Gli echi dalle Elegie duinesi
Résumés
Cet essai met en évidence, dans une perspective intertextuelle, des thèmes et des motifs des Élégies de Duino de Rainer Maria Rilke qui ont traversé l’œuvre de Cristina Campo. Il est incontestable que les Élégies produirent l’enchantement de la poésie dans un esprit voué à la beauté. Néanmoins, de par sa sensibilité, Cristina Campo ne pouvait partager la théorie de l’existence qui traverse l’œuvre de Rilke. La comparaison intertextuelle entre les deux auteurs fait aussi apparaître beaucoup de divergences.
Entrées d’index
Haut de pagePlan
Haut de pageTexte intégral
1Con le riflessioni che seguono si tenta di accostare in una prospettiva intertestuale un modello letterario che per Cristina Campo valse in modo significativo per la poesia, e dunque anche al tradurre, un modello che si può pensare affondi alle radici della sua stessa formazione letteraria, quasi una sorta di archetipo, che assai verosimilmente precede tanti altri modelli, soprattutto di area germanica, venendo anche prima di Mörike, di Hölderlin, prima del prediletto Hofmannsthal, di Benn, della Koschel: le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, che furono oggetto della tesi di laurea di Leone Traverso, insigne grecista e germanista, al quale Vittoria Guerrini si legò, ancora molto giovane, nel primo dopoguerra.
1. Leone Traverso, le Elegie duinesi e la lettura critica di Mario Luzi
- 1 V. Guerrini, Tre poesie di Emilia Dickinson, «Meridiano di Roma», 7 marzo 1943, p. vi. Successivame (...)
2Non potendo frequentare la scuola per ragioni di salute, Vittoria Guerrini aveva studiato con precettori privati, sotto la supervisione e la guida del padre. Aveva già iniziato a tradurre e a pubblicare traduzioni quando inizia la relazione con Leone Traverso: del compositore e scrittore Bengt von Törne aveva pubblicato Conversazioni con Sibelius (Firenze, Monsalvato, 1943), di Emily Dickinson sei poesie sul «Meridiano di Roma»1.
- 2 M. Pieracci Harwell, Perseveranza oltre la speranza, in C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Travers (...)
Come tutti i suoi rapporti di amicizia e di amore, quello con Traverso ha radice nella condivisione dell’esperienza, fondamentale per lei, del leggere e dello scrivere. Nell’esplorazione di quella figura del «mondo dietro quello vero» che è la letteratura, Leone sarà per Cristina insieme compagno e maestro. […] Reputato a ragione il maggior grecista e germanista nella brillante schiera dei cosiddetti «ermetici» fiorentini, possiede accanto a uno straordinario senso della lingua un talento poetico che pone al servizio dei poeti che traduce, ma che al dire di amici come Mario Luzi, Tommaso Landolfi, Oreste Macrì gli avrebbe permesso di esprimersi altamente con la sua voce, non avesse tutta piegata quella voce a offrire al lettore italiano i versi assoluti di Pindaro, dei tragici greci, di Hölderlin, di Trakl, di Rilke, di Hofmannsthal. In più, è uomo dotato di fascino, come Cristina è dotata di bellezza e di grazia. Leone e Cristina formeranno presto una coppia perfetta, al centro della cerchia dei traduttori/poeti fiorentini del dopoguerra, cenacolo dedito all’amicizia come alla poesia. Ricordiamo il sodalizio tra Luzi e Macrì, che si vedevano sempre insieme ancora nella Firenze degli anni Novanta, il rapporto fraterno tra Luzi e Traverso, l’affetto che li legava tutti a Landolfi, che pure viveva altrove — ricordiamo, ispirata in particolare da Traverso, l’impresa dell’editore Cederna, che tramite una serie di splendide traduzioni contribuisce a ridare respiro europeo alla cultura italiana isolata da decenni di fascismo. Proprio per i tipi di Cederna debuttò Cristina traduttrice di poesia col suo Mörike, per poi apparirvi, accanto a Traverso e a Gabriella Bemporad, nel volume dei Saggi e viaggi di Hofmannsthal. Ma già nel 1952 il legame tra Leone e Cristina rivela un’incrinatura che nel 1956 apparirà irrimediabile2.
3Così ricorda l’amica di Cristina, Margherita Pieracci Harwell, nel contributo collocato a mo’ di postfazione del carteggio con Traverso, col quale nel 1956 si chiude la relazione amorosa, ma non l’affetto, non la stima e quella sorta di mutua collaborazione a distanza, in varie occasioni, come le lettere evidentemente attestano.
- 3 R. M. Rilke, Elegie duinesi, traduzione e prefazione di L. Traverso, Firenze, Fratelli Parenti Edit (...)
- 4 R. M. Rilke, Elegie duinesi, a cura di L. Traverso, Milano, Cederna, 1947; poi, Firenze, Vallecchi, (...)
- 5 R. M. Rilke, Ultime poesie, a cura di L. Traverso, Firenze, Fussi Editore, (s.d.); poi Poesie (1906 (...)
- 6 R. M. Rilke, Lettere, traduzione di L. Traverso, Milano, Rosa e Ballo, 1947; Id., Lettere da Muzot (...)
4Resta un punto fermo il fatto che, oggetto della tesi di laurea, le Elegie duinesi si pongono a fondamento del lavoro di traduzione successivo di Traverso, il quale di Rilke continuò a occuparsi ancora lungamente: delle Elegie duinesi si ricordano in primo luogo le edizioni Parenti (1937 — sola traduzione, preceduta da un ampio commento)3 e le successive edizioni Cederna (dal 1947)4; delle poesie sparse e ultime l’edizione Fussi (1946)5 e ancora successivamente Cederna; delle Lettere ci furono ugualmente varie edizioni6.
- 7 Cfr. M. Morasso, Un’imperfetta amicizia. Cristina Campo e Rainer Maria Rilke, in M. Farnetti, F. Se (...)
5Vittoria (non ancora Cristina, se non come quarto nome anagrafico) si trovò inevitabilmente investita in tale fervore creativo. Aveva appena compiuto ventiquattro anni quando nel maggio 1947 usciva l’edizione Cederna curata da Traverso. Qualche raffronto intertestuale con le Elegie può rivelare assonanze significative, nonostante il silenzio sull’autore dovuto a visioni diverse della realtà, del destino, e persino dell’etica letteraria, per quanto (nelle rispettive singolarità) per entrambi totalizzante. Si trattò in sostanza di un rapporto fondante, seppure «un’amicizia imperfetta», come titolò Massimo Morasso un proprio saggio sapientemente sintetico del contesto culturale e dei principali punti di convergenza ma anche di distanziamento tra i poeti7.
- 8 C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo f (...)
- 9 «La mia vita continua a andare in bricioli, per Natale un solo attimo di gioia, quando Luzi mi ha d (...)
- 10 Si tratta di sei lettere in tutto, inviate da Roma (1958‑1971) per l’occasione di qualche ricorrenz (...)
6Nel merito delle Elegie e di Rilke sicuramente per la sua sensibilità la Campo avrebbe poi trovato più congeniale a sé il giudizio già espresso da Luzi, nei confronti del quale nutriva un’ammirazione incondizionata, amico di Traverso e personale, «il terzo faro di C. in quegli anni, accanto a Hugo von Hofmannsthal e a Simone Weil»8. Una stima altamente ricambiata, come attesta la lettera di Campo all’amico Gianfranco Draghi del 26 dicembre 19529. Il volume della corrispondenza con gli amici fiorentini contiene del resto una manciata di brevi lettere a Luzi, di autentico, delicato affetto, attestanti uno scambio più frequente non solo postale10.
7Luzi aveva recensito l’edizione Parenti delle Elegie duinesi (1937) curata da Traverso, sottolineando l’acribia del traduttore, da una parte, ma anche riserve sull’autore, dall’altra:
- 11 M. Luzi, Una traduzione da Rilke, «Il Frontespizio», no 5, 1938, pp. 329‑330. Ora in Una “purissima (...)
Destino aureo di Rilke mi appare, sopra ogni altra sua virtù, il richiamo inesauribile per cui la poesia lo sottopose a un continuo lavoro di qualificazione di quel mondo apparso già inizialmente stremato d’ogni possibile fecondità umana. Le Elegie duinesi dove il poeta al termine della sua strada si ripropone l’intero problema dell’esistenza attraverso tutti i suoi aspetti fondamentali, esaurendoli a uno a uno in altrettanti assunti tematici, potrebbero sembrare un libro di partenza. Sono invece il sussulto estremo di un temperamento educato alla percezione ultrasensibile di un mondo che non seppe mai allontanarsi dal più immediato sensibile […]. È di grande aiuto ricordare quella condizione poetica di cui Rilke manifesta non la crisi ma la drammatizzazione, poiché proprio all’estremo limite della vita, dove i simbolisti intuivano ed elaboravano l’assoluta verità del vuoto, Rilke aborrisce dalla loro apparente gratuità di relazioni ideali e cade nuovamente al centro del suo umore di uomo. Dall’orrore di quell’ardimento nascono nella poesia di Rilke le molteplici figure del vuoto, di cui la più frequente e l’assoluta è quella dell’angelo. Tali figure non sono più evidentemente simboli, ma allegorie poiché sono invocate a risolvere direttamente il caso sentimentale del poeta. In questa interferenza continua tra l’impegno mitico e l’elemento irrequieto, apporto dell’uomo patologico e sessuale, si svolge la caratteristica avventura mediata del poeta, destinata a consumare la pena e lo sgomento del vuoto. Le Elegie duinesi esprimono appunto questa esigenza fondamentale di inventare elementi plausibili sufficienti ad accogliere uno spirito distanziato ormai irrimediabilmente da un sentimento comunque adesivo della realtà e inorridito dalla libertà fredda della composizione dell’inane. Dei due elementi indicati nei libri precedenti [il Libro d’ore e il Libro delle immagini] come le due quantità costitutive di quella musica completamente consumata, segni ed eco, soltanto il primo è mantenuto nelle Elegie. All’eco Rilke ha sostituito una dialettica sentimentale, falsamente sistematica, scaturita dalle sorgenti stesse del suo stato d’animo negativo, della quale non i momenti singoli possono trattenerci […], ma il rilievo che essi assumono sulla disperazione fondamentale di questo poeta11.
- 12 Le prime traduzioni in italiano: R. M. Rilke, Liriche, traduzione di V. Errante, Milano, Alpes, 192 (...)
- 13 V. Errante, Storie di un’anima e di una poesia, Firenze, Sansoni, 1942, p. 295.
8Impossibile riassumere adeguatamente le pagine di questa recensione per la coesione delle argomentazioni, strettamente interconnesse. Ma le obiezioni di Luzi alle Elegie non possono non essere passate agli annali di quel loro comune sodalizio nel cenacolo dei cosiddetti «ermetici» fiorentini di quei loro giovani anni, dove nell’immediato dopoguerra sarebbe apparsa accanto a Traverso la stessa Campo. Già Vincenzo Errante, primo traduttore di Rilke in Italia12, aveva ravvisato nelle Elegie di Duino un «alto e profondo dramma di ricerca lirica d’una verità speculativa in un continuo svariar di scenari», dove protagonista è «l’anima dello stesso poeta, nel suo travaglio doloroso di ricerca»13. E di fatto tutto il percorso di Rilke si può sintetizzare come naufragio nell’inquietudine, verso la morte. Nel rapporto poesia-vita in Rilke la vita soccombe. Errante aveva riassunto la parabola poetico-esistenziale in capitoli paradigmatici di quel tracciato: verso l’anima delle cose; traverso l’anima delle cose, a Dio; la sosta in Dio; traverso il mondo delle immagini, a Dio; attraverso Dio; attraverso la beatitudine delle forme; il naufragio nell’inquietudine; Orfeo, ovvero incontro alla morte.
- 14 Il tema della gioia intesa come disciplina interiore di una ascesi in primo luogo personale è stato (...)
9Ed è questo incessante «lavoro di qualificazione» di un mondo «già inizialmente stremato d’ogni possibile fecondità umana» — per tornare alla recensione di Luzi — che non può accordarsi con un’anima ardentemente vitale come quella di Cristina Campo, intensamente protesa a un’altra concezione di ‘destino’ permeata dei testi della Rivelazione cristiana. Cifre bibliche si conservano in Rilke come archetipi, ma l’uomo, il poeta, interprete del destino umano, in senso universale, si smarrisce in una sorta di panteismo. È questo «sussulto estremo di un temperamento educato alla percezione ultrasensibile di un mondo che non seppe mai allontanarsi dal più immediato sensibile» nel «declivio inaccessibile e necessario verso la morte» che non può conciliarsi con il temperamento di lei, appassionatamente fedele nella «disciplina della gioia» cristiana14.
- 15 «Non ricordo in quale pagina di Rilke ho letto una sua affermazione che suona a un dipresso così: “ (...)
10Traverso tornò a più riprese a lavorare all’opera di Rilke, rivedendo sempre di nuovo il lavoro già svolto. Diverse le varianti tra le varie edizioni. Quando poi diede alle stampe le Poesie sparse e ultime nella Collana Cederna di Vallecchi (1958), in un’altra recensione a distanza di vent’anni dalla prima Luzi, quanto alle Elegie duinesi, concluse che «per il felice accumularsi e articolarsi dei motivi la materia poetica di Rilke acquista il massimo della sua consistenza e della sua organicità e insieme la più vivida e libera altezza di canto», ma avendo fatto prima osservare come la spinta implacata della pulsione poetica sia come impossibilitata a trovare una sua univoca direzione, sottolineando anzi «intricate proliferazioni» dove, «in certe fasi della sua opera», spirituali e fisiologiche, «le due facce del mondo destinate a essere compenetrate dal poeta ci appaiono come un unico volto sfigurato»15.
11Dalla documentazione bibliografica non risultano traduzioni campiane da Rilke. Del resto, si sarebbe trattato di una sovrapposizione. Su Rilke Cristina tace; lo cita una sera a memoria (non fedelmente) alla Pieracci, in una lettera del giugno 1957, per invitarla in intima amicizia a valorizzare ogni momento della vita, a scrivere un diario, memento del vivere:
- 16 Lettera no 53 dell’11 giugno 1957, in C. Campo, Lettere a Mita, a cura e con una Nota di M. Pieracc (...)
Non credi che potrebbe farti bene — e un giorno aiutarti molto a comprendere — se tu scrivessi in un quaderno sigillato (per te sola, con l’idea di bruciare tutto fra un anno) tutto quello che vivi? «E si tratta precisamente di vivere tutto» disse Rilke, che qualche volta era molto grande anche lui16.
12Nondimeno l’eco delle Elegie duinesi percorre, più o meno sotterraneamente, l’opera letteraria campiana.
2. Una lettura intertestuale
13Seguendo in una prospettiva intertestuale il filo delle assonanze tra gli autori, si possono isolare alcuni passi dalle Elegie duinesi che echeggiano nell’opera letteraria campiana, con riferimento alle poesie e alle raccolte saggistiche di Fiaba e mistero e Il flauto e il tappeto: si tratta di formule peculiari, cellule lessicali, immagini o tematiche che persistono, si trasformano, rivivono reinventate per altri orizzonti di senso.
14Raffronti possibili che risaltano immediatamente e che si elencano auspicando ulteriori approfondimenti: i due regni, l’eterna corrente, il levitare dei santi ancora in ginocchio, le stele attiche e il gesto del saluto, l’ascolto, i volti e le stelle, e costellazioni reali e metaforiche. In questa sede si privilegiano quei luoghi dove le assonanze s’addensano, s’intersecano, o si elevano per intensità: nuclei o nodi tematici attorno ai quali ruota l’opera della Campo.
15La predominanza dei riferimenti alla Prima elegia dipende evidentemente dal fatto che, come in un’opera musicale, questo testo di incipit enuclea tutti i temi che si sviluppano, uno a uno e anche insieme al pari di una sinfonia, nelle successive.
- 17 Per la trascrizione del tedesco ci si attiene fedelmente, anche nella forma grafica, a quella di Tr (...)
- 18 R. Guardini, Rainer Maria Rilke. Le “Elegie duinesi” come interpretazione dell’esistenza, Premessa (...)
16Il divino. «Das Schöne ist nichts / als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen, / und wir bewundern es so, weil es gelassen verschmäht, / uns zu zerstören. Ein jeder Engel ist schrecklich» (I, 4‑7), «il bello / è solo l’inizio del tremendo, che noi sopportiamo / ancora ammirati perché sicuro disdegna / di sgretolarci. Sono gli angeli tutti tremendi»17. L’angelo appartiene agli stati superiori dell’essere; all’angelo è propria la bellezza, che in primo luogo si mostra a noi come grandezza e potenza. L’idea della divinità, che l’angelo rappresenta, non può collimare nei poeti posti a confronto se per Rilke si considera l’ultima fase della sua produzione. Le Elegie duinesi in unità con i Sonetti a Orfeo rappresentano il suo testamento spirituale, un messaggio contrapposto all’annuncio cristiano ma che promana in lui da una voce appartenente alla sfera del divino, che egli rilancia come da profeta. «La grande esistenza è bensì bella, ma la bellezza è soltanto il grado ancora tollerabile dell’effetto che ne promana»18, commenta questi versi Romano Guardini. La Campo condivide questa congiunzione del bello e del tremendo e frequentemente vi si sofferma, sino all’ultimo, sino all’opera postuma Diario bizantino dove, capovolgendo la prospettiva, «tremendo» in senso etimologico rappresenta una delle riprese anaforiche della terza parte, per esprimere la fede in una bellezza che si fa prossima destando tremore per potenza salvifica:
- 19 C. Campo, Diario bizantino e altre poesie, «Conoscenza religiosa», no 1, 1977. Ora in Ead., La tigr (...)
Tremendo è che nei nostri sguardi affondi
l’impassibile sguardo
di Chi ha compiutamente patito,
[…]
Tremendo che a ciascuno
sia di nuovo irrevocabilmente assegnato
per gli eoni degli eoni
come nell’Eden il suo nome e il suo cibo19.
17Ma più propriamente sulla natura degli angeli, le argomentazioni della Campo sembrano sovrapporsi come in controcanto a quella ripresa («Jeder Engel ist schrecklich») che costituisce l’incipit della Seconda elegia, tesa a sottolineare la distanza che è intervenuta nella modernità tra l’uomo e il divino: «Wohin sind die Tage Tobiae, / da der Strahlendsten einer stand an der einfachen Haustür, / zur Reise ein wenig verkleidet und schon nicht mehr furchtbar; / (Jüngling dem Jüngling, wie er neugierig hinaussah)» (II, 3‑6), «Dove i giorni mai di Tobia, / che uno dei più raggianti sostava a quell’umile soglia, / un poco travestito pel viaggio e non più spaventoso / (giovine al giovine, che avido fuori guardava)».
- 20 L’intervento di M. Luzi al Convegno in memoria di Leone Traverso (Villa Garzoni, Pontecasale, 28 ot (...)
- 21 Ivi, p. 212.
18Compito e compimento. Intervenendo a un convegno in memoria di Traverso, Luzi lo ricorda nel rapporto con i suoi autori: «[…] proponeva quegli esempi, filtrati attraverso la sua capacità di traduttore, ma anche di ricreatore, di poeta alla seconda potenza, che crea sulla creazione altrui, in un certo senso, di superpoeta»20. Non diversamente si espresse Carlo Bo introducendo la riedizione di Liriche e drammi di Hofmannsthal (1988): un «poeta che è rimasto segreto», scrisse, «pellegrino in cammino verso i grandi santuari della poesia», che «del mestiere, della ‘tecnica’ ha saputo fare una sorta di sacerdozio… senza paramenti, senza eloquenza»21.
19Traverso spinge sull’interpretazione quando il testo vira nel senso di una intensificazione: «Das alles war Auftrag. / Aber bewältigtest du’s? Warst du nicht immer / noch von Erwartung zerstreut, als kündigte alles / eine Geliebte dir an?» (I, 30‑33), «Era quello il destino. / Ma reggevi tu? Non eri sempre / ancora d’attesa turbato, come ogni cosa / ti annunciasse un’amata?». Così dell’attesa la traduzione esprime il turbamento anziché la distrazione e porta a leggere il compito («Auftrag») come «destino», poiché di vocazione in realtà si tratta, di mandato. Nella Campo urge questa congiunzione di compito, vocazione, destino, che rappresenta il punto focale di tutta la sua opera, e dell’esistenza.
20Del resto, per chiudere questa digressione sul tradurre, non si può negare quella libertà — o, potremmo dire, una certa disinvoltura — del germanista, il quale può nel giro di soli due versi aderire alla lettera, da una parte, e al tempo stesso inventare un’immagine capace di potenziare un concetto più teorico, come può essere quello dell’interpretazione del mondo: «und die findigen Tiere merken es schon, / dass wir nicht sehr verlässlich zu Haus sind / in der gedeuteten Welt» (I, 11‑13), «e gli animali sagaci ormai sanno / che non molto tranquilli noi stiamo di casa / in una foresta di segni».
- 22 Circa questo magistero e il «dono reciproco» tra allieva e maestro, si vedano per intero le pagine (...)
21Di tale lezione, fedeltà («noi stiamo di casa») e accensioni per immagini («in una foresta di segni»), la Campo si farà presto maestra, superando persino il maestro nel tradurre poesia, perché senza tradire mai il ritmo e lo spirito del testo al contempo deporrà ogni tentazione di debordare dalla sua verità nuda. Potrebbe accadere tra non molto, se non già ora, che la lingua delle traduzioni di Traverso si percepisca straniera in Italia, non credo possa capitare così alla parola poetica di Cristina Campo, la quale poi a un certo punto iniziò a nutrire riserve «sulla tentazione ‘preziosa’» del maestro22.
22Ma attingendo al medesimo episodio biblico dal libro di Tobia evocato da Rilke, dopo avere sviluppato il tema della fiaba come figura del viaggio scrive Cristina Campo a riguardo della «illuminazione», In medio coeli:
- 23 C. Campo, In medio coeli, «Paragone. Letteratura», a. XIII, no 150, 1962. Il saggio è poi confluito (...)
I fiori non si apriranno se ci si aspetta che s’aprano, ciò avverrà da sé quando il tempo sia maturo. L’illuminazione verso la quale si procede così non si raggiunge. Essa verrà da sé, quando il tempo sia maturo. La meta cammina dunque al fianco del viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo. O lo attende alle spalle, come il vecchio Tobia. In realtà egli l’ha in sé da sempre e viaggia verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la grotta — là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto. Quanto paradossale dunque l’idea, pure esattissima, di viaggio, di sforzo, di pazienza. In questo paradosso è il crocevia tra l’eterno e il tempo, perché la forma deve distruggersi da sé, ma solo nel momento in cui si compie perfettamente23.
23Pure nella condivisione di questa idea di perfezione di un compimento (nelle diverse figure simbolo addotte a esempio) sulla figura dell’angelo (o della divinità) nel rapporto con Rilke resta più forte la divergenza, motivata dalla fede che l’esito ultimo del compito rientri in una positività di superiore buona provvidenza — che Tobiolo viaggi sotto la protezione dell’Arcangelo è postulato come legge eterna, non come verità di un tempo remoto — al centro immobile della vita. Mentre in poesia possiamo riconoscere un’altra figurazione del medesimo concetto, un altro movimento, intorno a un’altra significativa tangenza con la Prima elegia.
24Nell’opera poetica della Campo il componimento che porta il titolo Il maestro d’arco, infatti, attinge a un’immagine potente dell’idea di destino che nella Prima duinese suona in modo analogo: «Sollen nicht endlich uns diese ältesten Schmerzen / fruchtbarer werden? Ist es nicht Zeit, dass wir liebend / uns vom Geliebten befrein und es bebend bestehn: / wie der Pfeil die Sehne besteht, um gesammelt im Absprung / mehr zu sein als er selbst. Denn Bleiben ist nirgends» (I, 49‑53), «Non devono alfine questi dolori remoti / recare a noi più frutto? Non è tempo che amando / dall’amato ci liberiamo, vincitori frementi? / Come la freccia il tendine vince per oltrepassare / nel balzo raccolta se stessa. Ché il moto è perenne». Poiché non ha luogo il restare, la forma si distrugge, per il compimento. Rilke sta celebrando, per la sua teoria dell’esistenza, le grandi eroine d’amore, le abbandonate che, inappagate, rimangono fedelmente amorose, amando infinitamente, indefinitamente, «all’aperto»; ed esemplifica il concetto con questa similitudine. Campo sembra assumere su di sé la stessa condizione con una medesima metafora (di compito o destino), ma l’amato, l’assente, è al maiuscolo e il proprio slancio nell’offerta di sé viene a riguardare per destinazione una meta più alta.
- 24 Il maestro d’arco, dal Quadernetto, in C. Campo, La tigre assenza, cit., p. 32.
Il maestro d’arco24
Tu, Assente che bisogna amare…
termine che ci sfuggi e che c’insegui
come ombra d’uccello sul sentiero:
io non ti voglio più cercare.
Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,
se la corda del cuore non sia tesa:
il maestro d’arco zen così m’insegna
che da tremila anni Ti vede.
(Giardino Bonacossi, ottobre ’54, a B. B.)
- 25 «Per essere veramente maestro nel tiro con l’arco […] la tecnica va superata, così che l’appreso di (...)
25Tutta rivolta a un Tu maiuscolo, la poesia è evidentemente una preghiera nell’anelito verso l’Assente che non si può non amare, termine sfuggente cui non si può sfuggire, che anzi c’insegue come ombra dall’alto, senza possibilità di scampo. Se la similitudine «come ombra d’uccello sul sentiero» rammemora in qualche modo la presenza degli angeli in Rilke, dall’incipit della Seconda elegia, «quasi mortali dell’anima uccelli», in realtà tutte le sublimi figurazioni del contesto sono declinate nelle forme della teologia negativa proprie alle filosofie e alle religioni orientali (che affascinarono lo stesso Rilke) nell’ottica del vuoto interiore e del puro abbandono. La tensione continua infatti affatica e l’arte zen del tiro con l’arco, più rito che esercizio, capovolge gli schemi, deponendo lo sforzo per fare vuoto di idee, di intenzioni, gesti, per arrivare a svuotare l’io: arciere e freccia si fanno tutt’uno25 ed è l’arciere a essere colpito: «un colpo, una vita» pare sia il detto dei maestri. Ne scrisse il filosofo tedesco Eugen Herrigel, che la Campo dovette conoscere: il piccolo volume Zen in der Kunst des Bogenschiessens è stato poi tradotto in Italia da Gabriella Bemporad, amica personale di Cristina e collaboratrice di Traverso per le imprese di traduzione:
- 26 E. Herrigel, ivi, p. 63.
Come «con una candela accesa se ne accende un’altra», così il maestro trasmette lo spirito della vera arte da cuore a cuore, perché s’illumini. Se ciò gli è concesso, l’allievo ri‑cor‑da che più importante di tutte le opere esterne, anche le più affascinanti, è l’opera interiore che egli deve attuare se vuole portare a compimento la sua vocazione d’artista. Ma l’opera interiore consiste in questo: che da quell’uomo che è, da quel Sé che si sente e sempre si ritrova, egli diventi materia per una educazione e una formazione al cui termine sta la maestria. In essa l’artista e l’uomo in tutta l’estensione del termine s’incontrano su un piano più alto. Poiché la maestria è giustificata come forma di vita solo se vive di una verità sconfinata e, sostenuta da essa, è l’arte delle origini. Il maestro non cerca più, trova26.
26Ecco, dunque, perché non cercare («vibrerò senza quasi mirare la mia freccia»). Poiché la poesia/preghiera nella fattispecie non è che una sola grande metafora, ecco il protendersi di tutta se stessa: quella offerta di sé che in un attimo appena va «a configgersi nel futuro» — perfetto compimento —, come è degli eroi secondo Rilke, sempre in ammirazione degli stati dell’essere più intimi all’integrità originaria, quali sono, così come gli eroi, i piccoli nella prima infanzia, i morenti, gli amanti (ma questi ultimi sino a una certa fase del rapporto).
27Le medesime figurazioni che avvertiamo in qualche modo archetipiche ricorrono anche nei saggi campiani. Vi ricorrono anche in forma metapoetica:
- 27 Parco dei cervi, in C. Campo, Fiaba e mistero, Firenze, Vallecchi, 1962. Ora in Ead., Gli imperdona (...)
La pura poesia è geroglifica: decifrabile solo in chiave di destino. Per anni tornare estatici alla bellezza delle anatre, degli arcieri […]. Ma intorno alla loro posizione segreta, finché la mia stessa sorte non me ne diede la chiave, giravo ciecamente27.
- 28 Cfr. A. M. Tamburini, Cristina Campo e Louis Massignon. Unità d’azione nelle diverse curve dei dest (...)
28I saggi stessi sono concepiti per altro, anche nella struttura, come opere di poesia, architettate in forma apparentemente aforistica, giacché ogni capoverso si può astrarre dal contesto formando un discorso compiuto a se stante, ma attraversate da grandi anafore, quasi riprese musicali28. Certamente la Campo ebbe in dono un orecchio musicale ineguagliabile, immediatamente accorto nel riconoscere musica nel testo poetico. Lo stesso Rilke, come notò Vincenzo Errante, concepì le Elegie come una grande sinfonia; è il motivo per cui la Prima anticipa, contiene in sé, lancia i germi di tutti i motivi che si svilupperanno poi nel seguito sino all’explicit. E questa sinfonia — musica anche dell’architettura dell’opera, come delle grandi figurazioni ricorrenti, o di formule espressive ricorrenti, a Cristina giunse, in quella fase della sua vita, come ‘sovrappiù’ di poesia (lo «spreco» di poesia sulla poesia) dalla voce della figura amata del maestro compagno.
- 29 Così nella traduzione di Anna Lucia Giavotto Künkler in R. M. Rilke, Poesie 1907‑1926, a cura di A. (...)
29Le eroine d’amore. L’altro tema che a quello del compimento viene strettamente a intrecciarsi nell’opera poetica campiana è quella amoroso. Ineludibile un confronto tra i poeti sulla teoria dell’amore, tra assonanze e dissonanze, o divergenze. «Sehnt es dich aber, so singe die Liebenden» (I, 36), «Ma se hai nostalgia, canta allora le amanti», si può leggere semplicemente29. «Ma canta, se t’accora nostalgia, l’eroine d’amore», traduce Traverso, forzando il testo se preso alla lettera e tuttavia in modo fedele al senso più ampio del discorso nel suo svolgersi: «Jene, du neidest sie fast, Verlassenen, die du / so viel liebender fandst als die Gestillten» (I, 38‑39), «Quelle, tu quasi le invidii, le abbandonate, che tanto / apparvero a te, più delle placate, amorose». Traverso prepara il terreno all’esempio di Gaspara Stampa e alla comparazione con il destino dell’eroe: «denk: es erhält sich der Held, selbst der Untergang war ihm / nur ein Vorwand, zu sein: seine letzte Geburt. / Aber die Liebenden nimmt die erschöpfte Natur / in sich zurück, als wären nicht zweimal die Kräfte, / dieses zu leisten» (I, 41‑45), «Pensa: l’eroe sopravvive, a lui l’ultimo giorno / schiudeva la nascita estrema. / Ma nel suo grembo raccoglie le amanti l’esausta natura, / quasi a compire non valga due volte il prodigio». Rilke riprenderà la celebrazione dell’eroe per tutta intera la Sesta elegia, ma a questo punto intende celebrare la ‘prestazione’ delle amanti, che resta unica; non può ripetersi quello che il traduttore esalta come il loro «prodigio», questo amore implacato — neanche inappagato — ma più intensamente dilatato. «Hast du der Gaspara Stampa / denn genügend gedacht, dass irgend ein Mädchen, / dem der Geliebte entging, am gesteigerten Beispiel / dieser Liebenden fühlt: dass ich würde wie sie?») (I, 45‑48), «Hai tu celebrato il ricordo di Gaspara Stampa, / che una fanciulla, cui l’amato sfuggiva, / emulando s’incuori: io sarò come quella?». Ed ecco come ancora una volta si intrecciano temi e motivi che sono propri alle Elegie nell’opera della Campo:
- 30 Parco dei cervi, in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 144.
L’amore è per essenza tragico perché da esso — solo da esso — la freccia del nostro presente vola istantaneamente a configgersi nel futuro: superando di colpo tutto lo spazio che noi dovremo lentamente percorrere, fissando un termine ignoto a cui non potremo in alcun modo sottrarre la nostra anima. «Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puote ire per desiderio di ritornare»30.
- 31 Vita Nova, XIV, 8.
30La citazione dalla Vita Nova31 esprime coerentemente la dimensione, non spaziotemporale, del «termine ignoto», che pare un ossimoro, ma anche per ciò mantiene il mistero dell’oltre. Poi il discorso pare interrompersi per aprire un altro orizzonte di senso con una nuova citazione, ora weiliana:
- 32 Parco dei cervi, in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 144. Dalle Rime di Gaspara Stampa, il son (...)
«La grande énigme de la vie humaine ce n’est pas la souffrance, c’est le malheur». È una scoperta che pochi fanno ed è forse la sola pietra angolare su cui sia dato di porre il piede. Si potrebbe spartire il regno del patimento umano in sventura della mano destra e sventura della mano sinistra. Gli antichi conoscevano queste sacre metafore, oltre le quali non c’è definizione possibile. La sventura della mano destra sta alla sventura della mano sinistra come una ferita da arma bianca sta alla stretta delle sabbie mobili, alla morte per sete nel deserto. La povertà, l’addio, la persecuzione, la stessa morte possono essere sventure della mano destra. Molta poesia ne è fiorita, la più bella. Le sventure della mano sinistra quasi sempre restano mute. Pochi scampano a raccontarle, come Giona dal ventre del Leviatano. È il miracolo del Filottete e del Riccardo II, del Tramonto della luna e degli ultimi versi di Hölderlin. Di Un amour de Swann e della Stanza numero 5. Di quel sonetto miracoloso di Gaspara: «Signor, io so che in me non son più viva». Poche cose e a distanza di secoli. Come nella Fenice, la vita vi risplende al di là delle proprie ceneri32.
- 33 Ora in C. Campo, Sotto falso nome, cit., p. 194.
- 34 «Dai giorni miracolosi di Gaspara Stampa si stendono fino a noi quattro secoli, quasi deserti in It (...)
31Il regno del patimento umano può ricordare al contempo il paese delle Lamentazioni della Decima elegia, ma del «prodigio» che la Prima, invece, attribuisce alle eroine d’amore, di quel patimento umano che si tramuta in prodigio, è sintomatico il ricordo della poesia di Gaspara Stampa, figura particolarmente cara alla Campo, il cui nome compare, insieme a quello delle «più pure» voci femminili della poesia e della mistica, nella scheda editoriale redatta per l’editore Casini (1953)33 per il progetto di un Libro delle ottanta poetesse. «Miracolosi» sono detti ancora i giorni di questa sua eroina d’amore in un articolo sulla giovane poesia che nella fattispecie riguardava Maria Luisa Spaziani34. «Oggi penso di nuovo a Gaspara Stampa. Quella era un genio, mi pare. Debbo parlarne…», scriveva Cristina a Mita il 17 settembre 1958. Un secondo brano sull’amore, sempre da Parco dei cervi:
- 35 Parco dei cervi, in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 155.
Fosse ciascun amante assorto solo nel proprio amore, dolcemente incurante dei sentimenti dell’altro e insieme, proprio per questo, dimentico di sé, immerso come un pesce gioioso nella realtà dell’altro. Nessun amore avrebbe fine mai. «Che io non voglia mai chiederti amore» — dovrebb’essere il voto reciproco degli amanti, la formula sacramentale delle nozze. È un equilibrio impossibile, ma di che altro l’amore vorrà vivere? «Finché non siate in grado di udire l’applauso di una sola mano…». Ogni amore è un cammino sulle acque di Genezaret: un dubbio, un timore, uno sguardo in basso e si affonda. Gli occhi dovrebbero sempre restare alti, fissi al dio tranquillo che ci tende la mano35.
32In questa concezione dell’amore che si dona puro, liberato dalla tentazione di porre vincoli, o dall’istinto di dominare l’altro, il paragone con l’episodio evangelico del tentennamento di Pietro sul lago in tempesta spiega perfettamente, come opposto, l’atteggiamento che salva: questo sguardo alto, che Rilke riconosce agli animali, all’infanzia, agli eroi, ai morenti — le creature che sono solo occhi sull’aperto («das Offene», VIII, 2), respiro verso l’aperto («ins Freie», VII, 38). Si percepisce una diversa, più alta profondità di mistero in questa sommamente sintetica concezione dell’amore di Cristina Campo che non in tutta la lunga articolata teoria delle Elegie, dove nell’«aperto» si dispongono sì i medesimi piani dell’esistenza, anche la Campo si sofferma sull’infanzia, sulla figura dell’eroe e del santo, in Parco dei cervi, In medio coeli, ma in un altro orizzonte di senso, per un’altra concezione di destino, una diversa visione di una meta. L’ideale di un amore interamente donato si sostiene nella Campo sulla fede in un Amore al maiuscolo, che trascende l’umano, («Assente» alla percezione dei cinque sensi nell’ordine delle realtà visibili), ma che anche lo visita e lo conduce («ci tende la mano») non appena, riconosciuto il desiderio del cuore, gli occhi si rivolgano «alti, fissi al dio tranquillo che ci tende la mano». La sua fede credente — si passi questa formula, solo in apparenza tautologica — non ammette duplicità, o molteplicità, non può perdersi nell’indistinto: la persona è unitaria, la curva del destino una freccia unidirezionata.
33Una suggestione lessicale. «Schliesslich brauchen sie uns nicht mehr, die Früheentrückten, / man entwöhnt sich des Irdischen sanft, wie man den Brüsten / milde der Mutter entwächst» (I, 86‑88), «Più bisogno non hanno di noi quelli che prematuri / si staccarono, dalla terra ci si divezza / soavemente come dal seno materno». Il medesimo motivo («dem der Entwöhnung») ritorna in chiusura dell’opera rilkiana, là dove nella Decima elegia (al verso 48) appare una giovane Lamentazione e «Solo i giovani morti, nel primo grado di quella / placidità senza tempo, che si divezzano ancora / dalla terra, la seguono innamorati».
- 36 Ora non resta che vegliare sola, in C. Campo, Passo d’addio, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 8 (...)
34Oltre che per una migliore fluidità del verso, tradurre entwöhnen con ‘divezzare’ (denominale derivato da vitium postposto al prefisso de), anziché con il più comunemente usato ‘svezzare’, rende forse con maggiore fedeltà il senso del deporre un’abitudine. E mentre Rilke lo attribuisce ai morti sia nella Prima duinese che nell’ultima, come richiudendo ad anello l’opera, la Campo lo usa in senso ancora più astratto nell’opera prima, ma nella concretezza di una condizione di desolazione, solitudine, perdita, spoliazione da tutto ciò che prima era sole e ora ombra: «Ora non resta che vegliare sola / col salmista […] non resta che protendere la mano / tutta quanta la notte; e divezzare / l’attesa dalla sua consolazione, / seno antico che non ha più latte»36. Al contempo quel «divezzare / l’attesa» sembra raccordarsi a quel precedente verso della medesima Prima elegia: «Non eri sempre d’attesa turbato come ogni cosa / t’annunciasse un’amata?» (I, 31‑32). Rilke sta dicendo che l’uomo tende a distrarsi dal compito che le cose gli chiedono, come egli fosse sempre in attesa di qualcosa. Traverso, introducendo la similitudine con l’attesa di un’amata, traduce in turbamento la distrazione. All’opposto, mentre si appresta a dire addio, la Campo è turbata da quel sottile senso di consolazione che si può insinuare nella condizione di attesa, che bisogna deporre («divezzare»), per non alterare il vuoto della sua notte oscura, da salvaguardare qual è.
35Ritroveremo nuovamente il medesimo verbo «divezzare» nella traduzione da John Donne:
- 37 Il buongiorno [prima stanza], in J. Donne, Poesie amorose. Poesie teologiche, a cura di C. Campo, T (...)
Il buongiorno
Mi chiedo in fede: che facemmo noi
prima di amare? Divezzati ancora
non eravamo e allattati di rustici
piaceri, come i bimbi? O russavamo
nella caverna dei Sette Dormienti?
Fu così. Ma non erano che ombre
di piaceri. Se mai vidi bellezza
e la volli e la ebbi,
non fu che sogno della tua bellezza37.
- 38 J. Donne, Tre versioni di Cristina Campo, «Paragone. Letteratura», a. XI, no 128, 1960, pp. 71‑73.
36Quando si incontra un volto che ci corrisponde, si desidera intensamente amare, sentendosene umanamente capaci, tanto più nell’ottica dell’amore cristiano, che non si sottrae alla fisicità — sacra — per farne tempio dello Spirito. Così, tutto il tempo che precede l’incontro pare sciupato, tutti i piaceri insignificanti. Con Il buongiorno siamo nella prima parte del volume delle poesie di Donne tradotte dalla Campo, quelle amorose. Anche la scelta che fece di quelle poesie per Einaudi potrebbe adeguatamente illustrare la visione dell’amore secondo la traduttrice. Le versioni dei primi testi selezionati per il libro erano del resto già apparse oltre un decennio prima, nell’agosto 1960: Congedo, a vietarle il lamento, Il buongiorno, da La canonizzazione38.
- 39 Congedo a vietarle il lamento [stanze 4‑6], in J. Donne, Poesie amorose. Poesie teologiche, cit., p (...)
L’amore degli ottusi amanti sublunari
(la cui anima è il senso) non intende
l’assenza, che rimuove
le cose che gli furono elemento.
Ma noi, grazie a un amore raffinato
al punto che noi stessi ne ignoriamo l’essenza
nella muta certezza della mente
meno curiamo perdere labbra, pupille, mani.
Le nostre anime, dunque, che sono una,
sebbene io debba andare, non patiscono
frattura ma espansione, come oro
battuto fino alla più aerea lama39.
- 40 Da Holy Sonnets (Divine Meditations), XVII, ivi, p. 81.
- 41 La citazione dal sopracitato sonetto XVII, nella introduzione, ivi, p. 9.
- 42 Ivi, p. 109.
37«Fino alla più aerea lama»: un amore raffinato spiritualmente — nella poesia di Donne, al punto da non potere risalire alla sua più propria essenza — anima la relazione naturale tra gli amanti, i quali, disgiunti poi dalla morte, anche nel vuoto straziante scavato dalla assenza si sanno eternamente uniti nella Comunione dei santi e possono riconoscere, nonostante quel nadir di sofferenza, che «ammirarla [l’assente] affilò la mia mente / a cercarti, Signore, così i torrenti / svelano la loro polla…»40. Si volge in preghiera in tal modo la lode che nelle poesie amorose era dedicata all’amata, mentre ora all’Amore, nel quale l’amata stessa riposa. Sono questi i versi che la traduttrice/curatrice cita nella sua introduzione41 per spiegare l’orizzonte di una ricerca nella fede capace di riconoscere nelle perdite il disegno di una mano sapiente: «la morte dell’amata è insieme sole caduto e vigilia notturna della “lunga Festa” (“festività”, dice letteralmente Donne) della beatitudine, del ricongiungimento a cui l’uomo si vota con lutto definitivo», si legge nelle note al testo di Notturno sopra il giorno42. Si avverte, per inciso, una velata allusione a quell’altro «faro» dell’universo campiano, giacché «ricongiungimento» ricorda evidentemente Hofmannsthal: da Andrea o i ricongiunti (pubblicato a cura di Traverso nella traduzione di Gabriella Bemporad) Cristina cita frequentemente anche nella conversazione con gli amici o nelle lettere. La scrittura campiana intreccia sempre più autori su molti piani di significato.
38Scrive la Pieracci Harwell, per spiegare i «due mondi» (ovvero i due lati del tappeto) e il richiamo dell’altrove, annodando diversi fili delle precedenti argomentazioni:
- 43 M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e i due mondi, C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 402.
L’amore terrestre è un ponte non per la sua essenza, a cui l’aggettivo limitante non può in alcun modo attentare, ma perché quell’aggettivo lo chiude entro le circostanze — lo spazio, il tempo — del nostro mondo finito. Lo strazio della perdita — giusto, perché piange l’assoluto che lo diserta — è dunque patente di nobiltà. Trascendere la disperazione significherebbe vedere che, se l’uomo, qui incapace di infinito, ne è cupido, questa è la prova che appartiene a un altrove. Ma che all’improvviso ciò divenga evidente è grazia, e noi non possiamo che prepararle il terreno chiamando vuoto il vuoto, rifiutando le false consolazioni43.
- 44 R. Guardini, Rainer Maria Rilke, cit., p. 142.
39Se non per l’anelito a una generosa purezza libera da ogni vincolo terreno, notevoli divergenze si possono invece ravvisare con la teoria dell’amore di Rilke, perché in ultima analisi, come a più riprese ha mostrato quell’interprete finissimo delle Elegie duinesi che fu Guardini, nella sua poesia la persona si dissolve. Rilke non poteva condividere il materialismo biologico di Freud — che, per quanto non direttamente, conobbe (principalmente tramite Lou Andreas-Salomé) —, e tuttavia l’opera non ne rimase esente: nelle Elegie viene disfacendosi la distinzione tra sesso ed eros, istinto e amore personale, convergendo tutto nella sola categoria dell’“amore”44:
- 45 Ivi, pp. 142‑144.
Anche il vincolo più spirituale include aspetti istintivi e che può essere di lì posto in crisi. […] A un materialista biologo può accadere di vedere il nucleo spirituale dell’amore, cioè il porsi di fronte dell’io e del tu, legato fino a tal punto con l’anonimia dell’istinto da porli entrambi sotto un comune denominatore chiamato «amore», ma a un Rilke ciò sarebbe dovuto riuscire impossibile. Se egli ciononostante lo poté, deve esserci stata una ragione particolare, e questa sembra risieda nella sua teoria dell’amore. Tale teoria è sublime al punto da trascendere non solo ogni sensibile brama, ma perfino il rapporto dell’io‑tu. Tuttavia a causa di ciò il centro dell’esistenza umana, la persona, si estingue; la persona, ossia la ontologica realtà di fatto della possibilità del dialogo fra uomini […]. Solo quando l’esperienza fondamentale della personalità come del nòcciolo dell’esistenza umana è debole come lo è in Rilke, è possibile concludere a una teoria dell’amore quale sta contenuta nel messaggio delle Elegie. Il fatto che l’istinto venga senz’altro sentito «colpevole» […] costituisce l’intrinseca giustificazione della formula secondo cui l’amore autentico non deve aver a che fare con un tu, bensì deve indirizzarsi verso uno spazio puramente aperto. È qui all’opera un dualismo segreto, il quale, come mostra la storia della gnosis, può ad ogni momento rovesciarsi in una identificazione di istinto e di spirito. È uno strano paradosso, ma esprime una legge fondamentale dell’esistenza dell’uomo il fatto che ciò che garantisce realmente all’istinto, ossia al corpo, il suo proprio diritto e la sua possibilità di purezza, è la dignità della persona45.
- 46 R. Guardini, Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins. Eine Interpretation der „Duineser Elegien“, B (...)
40Ed è a questo livello che la visione dell’«aperto» nell’esperienza amorosa, parimenti condivisa dai poeti in apparenza, in realtà diverge: sul rapporto interpersonale e l’integrità della persona. Non sappiamo se la Campo conoscesse la monografia di Guardini apparsa nel 194146. A Guardini l’accomuna un’etica esistenziale che affonda lo sguardo sulla visione cristiana nelle opere degli autori, nello sgomento per il senso del destino in dissolvimento a causa del disintegrarsi della personalità, sempre più minacciata nell’estremo individualismo.
- 47 Pare abbastanza improbabile che la Campo non abbia prestato attenzione alle pubblicazioni di Guardi (...)
41Numerose altre citazioni si potrebbero proporre sulla teoria dell’amore di Rilke secondo Guardini, ma alcuni passaggi di questa si accordano evidentemente, da prospettive diverse, con le riflessioni di Luzi e possono per qualche aspetto spiegare le ragioni profonde di quelle riserve (sulla natura ancipite dell’opera, sulla duplicità dell’autore), che possiamo intuire da lei condivise47. Singolare che nella postilla a chiusura del suo volume (uno sforzo interpretativo di lunghi anni mosso dalla bellezza dell’opera rilkiana e dal fascino delle problematiche sollevate, ma allarmato dall’individualismo, terreno propizio al fiorire delle istanze totalitarie, dove la personalità si disintegra) Guardini suggerisca a chi cerchi un maestro in poesia di diffidare di Rilke, di orientarsi piuttosto su Mörike oppure su Goethe.
- 48 «Come un tessitore hai arrotolato la mia vita» (Is 38,12). Si tratta del Cantico di Ezechia.
42Il tappeto. Con la Quinta elegia diventa dominante un’altra figura di destino: «wie aus geölter, / glatterer Luft kommen sie nieder / auf dem verzehrten, von ihrem ewigen / Aufsprung dünneren Teppich, diesem verlorenen / Teppich im Weltall» (V, 6‑10), «essi [i vagabondi] come da un’aria oliata, / più liscia, riscivolano sopra il tappeto / consunto, sottile ogni giorno più dall’eterno / balzare dei corpi, perduto / tappeto nell’universo». Di matrice biblica, per evidente analogia con il profeta Isaia48, l’immagine del tappeto si sviluppa con non meno energia vitale completamente rinnovata nell’opera della Campo, la quale fa propria questa splendida figurazione con il saggio Il flauto e il tappeto, eponimo, posto a chiusura del libro pubblicato con Rusconi, che costituisce in tal modo l’explicit dell’intera raccolta di saggi al tempo stesso in cui si dispiega nell’insieme come climax.
- 49 La poesia si trova pubblicata in G. Caproni, Tre antologie radiofoniche. I sentieri della poesia – (...)
43«Engel: es wäre ein Platz, den wir nicht wissen, und dorten, / auf unsäglichem Teppich, zeigten die Liebenden, die’s hier / bis zum Können nie bringen, ihre kühnen / hohen Figuren des Herzschwungs, / ihre Türme aus Lust, ihre / längst, wo Boden nie war, nur aneinander / lehnenden Leitern, bebend, — und könntens, / vor den Zuschauern rings, unzähligen lautlosen Toten: / Würfen die dann ihre letzten, immer ersparten, / immer verborgenen, die wir nicht kennen, ewig / gültigen Münzen des Glücks vor das endlich / wahrhaft lächelnde Paar auf gestilltem / Teppich?» (V, 95‑107), «Angelo, e se una piazza, che noi ignoriamo, ci fosse, / dove gli amanti sopra un tappeto indicibile quelle / alte figure ardite del cuore / mostrassero, qui mai compite, / le loro torri di gioia, le scale appoggiate da tempo / sulla voragine solo l’una all’altra, tremanti, — / tanto potendo in faccia / a un’infinita corona di taciti morti: / getterebbero allora essi le loro monete, / le ultime, sempre risparmiate, sempre nascoste, / le monete di felicità dal corso infinito / (noi non le conosciamo) davanti alla coppia / alfine sorridente d’un vero sorriso / sul tappeto placato?». C’è una poesia della Campo (non ancora acquisita nelle bibliografie, a quanto ho trovato sinora)49 che pare annodare più di una immagine da questi versi di Rilke:
Non dissi nulla di te,
la mia ombra rimase sotto la pioggia.
Apersi come sempre vecchi libri contro la notte,
quando sibila il Nord fra rigo e rigo.
Non fiatai neppure con i morti
allibiti e soavi, curvi sulla voragine
di sera in sera aperta nella piccola
preghiera su cui mi lasciarono.
Banchi di voluttà proseguirono il loro sonno
sul bianco fondo del pianto
(allo specchio ritentava un angelo
su bocca tanto muta la fossetta impossibile).
Io trattenevo il mio sangue.
Restava il Paradiso aperto sulla mia palma —
moneta altrui, un attimo smarrita
un attimo solo non cercata.
44Dopo la prima quartina, nella quale si avverte più forte l’eco di Hofmannsthal, le successive tre stabiliscono riferimenti più puntuali alla Quinta elegia: dopo la notte, i morti, curvi sulla voragine, e la moneta. L’eco della parabola evangelica (dove il regno dei cieli è paragonato al tesoro per cui uno è disposto a vendere tutti i suoi averi — secondo Matteo 13, 44‑45), intenzionalmente attivata nella Elegia, si sfuma nella poesia della Campo, declinata in senso opposto a Rilke: quella moneta è dono inaspettato, non cercato, precipitato come un Paradiso sul palmo della mano. Felicissima per il dinamismo anche la declinazione posta tra parentesi della figura dell’angelo allo specchio, che, partecipe nel suo silenzio, ammicca un impossibile sorriso (vagamente ricordando la similitudine di Purgatorio XXI, 109).
- 50 Diario bizantino, in C. Campo, La tigre assenza, cit., pp. 45‑46.
45Nella Quinta elegia duinese il tappeto è rappresentato in realtà come una tomba: «Du, der mit dem Aufschlag, / wie nur Früchte ihn kennen, unreif, / täglich hundert Mal abfällt vom Baum der gemeinsam / erbauten Bewegung, (der, rascher als Wasser, in wenig / Minuten Lenz, Sommer und Herbst hat) — /abfällt und anprallt ans Grab» (V, 40‑45), «Tu che, rimbalzando / come soltanto i frutti rimbalzano, acerbo ogni giorno / cento volte ti spicchi dall’albero del movimento / elevato in comune (che rapido più d’un torrente / in pochi istanti ha la sua primavera, l’estate e l’autunno) — / ti spicchi e alla tomba ti abbatti». Traverso, portando alle estreme conseguenze la metafora dell’albero, traduce il verbo cadere come lo ‘spiccarsi’ dall’albero del frutto maturo. La Campo riprenderà questo verbo, per usarlo in modo ancora più icastico nella poesia liturgica di Diario bizantino correggendo la visione dei due regni secondo le Elegie duinesi e interpretando così il passo della lettera agli Ebrei, là dove la Parola di Dio come nel Salmo (149, 5‑6) si dice «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebrei 4,12): «La soglia, qui, non è tra mondo e mondo / né tra anima e corpo, / è il taglio vivente ed efficace / più affilato della duplice lama / che affonda / sino alla separazione / dell’anima veemente dallo spirito delicato / — finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa — e delle giunture dagli ossi / e dei tendini dalle midolla: / la lama che discerne del cuore / le tremende intenzioni / le rapinose esitazioni»50.
- 51 In medio coeli (cit.), in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 18.
- 52 Ivi, p. 20.
- 53 È rimasta laggiù, calda, la vita, di Passo d’addio (cit.), in C. Campo, La tigre assenza, cit., p. (...)
46La densità dell’infanzia. «Glaubt nicht, Schicksal sei mehr als das Dichte der Kindheit» (VII, 36), «Né più che la folta selva dell’infanzia è il destino». «Tutti i piani dell’esistenza sembra investire questo tenace rapporto fra l’infanzia e la morte», scrive la Campo51; «Rebus di limiti illimitati l’infanzia»52. E ancora, sempre dalla Settima elegia duinese, «Hiersein ist herrlich. Ihr wusstet es, Mädchen, ihr auch, / die ihr scheinbar entbehrtet, versankt […] Denn eine Stunde war jeder, vielleicht nicht / ganz eine Stunde, ein mit den Massen der Zeit kaum / Messliches zwischen zwei Weilen —, da sie ein Dasein / hatte. Alles. Die Adern voll Dasein» (VII, 39‑40, 42‑45), «Esistere in terra è divino. E anche voi lo sapeste, / fanciulle che affondavate, deluse […]. Ché un’ora, né forse un’intera / ora, un attimo forse tra due pause ebbe ognuna / una vita. Ebbe tutto. Le vene colme di vita». Un’eco di questa sospensione fulminea (un’intera esistenza come «tra due pause») si percepisce nei versi di Passo d’addio dove un’espressione analoga («tra due sonni») si rimodula nel componimento È rimasta laggiù, calda, la vita, per dire che l’affettività («la carezza») è presto svanita, è rimasta solamente nel sogno del dormiveglia: «Rimasta è la carezza che non trovo / più se non tra due sonni»53.
47Verso la fine della Prima elegia si leggeva: «Aber wir, die so grosse / Geheimnisse brauchen, denen aus Trauer so oft / seliger Fortschritt entspringt —: könnten wir sein ohne sie?» (I, 88‑90), «Ma noi che di sì grandi misteri / ci nutriamo e talora dal lutto sospinti / felicemente avanziamo: — saremmo noi senza i morti?». Traverso intensifica l’‘aver bisogno’ traducendo il senso della precarietà con il verbo ‘nutrirsi’. La Campo riassume la sua personale visione, ancora legata alla lezione di Rilke, trasponendo nel saggio il linguaggio immaginifico della poesia per rimodulare in modo completamente personale tutti i principali elementi dispiegati nelle Elegie. Anche nella Decima duinese, come in chiusura della Prima, in modo simmetrico Rilke riprende il medesimo tema, in explicit, dove con linguaggio figurato i simboli che i morti ci destano suscitano la similitudine con i «penduli amenti del vuoto avellano» e con la «pioggia / che nella terra buia precipita di primavera» per concludere definitivamente con un movimento che, saliente nel pensiero, in realtà discende («cade»). Da parte sua, rimodulando gli elementi dispiegati nelle Elegie, scrive Cristina Campo nel saggio Il flauto e il tappeto:
- 54 C. Campo, Il flauto e il tappeto, cit. Ead., Gli imperdonabili, cit., p. 137.
Esiste per ciascun viandante un tema, una melodia che è sua e di nessun altro, che lo cerca fin dalla nascita e da prima di tutti i secoli, pars, haereditas mea. Come, dove discernerla? / Nella voce dei morti prima di tutto, i cui ossami, come lo zufoletto dell’ucciso, sembra talvolta di sentire cantare sommessamente. Nei quattro tesori che i morti ci legano e per i quali non sembra molto gettare la propria vita se al di fuori di essi è un astro morto la vita: il paesaggio, il linguaggio, il mito, il rito. Al fuoco del flauto le quattro sfingi sorelle rialzano il capo nel nostro sangue54.
Notes
1 V. Guerrini, Tre poesie di Emilia Dickinson, «Meridiano di Roma», 7 marzo 1943, p. vi. Successivamente, a distanza di sei mesi dalle prime, firmate Vittorio [sic] Guerrini, Tre poesie di Emily Dickinson, «Meridiano di Roma», 12 settembre 1943, p. vi. Questi sei testi sono rimasti fuori dal volume postumo di poesie e traduzioni poetiche, C. Campo, La tigre assenza, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi Edizioni, 20013 (1991), dove della Dickinson si trovano sei poesie tradotte successivamente; né questi testi risultano ancora acquisiti alle bibliografie. Si deve a Domenico Scarpa il recupero delle prime tre, in D. Scarpa, Le perfezioni di Cristina, «Il Sole 24 ore», 5 dicembre 2010, p. 10. A una conseguente, personale consultazione del fascicolo raccoglitore di tutto il «Meridiano di Roma», delle altre tre ho dato notizia con il saggio Riverberi di estate indiana. Sulla presenza di Emily Dickinson nell’opera di Cristina Campo («Città di Vita», 2011, no 2‑3), confluito in A. M. Tamburini, Per amore e conoscenza. Cifre bibliche nella poesia di M. Guidacci, C. Campo, A. V. Reali sulla scia di Emily Dickinson, San Cataldo / Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2012, pp. 181‑185.
2 M. Pieracci Harwell, Perseveranza oltre la speranza, in C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953‑1967), a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi Edizioni, 2007, pp. 207‑208.
3 R. M. Rilke, Elegie duinesi, traduzione e prefazione di L. Traverso, Firenze, Fratelli Parenti Editori, 1937.
4 R. M. Rilke, Elegie duinesi, a cura di L. Traverso, Milano, Cederna, 1947; poi, Firenze, Vallecchi, Collana Cederna, 1959.
5 R. M. Rilke, Ultime poesie, a cura di L. Traverso, Firenze, Fussi Editore, (s.d.); poi Poesie (1906‑1926), Collana Cederna, Firenze, Vallecchi, 1958.
6 R. M. Rilke, Lettere, traduzione di L. Traverso, Milano, Rosa e Ballo, 1947; Id., Lettere da Muzot (1921‑1926), a cura di M. Doriguzzi e L. Traverso, Milano, Cederna 1947; Id., Lettere. A un giovane poeta; A una giovane signora; Su Dio, a cura di L. Traverso, Firenze, Vallecchi, 1958.
7 Cfr. M. Morasso, Un’imperfetta amicizia. Cristina Campo e Rainer Maria Rilke, in M. Farnetti, F. Secchieri e R. Taioli (a cura di), Appassionate distanze, Mantova, Tre Lune Edizioni, 2006, pp. 243‑251.
8 C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, a cura e con una Nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 2011, p. 240.
9 «La mia vita continua a andare in bricioli, per Natale un solo attimo di gioia, quando Luzi mi ha detto (dopo 10 giorni di silenzio) che non voleva rendermi il Riccardo II, che così si doveva scrivere su Shakespeare. Anche se sbaglia, anche se non scriverò il libro, è stato bello. Me l’ha detto nella nebbia, davanti a un distributore di benzina e a Leone Traverso, alla mezzanotte del 24 dicembre» (ivi, p. 18). Apparso in «Fiera letteraria» (11 settembre 1952), il saggio shakespeariano, La gravità e la grazia nel Riccardo II (il vero dio muta la violenza in sofferenza), si può leggere ora in C. Campo, Sotto falso nome, a cura di M. Farnetti, Milano, Adelphi, 1998, pp. 23‑30.
10 Si tratta di sei lettere in tutto, inviate da Roma (1958‑1971) per l’occasione di qualche ricorrenza, come onomastico, o capodanno, occasione al contempo di aggiornamento sulla produzione dell’amico, da seguire e promuovere. Le era stata affidata una rubrica radiofonica sulla «Poesia attuale» e subito gli scrive: «[…] scegli per me qualche tua poesia, ti dispiace?» (C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia, cit., p. 127).
11 M. Luzi, Una traduzione da Rilke, «Il Frontespizio», no 5, 1938, pp. 329‑330. Ora in Una “purissima e antica amicizia”. Lettere di Mario Luzi a Leone Traverso (1936‑1966), a cura di A. Panicali, Manziana (Roma), Vecchiarelli Editore, 2003, pp. 81‑85.
12 Le prime traduzioni in italiano: R. M. Rilke, Liriche, traduzione di V. Errante, Milano, Alpes, 1929; Id., I Quaderni di Malte Laurids Brigge, traduzione di V. Errante, Milano, Alpes, 1929; Id., Storie del buon Dio, traduzione di V. Errante, Milano, Alpes, 1930; Id., Augusto Rodin, traduzione di V. Errante, Milano, Alpes, 1930. A seguire, il commento del traduttore: V. Errante, Rilke: Storia di un’anima e di una poesia, Milano, Alpes, 1930.
13 V. Errante, Storie di un’anima e di una poesia, Firenze, Sansoni, 1942, p. 295.
14 Il tema della gioia intesa come disciplina interiore di una ascesi in primo luogo personale è stato posto al centro del convegno fiorentino del 2017, Cristina Campo. La disciplina della gioia, del quale sono stati pubblicati gli atti: M. Pertile e G. Scarca (a cura di), Cristina Campo. La disciplina della gioia. Con le lettere a John Lindsay Opie, Verucchio (RN), Pazzini Editore, 2021.
15 «Non ricordo in quale pagina di Rilke ho letto una sua affermazione che suona a un dipresso così: “Il tempo del visibile è terminato”. Parole che sono del resto quasi una tautologia sulle labbra di lui, poeta che vuol rappresentare una fase ulteriore dell’esperienza umana posta al limite in cui tutto il mondo fenomenico e storico è stato assimilato e riassorbito dall’interno della sofferenza e del sentimento, l’universo reso tutto attuale e trasparente da questa appropriazione continua, capillare, e in essa disciolto come in uno spazio spirituale vivo, inquieto, ricco di fremiti ma volto all’indietro come Orfeo sul ciglio della caverna almeno quanto aperto all’avventura dell’invisibile. / Da questa condizione discendono parecchie conseguenze; la prima delle quali è la volontà e la sollecitazione poetica perennemente implacate e quindi l’apparente inesauribile disponibilità di esse che sembra espandersi in ogni implicazione di ordine vitale e perfino mondano. E un’altra non secondaria, è che nell’impossibilità di un movimento reale, univoco, la poesia di Rilke si sviluppa per intricate proliferazioni e ramificazioni, ora più vigorose, ora più estenuate e sottili, finché si arriva, in certe fasi della sua opera, a un groviglio così serrato di spirituale e di fisiologico, di orfico e di organico che le due facce del mondo destinate a essere compenetrate dal poeta ci appaiono come un unico volto sfigurato. E ancora ne consegue la bivalenza pressoché continua dei suoi precedenti metaforici. […] Il suo compito è ancora come per i maestri del simbolismo d’interpretare fisicamente il mondo: ma Rilke lo intende nel senso di riempire d’umanità, di sensi elegiaci come di superamenti ardimentosi, e di consacrare per questa via il pianeta della nostra esistenza dilacerata tra la fruizione e la fuga tra l’attaccamento e la smania di travalicare. Rilke si sviluppa sempre più nella sua duplicità. Anche le sue metafore hanno questo carattere ancipite; volgono ora la fronte ora le spalle al mondo sensibile e sensoso: ora ne partono per spaziare in mancanza di riferimenti ideali definitivi, nel mondo delle figurazioni che sono anch’esse proposte dell’umano elevate di potenza e di significato: ora ripercorrono il ponte all’indietro verso la materia e il sensibile. Di qui la varietà dei modi che osserva anche il nostro più acuto conoscitore e interprete della poesia rilkiana che è Leone Traverso; da qui la selva con la diramazione infinitesimale dei pretesti che impegnano l’unico perpetuo tema: e su tutto, sia ben chiaro, la costanza della sua voce vibrata. / Per quanto non sia neppure, in questo caso, da chiedere al poeta una definizione risolutiva, che non è nella natura della sua vocazione, tuttavia nelle Elegie duinesi per il felice accumularsi e articolarsi dei motivi la materia poetica di Rilke acquista il massimo della sua consistenza e della sua organicità e insieme la più vivida e libera altezza di canto. […]» (M. Luzi, La selva di Rilke, «Tempo», 23 settembre 1958; ora in Una “purissima e antica amicizia”, cit., pp. 95‑98).
16 Lettera no 53 dell’11 giugno 1957, in C. Campo, Lettere a Mita, a cura e con una Nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi Edizioni, 1999, p. 63. Precisa la Pieracci in nota: «L’apprezzamento per Rilke — è da intendere come una concessione, perché spesso Campo aveva delle riserve sul poeta — tanto caro a Leone Traverso —, la cui eccessiva cautela nei rapporti umani appare incompatibile con la generosità di C, specie se si considera che il suo termine di paragone era Hofmannsthal, così vulnerabile da morire per il suicidio del figlio» (ivi, p. 136).
17 Per la trascrizione del tedesco ci si attiene fedelmente, anche nella forma grafica, a quella di Traverso per l’edizione Cederna 1947 (cit.), da cui, quando non indicato diversamente, si traggono le traduzioni.
18 R. Guardini, Rainer Maria Rilke. Le “Elegie duinesi” come interpretazione dell’esistenza, Premessa di S. Zucal, Brescia, Morcelliana, 2003² (1974), p. 32.
19 C. Campo, Diario bizantino e altre poesie, «Conoscenza religiosa», no 1, 1977. Ora in Ead., La tigre assenza, cit., p. 48.
20 L’intervento di M. Luzi al Convegno in memoria di Leone Traverso (Villa Garzoni, Pontecasale, 28 ottobre 1972, Urbino, Argalia, 1973) è citato in M. Pieracci Harwell, Perseveranza oltre la speranza, cit., p. 214.
21 Ivi, p. 212.
22 Circa questo magistero e il «dono reciproco» tra allieva e maestro, si vedano per intero le pagine della Pieracci Harwell, ivi, in particolare, pp. 212‑213.
23 C. Campo, In medio coeli, «Paragone. Letteratura», a. XIII, no 150, 1962. Il saggio è poi confluito in Ead., Il flauto e il tappeto, Milano, Rusconi, 1971; ora Ead., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 2002 (1987), p. 18.
24 Il maestro d’arco, dal Quadernetto, in C. Campo, La tigre assenza, cit., p. 32.
25 «Per essere veramente maestro nel tiro con l’arco […] la tecnica va superata, così che l’appreso diventi un’“arte inappresa”, che sorge dall’inconscio. Nel caso del tiro con l’arco questo significa che il tiratore e il bersaglio non sono più due cose contrapposte, ma una sola realtà» (D. T. Suzuki, Introduzione, in E. Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, Milano, Adelphi Edizioni, 2006 (1975)).
26 E. Herrigel, ivi, p. 63.
27 Parco dei cervi, in C. Campo, Fiaba e mistero, Firenze, Vallecchi, 1962. Ora in Ead., Gli imperdonabili, cit., p. 145.
28 Cfr. A. M. Tamburini, Cristina Campo e Louis Massignon. Unità d’azione nelle diverse curve dei destini, in M. Augé, L. Beconcini e R. Cresti (a cura di), Cristina Campo. La via dell’interiorità redenta, Panzano in Chianti (FI), Edizioni Feeria Comunità di San Leolino, 2012. E anche, Ead., Per amore e conoscenza, cit., pp. 163‑165.
29 Così nella traduzione di Anna Lucia Giavotto Künkler in R. M. Rilke, Poesie 1907‑1926, a cura di A. Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, p. 281.
30 Parco dei cervi, in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 144.
31 Vita Nova, XIV, 8.
32 Parco dei cervi, in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 144. Dalle Rime di Gaspara Stampa, il sonetto CCXXIV.
33 Ora in C. Campo, Sotto falso nome, cit., p. 194.
34 «Dai giorni miracolosi di Gaspara Stampa si stendono fino a noi quattro secoli, quasi deserti in Italia, di poesia femminile. Solo la visionaria voce di Luisa Giaconi e quella gracile e perigliosa di Antonia Pozzi segnano di una vita indubbia l’ultimo tratto. Era tempo, oltre tanto silenzio (e così ambiguamente rotto, di quando in quando) di ritrovare quell’antico accento che s’incide all’istante nella memoria e nell’animo: l’accento della sommessa, incontestabile verità […]» (C. Campo, Due poeti, «Il Giornale del Mattino», 6 giugno 1955, p. 3; Ead., Sotto falso nome, cit., p. 48).
35 Parco dei cervi, in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 155.
36 Ora non resta che vegliare sola, in C. Campo, Passo d’addio, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 8 dicembre 1956. Ead., La tigre assenza, cit., p. 24.
37 Il buongiorno [prima stanza], in J. Donne, Poesie amorose. Poesie teologiche, a cura di C. Campo, Torino, Einaudi, 1971, p. 33.
38 J. Donne, Tre versioni di Cristina Campo, «Paragone. Letteratura», a. XI, no 128, 1960, pp. 71‑73.
39 Congedo a vietarle il lamento [stanze 4‑6], in J. Donne, Poesie amorose. Poesie teologiche, cit., p. 29.
40 Da Holy Sonnets (Divine Meditations), XVII, ivi, p. 81.
41 La citazione dal sopracitato sonetto XVII, nella introduzione, ivi, p. 9.
42 Ivi, p. 109.
43 M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e i due mondi, C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 402.
44 R. Guardini, Rainer Maria Rilke, cit., p. 142.
45 Ivi, pp. 142‑144.
46 R. Guardini, Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins. Eine Interpretation der „Duineser Elegien“, Berlin, Küpper, 1941.
47 Pare abbastanza improbabile che la Campo non abbia prestato attenzione alle pubblicazioni di Guardini, interprete, dal punto di vista filosofico/teologico, di alcuni dei massimi capolavori della letteratura europea; un articolo a firma di Gianfranco Morra dedicato (nell’anno successivo alla morte) a Romano Guardini interprete di Dante sarebbe apparso in «Conoscenza religiosa» (no 4, 1969), la rivista fondata e diretta da Elemire Zolla, cui la Campo collaborò strettamente e attivamente.
48 «Come un tessitore hai arrotolato la mia vita» (Is 38,12). Si tratta del Cantico di Ezechia.
49 La poesia si trova pubblicata in G. Caproni, Tre antologie radiofoniche. I sentieri della poesia – Viaggio poetico in Italia – I poeti e il Natale, a cura di C. Gepponi, Roma, Bardi Edizioni, 2015, p. 60. Diversamente dalla edizione Bardi, la trascrizione del testo qui riportato è fedele al dattiloscritto — da cui proviene — del copione radiofonico (relativo, nella fattispecie, alla XI puntata della rassegna I sentieri della poesia andata in onda sotto il titolo Trasparenze il 3 agosto 1961, a cura di Giorgio Caproni e Achille Millo), consultabile presso il Fondo Caproni, Biblioteca Nazionale di Firenze, Cassetta 4, Terzo inserto. Nel dattiloscritto, non comparendo spazi bianchi tra una strofe e l’altra, è la diversa dimensione dei rientri di prima riga a indicare la suddivisione in quartine del componimento. Per la scoperta di questo testo da parte della sottoscritta e per un commento non posso che rimandare a un precedente saggio: A. M. Tamburini, Cristina Campo e la «musica d’una grazia interiore»: sul componimento poetico “Non dissi nulla di te”, «Campi immaginabili», no 62/63, 2020, pp. 246‑258.
50 Diario bizantino, in C. Campo, La tigre assenza, cit., pp. 45‑46.
51 In medio coeli (cit.), in C. Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 18.
52 Ivi, p. 20.
53 È rimasta laggiù, calda, la vita, di Passo d’addio (cit.), in C. Campo, La tigre assenza, cit., p. 22.
54 C. Campo, Il flauto e il tappeto, cit. Ead., Gli imperdonabili, cit., p. 137.
Haut de pagePour citer cet article
Référence électronique
Anna Maria Tamburini, « Gli echi dalle Elegie duinesi », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 36 | 2023, mis en ligne le 28 février 2023, consulté le 13 janvier 2025. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/12963 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.12963
Haut de pageDroits d’auteur
Le texte et les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés), sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Haut de page