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L’incontro con Simone Weil

Trasposizioni di immagini. Le traduzioni da Simone Weil

Transpositions d’images. Les traductions de Simone Weil
Image Transpositions. Translations from Simone Weil
Chiara Zamboni

Résumés

Le texte se concentre sur l’impact des traductions de textes de Simone Weil sur l’écriture de Cristina Campo. L’auteure a transposé certaines figures de Weil, les transformant en véritables images radiantes, celles qui provoquent des processus créatifs imprévus, des processus d’écriture pensante, ouvrant de nouvelles voies à sa pensée. L’article interprète dans cette perspective les traductions des essais suivants de Weil : Faut‑il lutter pour la justice ?, La personne et le sacré, L’Iliade ou le poème de la force et Venise sauvée. Les images que Campo a transposées dans sa propre pensée sont progressivement identifiées.

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Texte intégral

  • 1 C. Campo, Parco dei cervi, in Ead., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 145. E cfr. M. Pie (...)

1Margherita Pieracci Harwell scrive che per Cristina Campo il critico e il traduttore, che per lei a suo modo di vedere si equivalgono, sono come un’eco del testo dell’autore amato. Ricorda queste parole da Parco dei cervi: «Al momento di parlarne egli deve averlo già interamente subìto: restituirlo non come semplice specchio ma come un’eco appunto carica e intrisa di tutto quel cammino percorso, nella natura, dall’una e dall’altra voce»1, affinché la voce dell’altro viva senza distorsioni.

2Quello che vorrei fare è seguire il modo con cui Campo, in quanto traduttrice di Simone Weil, ha fatto spazio alla Weil nella propria scrittura, indicando così le tracce che le parole di Weil hanno lasciato nel pensiero di Campo. Certo Weil non avrebbe potuto avere traduttrice più attenta e intonata, in quanto sia lei che Campo erano portate dal senso della perfezione della scrittura, dove esattezza e orientamento dell’anima sono elementi fondamentali. Intendo perfezione non come chiusura in un qualcosa di circoscritto, bensì come apertura: il testo perfetto è quello in cui altro traluce. Ha bisogno di pratiche rigorose perché lo si possa intravedere.

3La direzione del mio saggio è dunque trovare le impronte dei testi weiliani tradotti da Campo nella sua scrittura. Non si tratta soltanto di una consonanza di pensiero che è durata diversi anni, ma di nuclei di parole che passano nei testi di Campo, riverberandosi e creando nuovi contesti di idee, immagini, percorsi.

  • 2 Vedi C. Campo, Introduzione a Simone Weil, “Attesa di Dio”, in Ead., Sotto falso nome, a cura di M. (...)
  • 3 Cfr. J.‑M. Perrin e G. Thibon, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, Milano, Mimesis, 2022.

4È già stato notato che questa sintonia incomincia a venir meno dalla presa di distanza di Campo nei confronti del pensiero di Weil nell’introduzione a L’attesa di Dio del 19662. È interessante notare che le argomentazioni per criticare Weil hanno un’impostazione analoga a quelle di Padre Perrin e di Gustave Thibon, che hanno descritto, ma anche criticato il pensiero della giovane filosofa in Simone Weil. Come l’abbiamo conosciuta3. Sottolineo questo pur essendo ben consapevole che Campo rimprovera a Perrin di essere stato troppo accogliente nei confronti di Simone Weil. In realtà ciò che accomuna Campo a Perrin e Thibon, nonostante tutto, è la critica al fatto che Weil non conosceva il pensiero cristiano nei suoi fondamenti e che ne aveva parlato dall’esterno a partire da una posizione sostanzialmente non cristiana, senza una vera cultura religiosa e poco addentro ai libri dei padri della Chiesa e ai testi che costituiscono — secondo la loro interpretazione — il nucleo portante del cristianesimo come, ad esempio, i testi della riforma del concilio di Trento e comunque i testi canonici. La criticano per aver letto soltanto il nuovo e l’antico testamento, e anche quest’ultimo dando valore a pochi dei suoi libri. E comunque per aver legato in modo antistorico questi testi cristiani a scritti della tradizione che cristiani non erano affatto come lo stoicismo e altre correnti filosofiche antiche, e ad altri testi altrettanto estranei alla tradizione cristiana come il Libro dei morti egiziano, i Veda, i testi taoisti e buddisti.

  • 4 Su questo periodo e la trasformazione che esso comporta nell’animo di Campo, si legga C. De Stefano (...)

5Non approfondirò ulteriormente la presa di distanza di Campo nei confronti del pensiero di Weil a partire all’incirca dal 1966, un periodo che corrisponde alla morte dei genitori e poi alla conclusione del Concilio Vaticano II4. Mi fermerò solo sul periodo fertile del suo legame con Weil, che inizia nel 1952 — quando incomincia a leggerla — e nel quale si inscrivono le diverse sue traduzioni.

1. Tradurre e la pratica della scrittura

6Vorrei mettere a fuoco il concetto di trasposizione come centrale per comprendere la pratica di traduzione di Campo. Incomincio dunque con un passo di Simone Weil tradotto da Campo in Pensieri e lettere:

  • 5 S. Weil, Pensieri e lettere, a cura di C. Campo, «Letteratura», vol. VII, no 39‑40, 1959, p. 26.

Per una verità, la trasposizione è un criterio. Ciò che non si lascia trasporre non è una verità; così come ciò che non muta apparenza a seconda del punto di vista non è un oggetto reale ma un trompe-l’œil. Anche nel pensiero vi è uno spazio a tre dimensioni5.

7L’idea weiliana di trasposizione è una di quelle figure che diventano guida nel pensiero di Campo. Questo ci mette subito di fronte all’importanza del porre legami per analogia come pratica che sostiene la trasposizione. Secondo Weil l’analogia è espressa al meglio dall’analogia matematica, in quanto è rigorosa nei termini accostati. Noi possiamo ritrovarla implicita in tante trasformazioni di contesto in contesto. Ci permette di legare — per analogia, appunto — parti molto diverse della natura fisica e culturale umana, creando passaggi che allargano lo spazio del pensiero ad una esperienza in cui sono implicate molteplici prospettive. Come dice felicemente il passo citato, ciò porta il pensiero ad essere a più dimensioni. Complesso. In esso sono coinvolti diversi piani, a partire da quello storico ed esperienziale assieme a quello materiale studiato dalle leggi scientifiche, fino al piano dell’invisibile, anch’esso messo in gioco dai passaggi per analogia.

8Nella concezione di Campo la trasposizione per analogia costituisce la trama del tessuto della realtà, a cui fa da sostegno sia la partecipazione soggettiva sia la trasformabilità, che essa implica. Scrive a Leone Traverso:

  • 6 C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953‑1967), cit., p. 104.

Ho ricevuto dalla signora Weil il volume degli scritti politici e storici. […] Non è uno dei grandissimi libri di Simone Weil e io ne capisco poco, ma sento che tutte le idee essenziali, anche qui, possono essere trasposte: dalla politica alla poesia, all’arte, alla vita6.

9Il criterio che Weil adoperava per cogliere la verità di un’affermazione era se tale verità potesse essere trasferita in diversi contesti. Come si vede, Cristina Campo lo riprende e lo modella in una propria pratica. Già in questo testo si nota come le trasposizioni più importanti per Campo coinvolgano gli ambiti della poesia, dell’arte e più semplicemente della vita, il che indica il valore dato a questi campi d’esperienza rispetto a quello della politica.

10Considero ora che genere di rapporto Campo avesse con i testi letti. La mia idea che il tradurli da una lingua straniera in italiano costituisse per lei una pratica di trasposizione più che di semplice traduzione. Sappiamo che per lei tradurre era una via per capire meglio il testo originale, ma c’era qualcosa in più. Si è trattato di una pratica che potrei chiamare destinale, perché costituiva una specie di necessità.

11Perché era così importante? Di nuovo mi viene in aiuto il pensiero di Weil. Trasporre è più che tradurre in quanto è in gioco la verità e non semplicemente il senso. Ciò che si lascia trasporre da una lingua straniera all’altra mostra l’emergere di una verità, che si delinea con più chiarezza nel cambiamento di prospettiva linguistica. Ad esempio, tradurre un testo di Weil dal francese in italiano significa ascoltare l’essenziale di quel testo, come se fosse un testo sacro, con un nucleo di verità che ha una sua vita propria e che il passaggio all’italiano rilancia.

  • 7 Cfr. S. Weil, Quaderni, vol. II, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi,1985, p. 55: «Una verità è il (...)

12Sottesa a questa concezione è un’idea di verità non statica né identica a sé stessa, in quanto altrimenti non avrebbe bisogno di una traduzione per delinearsi meglio. Non si tratta neppure di una verità relativa, secondo quella concezione per cui la traduzione ricreerebbe a suo modo una verità del testo. La verità per Weil è un orientamento profondo e senza rappresentazioni, che ogni prospettiva linguistica, storica, religiosa sa esprimere al meglio, se mantiene ferma l’inclinazione ad essa. Non a caso Weil sosteneva che la verità è àlogos, il punto innominabile, che attrae a sé i lògoi, i ragionamenti, disponendoli attorno a quel niente che attira7.

  • 8 In un linguaggio filosofico completamente diverso, ma in una prospettiva simile si muove Walter Ben (...)

13In questo quadro teorico tradurre un testo da una lingua all’altra è più che seguire il senso. È una pratica che, accostando la traduzione all’originale, lascia intravedere la verità a cui si è più vicini una volta terminato il lavoro di passaggio8.

  • 9 C. Campo, Caro Bul, cit., p. 55: «Bul, per piacere, dimmi: conosci Marcel Brion? E hai letto il suo (...)

14Che in Campo ci fosse una necessità interiore di tradurre i testi amati, lo si vede leggendo le sue lettere a Traverso e a Margherita Pieracci Harwell, entrambi impegnati nell’attività di traduzione. È interessante che lei scriva che un testo appena letto, e che sente notevole, la provochi ad una traduzione veloce senza sapere neppure se sarà pubblicata o meno9. È come se tradurlo rappresenti la possibilità di creare un legame, una comprensione, che si pone ad un altro livello rispetto a quello intellettuale. Come se un testo tradotto, dunque ricreato nella propria lingua, facesse pensare per nuove strade. Del resto afferma più volte che è la scrittura la pratica per lei più importante per pensare. La traduzione risulta così una messa in movimento di un processo di scrittura pensante.

15Un passo molto bello, che ci permette di capire quale fosse il suo proposito nel tradurre Simone Weil, si trova nella prefazione a Venezia salva:

  • 10 C. Campo, Prefazione, in S. Weil, Venezia salva, a cura di C. Campo, Milano, Adelphi, 1987, p. 17.

Passando dalla prosa al verso secondo il «ritmo della sua coscienza», trattando il metro tradizionale con una varietà che di continuo lo mimetizza, con la sua dizione senza tempo, che plana sopra tutti i linguaggi e non posa in nessuno, Simone Weil appare, a un esame accurato, poetessa di eccezionale sapienza. Come sempre il segreto è altrove: nell’energia spirituale che incalza la parola fino alla purezza delle sue sorgenti più fredde, là dove rompe la roccia [«Mon âme vainement voudrait jaillir pour supplier…»]. Una traduzione di questi versi si poteva affidare soltanto all’orecchio interno, scartando in modo categorico tutte le soluzioni ingegnose, così come le risorse eleganti della prosodia italiana. Il mio desiderio era quello di conservare a ogni verso la possibilità di una perfetta pronuncia, di un «massimo sapore» anche su bocca italiana10.

16Campo si mostra, nel tradurre, fedele all’invito che Simone Weil rivolgeva a sé stessa riguardo alla scrittura poetica. Per fare un confronto si possono leggere le parole di Weil in preparazione alla stesura di Venezia salva:

  • 11 S. Weil, Appunti per “Venezia salva”, in Ead., Venezia salva, cit., p. 29.

I versi. Non «fanno centro» se non creano per il lettore un nuovo tempo. E come per la musica [Valéry] una poesia esce dal silenzio, ritorna al silenzio. Elementi di una poesia. Un tempo che abbia un inizio e una fine. A che corrisponde questo? Poi il sapore delle parole: che ogni parola abbia un sapore massimo. Il che implica un accordo tra il senso che le è dato e tutti gli altri suoi sensi, un accordo o un’opposizione con il suono delle sillabe, accordi e opposizioni con le parole che la precedono e la seguono11.

17Si ritrova in questo brano l’espressione di Cristina Campo nell’introduzione: che ogni parola abbia un sapore massimo. Questo implica per Weil una sintonia con il suono delle parole, ma non solo, con l’accostamento di suoni delle parole vicine, sia per armonia sia per contrasto. Si noti: sullo sfondo del silenzio, in quanto il testo poetico affiora dal silenzio e vi rientra, aprendo uno spazio di tempo sospeso, eterno. In esso le parole sono come note che hanno un suono denso. Il silenzio dona indirettamente ad esse massima efficacia.

  • 12 C. Campo, Prefazione, cit., p. 17.

18Eppure, sappiamo, né per Weil né per Campo si tratta di avere efficacia come intenzione prima. Se mai l’efficacia è un risultato, se la scrittura segue un ordine interno ed esterno. L’opera d’arte è specchio dell’eterno, è apertura dell’impersonale nel mondo storico. Per questo è così significativo che Campo non dica solo che nella traduzione della tragedia di Weil voglia ricreare nella lingua italiana «la perfetta pronuncia» e «il massimo sapore», ma che questo ha a che fare con «l’energia spirituale che incalza la parola fino alla purezza delle sue sorgenti più fredde»12. Occorre scartare le soluzioni ingegnose, tecniche che la lingua italiana colta permette. Bisogna invece ascoltare la lingua con un orecchio interno e per mezzo del palatum cordis. Tutto questo ha delle somiglianze con la pratica medievale della lectio divina, nella quale gustare la lingua e assaporare le parole dei libri sacri aiuta a partecipare con tutto il corpo alla “parola di Dio”. Seguendo la lectio divina, i monaci erano impegnati a gustare e ruminare i testi sacri. Così direi che per Cristina Campo i testi da tradurre fossero da assaporare con l’orecchio interno e con la preghiera del cuore.

  • 13 Ibid.

19Parlando della traduzione che la impegna rispetto a Venezia salva, Campo aggiunge che la lingua di Weil ha una dizione «senza tempo, che plana sopra tutti i linguaggi e non posa in nessuno»13. Cosa può significare? Credo che Campo percepisse nella scrittura di Weil una lingua del tutto orientata alla trascendenza. In essa la scelta delle parole era dettata da una necessità interna espressa al meglio dalla poesia. In questo modo lo stile linguistico semplice e puro si scostava dai diversi linguaggi storici pur partendo rigorosamente da essi. A me sembra che Campo a sua volta crei uno stile semplice e assoluto soprattutto nella pratica di traduzione.

  • 14 Citato nel contesto di una lettera in C. Campo, Lettere a Mita, a cura di M. Pieracci Harwell, Mila (...)

20Per questo il rimprovero che lei rivolge a sé stessa di aver fatto arabeschi, di aver usato una lingua troppo ricca, troppo piena di figure non necessarie, e che invece vorrebbe scrivere come sbozzare una massa di pietra, è un rimprovero che certo non può farsi riguardo alle traduzioni. In particolare quelle di Weil. Non a caso Campo ripeteva a sé stessa, e lo fa in diversi testi, questo aforisma di Simone Weil: «Tradurre — come scrivere — escludere tutto ciò che vela il pensiero nudo»14.

2. La traduzione di Lottiamo noi per la giustizia?

21Prima di affrontare le traduzioni e la trasposizione analogica dei temi weiliani nel suo pensiero, mi vorrei fermare sul grande impegno e sull’urgenza che Cristina Campo ha avuto nel far conoscere la filosofia weiliana in Italia. Già nel 1953 pubblica alcune traduzioni, pur avendo incominciato a leggere La pesanteur et la grâce soltanto nel 1952. Le lettere testimoniano l’urgenza e l’impegno nel coinvolgere amiche e amici studiosi e letterati, e anche responsabili di importanti riviste e case editrici nel panorama italiano del tempo. Era per lei evidente la grandezza del pensiero di Weil.

22È da dire che questo suo impegno nel far pubblicare le traduzioni di Weil non è stato sufficientemente messa a fuoco nel panorama degli studi weiliani in Italia. Per lo più è stato dato molto merito alla casa editrice Comunità, che comunque si è concentrata sugli scritti storici e politici della Weil attraverso le traduzioni di Franco Fortini. Così andrebbe ricostruita con attenzione la rete che si era creata attorno a Cristina Campo, se volessimo dare conto della ricezione filosofica e politica del pensiero di Weil in Italia in quel primo periodo.

23Campo scrive a Traverso dicendo che capisce poco dei testi politici e storici di Simone Weil. Questo è solo in parte vero, in quanto i primi saggi che traduce per intero sono proprio alcuni testi politici di Weil. Mi riferisco qui a Lottiamo noi per la giustizia? e a La persona e il sacro. Non a caso lei riprende nel proprio processo di pensiero gli aspetti più simbolici ed esistenziali dei testi, lasciando in sordina gli argomenti più direttamente storico-politici. È questa una costante della trasposizione dalle traduzioni di Weil al suo percorso di pensiero.

  • 15 Si veda su questa ricostruzione storica del circolo, che si era creato attorno a Cristina Campo sul (...)
  • 16 Cfr. C. Campo, Pensieri e lettere, cit. Tra gli altri ci sono in questa pubblicazione testi comunqu (...)

24Come abbiamo visto, Campo ha iniziato a pubblicare alcune traduzioni già nel 195315, che riguardavano testi sulla scrittura e l’arte in «Il Corriere d’Adda». Nel 1959 in «Letteratura» pubblica altri scritti su argomenti diversi ma sempre o lettere o parti di testi16.

  • 17 Si tratta di S. Weil, Lottiamo noi per la giustizia?, in «Tempo presente», vol. I, no 8, novembre 1 (...)

25Tralasciando queste traduzioni di frammenti e di singole parti brevi dell’opera weiliana, ho preferito fermarmi su quelle di saggi che hanno una loro compiutezza. La prima è Lottiamo noi per la giustizia? curata da Campo, che sceglie in questo caso di non comparire come traduttrice, per cui la traduzione risulta anonima. Viene pubblicato in «Tempo presente» nel 195617.

26Al centro di questo saggio Simone Weil pone il tema della libertà come obbedienza. Da qui Campo traspone nel suo processo di pensiero l’obbedienza alla necessità come apertura e accettazione della nudità del reale, sottratto ad ogni abbellimento fantastico, e per ciò veramente bello, di una bellezza che non inganna. Potremo vedere così in che senso e come Cristina Campo trasferisca un tema prettamente storico-politico, che è al centro del saggio di Weil, in un’esperienza simbolica della realtà, in cui il piano esistenziale è strettamente legato a quello trascendente.

27Guardiamo i punti centrali di Lottiamo noi per la giustizia? Simone Weil sostiene che l’agire — e quello politico in particolare — avviene per obbedienza alla realtà, ma distingue due generi diversi di obbedienza: quello costretto e quello libero. Un’obbedienza è autenticamente libera, se guidata dall’amore. Se gli individui amano qualcosa — ad esempio la Francia, che i francesi avvertono come perduta al momento dell’occupazione nazista —, allora sono pronti ad obbedire liberamente per essa. Questo amore è simile a quello di una madre che ama la sua creatura così com’è, senza abbellimenti o titoli di merito. Esso sorge nel fondo del cuore, senza sforzo, e non può essere confuso con l’entusiasmo o l’interesse per il denaro. Quando gli individui agiscono per amore, allora obbediscono liberamente, mentre l’odio non porta a questa libertà, in quanto costringe ad un agire reattivo. Le democrazie occidentali non hanno compreso che se il suffragio universale e un sindacato libero sono condizioni necessarie, non sono però sufficienti per l’effettivo rinnovamento di una civiltà. Affinché l’anima si apra alla grazia, occorre una follia d’amore come capacità di creare forme di vita autentiche. È solo la follia d’amore che può sostenere il senso di giustizia.

  • 18 Cfr. C. Campo, Introduzione a “Racconti di un Pellegrino russo”, in Ead., Gli imperdonabili, cit., (...)

28Consideriamo ora le trasposizioni dal saggio di Weil al suo pensiero. Troviamo negli scritti di Campo la figura del folle d’amore, in particolare nell’introduzione a Racconti di un pellegrino russo, dove c’è chi si fa pellegrino e mendicante per la ricerca del Regno dei Cieli. Lei parla dei «beati folli dal cuore in fiamme»18.

29Mi sembra tuttavia che la risonanza maggiore di questo testo di Weil possa essere trovata in altri suoi scritti. Ad esempio, è una figura molto importante del pensiero di Cristina Campo quella dell’amore che guida ad un’obbedienza libera nei confronti della realtà, permettendo di accettare così la necessità così com’è. È radicalmente in conflitto con il realismo, che invece subisce la realtà al posto di amarla e non ne scorge semi di grazia in essa.

30Guardiamo tre lettere di Campo, scritte a Mita nel giro di poche settimane tra il 25 luglio e il 15 agosto del 1956, dunque nel periodo della traduzione di Lottiamo noi per la giustizia? Prima di esaminarle a fondo è bene ricordare che Simone Weil, nel saggio tradotto da Campo, scriveva che la follia d’amore implica il farsi vuoti interiormente. Questo permette il fiorire della grazia e l’apertura al mondo in tutti i suoi aspetti anche banali e meschini. Essi vengono colti allora nella loro bellezza e fragilità.

  • 19 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 29.

31In accordo con queste osservazioni, Campo ricorda come Weil, con questa disposizione interiore, abbia accettato tutto della realtà, anche i luoghi più brutti, privi di qualsiasi bellezza. Se si accetta davvero il mondo, allora questi luoghi comunque nascondono in sé qualcosa della grazia, e dunque mostrano una bellezza vista da un’altra prospettiva. Potremmo dire che tutto ciò che è, è bello in quanto esiste e viene amato per questo. A questo punto opera la trasposizione dal pensiero di Weil al proprio. Ricorda a Mita il suo iniziale rifiuto di una di quelle brutte chiese moderne di cui avevano parlato assieme. Ora, proprio se ci si dispone ad accogliere queste costruzioni disarmoniche per il semplice fatto che esistono, allora esse nascondono una bellezza più autentica della bellezza conclamata e riconoscibile. Questo processo di individuazione di una bellezza nascosta, implica una forma di umiltà, lo spogliarsi di ogni pretesa sulla realtà. Parlando della brutta chiesa, allora Cristina Campo aggiunge: «Per ricordarci che l’on a tout perdu, fuorché la verità che abita in quel luogo — e che mai potremo ritrovare senza esserci spogliati di ogni ornamento»19.

  • 20 S. Weil, Prologo, in Ead., Quaderni, vol. I, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1982, p. 105.

32In una nota a questa lettera, Margherita Pieracci Harwell spiega che c’è un altro sottotesto in queste righe di Campo. Una traccia ulteriore di Weil. Si tratta del Prologo che Simone avrebbe voluto fosse collocato agli inizi dei suoi Quaderni. Weil descrive in modo allusivo l’incontro con Cristo, che l’invita a inginocchiarsi in una chiesa brutta, come davanti «al luogo in cui esiste la verità». E le fa capire che questo atteggiamento di accettazione può essere portato e trasferito per e in qualsiasi luogo altrettanto brutto come ad esempio «in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di peluche rosso, [o] in una sala d’attesa della stazione»20.

33Campo compie una trasposizione degli aspetti esistenziali, metafisici e religiosi di Lottiamo noi per la giustizia? quelli per i quali rinunciare al prestigio, farsi vuoti, accettare le cose nella loro nudità, permette di cogliere in ogni luogo la fragile possibilità che qualcosa esista, sia vero e quindi abbia una sua bellezza. Tralascia gli aspetti più politici del testo, quelli legati al tentativo di Weil di rendere le democrazie qualche cosa di più del suffragio universale e del sindacato organizzato.

3. La traduzione di La persona e il sacro

  • 21 S. Weil, La persona e il sacro, in E. Zolla (a cura di), I moralisti moderni, Milano, Garzanti, 195 (...)

34Nel 1959 esce la traduzione di La persona e il sacro in un volume antologico curato da Élemire Zolla, intitolato I moralisti moderni21. Si tratta di uno dei testi più importanti di Weil all’interno della raccolta Écrits de Londres et dernières lettres, che comprende anche Lottiamo noi per la giustizia?. I testi di questa raccolta vanno letti nel contesto storico in cui sono stati scritti. Siamo agli inizi del 1943. Weil è a Londra e sta collaborando con France libre, l’organizzazione di De Gaulle, impegnata a pensare strutture politiche adeguate e ispirate per un rinnovamento delle forme di vita della cultura europea e in particolare quella francese. In quei mesi prende le distanze anche da France libre, in quanto la sente pericolosamente vicina a trasformarsi in un governo ombra con le stesse caratteristiche della politica tradizionale, che ha portato l’Europa al fallimento.

35Siamo nel periodo della sconfitta delle democrazie liberali di fronte ai totalitarismi. Come ricostruire un tessuto di vita civile dopo la guerra che non ricalchi gli stessi errori già compiuti dalle democrazie? Weil ritiene che siano da evitare due concetti, che invece vengono proposti negli scritti di alcuni intellettuali francesi del tempo come fondamento per una ricostruzione della civiltà. Uno è il concetto di persona, l’altro quello di diritto.

36La critica al concetto di persona si appunta in particolare sul personalismo come corrente filosofica elaborata da Emmanuel Mounier, che lo poneva a fondamento della vita civile. Il personalismo individua come sacra la persona. Weil critica l’idea che il sacro possa essere ridotto alla sfera necessaria della persona. Il sacro può avere una sua efficacia trasformativa solo se rimane impersonale, cioè fuori dal mondo della necessità storica, però in tensione mobilitante con esso.

37Siamo nel ’43, in pieno periodo di guerra e la civiltà dei diritti si è radicalmente incrinata. Jacques Maritain, filosofo cattolico, scrive un testo sui diritti dell’uomo e la legge naturale, che può indicare una strada per la ricostruzione dell’Europa. In La persona e il sacro Weil, indirettamente criticando Maritain, sviluppa un’analisi molto dura nei confronti del concetto stesso di diritto, perché esso segue la logica dell’interesse individuale, della spartizione e della rivendicazione. È una logica basata sulla quantità di beni e sulla eguaglianza come contabilità dei profitti. Non è l’istanza di Weil, a causa dello spirito di risentimento che guida tale logica. È proprio ad essa che imputa il fallimento delle democrazie europee.

  • 22 Sappiamo che Simone Weil aveva una concezione più articolata sul diritto, che però non compare in L (...)
  • 23 Su questo tema dell’impersonale della giustizia in La persona e il sacro rimando a G. Zanardo, Un’a (...)

38Contrapponendosi al progetto politico che ruota attorno alla concezione di persona e di diritto22, Simone Weil cerca strade nuove. Valorizza la necessità di istituzioni mediane, che permettano ai soggetti di avere un milieu, un ambiente accogliente sul piano istituzionale. Sa quanto sia necessario agli esseri umani avere un contesto in cui sentirsi sicuri e crescere. Tuttavia sostiene che tali istituzioni devono essere guidate da individui che abbiano un senso di giustizia che vada oltre le leggi sociali e gli interessi stabiliti. Individui, per i quali la giustizia sia un orientamento che permette di agire nel sociale, ma non sia riducibile ai valori storici di un’epoca23. Coerentemente con questa impostazione, lei non definisce mai la giustizia secondo contenuti positivi riconoscibili. Diciamo che Simone Weil propone un senso di giustizia per via negativa, secondo un procedere simile alla teologia negativa. Prima di tutto, essa consiste nel non fare del male agli altri. Inoltre nella capacità di ascoltare la domanda muta di chi è stato ferito e non se l’aspettava, espressa nell’appello: «Perché mi fai male?». Così come nel trovare parole per gli esseri espropriati dal linguaggio a causa della sventura e della povertà di condizioni simboliche e materiali. Pur nella consapevolezza che dare loro parola è sempre improprio, perché noi non viviamo la loro stessa situazione e in qualche modo indirettamente li tradiamo.

39Avendo tradotto un saggio come La persona e il sacro fortemente impegnato a pensare la vita civile in una tensione tra soggettività e impersonale della giustizia, Cristina Campo ne riprende poi solo alcune figure, concentrandosi su aspetti fondamentali del testo, ma non esplicitamente politici. Così non riprende per nulla né la critica al concetto di persona né a quello di diritto, ed invece rilancia l’esigenza di trovare parole per coloro — gli sventurati — che sono senza parole. Isola questa figura del testo e ne fa una linea portante all’interno del proprio percorso.

40Scrive due lettere a Mita su questo tema nel dicembre del 1956, quindi nel periodo tra la pubblicazione della traduzione di Lottiamo noi per la giustizia? e quella di La persona e il sacro. Inizio con un brano della lettera 37:

  • 24 C. Campo, Lettere a Mita, cit., pp. 49‑50.

Così io debbo amare questa lama fredda, che venne un giorno ad incastrarsi fra i cardini della mia anima per mantenerla ben aperta alle parole dei senza-lingua. […] Forse quando tutto quel muto grido vi sarà penetrato e io l’avrò conosciuto al punto da non poter più sbagliare (nel porre la domanda di Amfortas) Dio vorrà rimuovere la spada e lasciarmi un momento di silenzioso calore24.

41Si noterà l’evidente ripresa del testo di Weil e come la figura weiliana del dare parola a coloro che ne sono privi metta in movimento il processo creativo di Campo, che si dispone ad ascoltare con l’anima aperta il muto grido dei disprezzati. Fino alla domanda cruciale, che è poi quella di Parsifal al re Amfortas: «Qual è il tuo dolore?». Immagine simbolica sia per Campo sia per Weil, che più volte la riprende nei suoi testi.

42Per la Weil la domanda «Qual è il tuo dolore?» significa che non si segue più il progetto di fare il bene per un benessere collettivo generale, ma che è essenziale la capacità di sentire il dolore di chi ci è vicino, il che significa esercizio di attenzione autentica. Si sciolgono al sole i grandiosi sogni di fare il bene in grande e in astratto, ed invece con più umiltà, ma molta più realtà, ci si lascia toccare da chi ci è vicino, sapendo porre la domanda riguardo al suo dolore assolutamente singolare. È un capovolgimento radicale della propria posizione nei confronti del bene, che diventa qui e ora pura espressione di attenzione.

43È interessante che Campo assuma la domanda di Parsifal al re «Qual è il tuo dolore?» come la prova decisiva di esser stata capace di ascoltare il muto dolore dei senza-lingua.

44Vorrei ricordare che la scrittura costituiva per lei l’unica forma di costruzione di nuove strade d’esperienza all’interno della realtà. Nella lettera 36, immediatamente precedente, Cristina Campo immagina di poter scrivere un poema nell’ascolto dei senza parola:

  • 25 Ivi, p. 48.

Io vorrei scrivere certi versi che ho in mente da tanto tempo. Una specie di Cantico dei Cantici rovesciato. «Andrò per le piazze e per le vie, cercherò quelli che nessuno ama». «O tu che dimori nei giardini, non farmi udire la tua voce» […]. È il Cantico dei senza-lingua, come avrà capito25.

  • 26 Su questo tema della lingua balbettante nell’ascolto dei senza-lingua, si legga Andrea di Serego Al (...)

45Campo da un lato considerava la propria scrittura come qualcosa di troppo abbellito, mentre avrebbe voluto che fosse ferma, come incisa nella roccia, dall’altro aveva il sentimento di aver scritto troppo e che avrebbe voluto scrivere meno. Eppure era guidata da un profondo desiderio di scrittura poetica, che considerava l’unica forma di preghiera possibile per lei. In questo Cantico dei Cantici rovesciato emerge un aspetto lasciato un po’ in disparte — mi sembra — dalla critica campiana, e cioè questa idea di scrittura, che si pone in ascolto del grido muto degli sventurati. Un’attenzione di Campo per i meno fortunati, che si nota sia nella simpatia e nell’aiuto che offre a Danilo Dolci per il suo impegno sociale, sia nel progetto di questo Cantico dei senza-lingua, con il possibile esito di una modificazione stessa della lingua dal suo interno26.

46C’è un’altra figura simbolica in La persona e il sacro che diviene per Cristina un’immagine radiante. È quella dell’idiota. Per Weil, in questo testo, l’idiota è colui che ama profondamente la verità, ma che manca delle parole colte, intelligenti, proprie di chi ha talento. Il suo esprimersi è balbettante eppure radicato nella verità. È imparentato con il genio. Entrambi infatti sono umili, non hanno un’alta rappresentazione di sé; il genio perché sa di essere soltanto un mediatore, l’idiota perché è lasciato e si sente ai margini.

  • 27 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 49.

47Campo riconosce un grande debito simbolico nei confronti di Simone Weil, proprio in rapporto a questa figura de La persona e il sacro, che può offrire una nuova impronta alla sua vita. Complice e allegra la lettera del dicembre 1956 all’amica Margherita Pieracci Harwell sull’idiota: «Simone mi rende tangibile tutto ciò che non oso credere. Così dobbiamo diventare l’idiota del villaggio, dobbiamo diventare due geni, lei ed io. Sentivo oscuramente in qualche parte di me che si poteva diventare geni (e non talenti) ma nessuno prima d’ora mi aveva detto che era possibile»27.

48Non soltanto dunque ascoltare il balbettio dei senza-lingua e trasformarlo in canto, ma a sua volta diventare idiota, il che ha un sotterraneo rapporto con il genio. Il genio è la figura del mediatore, che crea un’opera d’arte sapendo di non esserne l’autore. Egli ha la capacità di far accadere qualcosa nell’opera, di cui non ha né il possesso né il controllo. Nel suo far avvenire altro, segue un agire senza fondamento, senza modelli da imitare e riprodurre.

49In Della fiaba Campo scrive:

  • 28 C. Campo, Gli imperdonabili, cit., pp. 39‑40. Vedi su questo tema della forma in poesia e dell’atte (...)

Così, nella poesia, la figura preesiste all’idea da colarvi dentro. Per anni essa può seguire un poeta: favolosa e domestica, sgomentevole e familiare. Quasi sempre un’immagine della prima infanzia: l’etichetta ammaliante su un vecchio albero del parco, il ritorno, nella veglia e nel sogno, di una figura di donna che pone frutta su un tavolo. Inscrutabile e soave, essa aspetta pazientemente che la rivelazione — che il destino — la colmi28.

50Il poeta è mediatore tra la forma che preesiste e la rivelazione di ciò che la colma. Fa accadere nella scrittura qualcosa che avviene indipendentemente dalla sua volontà. È così che Cristina Campo intende la sua attività di tessitrice di poesia. La poesia è simile ad un tappeto: tessendo il tappeto si fa essere in figura ciò che ci orienta, senza che sappiamo in anticipo cosa sia. Quando Campo pensa al genio, lo interpretava alla luce di questa pratica.

4. L’Iliade poema della forza e Venezia salva

  • 29 C. Campo, Sotto falso nome, cit., p. 51.

51Consideriamo ora le trasposizioni nel pensiero di Cristina Campo delle traduzioni di due testi di Weil che per Campo sono strettamente connessi. Si tratta di L’Iliade poema della forza e di Venezia salva. Ne vedeva un forte legame interno tanto da scrivere: «Noi potremmo definirla [Venezia salva] la traduzione poetica del suo celebre saggio sull’Iliade»29.

52Campo ha ragione. In entrambe le opere il tema centrale è lo stesso, quello della forza, che struttura il mondo della necessità, ed è reso ancora più potente dall’immaginario. Infatti la forza ci fa vivere una vita di sogno, che ci avvolge come tela di ragno. In entrambe le opere il dominio della necessità è sospeso per attimi di grazia che possono incarnarsi nella bellezza, nell’amicizia o nell’amore, forme espressive dell’attenzione.

53Nel complesso ho l’impressione — leggendo i testi e molte lettere di Campo — che la traduzione di L’Iliade poema della forza, che aveva voluto fortemente e che aveva concluso nel 1962, abbia avuto come effetto l’incorporazione del testo tradotto nel suo pensiero, molto più di altre traduzioni. Per cui, nel caso di questo lavoro, più che di trasposizione parlerei di una vera e propria assimilazione. Nelle lettere troviamo alcune osservazioni su questo saggio, ma più che altro per aspetti di costruzione dell’opera e di questioni inerenti al lavoro di traduzione. Ad esempio scrive nel novembre-dicembre 1962:

  • 30 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 173.

Questo lavoro mi dà una grande gioia. Con pazienza e fatica (e molta trepidazione) ho finito l’Iliade. La traduzione dei versi è stata un tormento continuo di coscienza, ma ora forse c’è una certa unità di ritmo anche in italiano30.

  • 31 Ivi, p. 172.

54La traduzione dal francese risulta comunque impegnativa per la difficoltà di rompere con la sua struttura e ricostruire il ritmo sintattico in italiano fino ad arrivare ad una vera e propria armonia interna alla lingua. Lo si capisce dai consigli a Mita, che in quei mesi stava traducendo Dieu dans Platone da La source grecque mentre Campo lavorava al saggio dell’Iliade. Sono annotazioni, che vengono dalla sua esperienza di traduzione di quei mesi e dall’aver letto il lavoro di Margherita Pieracci Harwell, che si rivolge a lei per una supervisione: «In generale non abbia paura di scassinare anche la sintassi — il francese ha forme rigide che in italiano sono inaccettabili e spesso non ha modi o parole che noi abbiamo invece e che bisogna adoperare»31.

  • 32 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 287.

55L’Iliade poema della forza è per Campo un grande esempio di come comporre un’opera. Infatti, sempre a Mita, scrive: «Ricordiamo S. Weil che, meditando sopra la forza, ci racconta tutta l’Iliade»32. Questa brevissima osservazione rimanda ad uno stile preciso della Campo nella scrittura: l’esattezza, la precisione di contesti, di situazioni concrete, attraverso le quali alludere all’essenziale che le sta a cuore. È per questo che valorizza così tanto il fatto che Weil sappia dispiegare il tema della forza attraverso gli accadimenti per lei più significativi dell’assedio di Troia. Gesti precisi, sentimenti soppesati, sguardi. Bilanciamenti di azioni.

56Tuttavia è sicuramente Venezia salva che più lascia tracce evidenti nel suo pensiero. Le immagini radianti che ne ricava sono tante e diverse sia sul piano della lettura dei sentimenti umani sia su quello della scrittura.

57Nel saggio sull’Iliade, Weil parlava del dispositivo della forza che domina sia chi subisce la forza sia chi si immagina di possederla e usarla come vuole. Il simbolo concreto indicato da Weil è quello della spada di Achille che fa tremare Priamo. Una spada che rende assolutamente cieco e altrettanto succube Achille che non si rende conto di subirne il dispositivo e gli fa vivere una vita di sogno tanto quanto Priamo. Questa è l’idea centrale nell’opera di Weil sull’Iliade, che però nei testi di Campo troviamo modellata e trasformata più secondo la prospettiva espressa in Venezia salva, in cui c’è un passo ulteriore riguardo alla forza. Nella tragedia Jaffier è uno dei mercenari che congiura contro Venezia. Assieme all’amico Renaud sa di avere la forza delle armi e della sorpresa per sottomettere la città. Però, a differenza di Achille, Jaffier finisce per sentire come straniante questo potere della forza. Gli fa orrore. In una lettera a Traverso del 1956 Campo scrive:

  • 33 C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953‑1967), cit., p. 36.

Nel dialogo Renaud-Jaffier convergono come in un prisma tutti i pensieri di S[imone] W[eil]. E ho ritrovato tante cose che avrei detto di Lawrence: lo stesso orrore di aver in mano la forza, che può distruggere chi la subisce come chi la maneggia — e a Lawrence come a Jaffier il potere di maneggiarla diventa subito una camicia di Nesso e pur di strapparsela di dosso preferiscono gettarsi nudi tra quelli che subiscono33.

58La figura di Jaffier, che sospende l’uso della forza denunciando la congiura e salvando la città, si trasforma molto velocemente nella posizione dello sventurato innocente. Nessuno dei veneziani ha riconoscenza o simpatia per lui, benché gli siano debitori della salvezza. Sulla sua figura si abbatte tutta la violenza che ha risparmiato alla città. Questo è soprattutto l’aspetto, che interessa a Cristina Campo: quello dello sventurato innocente, del santo, che sospende la violenza catalizzandola su di sé. Ora, in effetti, questa dinamica drammatica, che ruota attorno al giusto innocente, è del tutto estranea allo sguardo contemplativo di L’Iliade poema della forza, nel quale protagonista è la necessità e lo sguardo lucido su di essa.

59Del resto i momenti di sospensione delle leggi della forza nel saggio sull’Iliade sono affidati all’amicizia, all’amore, che implicano attenzione, ma indirettamente. È solo in Venezia salva che l’attenzione diviene la vera protagonista, che è capace di indebolire e aggirare l’immaginario del dominio. Non c’è niente di simile nel saggio sull’Iliade rispetto al discorso di Jaffier, che improvvisamente si risveglia dal sogno di dominio sulla città e per un attimo vede Venezia. Egli ha attenzione nei confronti della sua singolarità. Solo così Venezia incomincia ad esistere. Appare con una sua forza d’essere. Certo la bellezza della città ha guidato questa trasformazione nell’animo di Jaffier, ma è l’attenzione la vera protagonista del disgregarsi della dimensione di sogno, che imbrigliava l’esperienza legandola a doppio filo al potere e alla forza.

  • 34 Cfr. C. Campo, Attenzione e poesia, in Ead., Gli imperdonabili, cit., pp. 165‑170.

60Sappiamo che il tema dell’attenzione e la messa tra parentesi dell’immaginario è al centro del pensiero di Campo, ancor prima della traduzione di Venezia salva. Basta leggere il suo Attenzione e poesia, che, pur pubblicato nel 1956, porta in calce come data di composizione il 1953. È un testo dove le parole di Simone Weil risuonano come un sottotesto vivente. È presente la figura del giusto innocente come Jaffier, l’attenzione contrapposta all’immaginazione, il genio, la ‘sofferenza per altri’ propria di Omero34. Forse si potrebbe ipotizzare che la scrittura di un saggio come Attenzione e poesia, tessuto del pensiero di Weil su questi temi, abbia fatto sorgere in lei il desiderio di tradurre il saggio sull’Iliade e su Jaffier. Abbiamo già visto come l’amore per un testo susciti in lei il desiderio di tradurlo, come la via per conoscerlo più intimamente ed onorarlo.

61Potrei dire che le due traduzioni del saggio sull’Iliade e di Venezia salva non fanno che approfondire in lei temi che le erano stati a cuore fin dalle prime letture che aveva fatto di Weil.

  • 35 S. Weil, Appunti per “Venezia salva”, in Ead., Venezia salva, a cura di C. Campo, Milano, Adelphi, (...)

62Concludo con quella frase di Weil che abbiamo già visto agli inizi e che fa parte del testo tradotto di Venezia salva. L’editore francese aveva deciso di pubblicare le note sparse, che Simone Weil aveva scritto per la composizione di questa tragedia. Aveva pensato di collocarle prima del testo vero e proprio. Sono annotazioni brevi, quasi delle regole che Weil dava a sé stessa. Se penso a frasi di Weil che diventano nei testi di Campo come delle frecce, emblematica è questa, estrapolata dall’insieme di note che precedono la tragedia: «Poi il sapore delle parole: che ogni parola abbia un sapore massimo»35.

63Che ogni parola debba avere un sapore massimo nella scrittura è una vera e propria figura radiante, che torna come una nota musicale variata nei testi della Campo. In Parco dei cervi lei scrive:

  • 36 C. Campo, Attenzione e poesia, in Ead., Gli imperdonabili, cit., p. 146.

Il massimo del sapore non lo gustiamo mai nelle parole rare o in quelle del costume — le parole che non hanno precisa cittadinanza, le parole che Machiavelli accusava di lenocinio — ma nelle pure e originarie — nel reale — quando siano sospinte dalla forza vitale come da una matrice e sboccino nella chiarezza dello spirito come fiori36.

  • 37 Cfr. ivi, p. 174 e p. 179.
  • 38 Cfr. C. Campo, Prefazione, a S. Weil, Venezia salva, cit., p. 17.

64Si trovano ben due variazioni di questa stessa espressione — il sapore massimo delle parole — nel testo su William Carlos Williams37, come anche nella sua introduzione a Venezia salva38. E sempre, nelle sue diverse occorrenze, la figura-freccia apre cammini nuovi di pensiero.

65È uno degli esempi più felici di quel che scrivevo all’inizio, e cioè che, a partire dalle traduzioni, la trasposizione analogica dai testi di Weil nei suoi ha rappresentato per Cristina Campo la via per formulare pensieri non pensati, strade non ancora battute.

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Notes

1 C. Campo, Parco dei cervi, in Ead., Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 145. E cfr. M. Pieracci Harwell, Perseveranza oltre la speranza, in C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953‑1967), Milano, Adelphi, 2007, p. 212.

2 Vedi C. Campo, Introduzione a Simone Weil, “Attesa di Dio”, in Ead., Sotto falso nome, a cura di M. Farnetti, Milano, Adelphi, 1998, pp. 168‑180.

3 Cfr. J.‑M. Perrin e G. Thibon, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, Milano, Mimesis, 2022.

4 Su questo periodo e la trasformazione che esso comporta nell’animo di Campo, si legga C. De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002, pp. 120‑129. Si veda anche un’interessante interpretazione della modificazione della posizione di Campo nei confronti di Weil in N. Di Nino, Attesa e rivelazione. Simone Weil e Cristina Campo, «Italienisch», no 84, 2020, pp. 43‑61.

5 S. Weil, Pensieri e lettere, a cura di C. Campo, «Letteratura», vol. VII, no 39‑40, 1959, p. 26.

6 C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953‑1967), cit., p. 104.

7 Cfr. S. Weil, Quaderni, vol. II, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi,1985, p. 55: «Una verità è il punto innominabile (àlogos) rispetto al quale si possono ordinare, mettendole al loro giusto posto, tutte le opinioni possibili su un soggetto».

8 In un linguaggio filosofico completamente diverso, ma in una prospettiva simile si muove Walter Benjamin nel saggio sul tradurre. Vedi W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 37‑50. Benjamin scrive che la lingua della traduzione si fa eco dell’originale. Questo è in sostanziale somiglianza con Campo. La lingua che accoglie la traduzione deve però farsi scuotere e contaminare dalla lingua dell’originale. Questa posizione è diversa da quella di Campo che, come vedremo, invita a rompere la sintassi del testo originale. Tuttavia per Benjamin, come per Weil e Campo, c’è una intensificazione della verità nel passaggio da una lingua all’altra. Traducendo si fa un passo verso qualcosa che orienta. Ciò che è caratteristico di Benjamin è che usa il termine «lingua pura» al posto di verità. «Lingua pura» è il termine con il quale Benjamin allude alla concezione della lingua che emerge dal prologo del vangelo di Giovanni «All’inizio era il Verbo» (Gv I, 1‑2). Anche Federica Negri propone un accostamento tra la pratica di traduzione di Campo e quella di Benjamin in La passione della purezza. Simone Weil e Cristina Campo, Padova, Il Poligrafo, 2005, p. 118.

9 C. Campo, Caro Bul, cit., p. 55: «Bul, per piacere, dimmi: conosci Marcel Brion? E hai letto il suo saggio sui “Cahiers du Sud” intitolato Hoffmannsthal ou L’Expérience du labyrinthe? […] L’ho tradotto in due ore stamattina — vorrei darlo a “Paragone”».

10 C. Campo, Prefazione, in S. Weil, Venezia salva, a cura di C. Campo, Milano, Adelphi, 1987, p. 17.

11 S. Weil, Appunti per “Venezia salva”, in Ead., Venezia salva, cit., p. 29.

12 C. Campo, Prefazione, cit., p. 17.

13 Ibid.

14 Citato nel contesto di una lettera in C. Campo, Lettere a Mita, a cura di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1999, p. 165.

15 Si veda su questa ricostruzione storica del circolo, che si era creato attorno a Cristina Campo sulla ricezione del pensiero di Weil in Italia negli anni ’50, M. Pieracci Harwell, Note, in C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 306.

16 Cfr. C. Campo, Pensieri e lettere, cit. Tra gli altri ci sono in questa pubblicazione testi comunque fondamentali come la traduzione di La sventura, Il canto di Violetta, Il monologo di Jaffier sul campanile di San Marco, entrambi da Venezia salva.

17 Si tratta di S. Weil, Lottiamo noi per la giustizia?, in «Tempo presente», vol. I, no 8, novembre 1956, pp. 605‑610. Sulla bibliografia riguardante le traduzioni in italiano di Campo, si veda Bibliografia, a cura di M. Farnetti e F. Secchieri, in C. Campo, Sotto falso nome, cit., pp. 267282.

18 Cfr. C. Campo, Introduzione a “Racconti di un Pellegrino russo”, in Ead., Gli imperdonabili, cit., pp. 223224.

19 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 29.

20 S. Weil, Prologo, in Ead., Quaderni, vol. I, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1982, p. 105.

21 S. Weil, La persona e il sacro, in E. Zolla (a cura di), I moralisti moderni, Milano, Garzanti, 1959, pp. 5864.

22 Sappiamo che Simone Weil aveva una concezione più articolata sul diritto, che però non compare in La persona e il sacro, ma che possiamo recuperare nei Quaderni, dove scrive: «Vi è un cattivo modo di credere di avere dei diritti, e un cattivo modo di credere di non averne» (S. Weil, Quaderni, vol. II, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1985, p. 41).

23 Su questo tema dell’impersonale della giustizia in La persona e il sacro rimando a G. Zanardo, Un’apertura di infinito nel finito. Lettura dell’impersonale di Simone Weil, Milano, Mimesis, 2017.

24 C. Campo, Lettere a Mita, cit., pp. 49‑50.

25 Ivi, p. 48.

26 Su questo tema della lingua balbettante nell’ascolto dei senza-lingua, si legga Andrea di Serego Alighieri, Una ‘lieve tunica di fuoco’. Il dissolvimento della lingua in Cristina Campo, in C. Zamboni (a cura di), Il pensiero di Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile, Milano, Mimesis, 2023 (in corso di stampa).

27 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 49.

28 C. Campo, Gli imperdonabili, cit., pp. 39‑40. Vedi su questo tema della forma in poesia e dell’attesa di ciò che può riempirla come rivelazione ed effetto del destino V. Ferri, Miracolo della precipitazione poetica, in C. Zamboni (a cura di), Il pensiero di Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile, cit.

29 C. Campo, Sotto falso nome, cit., p. 51.

30 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 173.

31 Ivi, p. 172.

32 C. Campo, Lettere a Mita, cit., p. 287.

33 C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953‑1967), cit., p. 36.

34 Cfr. C. Campo, Attenzione e poesia, in Ead., Gli imperdonabili, cit., pp. 165‑170.

35 S. Weil, Appunti per “Venezia salva”, in Ead., Venezia salva, a cura di C. Campo, Milano, Adelphi, 1987, p. 29.

36 C. Campo, Attenzione e poesia, in Ead., Gli imperdonabili, cit., p. 146.

37 Cfr. ivi, p. 174 e p. 179.

38 Cfr. C. Campo, Prefazione, a S. Weil, Venezia salva, cit., p. 17.

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Pour citer cet article

Référence électronique

Chiara Zamboni, « Trasposizioni di immagini. Le traduzioni da Simone Weil »Cahiers d’études italiennes [En ligne], 36 | 2023, mis en ligne le 28 février 2023, consulté le 19 janvier 2025. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/12896 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.12896

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