Tradurre l’intraducibile Campo
Texte intégral
1Caro Nicola, le avevo fatto una mezza promessa di mandarle uno scritto sulla nostra Cristina Campo per il fascicolo da lei ideato. Dico nostra, perché tanti anni fa tra i soggetti per la tesi di laurea che le proposi, lei scelse, con mio piacere, proprio l’opera di quella scrittrice, così delicata ed esigente, originale e controcorrente. Pensavo di mettere a confronto le versioni che vari poeti e poetesse italiane avevano proposto dei vertiginosi sonetti di John Donne, ma poi ho pensato che forse era per me più pratico, sul piano euristico, spostare l’accento dalla Campo traduttrice alla Campo tradotta, cimentandomi io stesso nell’ardua impresa. Per carità, non intendo farmi poeta alla mia età, ci mancherebbe. Il fatto è che un conto è confrontare le versioni altrui, applicando categorie traduttologiche che rischiano sempre di slittare nell’astrazione, altro conto è accingersi all’impresa, per sperimentare direttamente cosa sia possibile e cosa impossibile salvare dell’organismo testuale di partenza — senso, suono, ritmo — in rapporto, s’intende, alla resistenza offerta dalla lingua d’arrivo. Impresa disperata, ma strumentalmente utile spero — a penetrare meglio, attraverso lo sforzo traduttivo e le riflessioni che lo accompagnano, la cifra stilistica della poesia campiana. Al tempo stesso cercherò di far luce sulla maggiore o minore compatibilità tra le lingue: questione di Stilsprache, insomma, non meno che di Sprachstil.
2Il primo tentativo lo opero con il francese, lingua assai cara a Cristina, traduttrice di Simone Weil, e che pensò di intitolare una nuova raccolta Le temps revient, come il motto incluso nello stendardo del Magnifico. Il tentativo, insomma, è quello di tener conto del ritmo e del suono (quelli per cui Cristina affermava non a torto di possedere un «orecchio assoluto»), a costo di forzare un po’ il senso, senza però stravolgerlo.
È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
3Volto la lirica in francese, così:
La chaleur de la vie est restée là,
là l’air qui de mes yeux avait la teinte,
là le temps que des mains vivantes
brûlaient au fond de tous les vents en me cherchant…
Que reste‑t‑il ? La caresse
cachée entre deux sommeils,
ma sagesse infinie en débris. Et toi, parole
qui transformais en sang mes larmes.
Je n’ai plus mon visage,
déjà changé, déjà autre,
comme un rayon dans le vin et consommé
parmi les silences allumés…
Je reviens seule
entre deux sommeils là‑bas,
je vois l’olivier rose sur les pots du long hiver, pleins d’eau et de lune.
Je reviens à toi qui gèles
dans ma légère tunique brûlante.
4Non pretendo che sia una belle più o meno infidèle: ma spero che non appaia un ‘tradimento’ tale da stravolgere senso e clima dell’originale, né un abbassamento prosastico, una semplice versione di servizio. Mi pare che l’aria tesa del paesaggio mentale, la riflessione sul tempo struggente, l’intimo dialogo con un tu che potrebbe essere un Tu siano, almeno potenzialmente, trasferibili nel francese, almeno da chi abbia più competenza e sensibilità di me: nel cambiare il senso letterale del testo, salvarne lo spirito, per non cadere nel calco, nell’italianismo, ergo nella involontaria parodia, non ho esitato, per esempio, a partire con un astratto, cedendo un po’ della concretezza per dir così carnale che nell’originale associa l’aggettivo «calda» al sostantivo «vita», giocando sull’ambiguità o ambivalenza semantica di materiale e spirituale che corre in questa come in altre poesie campiane. Né ho esitato a evocare l’incipit di una bella canzone francese d’altri tempi («Que reste‑t‑il de nos amours ?»). La difficoltà maggiore l’ho trovata nel rendere l’ultimo verso, «la tunica di fuoco» che racchiude un’anima o un cuore che viene raggelato. Nella sua tesi, caro Nicola, lei richiamava la variante «camicia di fuoco» scrivendo giustamente: «L’unica correzione è spiegata nell’influenza letteraria della Moore, dal ricordo della tunica indossata da Sindbad nelle Mille e una notte e dalla camicia di Nesso, menzionata anche in un lettera a Margherita Pieracci: «“La bellezza come camicia di Nesso” (Mita, lettera no 225, [agosto 1973])». Se la camicia intrisa del sangue del centauro Nesso arse il corpo di Ercole, quello di Cristina si adatta meglio a una tunica, dunque tunique meglio di chemise. Ma «di fuoco»? De feu avrebbe un valore merceologico, dunque, meglio ripiegare su ‘bruciante’. Ed è a questo punto che ci si chiede: ma cos’è quella camicia bruciante che ricopre il gelido interno? L’epidermide scossa o l’equivalente del «velo» che nel lessico cristiano medievale, ad esempio nella poesia di Petrarca, designava il corpo, il carnale involucro dell’anima? Tradurre, insomma, porta a interpretare, a risolvere dubbi, quanto meno a porre interrogativi esegetici.
5Ora, se il mirabile equilibrio tra fisico e spirituale, tra amor sacro e amor profano resiste al trasloco del testo dall’italiano al francese, lingua di alta tradizione letteraria, cosa accade al lettore che — per completare il processo ermeneutico — voglia risillabarla nel suo parlar materno? Ogni processo critico o semplicemente comunicativo, sappiamo, implica un’operazione traduttiva: resta al riguardo illuminante il saggio di George Steiner, Dopo Babele. Ma cosa succede se il sottoscritto volesse tradurlo in una delle sue due lingue-madri? Come lei sa, io ho imparato quasi contemporaneamente l’italiano, che si parlava all’interno delle pareti domestiche, e il dialetto, che risuonava appena varcata la soglia di casa, nel piccolo villaggio della Bassa bresciana in cui nacqui nel 1945. Dalla giovinezza, le ragioni dello studio e della vita mi hanno condotto a vivere fuori dal paese, con il quale ho conservato e conservo contatti saltuari; il dialetto che si è cristallizzato in me non è il bresciano d’oggi né semplicemente il bresciano, ma il bresciano parlato in un piccolo borgo prima della rivoluzione che, meccanizzando il lavoro agricolo, fece sparire i buoi e i piccoli mestieri, per dirla con i versi dialettali dedicati a quella svolta epocale dal romagnolo Tonino Guerra (I bu) e, più tardi, dal trevigiano Andrea Zanzotto (Mistieròi). Un idioma quasi estinto, superstite in varianti italianizzate (Benvenuto Terracini, studiando uno dei rari relitti del celtico, mostrò che le lingue muoiono assomigliando al loro assassino, in quel caso il latino). Lingua di sessant’anni fa, espressiva e vivace, ma soltanto orale, limitata alla vita quotidiana di una piccola comunità campagnola, il cui lessico era povero di astratti, per la cogente egemonia della concretezza. Come rendere, allora, una poesia come questa?
Ora che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.
Oscillante tra il fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta, affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare, tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole.
6Prima difficoltà; la posposizione del soggetto al verbo, normale anzi gradita nel linguaggio poetico italiano, era eccezionale nella parlata rustica e questo ho cercato di rimediare anteponendo, qui e altrove, il soggetto: si perde, nell’evidenza dell’attacco, l’immagine del capovolgimento, così centrale in quel Passo d’addio che vede, nel mite settembre, un aprile rovesciato. Ma in ogni caso l’immagine sarebbe caduta, perché nel mio dialetto era assente la parola clessidra, come assente era l’oggetto. L’immagine l’ho affidata allora al calendario, segnatempo di carta che si accorcia. Al sostantivato «avvenire», estraneo all’usus dialettale, sostituisco il ‘domani’, e Bellosguardo devo sfumarlo ‘questo paese’, concreto e insieme allusivo. Il «dolore» si concreta, come in altre parlate lombarde, nella metafora psicosomatica del ‘magone’, segno ad un tempo di realismo materico e di pudore sentimentale. Ma le verdi ghigliottine come renderle? Il termine, ignoto al vocabolario pralboinese di allora, cederà alle punte dei cancelli colorati di verde, come color di rosa sono ancora le mani in modo di eludere l’improponibile «eterno». Altrettanto improponibili, per ragioni paesistiche, sono gli uliveti, in quella campagna popolata di pioppi, platani e gelsi: ma provo a legittimare la pur ostica personificazione di Ottobre grazie a un’esplicita apostrofe al mese e concreto l’astratto amore in un fisico batticuore; in tal modo l’immagine del mese affocato regge, spero, al trapianto glottologico e ambientale. Arrivo insperatamente alla fine, grazie all’esistenza di un sinonimo padano di «aquiloni» e alla familiarità contadina con l’atto dell’affilar la falce, la rànza. Ed eco il risultato:
Adès ch’el mé lönàre el s’è scörtàt,
adès che ’l mé domà, come n’sul calt,
m’el sènte dré a la schéna
vegnarò coi osèi, a stopaés,
sénsa magù:
là g’ho postàt el còl
sura le ponte verde di cancèi
e le mé mà amó culùr de rösa
le tremàa, restàde sènsa i fiùr.
El vècc Utùer, nöf nel batacör,
lé tra le piante che parìa de föch,
el sterlüsìa
Mé ’ntàt fàe sito,
e dàe ’l fil à la rànza del mé cör,
va’ pó mai a saì per quale bréme
(i‑è zà ché, i‑è zà nòs-c, i‑è zà de lons):
tombe piene de néf, casse de aria,
per el mé domà amó zùen, per el sùl.
7Caro Nicola, le sarà utile, immagino, questa retroversione letterale:
Adesso che il mio lunario si è accorciato, adesso che il mio domani, come un sole caldo, me lo sento dietro la schiena, verrò con gli uccelli a questo paese, senza cruccio: là ho appoggiato il collo sopra le punte verdi dei cancelli e le mie mani ancora color della rosa tremavano, rimaste senza fiori. Il vecchio Ottobre, nuovo nel batticuore, lì tra le piante che parevano di fuoco, luccicava. Io stavo zitta e affilavo la falce del mio cuore, per chissà mai quali venti gelidi (sono già qui, sono già nostri, sono lontani): casse di aria, tombe di neve per il mio domani ancor giovane, per il sole.
8Avrà notato una violenza sistematica: l’introduzione del soggetto di prima persona, necessario per esser fedele a quel parlato, per non forzarlo come fanno certi poeti neo-dialettali.
9Nel volgere il terso acquerello della poesia italiana nella tempera densa e opaca del volgare rustico della mia infanzia, ho cercato di conciliare due sforzi di fedeltà; alla lirica delicatezza dell’originale, certo, ma anche al parlato di allora dei miei compaesani, la mia lingua madre o forse meglio lingua-padre. Può darsi che, tolta dal vaso delicato della serra di Cristina e piantata nella terra della Bassa di sessant’anni fa, la pianticella della lirica soffra non poco. Se muoia del tutto, o conservi un po’ di linfa, lascio a lei giudicare. Ma lo sforzo di tradurre l’intraducibile servirà forse a lei, come è servito a me, ad afferrarne qualche lembo del suo fascino segreto.
10La saluta cordialmente il suo
11 Pietro Gibellini
Pour citer cet article
Référence électronique
Pietro Gibellini, « Tradurre l’intraducibile Campo », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 36 | 2023, mis en ligne le 28 février 2023, consulté le 12 janvier 2025. URL : http://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/cei/12516 ; DOI : https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/cei.12516
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