Ninno, Civili nella guerra totale 1940‑1945. Una storia complessa, Milano, Unicopli, 2019; Id., Civili mutilati e ciechi di guerra 1940‑1945. Cause, conseguenze ed esperienze, Milano, Unicopli, 2020; F. Masina, L’assistenza alle vittime civili di guerra in Italia 1945‑1971, Roma, Viella, 2022.

50 M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Torino, Einaudi, 1953; G. Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Milano, Mursia, 1963.

51 C. Moscioni Negri, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Bologna, Il Mulino, 2005 (1956), p. 21.

52 U. Pavan Dalla Torre, L’ANMIG nel 1943‑1945: settant’anni da allora, Roma, Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di Guerra e Fondazione, 2014.

53 A. Cortellessa, Fra le parentesi della storia, cit., p. 81.

54 Ibid.

55 V. Codeluppi, Ventrinizzazione. Individui e società in scena, Torino, Bollati Boringhieri, 2021.

56 Centro Studi Anmig, Archivio, Fascicolo Carlo Delcroix.

57 Uno su tutti C. Delcroix, D’Annunzio e Mussolini, Firenze, Le Lettere, 2010.

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Pour citer cet article

Référence électronique

Ugo Pavan Dalla Torre, « L’esperienza bellica e il corpo invaso: i mutilati di guerra italiani fra letteratura medica, narrativa e autobiografia »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 38 | 2024, mis en ligne le 01 mars 2024, consulté le 11 décembre 2024. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/14076 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.14076

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Auteur

Ugo Pavan Dalla Torre

IIS Leonardo da Vinci – Padova
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ugo.pavandallatorre@gmail.com

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